lunedì 20 aprile 2020

ALCUNE NOTE SULL'ETIMOLOGIA DI JAZZ

Assai numerose sono le parole dell'inglese d'America ormai popolari ovunque, diffuse in modo pervasivo sull'intero globo terracqueo. Eppure sono spesso di origine a dir poco incerta. Un caso singolare e particolarmente significativo è jazz. Come tutti sanno, questo termine di origine gergale indica un genere musicale ben preciso, che reputo a dir poco irritante. Ricordo ancora che negli ultimi anni dello scorso secolo ero afflitto sul lavoro da un individuo molesto, un capoccia che amava il jazz alla follia: per soffrire di un atroce mal di testa mi bastava essere costretto ad ascoltare quelli che il tirannello definiva "accordi sublimi". Era come se cercassi con ogni mezzo di non fare entrare in me quei suoni incalzanti e senza costrutto: mi sentivo come se un gigante mi avesse scoperchiato il cranio e stesse pizzicando le meningi con le pinzette per unghie. Non dimenticherò mai quelle spaventose emicranie. Credo che il Caporale di Braunau avesse sullo stramaledetto jazz opinioni più miti delle mie! Ciò non toglie che io nutra una gran curiosità sulle origini ultime di tutte le parole, anche di quelle che descrivono le realtà più vili e orribili, come ad esempio le larve di mosca carnaria e gli strumenti di tortura. Non sarà certo il jazz a scoraggiarmi!

Come sempre accade, sono state elaborate numerose false etimologie nel tentativo di spiegare ciò che è difficilmente spiegabile. È necessario innanzitutto passarle in rassegna, corredandole di note e considerazioni varie.  

Le mie prime ricerche etimologiche hanno condotto a un significato gergale osceno della parola jazz, traducibile con "coito, copula, scopata". Oggi questa accezione si è andata perdendo, ma nondimeno è ben attestata: jazz era un tempo utilizzato come sinonimo di "sexual intercourse". A detta dei sostenitori della proposta in esame, il termine sessuale sarebbe nato nei bordelli di New Orleans agli inizi del XX secolo, passando poi ad assumere connotati musicali in ambienti afroamericani. Un jazz informe e grossolano sarebbe stato usato come accompagnamento sonoro delle prodezze sessuali delle prostitute e degli energumeni che a loro si univano! In realtà questa tesi è destituita di ogni fondamento. La parola jazz riferita a una specie di "musica" non è attestata con sicurezza prima del 1915 e si hanno prove che fosse in uso a Chicago prima ancora che a New Orleans. All'inizio erano diffuse, accanto all'ortografia standard che tutti conosciamo, forme non standard come jas, jass, jaz, jasz e addiruttura jascz.  
 
Sono state proposte due etimologie che presuppongono la "negrizzazione fonetica" di parole europee, ossia la trasformazione delle consonanti sorde in consonanti sonore sulla bocca dei parlanti afroamericani. Proprio come accade nelle imitazioni grottesche dell'italiano attribuite alle genti dell'Africa Nera, in cui stare diventa sdare; sparare diventa sbarare; tutto diventa duddo, etc. 
1) La prima di queste proposte presuppone che il francese chasse "caccia" sia diventato jazz. Il mutamento postulato è in sostanza il seguente: /ʃas/ => /dʒæz/. Il significato gergale è quello di "impeto sessuale", "insistenza erotica", "avance". In altre parole, chasse denoterebbe quello stato di frenesia in cui un uomo si ritrova con il membro virile eretto fino a scoppiare, facendo di tutto perché la sua carne crescente venga a contatto con la pelle di una femmina.
Nota: il francese chasse deriva dal latino volgare *captia, formato da *captiāre, derivato a sua volta da capere "prendere" - proprio come l'italiano caccia
2) La seconda proposta "negrizzante" parte dal gaelico teas "calore", che sarebbe stato distorto dai Mandingo fino a diventare jazz. Il mutamento postulato è in sostanza il seguente: /tʃas/ => /dʒæz/. Il significato gergale è quello di "foia", "ardore sessuale", "attacco di libidine". In altre parole, teas denoterebbe lo stato di furia in cui un uomo si ritrova con il membro virile eretto fino a scoppiare, facendo di tutto perché la sua carne crescente venga a contatto con la pelle di una femmina.
Nota: il gaelico teas deriva dal protoceltico *texsus, a sua volta da un precedente *tepstus, la cui radice è la stessa del latino tepidus "tiepido" e tepēre "essere tiepido". 

Non soltanto sono molto scettico sulla "negrizzazione fonetica", ma la ritengo un tratto caricaturale inventato in contesti che nutrivano insofferenza e disgusto verso i Mandingo. Direi che è poco credibile un naturale sviluppo di una simile pronuncia distorta. I problemi non si limitano a questo. Non soltanto ci sarebbe da chiedersi, tanto per fare un esempio, come abbia fatto una parola gaelica ad avere tanto successo da imporsi a New Orleans o a Chicago: la maggior criticità è che la parola jazz sembra aver fatto la sua comparsa tra americani bianchi in contesti che con la musica e con i bordelli hanno ben poco a che vedere, come vedremo tra breve. 
 
Altre proposte etimologiche si fondano sulla retroformazione a partire da antroponimi più complessi. 
1) La parola jazz sarebbe stata retroformata a partire dal nome proprio femminile Jezebel, che a cavallo del XIX-XX secolo sarebbe stato particolarmente frequente tra le prostitute, a cui la tradizione popolare lo associava spesso e volentieri. Il nome Jezebel è infatti una reminiscenza biblica: fu portato dalla moglie del Re Achab, che fu una donna dissoluta e una fiera persecutrice della religione di Geova. Si tratta di un nome cananeo e teoforico, con l'elemento -bel che sta per Baal. In ebraico è אִיזֶבֶל (Izével). Il significato originale è "Dove è il Principe". Il suo esito più comune è Isabel, Isabella, la cui etimologia non era però più compresa quando fu reintrodotta la forma Jezebel
2) La parola jazz sarebbe stata retroformata a partire dal nome proprio femminile Jasmine, alla lettera "Gelsomino" (dall'arabo يَاسَمِين‎ yāsamīn), forse con allusione al profumo che secondo la leggenda sarebbe stato tradizionale tra le prostitute che lavoravano nel quartiere a luci rosse di New Orleans. Qualcuno ha persino suggerito che Jasmine fosse semplicemente un ipocoristico di Jezebel, ma la cosa non appare molto credibile. Non si capisce bene come un simile mutamento possa essersi prodotto spontaneamente.  
3) La parola jazz sarebbe stata retroformata a partire dall'enigmatico appellativo jazzbo, sulla cui origine fervono le discussioni. Secondo alcuni dal nome Jezebel di cui sopra sarebbe derivata nel XIX la parola jazzbelle "prostituta", a cui fu data una falsa etimologia per assonanza col francese belle "bella". Così essendo beau la forma maschile dell'aggettivo, si formò la parola jazzbeau "lenone, pappone" (pl. jazzbeaux, jazzbeauxz). Attualmente jazzbo è usato col senso di "musicista jazz", "fan del jazz", ma anche "individuo, tizio" (specie se riferito a uomo anziano); il volgo crede che sia derivato  da jazz boy. Altri attribuiscono l'origine del soprannome alla figura di Jazbo Brown (anche scritto Jasbo), un semi-leggendario musicista nero che secondo lo scrittore DuBose Heyward (1885 - 1940) avrebbe percorse il Mississippi strimpellando, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, per poi finire nei cabaret di Chicago. La menzione di DuBose è del 1924. Ricordiamo infine il disc jockey Albert Richard "Jazzbo" Collins, detto Al "Jazzbo" o Al "Jazzbeaux". Essendo nato nel 1919 non può certo essere stato lui ad aver dato origine a jazzbo, né tantomeno ad aver dato al jazz il suo nome: sarà piuttosto l'inverso. Tra l'altro nacque a Rochester, nello Stato di New York, non nel Profondo Sud. 

Interessante è un'altra proposta etimologica, che fa derivare jazz dal verbo francese jaser (varianti jazer, gaser) "gracchiare, fare rumore; spettegolare". L'origine ultima della parola è considerata "onomatopeica" dai romanisti, che la associano a gazouiller "cinguettare (detto di uccellini)", "fare il ruttino (detto di bambini)". In ogni caso la prima attestazione nota di jaser risale al XVI secolo. Il verbo francese rende conto di un particolare significato di jazz, ossia "cosa insensata". La frase di uso corrente "stop talking jazz" significa "smettila di dire cose senza senso", ossia "smettila di dire stronzate". Lo slittamento semantico occorso non è difficile da indovinare:
 
"gracidio, rumore" => "discorso incomprensibile" => "cosa senza senso, stronzata"
 
Esiste anche un altro senso di jaser, che è quello di "copulare". Secondo alcuni le attestazioni di questo significato risalgono alla fine del XIX secolo, ma già nel XVII si trova un testo in cui è riportata la frase "Tu as les genoux chauds, tu veux jaser", ossia "Tu hai le ginocchia calde, tu vuoi scopare" (La Comédie des proverbs). A quanto pare lo slittamento semantico si è prodotto così: 
 
"gracchiare, fare rumore" => "emettere gemiti di orgasmo" => "fare sesso, copulare" 
 
Così si capisce anche perché jazz abbia anche il significato di "copula". Dunque si spiega tutto? Il problema etimologico è stato finalmente risolto? Nemmeno per idea.
 
Forza, coraggio, vitalità... e sborra! 
 
In Italia ben pochi sanno che in origine la parola jazz era un termine sportivo in uso nel linguaggio del baseball. Questo avveniva in California, a San Franciso e a Los Angeles, prima ancora che si concretizzasse la sua diffusione in ambito musicale a New Orleans e a Chicago. La parola è glossata dall'OED (Oxford English Dictionary) come "energy, excitement, 'pep'; restlessness; animation, excitability" (pep "energia, vitalità" deriva da pepper "pepe").  Ecco le attestazioni, sempre tratte dall'OED; ho evidenziato le occorrenze di jazz in grassetto.
 
1912 
Ben's Jazz Curve... ‘I got a new curve this year... I call it the Jazz ball because it wobbles and you simply can't do anything with it.’ 
(Los Angeles Times 2 Apr. iii. 2/1) 

1912
Henderson cut the outside corner with a fast curve also for one strike. Benny calls this his ‘jass’ ball.
(Los Angeles Times 2 Apr. iii. 3/1) 

1913
What is the ‘jazz’? Why it's a little of that ‘old life’, the ‘gin-i-ker’, the ‘pep’, otherwise known as the enthusiasalum.
(Bulletin (San Francisco) 6 Mar. 16) 

1915
This spirit of heartiness is carried to the bleachers... It puts fight into the team, ‘jazz’ into the rooting section, and has helped win games for Stanford and Washington.
(Daily Californian 13 Oct. 4/3)
 
È datata addirittura al 1860 la prima attestazione credibile di una parola gergale che può essere il genuino antenato di jazz, riportata nell'Historical Dictionary of American Slang, pubblicato dalla Random House nel 1979. La voce in questione è jasm "energia, vitalità, forza, vigore". Si capisce subito che si tratta di una variante di jism, gism "energia, forza, vigore", che lo stesso dizionario data addittura al 1842 (glossa originale "spirit; energy; spunk"). Ai nostri giorni la parola jism, con diverse varianti ortografiche, ha aquisito il significato di "liquido seminale, sperma". Il Cassel's Dictionary of Slang riporta le seguenti: gism, gissum, gizm, gizzum, jissum, jizzum. Esiste anche un'altra variante, jizz, che in italiano possiamo rendere con "sborra" e che in cui ci si imbatte spessissimo nei siti pornografici (esempi di uso: "milf eating jizz", "sexybrunette swallows jizz", "jizz on body", etc.). Questo è lo slittamento semantico che la parola jasm / jism ha subìto: 
 
"energia, forza, vigore" => "virilità" => "sperma, sborra"  
 
La cosa non deve sorprendere. La parola gergale spunk significa "vigore, forza", ma è attestata anche col senso di "sborra". Nella canzone Friggin' in the Riggin' dei Sex Pistols, anche nota come Good Ship Venus, si evoca un mare di materiale genetico eiettato nel corso di frenetiche attività masturbatorie reciproche:

"We sunk in junk in a sea of spunk caused by mutual masturbation" 
 
All'università avevo imparato il testo a memoria il testo della canzone, seppur in forma lievemente distorta. Canticchiarla serviva a resistere alle letali lezioni di analisi matematica!  
 
Se si indaga, si scopre che anche jazz può essere usato col senso di "sborra", proprio come jizz, jism. Si potrebbe pensare che in origine il jazz fosse inteso come "musica da eiaculazione", "musica da sborra", oppure "musica informe e caotica come una sborrata". Si noterà che il pianista e compositore Eubie Blake (1887 - 1983), quando fu intervistato da una donna per il progetto Oral History of American Music dell'Università di Yale, si rifiutò di menzionare la parola "jazz" perché la considerava volgare: nella sua mente evocava un mare di sperma!    

A questo punto sorge una legittima domanda: qual è l'origine di jasm / jism? Ecco che si ritorna all'Africa Nera! Queste sono alcune parole africane interessanti: 
 
Mandingo: jasi "comportarsi in modo strano"
Wolof: yees "comportarsi in modo strano"
Temne: yas "essere vivace"
Kikongo: dinza "forza vitale; eiaculazione, eiaculare" 
 
A mio avviso esiste una parola che potrebbe risolvere il problema alla radice e farci comprendere meglio la filogenesi di questi termini:  

Arabo: جسم jism "corpo"
 
Questa sarebbe la catena di slittamenti semantici occorsi in Kikongo e in America: 

"corpo" => "corporatura, complessione" => "forza, vigore" => "virilità" => "eiaculazione" => "sperma, sborra" 
 
Questa sarebbe la catena di slittamenti semantici occorsi in Mandingo e in Wolof: 
 
"corpo"  => "corporatura, complessione" => "forza, vigore" => "spirito, demone" => "essere posseduto da un demone" => "comportarsi in modo strano"

La parola araba, di chiara origine semitica (cfr. ebraico גֶּשֶׁם geshem "corpo", con g- occlusiva), potrebbe essere stata presa in prestito da varie lingue africane, dando origine ai vocaboli riportati in precedenza. Non sono un esperto di lingue dell'Africa Nera, comunque mi azzardo ad ipotizzare qualche ricostruzione: 

Arabo jism => Kikongo jinza
Questi sarebbero i passaggi:
jism => *jisma => *jizma = *jimza => *jinza => dinza 

Arabo jism => Mandingo jasi, Temne yas, Wolof yees 
Questi sarebbero i passaggi: 
jism => *jesm => *jæsm => jasi 
Probabilmente il Temne e lo Wolof, non disponendo all'epoca del prestito di un'affricata j /dz/, l'hanno sostituita con un'approssimante y /j/

Se qualche esperto smentirà le mie ipotesi come ingenue, cervellotiche, improbabili e in buona sostanza false, che ben venga: la Scienza cresce soltanto tramite il contraddittorio.
 
Un grottesco adattamento in italiano 

In tempi di autarchia, ci fu l'adattamento italiano in giazzo (forse con la -zz- sonora come in mezzo, ma non è certo). Questo forestierismo cadde in disuso con la fine del regime mussoliniano. Venute ad esaurirsi le esigenze di una lingua "dura e pura", si impose quindi il barbarismo jazz, in genere pronunciato /dʒets/ [dʒɛts]. Anche il derivato jazzista è pronunciato con la -zz- sorda (come in pizza); la vocale atona -a- è realizzata come /e/: /dʒet'tsista/. Questo è sorprendente, dal momento che in genere la vocale /æ/ inglese è resa con /e/ [ɛ] quando è tonica, con /a/ quando si viene a trovare in una sillaba atona a causa di un suffisso che porta l'accento (ad esempio handicap /'endicap/, ma handicappato /andicap'pato/). Tra i Millennials e i Centennials ben pochi sanno che Romano Mussolini (1927 - 2006), terzo figlio maschio di Benito, fu un famoso jazzista nel dopoguerra. Ho provato a far partire un suo video su Youtube e ho dovuto chiuderlo dopo pochi istanti: quegli strimpellamenti mi hanno aggredito con una violenza inaudita, come chiodi cacciati a viva forza nell'encefalo! 

sabato 18 aprile 2020

ALCUNE NOTE SULL'ETIMOLOGIA DI COCKTAIL

Molti anni fa mi sono imbattuto in una spiegazione folkloristica di una parola a tutti ben nota: cocktail "miscela di liquori e di altri ingredienti". Erano ancora i tempi pre-Internet, quando le uniche pubblicazioni erano cartacee. Secondo l'articolista, il cui testo non sono riuscito a ritrovare, durante la Rivoluzione Americana sarebbe accaduto quanto segue: un comandante ribelle antibritannico, giunto a una taverna con la sua compagnia, avrebbe fatto richiesta all'oste di abbondanti strumenti d'ebbrezza per la serata. Il problema è che non c'era una quantità sufficiente di alcun liquore per soddisfare la sete degli ardenti patrioti americani. Venne in mente a una simpatica servetta di mescolare liquori diversi per produrre una bevanda fortissima, in grado di stendere anche il combattente più rude. Così fu fatto. Nel corso del festino, un vero successo, un patriota reso un po' troppo esuberante dalla bevanda appena inventata, saltò su un tavolo e cominciò a ballare in modo frenetico come una danzatrice di flamenco, mettendosi una coda di gallo posticcia proprio sul deretano infiammato, esibendola a mo' di trofeo ed urlando: "Viva il cocktail!" (ossia la "viva la coda di gallo"). I presenti avrebbero equivocato, credendo che cocktail ("coda di gallo") fosse proprio il nome della bevanda usata per ubriacarsi. Presto mi sono accorto che l'intera storiella grottesca era stata fabbricata ex post per spiegare una parola problematica, come avviene assai spesso. 
 
Consultando il dizionario etimologico inglese più famoso del Web, Etymonline.com, ho potuto constatare che esistono anche altre spiegazioni aneddotiche del termine cocktail. Ciascuna di queste false etimologie è stata fabbricata artatamente in qualche imprecisato momento del XIX o addirittura del XX secolo. 
 
 
cocktail (n.) 
 
"bevanda americana fredda, forte, stimolante," prima attestazione nel 1806; H.L. Mencken elenca sette versioni della sua origine, forse la più durevole la riconduce al francese coquetier "portauovo" (XV secolo; in inglese cocktay). A New Orleans, circa nel 1795, Antoine Amédée Peychaud, un farmacista (e inventore degli amari Peychaud) teneva riunioni sociali massoniche nella sua farmacia, dove mescolava brandy distillati  ai suoi amari, servendoli in portauova. Secondo questa teoria, la bevanda avrebbe preso il nome dal recipiente. 
 
Ayto ("Diner's Dictionary") fa derivare la parola da cocktail "cavallo con la coda tagliata" (un taglio corto, che la fa strare un po' alzata come la cresta di un gallo) perché un simile metodo di acconciare la coda era usato con i cavalli ordinari, la parola venne ad essere estesa a un "cavallo di pedigree misto" (non un purosangue) nell'Ottocento, e ciò, si suppone, fu esteso alla bevanda in base alla nozione di "adulterazione, mistura." 
 
Prima domanda:
Il cocktail è mai stato bevuto usando come bicchiere un portauovo, nel corso di una riunione massonica? 
 
Seconda domanda:
Esiste davvero la prova dell'uso di un'acconciatura della coda equina chiamata proprio cocktail e di tutti gli slittamenti semantici necessari per passare infine al significato di "bevanda mista"
 
Risposta alle due domande:
Se si indagasse, si scoprirebbe che la documentazione è inesistente, come in un'infinità di casi simili. La procedura è ora della fine sempre la stessa: mettere assieme elementi narrativi al fine di chiarire qualcosa, dar loro forma e sostanza fino a farli diventare vere e proprie teorie, quando in realtà si tratta soltanto di favole fabbricate ex post. Il caso del portauovo usato per trangugiare misture alcoliche durante le riunioni massoniche in una farmacia non è poi molto diverso da quello del patriota rubizzo che esibiva una coda di gallo mentre ballava sui tavoli. A questo punto sarebbe il caso di dubitare dei dizionari etimologici che non seguono il metodo scientifico e che accolgono con tanta facilità pure e semplici illazioni.

Un'altra spiegazione, di per sé più convincente di quelle sopra riportate e più economica dal punto di vista logico, suppone questo: cock "gallo; cazzo" era un termine colloquiale usato per indicare la spina per il drenaggio (anche per via della somiglianza fallica). Nel XIX secolo, i liquori erano distribuiti al volgo più grossolano utilizzando un simile dispositivo innovativo, chiamato anche spigot o tap. Quando il fusto stava per finire, spesso il liquore veniva ad essere di qualità molto scadente e torbido. Così i vari residui dei fusti quasi esauriti (ossia le "code", tails) venivano mescolati tra loro e venduti a prezzo minore rispetto alle bevande pure - anche perché le proprietà organolettiche potevano essere deludenti. Sorprende constatare che questa proposta etimologica ha anche un nome ben preciso in inglese: The Dregs Theory, ossia "la Teoria della Feccia". Tuttavia sembra che agli inizi del XIX secolo il cocktail non fosse necessariamente una bevanda spiritosa: solo più tardi avrebbe cominciato a includere almeno un liquore. Non manca chi tenta addirittura di ricondurre l'origine della celebre bevanda al mondo latinoamericano, affermando che cocktail deriverebbe in buona sostanza dallo spagnolo cola de gallo e inventandosi storie di fantasiosi miscugli di liquori e di succhi di frutta esotica, amalgamati usando una lunga piuma caudale di qualche sgargiante gallinaceo. Potremmo andare avanti così all'infinito e non ne verremmo mai a capo. Troppo intenso è il rumore di fondo! L'entropia divora ogni cosa, l'indeterminazione oscura tutti i segnali che provengono a noi dal passato, rendendoli inutili. Anche cose a noi tutti ben note e abituali, non trovano una spiegazione soddisfacente, come se fossero più antiche dei Faraoni dell'Egitto. Si noterà che per paradosso è molto più facile comprendere quanto scritto nei papiri del Paese del Nilo o nelle tavolette d'argilla essiccata di Sumer.   

Fantomatici adattamenti e trovate autarchiche 

A rigor di logica, in italiano cocktail sarebbe dovuto diventare *coccotello (vocalizzando le sillabe chiuse) oppure *cotte (abolendo la consonante finale e assimilando il gruppo consonantico mediano). Ciò tuttavia non accadde, anche se entrambe le soluzioni sarebbero state perfettamente logiche. La prima avrebbe avuto più probabilità di successo, mentre la seconda sarebbe stata svantaggiata perché troppo simile foneticamente a voci del verbo cuocere. A quanto ne so, nessuno percorse la via dell'adattamento fonetico: abbondarono invece le formazioni autarchiche. La più nota è senza dubbio polibibita, una creazione neologistica del Futurismo, movimento geniale e poliedrico la cui influenza culturale è stata immensa. Furono creatori di fantasiose polibibite Filippo Tommaso Marinetti, Fillia, Enrico Prampolini, Cinzio Barosi, Angelo Giachini, Paolo Alcide Saladin, Fortunato Depero e il dottor Vernazza (fonte: www.cocchi.it). Non va in ogni caso nascosto che questo neologismo è di per sé abbastanza grottesco, col tipico prefisso di origine greca poli- "molto" (< πολυ-) aggiunto alla parola bibita, che in ultima analisi è un crudo latinismo: nella lingua passata per la genuina usura del volgo bibit è diventato beve; bibere è diventato bere. Ancora nei primi anni '80 qualcuno propose il neologismo piulliquore, finendo deriso e paragonato a quel soldato giapponese isolato su un atollo del Pacifico, che ancora continuava a combattere gli intrusi decenni dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Un'altra proposta ispirata dall'autarchia linguistica, non meno problematica, è bibita arlecchina. L'allusione è all'aspetto multicolore e sgargiante del costume di Arlecchino, il notorio truffaldino mascherato giunto da un'impervia valle di Bergamo a meravigliare il mondo con le sue astuzie. Che commozione se penso al mio costume di Arlecchino indossato alle elementari, che ho a lungo conservato gelosamente - il che non ha impedito che finisse trafugato da una stramaledetta fattucchiera del Vampiristan!

giovedì 16 aprile 2020

L'IDROMELE: ALCUNE CONSIDERAZIONI FONOLOGICHE, ETIMOLOGICHE E SEMANTICHE

L'uso della parola idromele "bevanda alcolica fermentata dal miele" è tutto sommato problematico, come possiamo capire indagandone l'etimologia, in apparenza lapalissiana. Questo perché il termine greco antico ὑδρόμελι (hydrómeli) è sinonimo di μελίκρᾱτον, μελίκρητον (melíkrāton, melíkrēton), che indicava un miscuglio di acqua e miele, non fermentato, oppure un miscuglio di latte e miele offerto alle potenze degli Inferi e parimenti analcolico. Si tratta di un composto formato a partire da ὕδωρ (hýdōr) "acqua" e da μέλι (méli) "miele". L'accento cade sulla terzultima sillaba, perché l'ultima è breve, e nella lingua greca è la quantità dell'ultima sillaba a regolare la posizione dell'accento - a differenza della lingua latina, in cui la posizione dell'accento è regolata dalla quantità della penultima sillaba. 
 
La parola greca ὑδρόμελι, importata tra i Romani, scritta hydromeli e pronunciata /(h)i'dromeli, hy'dromeli/, poteva indicare anche la bevanda fermentata alcolica: ha subìto quindi uno slittamento semantico. Sarebbe utile poter accedere a una documentazione più approfondita, ma questo non è poi tanto facile. Dobbiamo notare una cosa importante: si tratta di un prestito dotto, che non fu mai accolto nella lingua del volgo e che a quanto ne so non ha mai lasciato esiti in nessuna lingua romanza. Se sarò smentito da qualche romanista che ha più dimestichezza di me con l'immensa mole di dati dell'enorme numero di varietà romanze, ben venga, ma ho ragione di credere che ciò non accadrà mai. Anche in greco moderno ὑδρόμελι indica la bevanda alcolica. Si tratta di un vocabolo tratto dall'antichità, non di un'eredità passata attraverso la genuina usura del volgo. In altre parole, appartiene alla Katharevousa, la lingua nobile. Lo si comprende all'istante, dato che nella lingua popolare, l'acqua è chiamata νερό (neró). Tra l'altro, in Grece esiste tuttora un'interessante produzione di idromele. 
 
In italiano, per ragioni etimologiche e per una pronuncia ortografica (dedotta cioè a partire dalla forma scritta letteraria senza cognizione alcuna della metrica originaria), dalla forma sdrucciola idròmele a un certo punto si passò a quella piana, idroméle, che è da considerarsi di uso generale. Questo ha creato problemi a non finire. La gente più incolta non comprende il significato della parola idromele e confonde l'augusta bevanda col sidro. La prima reazione di un analfabeta alla menzione dell'idromele e alla spiegazione di come viene preparato dal miele, è sempre di stupore: troppo forte è l'idea preconcetta di una derivazione dalle mele per via della terminazione. Alcuni addirittura tendono ad ipercorreggere la parola e a pronunciare *idromiele nel tentativo di ripristinare un'etimologia comprensibile. Inutile dire che questo *idromiele è assolutamente erroneo, cosa che noto usando l'asterisco. Eppure questo ipercorrettismo esiste e resiste. Ricordo di aver letto da giovane un fumetto in cui Ercole, venutosi a trovare a New York, in un ristorante chiamava i camerieri "schiavi" e diceva di preferire di gran lunga l'idromele alla coca cola. Il punto è che il fumettista aveva scritto la parola con una -i- di troppo.  

 
Anche se si tratta di un'impresa vana, andrebbe proposto un nobile neologismo dalle ottime basi etimologiche, che appianerebbe ogni controversia e farebbe sparire ogni dubbio: MEDO "idromele", tratto direttamente dal celtico (gallico): è attestato come medu, di genere neutro, mentre la variante maschile medus si trova come prestito nel tardo latino delle Gallie. Questo elemento Medu- è alla base dell'antroponimo gallico Medugenos "Nato dall'Idromele", attestato anche in celtiberico come MEZUKENOS e in ogamico come MEDDOGENI (al genitivo) - oltre che nell'etnonimo Medulli, che designava un popolo alpino. Nella Lusitania sono attestati i Medubrigenses, il cui nome deriva dal toponimo celtico *Medubriga "Città dell'Idromele". Nelle lingue celtiche medievali e moderne si hanno le seguenti forme, tutte dalla stessa radice protoceltica: 
 
antico irlandese: miḋ "idromele" (genitivo meḋo)
        meḋḃ "ebbro"
  irlandese moderno: miodh "idromele" 
medio gallese: medd "idromele"
       meddw "ebbro"
  gallese moderno: medd "idromele"
bretone: mez "idromele"
cornico: medh "idromele"
 
Famosa è la dea irlandese Me "Ebbra", il cui nome deriva dal protoceltico *Medwā, sostantivazione dell'aggettivo *medwos "ubriaco (di idromele)". Nella regione della Loira esiste un fiume che era chiamato Meduana, il cui nome deriva da quello della stessa divinità adorata nell'antica Irlanda precristiana.

Il sostantivo antico irlandese è di genere neutro e punta a una ricostruzione protoceltica *medu, ma esistono anche attestazioni di genere maschile, che puntano a una ricostruzione protoceltica *medus. La forma gallica di genere maschile, passata in latino, è attestata nella Epistula Anthimi uiri inlustris comitis et legatarii ad gloriosissimum Theudoricum regem Francorum de obseruatione ciborum  (VI secolo): 

Ceruisa bibendo uel medus et aloxinum quam maxime omnibus congruum est ex toto, quia ceruisa, quae bene facta fuerit, beneficium prestat et rationem habet, sicut et tesanae, quae nos facimus alio genere. tamen generaliter frigida est.
Similiter et de medus bene factum, ut mel bene habeat, multum iuuat. 
 
E ancora, più avanti nello stesso testo, troviamo una menzione dell'idromele, assieme a una preziosa testimonianza sull'intolleranza al lattosio tra i Franchi: 
 
De lactibus uero sanis hominibus; si quis crudos lactis uult bibere, mel habeant admixtum uel uinum aut medus; et si non fuerit aliquid de istis poculis, sale mittatur modicum, et non coacolat intus in hominibus; nam si purum acceptum fuerit, aliquibus coacolat intus in epar et in stomachum et solet grauiter laedere. Si tamen, quomodo mulgitur, contra calidum bibitum fuerit, si taliter, non nocet. 
 
L'autore di questo trattato, Antimo, era un medico di Bisanzio, che il Teodorico il Grande (454 - 526), Re degli Ostrogoti, inviò come rappresentante alla corte dell'omonimo Teodorico (485 - 534), Re dei Franchi e figlio di Clodoveo, della dinastia dei Merovingi. Vediamo che il vocabolo medus in questo testo non può essere un prestito dal gotico, che aveva senza dubbio *midus, con diverso vocalismo (vedi sotto). A rigor di logica potrebbe essere un prestito dalla lingua germanica dei Franchi. Notiamo però che la bevanda a base di miele non è stata inventata dai Franchi: era già ben nota ai Galli e diffusissima. Vediamo che la birra è designata col termine celtico (cisalpino) ceruisa. Anche la parola aloxinum è di origine celtica e designava una bevanda aromatizzata con assenzio: ha la stessa radice dell'inglese ale "birra" (anglosassone ealu, ealo, genitivo ealoþ). Assumo quindi che medus sia un elemento del sostrato/adstrato celtico. Il Glossario di Vienne ci testimonia che una forma tarda di gallico era senz'ombra di dubbio ancora parlata al tempo dei Franchi: la parola caio "recinto" è glossata con "breialo siue bigardio"
 
Questo nome dell'idromele, che risale alla radice indoeuropea *medhu-, si trova nelle lingue germaniche: 
 
protogermanico: *miðuz "idromele" 
norreno: mjǫðr "idromele"
   islandese moderno: mjöður "idromele"
   faroese: mj
øður "idromele"
   antico svedese: miödher, mioþer "idromele"
   svedese moderno: mjöd "idromele" 
   antico danese: mioth, miøth, møth "idromele"
   danese moderno: mjød "idromele"
antico alto tedesco: metu "idromele"
   medio alto tedesco: mete, met "idromele"
   tedesco moderno: Met "idromele"
antico sassone: medu "idromele"
   medio basso tedesco: mēde, medde "idromele"
   basso tedesco (Vestfalia): mia "idromele"
antico frisone: mede "idromele"
  frisone occidentale: mea "idromele"
medio olandese: mēde "idromele"
  olandese moderno: mede, mee "idromele"
antico inglese: meodu, meodo, medo "idromele"
   medio inglese: mede, methe(1) "idromele"
   inglese moderno: mead /mi:d/ "idromele"
   scots: mede, meid "idromele"
gotico: *midus "idromele"(2) 

(1)La variante methe si deve a influenza norrena.
(2)La forma gotica è stata presa a prestito dal lituano: midus "idromele". 
 
Torniamo dunque al greco antico. Nella lingua di Omero si trova un vocabolo discendente dall'indoeuropeo *medhu-, che non era usato altrove: μέθυ (méthy), di genere neutro, genitivo μέθυος (méthyos), tradizionalmente tradotto con "vino" o con "bevanda inebriante". Il significato originale doveva essere quello di "idromele", ma già in epoca classica questa conoscenza era andata perduta. Il navigatore massaliota Pitea (380 a.C. circa - 310 a.C. circa), che visitò la regione costiera della Norvegia, paese denominato Thule (Θούλη), affermò che le popolazioni locali facevano uso di una bevanda inebriante prodotta dal miele e dal grano, ma non usò il termine μέθυ per designarla. Se questa bevanda fosse stata conosciuta all'epoca dai Greci, non avrebbe destato grande sorpresa scoprire che era prodotta dalle genti di Thule. Il caso è davvero curioso. Sappiamo per certo da prove archeologiche che l'idromele era prodotto in epoca omerica e persino che c'era la consuetudine di aromatizzarlo col rosmarino. A quanto pare la bevanda antichissima è stata gradualmente abbandonata a causa della concorrenza del vino  d'uva, che ha finito col soppiantarla. Quando in seguito l'idromele alcolico è stato riscoperto, ha dovuto ricevere un nome nuovo.    

La radice *medhu- ha dato discendenti in molti altri rami della famiglia indoeuropea, ma sarebbe impossibile fare una trattazione dettagliata in questa sede, tanto complesso è l'argomento. Questi sono alcuni dati relativi alle lingue indoarie e iraniche: 
 
sanscrito: madhu "miele; vino"
romaní: mol "vino"
protoiranico: *madu "miele; vino" 
   avestico: maδu "vino (d'uva)"
   antico ossetico (scitico): mud "miele"
   battriano: μολο (molo) "vino"
   curdo settentrionale: mot "melassa"
   medio persiano: may "vino"
   persiano moderno: mey "vino"*
   harzani: mat "sciroppo denso, melassa"
   azero (dialetto di Urmia): mazow "sciroppo d'uva con acqua"
 
*Parola della lingua letteraria. 
 
Gli Sciti bevevano idromele e lo chiamavano mud, come il miele. Tra la maggior parte delle altre genti iraniche è subentrato una specie di tabù verso il miele, così l'antico nome dell'idromele è passato a indicare il vino d'uva. 

Persino in arabo esiste la parola maδi "vino bianco frizzante", importata direttamente dal medio persiano (prima della scomparsa della dentale intermedia); deve essere un termine colloquiale o tecnico. Sorprende la vastità del lessico enologico tra gli Arabi, con buona pace della loro religione che ha un cattivo rapporto con l'ebbrezza. 
 
In tocario B abbiamo due diverse parole: mīt "miele" e mot "bevanda inebriante". La prima parola tocaria, mīt, ha avuto un'enorme diffusione, dando origine al cinese antico 蜜 mit "miele" (cinese attuale , usato in composti come 蜂蜜 fēngmì "miele", 蜜蜂 mìfēng "ape da miele"). Dal cinese antico, mit "miele" è giunto nel giapponese divenendo mitsu "miele", e in coreano divenendo mil "miele". La seconda parola tocaria, mot "bevanda inebriante", è un prestito da una lingua iranica, con ogni probabilità il sogdiano (mwδ, mδw "vino", pron. /muð/). 
  
Anche nelle lingue baltiche e in quelle slave i discendenti di *medhu- sono ben attestati e fiorenti. Questo è un quadro delle lingue baltiche:  
 
lituano: medùs "miele"*
lettone: medus "miele; idromele"
letgallo: mads "miele"
antico prussiano: meddo "miele" 
 
*C'è anche midus "idromele", che è un chiaro prestito dal gotico. 
 
Questo è un quadro sintetico delle lingue slave
 
antico slavo ecclesiastico: медъ (medŭ) "miele"
russo: мёд /mjot/ "miele"; "idromele"
ucraino: мед /med/ "miele"; "idromele"
polacco: miód /mjut/ "miele", miód pitny "idromele"* 
ceco, slovacco: med "miele", medovina "idromele"
bulgaro: мед (med) "miele"
serbo, croato: ме̑д, mȇd "miele"
macedone: мед (med) "miele"
sloveno: méd "miele" (mẹ̑d in ortografia tonale)

*Ricordo un articolo su un vecchio quotidiano cartaceo, che parlava di una cooperativa comunista e di "miele da bere" importato dalla Polonia (hanno tradotto alla lettera miód pitny). Forse i trinariciuti non conoscevano la parola idromele o non la volevano usare per qualche loro ubbia. 

Un notevole prestito slavo in rumeno è mied "idromele" (parola del linguaggio popolare).
 
Alla luce di quanto esposto, vediamo che l'uso del neologismo MEDO in italiano restaurerebbe un'ottima tradizione, avendo un fondamento storico ineccepibile. Inoltre porrebbe fine agli inveterati fraintendimenti di cui abbiamo già discusso. Alla Festa Celtica in Val Veny, i Taurini vendono un eccellente idromele di loro produzione: ogni anno mi piazzo davanti alla loro bancarella per abbondanti libagioni. Ebbene, non sarei più costretto a sentire decine di visitatori continuare con la baggianata dell'associazione tra l'idromele e queste cazzute fantomatiche mele! 
 
Il cognome Idromele 

In Italia esistono i cognomi più bizzarri. Ve ne sono alcuni tra i più notevoli che traggono origine da nomi di bevande. Tra questi abbiamo Vino, Birra, Acquavite, Amaro, Liquori, Spiriti, Rum, Sambuca, Gin e Sidro. Come documentato dal sito www.gens.info, il rarissimo cognome Idromele è presente in due soli comuni, il primo in Piemonte, non lontano da Tortona, e il secondo nei pressi di Roma. 

martedì 14 aprile 2020

IL CULTO DI GIOVE PENNINO E SUOI POSSIBILI LASCITI

Tempo fa mi capitò di reperire un'informazione di un estremo interesse. Negli ultimi anni del X secolo o nei primi del XI (non ricordo l'anno esatto), il Vescovo di Aosta, Anselmo, durante un viaggio nella sua diocesi si imbatté in un simulacro di Giove Pennino, che era ancora adorato dagli abitanti di una valle impervia. La lettura mi era rimasta impressa per via dell'epoca molto tarda del ritrovamento. L'Anno del Signore poteva essere il 999 o il 1001, la mia memoria non riesce a decidere quale delle due date sia quella esatta; Anselmo, che morì ad Aosta nel 1026, non deve essere confuso col famoso omonimo che formulò la prova ontologica dell'esistenza di Dio. Ero convintissimo di aver letto di questi fatti mirabili nel libro di Riccardo Taraglio, Il Vischio e la Quercia. Spiritualità celtica nell'Europa Druidica (1a ed. 1997). Eppure quando ho ripreso in mano il volume, ad anni di distanza, purtroppo non sono stato in grado di ritrovare la preziosa menzione. Le pagine erano molto ingiallite per il tempo trascorso. Non mi è andata meglio con la versione online dell'opera, nonostante le ripetute ricerche; riporto il link, nel caso qualcuno volesse cimentarsi. Forse giungerà un internauta più fortunato di me.
 

Se poi un giorno il link si romperà, amen. Non posso perdere altro tempo. Google non mi è stato di alcun aiuto nel mio studio su Giove Pennino, anzi, mi ha seriamente ostacolato. Se anche questa scoperta del Vescovo Anselmo si trovasse in qualche sito, è di certo nascosta da migliaia di siti insostanziali con un migliore posizionamento nel Web. Sono convinto che un giorno ritroverò la documentazione, peraltro abbastanza stringata. Intanto pubblico queste note. Quello che mi aveva colpito è che in un'epoca così tarda fosse stata trovata una reliquia pagana così ben conservata. Mi sono domandato se per caso non fosse sopravvissuta, magari in forma residuale, anche una lingua celtica poi estinta, sommersa dal mondo romanzo circostante. La cosa non è poi così improbabile. Già Johann Ulrich Hubschmied aveva supposto che fossero sopravvissute in Elvezia isole alloglotte celtiche in epoca molto tarda, traendo evidenze della sua tesi dalla toponomastica.
 
Una divinità preromana adorata dai Salassi e da altre genti alpine è stata assimilata nel Pantheon di Roma come Iupiter Penninus. Il teonimo Penninus /pen'ni:nus/ è di chiarissima origine celtica: in gallico abbiamo PENNO- "testa; sommità, vetta", ben documentato nel materiale onomastico e toponomastico. Si tratta di un sostantivo neutro, che nelle Gallie doveva suonare *pennom, *pennon, e in epoca più tarda *penno. La sua derivazione è da un protoceltico *QUENNO-, la cui origine ultima permane sconosciuta: c'è chi ha ipotizzato un artificioso protoindoeuropeo *KP-ENNO-, postulando la stessa radice del latino caput "testa", ma la costruzione è alquanto artificiosa, con apofonia aberrante, suffisso sconosciuto e via discorrendo. In antico irlandese la protoforma celtica *QUENNO- ha dato cenn "testa" (irlandese moderno ceann "testa"): proprio da questa radice ha avuto origine il cognome Kennedy. In gallese la forma protoceltica ha dato pen "testa", con consonante labiale come in gallico. In buona sostanza, Iupiter Penninus significa "Giove della Vetta". Accanto alla pronuncia /pen'ni:nus/ ne esisteva un'altra più volgare, /pe:'ni:nus/ (vocale breve più consonante doppia => vocale lunga più consonante semplice). Si trova chiara traccia di ciò nella variante ortografica Iupiter Peninus. Si è generata quindi una grafia ipercorretta Iupiter Poeninus, giustificata anche da una falsa etimologia, già stigmatizzata da Tito Livio, che associava la divinità ai Cartaginesi e all'impresa di Annibale: il ben noto etnonimo Poeni /'poeni:/ "Fenici", pronunciato dal volgo /'pe:ni:/, è proprio la causa dell'equivoco. 
 
Nel paese degli Umbri, sulle falde del monte Catria, esisteva un importante santuario dedicato a Iupiter Apenninus. Situato nei pressi della Via Flaminia, il luogo di culto distava 135 km dall'Urbe. Il territorio in cui sorgeva apparteneva alle città Iguvium (attuale Gubbio) e Luceoli. Ebbene, questo Iupiter Apenninus è ora della fine la stessa identica divinità di quella vista nelle valli dei Salassi. Il vocabolo apenninus /apen'ni:nus/, da cui deriva l'italiano appennino, Appennini, è di origine ligure e ha la stessa identica radice vista sopra per il celtico PENNO-. Evidentemente si tratta di una formazione indoeuropea con un antico prefisso AD-, ben noto anche al latino e al celtico, anche se la radice *PENN- non ha paralleli esterni credibili. In ogni caso *AD-PENN- ha formato APENNINUS. A quanto mi consta, nessuna forma derivata mostra una lenizione; nell'italiano appennino si deve vedere l'esito dello scontro tra la consonante finale del prefisso AD- e la consonante iniziale della radice *PENN-, anche se in latino si trova soltanto una -p- semplice.

Taraglio menziona nel suo libro le battaglie condotte da San Bernardo contro il paganesimo popolare, drammatizzate dagli agiografi come scontri diretti contro Giove e altre divinità dell'antica religione romana, o meglio celtica romanizzata. San Bernardo, che ha dato il nome al Gran San Bernardo, dove esisteva proprio un santuario dedicato a Giove Pennino, secondo una diffusa tradizione sarebbe stato di nobile famiglia e nativo di Mentone (attuale Menthon-Saint-Bernard, vicino ad Annecy, da non confondersi con Mentone in Costa Azzurra). In realtà è molto probabile che il suo luogo d'origine fosse proprio Aosta. In precedenza il Gran San Bernardo era chiamato Mons Iovis, da cui deriva l'attuale denominazione dell'ospizio fondato dal santo, Mont-Joux, situato sul versante svizzero della montagna. 
 
 
In realtà anch'io ho visto l'idolo di Giove Pennino, proprio come era successo al Vescovo di Aosta mille anni prima. Naturalmente non si tratta dello stesso manufatto, visto che le genti del luogo hanno sempre provveduto a costruirne di nuovi, per quanti ne fossero abbattuti dalla foga degli zelanti predicatori o dall'inclemenza degli elementi. Nel settembre del 2013 ho pubblicato queste mie memorie, in cui è menzionata la scoperta: 

Storia del declino e della caduta dell'Impero Americano 

In un rifugio, tra le montagne che furono di Salassi e Graioceli, mi sono imbattuto in alcune ragazze americane dai modi incredibilmente volgari. Le loro parole avevano il suono dello starnazzare di papere e oche, una vera e propria cacofonia assordante. Il significato dei discorsi che mio malgrado sono stato costretto ad ascoltare era a dir poco nauseante. Una di queste americane ha detto di aver avuto moltissimi amanti francesi, tedeschi e della Sierra Leone, e di essere stata una volta persino con un cinese a cui non lo ha succhiato perché gli puzzava di formaggio. Si è quindi esibita in una serie di lazzi in cui derideva questo suo amante etichettandolo come "Chinese Cheese", sghignazzando di continuo. Poi ha aggiunto di ritenere quelli della Sierra Leone "i migliori per scopare". Ovviamente non ha considerato il fatto che in tale orrido Feudo di Satana germoglia l'AIDS. La sua amica ha detto di amare i falli giganteschi, ma se si imbatteva in un esiguo falletto scoppiava a ridere e non le riusciva di combinare niente perché in genere l'uomo si offendeva o si imbarazzava. Dopo alcuni giorni ho marciato fino al confine con la Francia, giungendo in un luogo dove qualcuno aveva eretto un idolo fatto di pietre ammucchiate, avente sembianze di un omino rudimentale. Un'americana si è allora staccata dalla sua comitiva e starnazzando ha chiesto a gran voce come mai l'omino ce l'avesse così piccolo. Si è quindi fatta fotografare a braccetto del simulacro, urlando qualcosa che si può traslitterare così: "This is my small dick boyfriend". Dovunque vadano, le americane si esibiscono in oscenità di ogni genere, tanto che i loro discorsi sono pieni zeppi di parole come "suck", "suck it up", "sucking", "fuck", e via discorrendo. Pensano soltanto a fellare e a copulare, ed è una cosa impressionante: solo se hanno con sé figli piccoli si astengono dall'usare un linguaggio pornografico. Di fronte a tutto questo, comprendo i sentimenti di Nerone nell'atto di suonare la lira mentre Roma ardeva: se avessi davanti a me un pulsante per mandare in combustione l'intero pianeta, non esiterei un solo istante a premerlo, l'importante è che tutto bruci senza la minima possibilità che qualcosa sopravviva tra le ceneri. Sarebbe deprimente pensare che questo porcaio possa durare ancora a lungo, tanto da permettere a un futuribile emulo di Edward Gibbon di scrivere un'opera in più tomi intitolata "Storia del declino e della caduta dell'Impero Americano".
 
Il luogo dove ho trovato Giove Pennino è il valico conosciuto come Col de la Seigne, proprio dove c'è il confine tra l'Italia e la Francia. Tornato in quello stesso sito due anni dopo i fatti appena descritti, nel 2015, vi ho trovato ancora un simulacro, anche se più piccolo e rudimentale di quello che vi avevo visto in precedenza. C'era una compagnia di israeliani molto allegri che vociavano di fronte al singolare manufatto, domandandosi cosa fosse e a cosa servisse. Invano ho cercato di spiegare loro che si trattava di un idolo, usando qualche parola in ebraico e poi continuando in inglese. Mi sorprendeva che considerassero con tanta futilità un oggetto che la loro religione avrebbe dovuto considerare offensivo. Non c'è stato verso che capissero il senso del mio discorso: quando ho fatto notare loro che a rigor di logica non avrebbero dovuto considerare divertente un'immagine di Baal, un vecchio mi ha guardato come se fossi un clown. "Why?", mi ha chiesto a un certo punto. Sono rimasto interdetto, ma poi ho pensato che fosse un ebreo laico (un "ammonita", come dicono in gergo) e che la cosa non doveva essere così strana. A questo punto mi sono accomiatato e ho cominciato a scendere a valle. Prima di volgere le spalle all'allegra comitiva, ho fatto in tempo a vedere un giovane israeliano, robusto e biondiccio, che poneva un piccolo sasso sulla sommità di Giove Pennino. Due valligiani con cui aveva parlato fino a poco prima, non appena si è allontanato, hanno rimosso la pietruzza appena collocata e l'hanno gettata a terra con disprezzo. Sentivo alcuni loro commenti in lontananza: "Ha detto di essere del Neghev", ha commentato uno. "Quanti palestinesi avrà ammazzato?", ha chiesto l'altro con voce sarcastica. 
 
Mi è stato riferito dall'amico A., nativo del paese dei Salassi, che gli omini delle montagne sono manufatti di antichissima tradizione, presenti sui valichi montani e sulle vette da tempo immemorabile. Non mi stupirei se l'usanza risalisse al Neololitico, forse addirittura al Paleolitico. Esiste l'inveterata a tradizione di accrescerli con pietre e di ricostruirli quando sono crollati: ogni passante pone un sasso, possibilmente piatto, sulla struttura, quasi seguendo un rituale istintivo, suggerito dal genius loci. Si dice che la funzione di questi strani cumuli di pietre consista nel segnare un sentiero poco definito, affinché il viandante non si smarrisca. Ho potuto constatare una specie di omertà diffusa tra la popolazione locale, che non ama affatto parlare di questo argomento coi forestieri. Sembra quasi che temano ancora oggi l'arrivo di un furioso Bernardo di Mentone abbattitore di idoli o addirittura di qualche inquisitore dei tempi della Caccia alle Streghe: non penso di poter essere ritenuto un folle se affermo che molti secoli di oppressione ecclesiastica devono essersi stratificati a livello di memoria epigenetica. 

domenica 12 aprile 2020

 
SCHIAVI DEGLI INVISIBILI 
 
Titolo originale: Sinister Barrier 
Autore: Eric Frank Russell 
Anno: 1948
Paese: Regno Unito
Lingua originale: Inglese
Tipologia narrativa: Romanzo
Genere: Fantascienza,
thriller, horror, noir 
Sottogenere: Fantascienza gnostica, demonologia, ufologia
     radicale 
Editore: Arnoldo Mondadori Editore; Editrice Nord
1a ed. italiana: 1953 (Urania n. 7)
2a ed. italiana:
1964 (I capolavori di Urania n. 325 bis)
3a ed. italiana: 1978 (Serie Cosmo Oro n. 31)
4a ed. italiana: 1982 (Classici Urania n. 68)
Traduttori: Patrizio Dalloro (1953, 1982),
     Giorgio Monicelli (1964), Roberta Rambelli (1978) 

Sinossi (da Mondourania.com, n. 7): 
"Il genere umano è già stato conquistato da altre "intelligenze"? E' forse posseduto da forme di vita inimmaginabili, ma non per questo meno temibili e proterve? Si, l'umanità è schiava degli spaventosi Vitoni, sfere di energia elettromagnetica, invisibili all'occhio dell'uomo, di cui sfruttano spietatamente le energie nervose. Globi azzurri di un metro di diametro, fosforescenti, fluttuanti nell'aria, hanno bisogno, per ottenere le energie nervose di cui si nutrono, di provocare la più catastrofiche emozioni nella psiche umana: e per giungere a questo devono scatenare guerre, passioni, delitti, ininterrottamente. Ma un piccolo gruppo di uomini s'accorge di questa schiavitù a favore degli Invisibili e a sua volta dichiara guerra ai Vitoni. Questi hanno scatenato gli orrori di una guerra atomica tra asiatici da una parte ed euro-americani dall'altra. Ma gli uomini hanno scoperto finalmente il mezzo di "vedere" gli Invisibili. E da questo momento la sorte dei Vitoni è decisa."
 
Sinossi (da Mondourania.com, n. 325): 
"Nella ormai ricchissima galleria di creature maligne che la FS ha inventato, questi Vitoni di Russell occupano un posto altrettanto sensazionale dei Trifidi di Wyndham. Con una importante differenza: mentre i Trifidi sono visibili a occhio nudo e sembrano innocui, i Vitoni sono invisibili, e solo una fortuita scoperta permette all'umanità di capire infine che cosa stia succedendo, e anzi, di rendersi conto che il nostro passato e la stessa nostra storia millenaria, seguono forse da sempre il corso voluto da questi feroci e insaziabili parassiti."
 
Trama: 
Siamo di fronte a una vera e propria strage di professori. Un eccidio, una moria epidemica quanto inspiegabile. Sul mondo accademico sembano posarsi le Ali della Morte. Chi si suicida gettandosi dai piani alti di un grattacielo, chi viene stroncato da un infarto improvviso, chi impazzisce e spara nel vuoto a un aggressore invisibile, chi si schianta col suo veicolo contro un edificio, chi si getta sotto un camion dopo aver urlato in preda al delirio. L'investigatore Graham e l'agente Wohl pian piano, di fronte alla morte di un gran numero di eminenti scienziati, cominciano ad accorgersi che strani particolari legano tra loro i diversi casi. Subito prima di incontrare l'Angelo della Morte, le vittime sembravano in preda al delirio, alcune di loro avevano lasciato appunti sconnessi e altri indizi molto difficili da interpretare: l'uso enigmatico quanto diffuso di un intruglio composto da mescalina, tintura di iodio e blu di metilene. Man mano che le indagini di Graham e Wohl procedono, avvengono strani incidenti. Uno scienziato in preda al terrore si getta col suo veicolo contro un palazzo, facendolo esplodere. Un altro si getta urlando sotto un camion. Quando finalmente viene trovata la prova dell'esistenza di strani globi di luce simili a soli azzurrognoli, fotografati tramite una speciale emulsione, esplode un impianto chimico, annientando un'intera città. Non senza gravi difficoltà e peripezie, Graham riesce a comprendere ogni dettaglio della complicata situazione e ad averne le prove da uno scienziato che vive da eremita, rinchiuso in un loculo ctonio. I soli azzurrognoli sono proprio quelle entità a cui è stato dato un nome scientifico: i Vitoni. L'anziano studioso scovato da Graham finisce ucciso non appena osa mettere piede all'esterno. Con questa mole di tremende evidenze, l'investigatore superstite riesce a ottenere l'appoggio del Governo e del Presidente. La strategia adottata non è delle più furbe, anche se appare inevitabile come una necessità storica: viene deciso di rivelare ogni cosa al mondo intero. Le conseguenze di un atto tanto rivoluzionario non si fanno attendere. Se alcuni futili media irridono tutto ciò che è stato pubblicato sui Vitoni, la Cina adotta una tattica assai più incisiva: scatena una guerra contro gli States, radendo al suolo numerose città con bombardamenti incendiari e devastando interi continenti. Ogni resistenza in Asia viene travolta, New York è sotto il bombardamento, l'Europa è a un passo dalla disfatta. Il marasma imperversa ovunque e sembra condurre il mondo intero alla completa rovina, fino ad arrivare all'escalation nucleare. Proprio quando ogni speranza è sul punto di venir meno, le sorti della specie umana mutano come per un improvviso colpo di fortuna, con la scoperta di una nuova rivoluzionaria arma in gradi di annientare i Vitoni come in un videogioco fosforescente!
 
Recensione: 
L'opera di Russell è una gemma di pensiero gnostico e di anticosmismo, che irradia la Luce della Verità in mezzo a una massa di fantascienza priva di costrutto. Purtroppo le genti del mondo non amano chi scrive cose inquietanti che possono spiegare le miserie della condizione umana: ecco perché preferiscono materiale puerile e grottesco come Star Wars, Star Trek et similia, la cui utilità potrebbe essere paragonata a quella dei peti di un mulo. I Vitoni non sono fatti di materia, non appartengono alla biologia, eppure sono dotati di una grande intelligenza che usano a danno dei viventi. Possono quindi essere considerati cacodemoni a tutti gli effetti. Sono proprio gli Arconti, gli esseri maligni che tanta importanza hanno nell'architettura concettuale dello Gnosticismo. 

La vulgata corrente parla di due fonti di ispirazione all'origine di questo romanzo:
1) Il paradosso di Fermi ("Se l'Universo pullula di civiltà sviluppate, dove sono tutte quante?");  
2) L'opera di Charles Hoy Fort (1874 - 1932), scrittore e studioso di fenomeni inspiegabili.
Le conclusioni tratte da Russell sono le seguenti: 
1) Siamo già stati conquistati da alieni che impediscono qualsiasi contatto con altre civiltà;
2) Ogni fenomeno inspiegabile e paranormale è il prodotto dell'attività di questi alieni, che usano a proprio vantaggio la superstizione umana.
Non intendo certo mettere in discussione questi meccanismi della genesi di Schiavi degli Invisibili. Ci tengo però a far notare la considerevole affinità con un sistema religioso e filosofico dell'Antichità, che ai nostri tempi è stato quasi del tutto dimenticato. Dovremmo quindi aggiungere una terza fonte di ispirazione all'elenco sopra riportato: lo Gnosticismo è proprio la chiave che permette di dare un senso a tutto questo. Per convincersene è sufficiente a mio parere leggere con attenzione alcuni estratti significativi del romanzo, che riporto nel seguito: 
 
"Proprio come molte cose ci erano sfuggite per secoli, alcune rifugiandosi nell’infinitamente piccolo ed altre nell’infinitamente grande, così altre ci hanno elusi annidandosi nell’incolore assoluto." 
 
"La scala delle vibrazioni elettromagnetiche si estende su 60 ottave, e l’occhio umano può vederne una sola. Oltre la sinistra barriera dei nostri limiti, oltre questo campo visivo meschino e inefficiente, intenti a dominare ogni uomo dalla culla alla tomba, a depredarci spietatamente come parassiti, stanno i nostri maligni e onnipotenti padroni: gli esseri che sono i veri signori della Terra." 
 
"Poiché somigliavano a globi di luce viva, Bjornsen ha dato loro il nome di Vitoni. E non sono soltanto vivi: sono anche intelligenti! Sono i signori della Terra, e noi siamo il gregge dei loro campi. Sono i crudeli e spietati sultani dell’invisibile; e noi siamo i loro schiavi tremanti e stupidi, così indescrivibilmente stupidi che pochi nella storia si sono accorti delle catene che portano. L’ignoranza di essi può essere una fortuna, ma la conoscenza è un’arma. L’umanità deve conoscere i suoi oppressori per infrangere le catene." 
 
"Una morte immediata attende una mucca che guida una rivolta contro la mungitura. E c’è uno scacciamosche che aspetta la prima ape decisa a protestare contro il furto del miele." 
 
"Così anche all’uomo, semmai divenisse consapevole di essere bestiame, non è dato di protestare e di opporsi, pena la condanna a morte." 
 
"Noi mangiamo, ma non ci aggiriamo a caso alla ricerca di patate selvatiche. Le coltiviamo, e coltivandole le miglioriamo secondo i nostri criteri. Allo stesso modo, i nostri tuberi emotivi non bastano a riempire i ventri dei nostri padroni: devono essere coltivati, stimolati, selezionati, secondo le idee di coloro che provvedono furtivamente a tali colture."
 
"Questa è la sola ragione per cui gli esseri umani, altrimenti razionali e ingegnosi al punto da stupirsi delle proprie capacità, non sanno mandare avanti il mondo in modo degno della loro intelligenza. È per questa ragione che ancor oggi, mentre potremmo costruire cose splendide, viviamo tra i monumenti miserabili della nostra potenza distruttiva, e non sappiamo creare la pace, la sicurezza, la tranquillità. È per questo che facciamo progressi nella scienza e nella tecnica ma non nella sociologia e nella psicologia, che sono sempre state ingarbugliate e impotenti fin dal principio." 
 
"Se vi mostrassi una microfotografia dell'orlo di una comunissima sega, i suoi vertici e le sue valli sarebbero un grafico perfetto delle ondate emotive che hanno sconvolto questo mondo con atroce regolarità. L’emozione... la messe! L’isterismo... il frutto! Voci di guerra, preparativi di guerra, accuse e controaccuse di preparare la guerra, le guerre vere e proprie; le rinascite religiose, i disordini religiosi; i conflitti del lavoro; le rivalità razziali; le dimostrazioni ideologiche, la propaganda speciosa; gli omicidi, i massacri, i disastri naturali; le stragi in tutte le forme capaci di suscitare ondate emozionali; rivoluzioni e ancora guerre."
 
"La pace, la pace vera, è un periodo di carestia per i nostri superiori. Occorre che vi siano emozioni, energia nervosa: grandi e sterminate messi di estensione mondiale, create in un modo o nell’altro, con qualsiasi mezzo."
 
"La verità deve essere senz’altro un’arma, altrimenti quelle creature non avrebbero mai preso iniziative tanto drastiche per impedire che venisse conosciuta. Loro temono la verità, perciò il mondo la deve conoscere. La verità "deve" essere rivelata!" 
 
«Si è scoperto ben poco - disse Graham - ma quel poco ha un grande significato. Beach era convinto che i Vitoni non soltanto sono formati d'energia, ma che "vivono" di energia e  se ne nutrono: della "nostra" energia! Per quanto li riguarda, noi esistiamo come produttori di energia, che la natura premurosa ha messo a loro disposizione per saziarli. Perciò ci allevano, o ci incitano a riprodurci.»
 
"Come si sa da tempo, l’energia nervosa prodotta dall’atto di pensare e la reazione alle emozioni ghiandolari hanno natura elettrica o semielettrica: ed è questa produzione che nutre i nostri invisibili superiori. Loro possono incrementare il raccolto quando vogliono; e lo fanno, stimolando rivalità e gelosie e odii e suscitando emozioni. Cristiani contro mussulmani, bianchi contro neri, comunisti contro cattolici: tutto è farina per il mulino dei Vitoni, tutto nutre le loro inimmaginabili viscere. Come noi coltiviamo il cibo, così i Vitoni coltivano il loro. Come noi ariamo i campi e seminiamo e mietiamo, così loro arano e seminano e mietono. Noi siamo un suolo di carne, arato dalle circostanze imposte dai Vitoni, seminato di idee controverse, concimato da dicerie e menzogne e falsità, innaffiato da sospetti e gelosie: e tutto questo affinché possiamo produrre una ricca messe di energia emotiva, che viene mietuta con la falce dell’angoscia. Ogni volta che qualcuno grida ad una guerra, un Vitone usa le sue corde vocali per ordinarsi un banchetto!"
 
"Il loro metodo per «spiegare» errori e omissioni e sviste da parte loro, insinuando nozioni superstiziose per «giustificarli» e confermando tali nozioni per mezzo di cosiddetti miracoli quando necessario e della produzione di poltergeist e di fenomeni spiritici quando richiesto, dimostra l'infernale ingegnosità degli esseri che noi chiamiamo Vitoni. Costoro hanno fatto del confessionale e della sala per le sedute spiritiche i loro centri di mimetizzazione psichica: il prete e il medium sono stati i loro alleati nell’impresa diabolica di mantenere nella cecità le masse cieche."  

"I dati dell'"Herald-Tribune" costituiscono gli annali della credulità umana, la prova che gli uomini possono vedere in faccia la realtà... e negarla! Dimostrano che gli umani possono vedere un pesce e chiamarlo carne o pollo, secondo le convenzioni di tutori dogmatici chiechi quanto loro, secondo il personale timore di perdere invisibili partecipazioni a dimore celesti inesistenti, secondo la credula convinzione che Dio possa negare loro le ali se affermano che una visione autorevolmente garantita come emanata dal cielo proviene invece dall'inferno."
 
"Siccome tutti i nostri dati indicano che i Vitoni orientano le opinioni come vogliono, guidando sottilmente i pensieri nel modo per loro più conveniente, è quasi impossibile stabilire quali giudizi si sono evoluti naturalmente e logicamente e quali sono stati imposti."
 
"Per loro è un vantaggio enorme, perché possono conservare il potere sull’umanità mantenendo diviso il mondo su ogni questione, nonostante tutti i nostri tentativi di unirlo." 

"Secondo me sarebbe opportuno creare un apposito laboratorio in qualche località remota e poco frequentata, lontana dalle zone in cui imperversa la guerra, poiché tutto indica che i Vitoni si raccolgono dove gli umani sono più numerosi e che visitano molto di rado le regioni disabitate."  
 
"Un laboratorio nascosto nel deserto, in una località in cui il nutrimento emotivo scarseggia, potrebbe rimanere inosservato e indisturbato anche per anni." 
 
Incapacità predittiva 
 
Il problema cruciale è la tecnologia descritta nel romanzo di Russell. L'autore dà forma a un mondo in apparenza molto progredito scientificamente, ma com'è ovvio lo fa secondo le idee correnti negli anni '40 del XIX secolo, secondo il suo immaginario collettivo. Non può nemmeno concepire qualcosa di simile a Internet: i soli computer sono ancora scomodissimi armadi a muro pieni zeppi di valvole termoioniche. Se da una parte ci sono veicoli fluttuanti che funzionano tramite l'antigravità, dall'altra c'è una telefonia assolutamente incoerente e rudimentale. Il telefono si è evoluto in videotelefono (o videofono), ossia è stato messo uno schermo simile a un oblò proprio sopra il girello, mantenendo immutata la cornetta che si aggiancia. Non solo: c'è il centralino per smistare le chiamate! Nulla di portatile, è ovvio. Al massimo il videotelefono può essere montato su un veicolo fluttuante, ma nulla di più. I poliziotti sono ancora provvisti di walkie talkie, congegni di cui non è stata capita la portata rivoluzionaria (sono loro i veri progenitori dei comunicatori di Star Trek). Esistono persino i radioamatori! Sì, proprio loro, quei camionisti che continuavano ad farfugliare "brekko brekko!" al microfono. Qualcuno se li ricorda? Forse no, ormai sono estinti da tempo. Dubito che un millennial abbia mai visto un radioamatore, non più di quanto abbia visto un toxodonte o un megaterio. Fatto sta che l'idea del telefono portatile non è presente nemmeno allo stadio larvale nel mondo russelliano. Lo schermo dei videofoni fissi è capace soltanto di trasmettere tramite una telecamera o di mostrare le pagine dei quotidiani come se fossero foto. Non c'è interfaccia di sorta. Persino il televisore a colori ("stereoscopico, a sei colori") è presentato come un'audace invenzione della Faraday, il cui lancio sul mercato è stato interrotto dalla guerra. Ci pensate? Tutte queste cose dovrebbero far meditare. 
 
Fantascienza Noir 

Il navigatore N3ntalf1oss fa notare una cosa molto interessante sul sito Anobii.com: il romanzo di Russell in realtà è permeato di noir, al punto da essere ascrivibile a quel genere.  


"Fin da subito, infatti, la narrazione prende una precisa direzione e, rinunciando a qualsivoglia speculazione ontologica e metafisica, opta per ritmi e caratterizzazioni tipiche del noir e del poliziesco. A tratti pare davvero di leggere Mickey Spillane o di assistere a un film dell'epoca dei Bogart e dei Peter Lorre." 

E ancora: 

"Le attenuanti, però, non mancano. Il periodo - "Sinister Barrier" (titolo originale) apparve nel 1939 e fu rimaneggiato e rivisto tra il 1943 e il 1948 - è quello, appunto, dell'esplosione noir e dei duri con la sigaretta in bocca. L'influenza sul romanzo è infatti marcatissima e, a tratti, persino piacevole. Inoltre, siamo ancora lontani (o, perlomeno, non troppo vicini) all'epoca della Sci-fi americana degli Outer Space e degli Another World, e questo va a tutto merito dell'autore, che si è rivelato assai profetico nel proporre un intreccio che i posteri non esiteranno a clonare e a rivisitare.
D'altra parte non si può gridare al miracolo, vista soprattutto la semplicità - quasi ingenua - del canovaccio narrativo, e il taglio dato ai personaggi, tutti un po' troppo Marlowe, per essere credibili in una storia che, alla fin fine, parla di incontri con altre forme di vita e non di sparatorie tra gangster."
 

Di che lamentarsi? Fantascienza, gangster e pupe: non è poi troppo male, Diabole Domine! Ci fosse qualcosa di simile ai nostri tempi!