martedì 16 gennaio 2018


SILENCE

Titolo originale: Silence
Lingua originale: Inglese, giapponese, latino
Paese di produzione: Stati Uniti, Taiwan, Messico,
     Italia, Regno Unito, Giappone
Anno: 2016
Durata: 161 min
Colore: Colore
Audio: Sonoro
Rapporto: 2.35: 1
Genere: Drammatico, storico
Regia: Martin Scorsese
Soggetto: Shūsaku Endō (romanzo)
Sceneggiatura: Jay Cocks, Martin Scorsese
Produttore: Barbara De Fina, Randall Emmett,
    Vittorio Cecchi Gori, Martin Scorsese, Irwin
    Winkler, Emma Tillinger Koskoff, Gaston
     Pavlovich
Casa di produzione: Cappa Defina Productions,
    Cecchi Gori Pictures, Corsan, Emmett/Furla/
    Oasis Films, Sikelia Productions, AI-Film,
    Fábrica de Cine, SharpSword Films, IM Global
Distribuzione (Italia): 01 Distribution
Fotografia: Rodrigo Prieto
Montaggio: Thelma Schoonmaker
Musiche: Kim Allen Kluge, Kathryn Kluge
Scenografia: Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo
Costumi: Dante Ferretti
Interpreti e personaggi:    
    Andrew Garfield: Padre Sebastião Rodrigues
    Adam Driver: Padre Francisco Garupe
    Liam Neeson: Padre Cristóvão Ferreira
    Tadanobu Asano: interprete
    Ciarán Hinds: Padre Alessandro Valignano
    Shinya Tsukamoto: Mokichi
    Yōsuke Kubozuka: Kichijiro
    Issei Ogata: Inoue Masahige
    Yoshi Oida: Ichizo
    Nana Komatsu: Monica (Haru)
    Ryo Kase: Juan (Chokichi)
    Yasunari Takeshima: Haku
    Tetsuya Igawa: gesuita
    Béla Baptiste: Dieter Albrecht
Doppiatori italiani:   
    Davide Perino: Padre Sebastião Rodrigues
    Gianfranco Miranda: Padre Francisco Garupe
    Alessandro Rossi: Padre Cristóvão Ferreira
    Niseem Onorato: interprete
    Stefano De Sando: Padre Alessandro Valignano
    Taiyo Yamanouchi: Mokichi
    Simone D'Andrea: Kichijiro
    Oliviero Dinelli: Inoue Masahige
    Hal Yamanouchi: Ichizo
    Jun Ichikawa: Monica (Haru)
    Raffaele Carpentieri: Haku
    Massimiliano Manfredi: gesuita
    Alessandro Budroni: Dieter Albrecht

Trama:

Il film inizia con un prologo che mostra il missionario Cristóvão Ferreira deportato assieme a un gran numero di convertiti in una valle piena di sorgenti termali, la cui acqua bollente e caustica è usata come strumento di tortura. Egli è impotente di fronte alle autorità giapponesi, impossibilitato a fornire qualsiasi assistenza ai convertiti. Qualche anno dopo, a Macao, il gesuita italiano Alessandro Valignano riceve una notizia ferale: sottoposto a torture raccapriccianti, Padre Cristóvão Ferreira ha abiurato. I giovani gesuiti portoghesi Sebastião Rodrigues e Francisco Garupe non vogliono crederci e decidono di partire per il Giappone alla ricerca del loro padre spirituale. In una taverna trovano un giapponese, il pescatore alcolizzato Kichijiro, che su compenso accetta di guidarli nell'arcipelago. Arrivati di notte nel villaggio costiero di Tomogi, i due preti sono sorpresi di trovare una comunità di miseri pescatori di fede cristiana che vivono nel terrore, nascosti come topi per sfuggire ai persecutori. Presto i due preti rimangono sconvolti nel vedere che un anziano samurai, conosciuto come "Inquisitore" dai villici, ne cattura alcuni e li fa crocifiggere su una scogliera, in modo che finiscano soffocati dall'alta marea. I martiri affrontano la morte cantando, e quando sono morti, i loro corpi vengono cremati per impedire che i loro resti ricevano esequie cristiane e diventino oggetti di culto. A questo punto Garupe e Rodrigues, credendo che sia stata la loro presenza a sppingere lo Shogunato a terrorizzare le genti di Tomogi, decidono di separarsi. Garupe si reca nell'isola di Hirado (nota ancor oggi per la presenza di albini dai capelli rossi), mentre Rodrigues si reca nell'isola di Goto, dove Ferreira è stato visto per l'ultima volta prima di apostatare. Quando Rodrigues giunge a destinazione, scopre che il villaggio di Goto è stato distrutto. Dopo varie peripezie, il prete viene tradito da Kichijiro, imprigionato e condotto a Nagasaki. Si ritrova in cella con altri convertiti e viene condotto davanti all'Inquisitore, il terribile e potentissimo Inoue Masashige, con cui ha un lungo dialogo. La sua sola possibilità è abiurare la sua fede calpestando una lastra di bronzo con l'immagine di un crocefisso, detta fumi-e in giapponese. Viene sottoposto a crudeli pressioni ed è costretto a vedere il suo compagno Garupe mentre viene affogato, senza poter fare nulla per aiutarlo. Kichijiro, avvezzo al tradimento come all'ubriachezza e al gioco d'azzardo, viene catturato e presto rilasciato dopo aver calpestato senza troppi problemi la fumi-e. La resistenza di Rodrigues è spezzata quando gli vengono mostrati alcuni cristiani che soffocano negli escrementi, appesi a testa in giù. L'Inquisitore gli spiega che essi hanno già rinnegato Cristo più e più volte, e che soltanto la sua apostasia li salverebbe da morte atroce quanto certa. A questo punto il gesuita sente la voce di Cristo che gli dice di cedere, di calpestare l'immagine. "Calpesta pure! È per essere calpestato da voi che sono venuto in questo mondo, è per condividere i vostri dolori che mi sono caricato della croce". Rodrigues viene condotto da Ferreira, che ha cambiato nome e ora si chiama Sawana Chūan. L'ex padre spirituale lavora in un tempio e compone confutazioni della dottrina cattolica. Prende con sé quello che fu il suo allievo e gli spiega l'arcano. Gli dimostra la futilità di ogni tentativo di cristianizzare il Giappone. Passano molti anni. Rodrigues ha sposato la vedova di un samurai, ereditando il nome del defunto, Okada San'emon. Assieme a Ferreira è incaricato di riconoscere gli oggetti cristiani: quelli che mostrano disegni a forma di croce o altre peculiarità usate dai fedeli per testimoniare in modo criptico la loro religione. Alla fine, quando l'ex gesuita muore, viene cremato. Proprio alla fine, prima che il suo corpo sia divorato dalle fiamme, si vede che in una mano tiene un minuscolo crocefisso, proprio quello che gli era stato donato quando era stato accolto a Tomogi.

Recensione: 

Questo film, che considero un capolavoro, è basato su Silenzio (沈黙 Chinmoku), un romanzo dello scrittore giapponese Shūsaku Endō, pubblicato nel 1966. Il tema su cui è incentrata la narrazione è quello di un Dio silenzioso, che non risponde alle invocazioni del credente nelle avversità, pur accompagnandoli. Endō fu influenzato in questo dalle sue dolorose esperienze di discriminazione religiosa in Giappone, di razzismo subìto in Francia e di consunzione causata dalla tubercolosi. Il regista, che pure ha ammesso qualche difficoltà nel rendere i temi spirituali più profondi del romanzo dello scrittore giapponese, riesce a rappresentare bene un Cristo che si annulla per amore degli esseri umani, delle loro debolezze e della loro natura fragilissima. Anche per amore di Giuda e di Kichijiro, pronto a tradire infinite volte e a chiedere con somma sfacciataggine l'assoluzione. Contenuti che di certo stridono con l'arroganza che la Chiesa Romana ha dimostrato nel corso dei secoli dovunque ha avuto il potere.  

Incomunicabilità 

Le difficoltà che le genti del Giappone hanno sempre avuto nel comprendere la natura del Cristianesimo sono ben spiegate da Ferreira a Rodrigues. All'inizio i missionari utilizzarono il termine dainichi per tradurre "Dio", perché pensavano che la parola nipponica esprimesse tale concetto. Il punto è che si sono inganati, in quanto i Giapponesi non comprendevano l'esistenza di un'entità corrispondente a Dio. Il nome dainichi indicava soltanto una personificazione del sole, identificato con Buddha nel corso di un complesso processo di sincretismo. Così fu abbandonato e sostituito con Deusu, adattamento alla fonetica giapponese del latino Deus. Il problema è che per un giapponese il nome Deusu non ha significato alcuno, è soltanto un'etichetta straniera applicata a un contenitore vuoto, come sarebbe per noi il nome Xenu. All'inizio i due gesuiti si illudono di vivere in una comunità paleocristiana dei tempi di Nerone, ma presto si rendono conto che in tutto questo c'è qualcosa di strano. Il loro mondo di illusioni comincia a incrinarsi quando una giovane sposa sostiene di essere in "paraiso", e padre Garupe smentisce seccamente. Il termine "paraiso" non era inteso come una fumosa destinazione ultraterrena, ma come uno stato di estasi puramente terrena provata durante la celebrazione della messa, in presenza del prete, che era considerato un essere soprannaturale.

Cristo, il Buddha dell'Occidente

Il buddhista Zen Sessō Sōsai nella sua opera Taji jasu ron "Repressione della fede nociva" (1648), argomenta che Cristo sarebbe stato un eretico occidentale che operò una sistematica sostituzione lessicale, cambiando Brahma in Deusu; i devas del Cielo di Brahma in anjos (angeli); il Palazzo Celeste (tentō) in Paraiso; il Regno degli Umani (nindō) in Purgatorio; l'Inferno (jigoku) in Inferno; l'unzione (kanjō) in Bautismo; la contrizione (sange) in Confissão; le Dieci Buone Leggi (jūzenkai) nei dieci Mandamentos; le monache (bikuni) in virgem; il bastone del prete (shakujō) in excomungado; il cibo originale (jihi-rintō) in maçã (mela); i grani del rosario buddhista (juzu) in contas. Certo, Sōssai doveva essere molto ingenuo per pensare che Cristo parlasse portoghese; tuttavia, per paradosso, proprio le argomentazioni del monaco anti-kirishitan dimostrano quanto fosse facile per un giapponese dotto assimilare il Cristianesimo al Buddhismo. Quando i missionari sbarcarono nell'arcipelago, la loro religione fu subito considerata una setta buddhista occidentale. Prima che si sviluppasse una feroce reazione alla fede straniera, in Giappone era normale pensare che Cristo fosse semplicemente un Buddha vissuto in terre sconosciute e remote. 

Non è nutella! 

L'unico difetto da me trovato in questo splendido film è relativo alla tortura spaventosa chiamata ana-tsurushi. Non è infatti mostrato chiaramente in cosa consisteva. Le cavità in cui i cristiani venivano messi ad agonizzare erano profonde, ma Scorsese le dipinge come superficiali, appena in grado di contenere la testa. La cosa più importante, tuttavia, è che non si mostra bene il contenuto di tali fosse, che rendeva quella tortura così temuta. In una scena del film si intravede per pochi istanti una sostanza marrone, insolitamente uniforme, cremosa e mantecata, tanto da sembrare golosa nutella. No, ragazzi miei, quella cosa non era nutella: era merda! Nonostante Scorsese si sia adoperato per evitare agli spettatori la scabrosa vista di una massa di sterco e di altre immondizie, ricordo ancora cosa accadde quando vidi il film al cinema: un'anziana signora brianzola rimase comunque inorridita, perché comprese che lì dentro c'erano le feci.

Un'assurda accusa da parte di Ferrara

Cercando recensioni nel Web, appena visto il film, mi sono subito reso conto che Giuliano Ferrara era sul piede di guerra. Sul suo quotidiano online, che evito come la peste, esprimeva opinioni confuse e rabbiose, affermando che nel film i preti avrebbero seguito "logiche mondane". Non ho potuto approfondire la cosa, essendo la piena lettura del quotidiano disponibile solo a pagamento e non avendo la benché minima intenzione di dare a un tale personaggio nemmeno il fantasma di un centesimo forato. Evidentemente la causa di tutto ciò è molto semplice: né Ferrara né i cattolici-belva hanno la benché minima idea di cosa significhi subire una persecuzione feroce. Essi sono forse convinti, credo per un'intossicazione ideologica, che un ecclesiastico non possa in alcun modo rinunciare alla propria fede cattolica. Beh, che dire? Possono strepitare quanto vogliono, ma l'abiura di Ferreira è realtà storica, non opinione. I preti perduti sono realtà storica: la figura di Rodrigues è ispirata al missionario siciliano Giuseppe Chiara. Come è realtà storica l'efficacia dell'opera dei Tokugawa nell'eradicazione della Chiesa Romana dal Giappone.

Il film di Scorsese è un remake

L'opera di Endō era già stata trasposta in pellicola nel lontano 1971. Guardando questo film, a quanto pare disponibile soltanto nell'edizione originale, si ha come l'impressione di vedere una copia "diminuita" e "contratta" del remake del 2016. Tuttavia si nota che molte riprese e ambientazioni devono essere state usate proprio da Scorsese come fonte di ispirazione.


SILENCE (1971)

Titolo originale: Chinmoku (沈黙)
Anno: 1971
Paese: Giappone
Lingua: Giapponese, inglese(1), latino(2)  
Sottotitoli: Giapponese
Regia: Masahiro Shinoda
Soggetto: Sh
ūsaku Endō
Durata: 129 min
Musica: Tōru Takemitsu
Fotografia: Kazuo Miyagawa
Distribuzione: Toho
Interpreti e personaggi:    
    David Lampson: Padre Rodrigues
    Don Kenny: Padre Garrpe(3)
    Tetsuro: Tamba
    Shima Iwashita

(1) Sono in inglese (sottotitolati in giapponese) i dialoghi di Padre Rodrigo con Padre Garrpe, che a rigor di logica avrebbero dovuto essere in portoghese.
(2) Le formule in latino hanno una pronuncia che ricorda quella accademia inglese.
(3) Anche nel romanzo di End
ō si ha Garrpe, che poi Scorsese ha saggiamente mutato in Garupe. La forma Garrpe viola la fonotattica della lingua portoghese ed è possibile che alla sua origine ci sia un refuso ormai non identificabile, che Endō avrebbe propagato.

PRESTITI LATINI E PORTOGHESI NEL LINGUAGGIO DEI CRISTIANI GIAPPONESI

I prestiti latini e portoghesi giunti in Giappone tramite l'attività dei missionari della Chiesa Romana sono chiamati kirishitan: questa parola deriva direttamente dal portoghese cristão ed era il nome dato ai fedeli della nuova religione importata da Occidente. 

La lingua giapponese ha una fonotattica rigidissima. Il sillabario katakana, usato per trascrivere foneticamente i suoni della lingua, comprende le seguenti sillabe:

ア a     イ i     ウ u     エ e     オ o
カ ka   キ ki    ク ku   ケ ke  コ ko     キャ kya    キュ kyu     キョ kyo
サ sa    シ shi   ス su   セ se   ソ so     シャ sha     シュ shu     ショ sho
タ ta    チ chi   ツ tsu  テ te   ト to     チャ cha     チュ chu     チョ cho
ナ na   ニ ni    ヌ nu   ネ ne   ノ no     ニャ nya     ニュ nyu     ニョ nyo
ハ ha   ヒ hi    フ fu    ヘ he    ホ ho    ヒャ hya     ヒュ hyu     ヒョ hyo
マ ma  ミ mi   ム mu  メ me  モ mo   ミャ mya   ミュ myu     ミョ myo
ヤ ya       ユ yu      ヨ yo        

ラ ra   リ ri    ル ru    レ re   ロ ro     リャ rya     リュ ryu     リョ ryo 
 ワ wa  ヰ wi    ヱ we   ヲ wo 

ガ ga   ギ gi    グ gu    ゲ ge   ゴ go     ギャ gya     ギュ gyu     ギョ gyo
ザ za   ジ ji     ズ zu     ゼ ze   ゾ zo     ジャ ja     ジュ ju     ジョ jo
ダ da   ヂ (ji)   ヅ (zu)  デ de ド do     ヂャ (ja)     ヂュ (ju)     ヂョ (jo)
バ ba   ビ bi    ブ bu   ベ be   ボ bo     ビャ bya     ビュ byu     ビョ byo
パ pa   ピ pi    プ pu   ペ pe   ポ po     ピャ pya     ピュ pyu     ピョ pyo

Esiste un solo suono non sillabico, n, scritto col carattere ン, e in aggiunta esistono consonanti sillabe con consonante doppia, causate da antiche contrazioni. Allo stesso modo le vocali lunghe, marcate nella trascrizione in caratteri romani con un trattino sulla lettera, nelle parole native sono nate dalla contrazione di antichi iati.

Si vede quindi che per essere adottata, una parola latina o portoghese ha dovuto piegarsi ai vincoli imposti dalla lingua ospite. Questi sono i cambiamenti automatici delle sillabe per adattare un prestito:

di > ji
du > zu
fa > ha
fe > he
fi > hi
fo > ho
si > shi
 
ti > chi
tu > tsu

Non esistono in giapponese nessi consonantici come /tr/, /kr/, etc. Si inserisce quindi una vocale per rendere pronunciabili questi suoni. Questa vocale può dipendere dalla qualità della vocale che segue la liquida. Gli esiti possono essere complessi, nel caso siano coivolte sillabe impossibili, che subiscono in automatico i mutamenti descritti sopra:

tri > *tiri > chiri
tru > *turu > tsuru
 

Questo è un elenco di prestiti kirishitan dal latino ecclesiastico:

abemaria "Ave Maria" < Ave Maria
anima "anima" < anima
Deusu "Dio" < Deus
dochiriina "dottrina" < doctrina

ekereja
"chiesa"(1) < ecclesia
gur
ōria "gloria" < gloria
hiidesu
"fede" < fides
Iezusu, Iezu, Zezu
"Gesù" < Iesus
keredo "Credo" < Credo
kontemutsusu mundi
"disprezzo del mondo"
     < Contemptus Mundi
miisa
"messa" < missa
orasho "orazione, preghiera" < oratio
Pāteru nausuteru "Padre Nostro"(2) < Pater Noster
perusōna
"persona" < persona
sarube-rejiina "Salve Regina" < Salve Regina
supiritsu(su) "Spirito" < Spiritus

(1) Varianti: ekerejia, ekereshia.
(2)
Varianti: Paaternun
ōsuteru, Haaterunōsuteru.

Questo è un elenco di prestiti kirishitan dal portoghese:

anjo "angelo" < anjo
aruchiigo
"articolo"(3) < artigo
arutaru "altare" < altar
ba(p)uchizumo "battesimo" < baptismo
   (attuale batismo)
bateren "prete" < padre "padre"
bensan "benedizione" < benç
ão
biruzen "vergine" < virgem
bisupo "vescovo" < bispo
chishipirina
"disciplina" < disciplina
Deusu Hiriyo
"Dio Figlio" < Deos Filho
Deusu Paatere "Dio Padre"(4) < Deos Padre
domingo
"domenica" < domingo
esukiritsuura
"scrittura" < escritura
eukarisucha
"eucarestia" < eucaristia
garasa
"grazia" < graça
inheruno "inferno" < inferno 
iruman "frate" < irm
ão "fratello"
jūizo "giudizio" < juizo
karisu
"calice" < calis
katekizumo "catechismo" < catequismo
    (attuale catecismo)
kinta
"giovedì" < quinta (feira)
kirishitan "cristiano" < cristão
Kirisuto "Cristo"(5) < Cristo
konchirisan
"pentimento" < contriç
ão
konhes
ōru "confessore" < confessôr
konhisan "confessione" < confissão
kurusu
"croce" < cruz
kuwarezuma
"quaresima" < quaresma
kuwaruta
"mercoledì" < quarta (feira)
mandamento
"comandamento" < mandamento
mandamentosu
"comandamenti" < mandamentos
maruchiru "martire" < mártir
morutaru "mortale"
(6) < mortal
nataru "Natale" < Natal
osucha, osuchia "ostia" < hóstia
pan "pane eucaristico" < p
ã
paraiso
"Paradiso" < Paraiso
pashon
"passione" < pax
ã (attuale paixão)
pasukuwa
"Pasqua" < Páscoa
pekadoru
"peccatore" < pecador
penitenshia
"penitenza" < penitencia
poroshimo
"prossimo" < pr
óximo
Purugat
ōrio "Purgatorio" < Purgatorio
rozario "rosario" < rosario
sabato
"sabato" < sabbado

sakaramento "sacramento" < sacramento
sakirirejo
"sacrilegio" < sacrilegio
Sanchiishima Chirindaade
"Santissima Trinità"
       < Santíssima Trindade
Santa Maria
"Santa Maria" < Santa Maria
santo "santo" < santo
santosu "santi" < Santos
saserud
ōte "sacerdote" < sacerdote
sekunda
"lunedì" < secunda (feira)
sesuta
"venerdì" < sexta (feira)
supiritsuaru "spirituale" < spiritual
terusha
"martedì" < tercia (feira)
zejun
"digiuno" < jejum
zencho
, zenchiyo "pagano" < gentio

(3) Hiidesu no aruchiigo "articolo di fede".
(4) Forme come Paatere e bateren sono adattamenti diversi della stessa parola, che hanno avuto origine da persone diverse in occasioni diverse. 
(5) Nei testi più antichi si trova Kirishito.
(6) Nanatsu no morutaru toga "i sette peccati mortali".

Dopo la repressione della rivolta di Shimabara, il Cristianesimo smise di avere un'esistenza visibile e divenne catacombale. I suoi fedeli furono conosciuti come Kakure Kirishitan, ossia "Cristiani nascosti". Non esistendo più il clero, la loro religione subì interessanti cambiamenti. Per sopravvivere furono costretti ad adottare le forme esteriori del Buddhismo e dello Shintoismo, cosa che presto influenzò in modo profondo le loro stesse credenze.

Molti dei prestiti latini e portoghesi sopra riportati caddero in disuso. Alcune forme odierne attestate tra i Kakure Kirishitan superstiti sono ancor più stravaganti. Ad esempio, bauchizumo "battesimo" nelle comunità della Prefettura di Nagasaki si è alterato fino ad arrivare a suonare bautsurujima, interpretato con falsa etimologia come "isola che cambia i luoghi". In modo ancor più strano, Paxã (attuale Paixão) "Passione", si è alterato fino a diventare hassen, intrpretato con falsa etimologia come "ottomila". A volte si ha soltanto una vaga idea dell'origine di una parola: Eucaristia è diventato addirittura hachinichi-no-shichiya, interpretato con falsa etimologia come "settima notte dell'ottavo giorno". La parola anjo "angelo" si è mantenuta quasi immutata foneticamente, ma ha assunto un diverso significato, finendo con l'essere scritto coi caratteri che significano "luogo di eremitaggio".

Per approfondimenti rimando al lavoro di Miyazaki Kentaro, consultabile alla seguente pagina: 

lunedì 15 gennaio 2018

DA PERSECUTORI A PERSEGUITATI


LO SHOGUN TOKUGAWA IEYASU
E LA FINE DEL SECOLO CRISTIANO
DEL GIAPPONE

Nel XVI secolo il Giappone conobbe uno dei periodi più turbolenti della sua storia millenaria. L'Imperatore non aveva più alcun potere e il paese era teatro di sanguinose lotte tra i signori feudali, i Daimyō. Il feudalesimo giapponese era sorto da condizioni molto diverse da quelle che avevano portato all'analoga istituzione in Occidente, e aveva causato una frammentazione del potere. 

In questo scenario di devastazione e di lotte fratricide, il Cristianesimo approdò nel Paese del Sol Levante. Era il 1549 quando Francesco Saverio, braccio destro di Ignazio di Loyola, sbarcò nel porto di Kagoshima, nell'isola di Kyūshū. Se gli inizi furono difficili per i missionari gesuiti a causa della lingua, una volta consolidata la loro presenza il successo della nuova religione fu travolgente. Le conversioni si moltiplicavano anno dopo anno, e molti Daimyō abbracciarono la nuova fede. L'isola di Kyūshū cambiò al punto che la città di Nagasaki divenne quasi interamente cristiana. In una simile terra di conquista, diversi ordini religiosi si stabilirono dopo i Gesuiti, facendosi concorrenza in modo non sempre leale: ferveva l'attività di Domenicani, Francescani ed Agostiniani.


I mercanti spagnoli e portoghesi portarono ricchezza e persino traffico di schiavi. Ebbe inizio un'epoca di interscambi. Alcuni feudatari consideravano persino l'idea di impiantare ambasciate stabili in Spagna, in America Latina e a Roma. Grande era l'interesse per il Messico e il flusso di ricchezze che ne proveniva, e furono compiuti viaggi transoceanici. La situazione di tolleranza religiosa e di benessere non poteva però durare a lungo. La pretesa universalista del Cristianesimo dei missionari si scontrava con una mentalità tendenzialmente sincretista. Nel processo di evangelizzazione emersero gravi tensioni dovute non solo all'attrito tra gli ordini ecclesiastici e i locali monaci buddhisti e shintoisti, ma anche a episodi di coercizione. Diversi Daimyō convertiti alla nuova religione iniziarono a perseguitare i bonzi, e anche da parte del popolo in gran parte convertito non erano rare azioni violente. Molti cominciarono a diventare scettici notando le aspre rivalità tra i diversi ordini. 


È impossibile condensare i molteplici dettagli dei convulsi eventi di quei decenni, data la grande complessità della società giapponese dell'epoca e dei rapporti tra i vari clan aristocratici. L'adozione delle armi da fuoco aveva segnato un inasprimento dei conflitti, e finì col determinare l'emergere dei più potenti feudatari, che avviarono il processo di unificazione politica. Tre di loro rimasero: Oda Nobunaga, Hideyoshi Toyotomi e Tokugawa Ieyasu. Questi nobiluomini erano molto diversi per origine e carattere.

Oda Nobunaga era affascinato dalla cultura occidentale. Possedeva collezioni di armature, armi e opere d'arte importate dall'Europa con immenso dispendio e fu il primo giapponese a vestirsi come un europeo. Pur non convertendosi, favorì i Gesuiti, e durante il suo governo fu edificata la prima chiesa cattolica su suolo nipponico.

Alla sua morte gli succedette Hideyoshi Toyotomi, che non vedeva di buon occhio la fede dei missionari. Il clima diventò sempre più ostile ai Cristiani, al punto che ci furono le prime esecuzioni. Un cristiano di nobile origine, Paolo Miki, fu torturato e inchiodato sulla croce nel 1596 assieme a 25 suoi compagni giunti sul luogo dell'esecuzione stremati da trenta giorni di marcia ininterrotta. A tutti era stato amputato l'orecchio sinistro in segno d'infamia. Queste crocifissioni non ebbero l'effetto sperato, anzi crearono un sentito culto dei martiri. Sentendo prossima la fine, Hideyoshi nominò cinque reggenti, di cui uno era Tokugawa Ieyasu


Alla morte di Hideyoshi, nel 1598, divampò la guerra tra le fazioni capeggiate dei reggenti, finché il clan Tokugawa acquisì sempre più potere. Nel 1600 Ieyasu vinse la battaglia di Sekigahara, abbatté ogni oppositore e tre anni più tardi gli venne concesso il titolo di Shogun. Il nuovo padrone del Giappone aveva sessant'anni e passò il resto della sua vita a creare e a consolidare una nuova struttura statale che da lui prese il nome di Shogunato Tokugawa. Spostò la capitale da Kyoto a Edo, l'attuale Tokyo. Le riforme sociali iniziate dal predecessore furono portate a compimento: fu sancita una rigida separazione in classi, con permesso ai soli samurai di portare armi.

Tokugawa Ieyasu era una sintesi di tutte le doti che fanno un condottiero eccezionale. Ardimento e prudenza, qualità la cui coesistenza può sembrare paradossale, in lui si fondevano. Partecipò a ben novanta battaglie e riuscì ad assicurare al Giappone istituzioni stabili e un periodo di più di duecento anni di pace.

Oltre all'intelligenza e all'istruzione, aveva una grande lungimiranza che gli permise di compiere scelte assennate nelle strategie e nella gestione dei giochi di alleanze. Conosceva la cultura e la storia europea, come provato dalle sue corrispondenze, ma salta agli occhi la differenza tra la sua lucidità e l'ingenuo ottimismo di Nobunaga. La percezione del pericolo in cui si trovava il Giappone divenne a un certo punto netta. Non dimentichiamoci comunque che proprio all'epoca in cui lo Shogunato Tokugawa veniva fondato, l'Europa era dilaniata da conflitti e vi imperversava l'Inquisizione.


Agnostico, Ieyasu pensava che nessuna religione dovesse interferire con il funzionamento dello Stato, e le guardava tutte con sospetto. Tollerava unicamente quelle che potevano essere usate come strumenti per assicurare il buon governo. All'inizio pensò che i nuovi venuti potessero contrastare lo strapotere di un clero buddhista decadente e corrotto, ma i gravi disordini fomentati dai preti e dai frati lo convinsero che il Cristianesimo fosse malvagio e assimilabile alla pazzia. Maturò anche la certezza che dietro l'evangelizzazione si nascondesse un complotto volto a gettare il Giappone in balia della Spagna e del Portogallo, riducendolo a una terra schiava e senz'anima come era accaduto alle Filippine e al Messico. Così scrisse: "La masnada cristiana è venuta nel Giappone non solo per mandarvi le sue navi da commercio a scambiare delle merci, ma anche per diffondervi una cattiva legge e sovvertire la retta dottrina, mirando a mutare il governo dello Stato per poter così prendere il possesso del Paese. È questo il seme di grandi discordie e deve essere distrutto". 

Alcuni storici ritengono che dietro il suo cambiamento si celassero elementi inglesi e olandesi, quindi protestanti, che lo avrebbero in un qualche modo influenzato mettendo in cattiva luce gli ecclesiastici cattolici. È tuttavia più probabile che il vero motore del cambiamento dei tempi fosse il dotto neo-confuciano Hayashi Razan, che odiava in modo feroce e irriducibile la religione cristiana. 

L'Editto del 1614 proibiva il Cristianesimo e decretava l'immediata espulsione di tutti i preti e i frati operanti su suolo giapponese. Stabiliva altresì la morte per tortura a chiunque non abiurasse la sua fede, europeo o nativo che fosse. Si parla poco dell'effetto che sortì questa legge nell'immediato, ma di certo moltissimi cristiani furono trucidati senza esitazione, bruciati sul rogo a fuoco lento, trafitti da canne, smembrati pezzo per pezzo. Ieyasu era ben consapevole di come il martirio fosse altamente considerato dai perseguitati, e di certo riteneva inefficienti i sistemi repressivi di Toyotomi, in quanto concedevano ai Cristiani quanto desideravano mutando ogni sconfitta in vittoria. Per questo motivo era indispensabile indurre a rinnegare Cristo con ogni mezzo concepibile, non importa quanto crudele.


I cadaveri non erano normalmente seppelliti, perché non doveva essere permessa l'esistenza di reliquie di sorta. Venivano invece fatti a pezzi e le membra interrate a grande distanza, oppure bruciati per far sì che le ceneri potessero essere disperse in mare. La motivazione ufficiale era sarcastica: "ridurre i rischi di resurrezione". Ogni pressione psicologica era coltivata con raffinata perversione, e cominciò il costume di costringere i sospetti a calpestare immagini sacre. In accordo con le rigide divisioni sociali, i nobili convertiti venivano trattati meglio dei popolani: potevano scegliere tra l'esilio e il seppuku. Moltissimi fuggirono nelle Filippine, dove loro lontani discendenti vivono ancora e sono chiamati Mestizos. L'unico vescovo del Giappone scomparve proprio nell'anno dell'Editto, e per questo nessuno poté più consacrare preti e frati.

Ieyasu morì due soli anni dopo, nel 1616, ma il potere passò al figlio Hitedata, ancor più determinato. A questi successe Iemitsu, che di certo era ritenuto dalla Chiesa di Roma un demone. Sotto il suo dominio, verso gli anni '30 del secolo, era operativa una vera e propria Inquisizione contro i Cristiani, che dovevano essere sterminati completamente senza distinzione di sesso, età o condizione sociale. Razan continuava la sua opera di ideologo dello Shogunato. Le torture avevano in breve raggiunto una perfezione tecnica che neppure nel XX secolo sarebbe stata superata. Getti d'acqua in velocità studiati per dilaniare lo stomaco e provocare riflussi di sangue dalla bocca e dal naso, strumenti acuminati di ferro per scavare sotto le unghie e i polpastrelli rendendo ogni attimo un inferno. In particolare era molto usato un supplizio chiamato ana-tsurushi, la tortura del pozzo. Il condannato veniva calato a testa in giù in un pozzo riempito per metà di escrementi e di altre sozzure. Era sospeso su una lurida superficie di sterco, orina, sputi, vomito, e con la testa lambiva il liquame. I miasmi lo soffocavano ma non lo facevano morire subito: i più resistenti potevano durare in quell'oscena agonia anche più di una settimana. Un piccolo taglio sulla fronte o dietro un orecchio gli faceva perdere il sangue goccia a goccia. I Domenicani, che erano particolarmente numerosi nella clandestinità, furono tutti intercettati dai Ninja e sparirono uno dopo l'altro nei pozzi fecali, il loro sangue disperso nelle cloache. Nel 1933 il Padre Provinciale dei Gesuiti Cristóvão Ferreira fu calato nel pozzo, e non si può certo definire eroico il suo comportamento: dopo neanche sei ore di supplizio abiurò. Collaborò attivamente con le autorità, tradendo molti dei suoi vecchi compagni e facendoli mandare a morte.


Nel 1637 scoppiò una rivolta nell'isola di Kyūshū, causata dall'eccessiva tassazione che gravava sui contadini. Essa raccolse il consenso di un gran numero di Cristiani, che in quei distretti erano ancora numerosi. I ribelli si asserragliarono nel castello di Shimabara sotto la guida di Masuda Shirō, che assunse il nome cristiano di Jerome. Per sedare l'insurrezione lo Shogunato consumò molte vite umane e risorse. Quando alla fine gli assedianti riuscirono a prevalere, constatarono che i ribelli avevano decapitato decine di statue buddhiste. Così li uccisero tutti decapitandoli, formando una collina con migliaia di teste recise. Le leggi anticristiane divennero ancora più severe e sistematiche, al punto che ogni giapponese doveva dimostrare di non appartenere al culto proibito calpestando un crocifisso una volta all'anno sotto gli occhi dei funzionari. Queste disposizioni vennero abolite soltanto nel 1873.

mercoledì 10 gennaio 2018

ECHI DEL BUDDHISMO IN OCCIDENTE


I SANTI BARLAAM E IOSAFAT:
BUDDHA NEL MARTIROLOGIO ROMANO

Tra gli innumerevoli testi che contribuirono a formare l'immaginario collettivo medievale ne esiste uno che ha origini più lontane di quanto non sospettassero i suoi lettori: il Romanzo di Barlaam e Iosafat. La storia è ambientata nel III o nel VI secolo nella remota India, dove il Re Abenner, pagano, perseguita con ferocia la Chiesa Cristiana fondata da San Tommaso durante il suo viaggio apostolico. Un indovino gli predice che il suo neonato figlio Iosafat è destinato a convertirsi al Cristianesimo e ad evangelizzare l'intero regno. Preso dall'orrore, Abenner decide allora di crescere il rampollo in un luogo isolato tra mille delizie, in modo che la vista degli orrori del mondo non possa mai spingerlo a meditare sulla morte e sul dolore. Tutte queste precauzioni risultano però vane: l'eremita Barlaam di Senaar riesce a raggiungere Iosafat nella sua prigione dalle sbarre dorate, e gli mostra che esistono malattia, vecchiaia e morte. Lo converte al Cristianesimo servendosi di riflessioni filosofiche e lo conduce con sé nel suo eremo. Saputo questo, il Re Abenner manda a Iosafat il mago Teuda perché lo perverta e lo corrompa, facendolo desistere dal suo insano proposito. Ma Iosafat riesce a convertire Teuda. Ritorna al Palazzo e converte anche il padre. Questi abdica subito in suo favore per ritirarsi nel deserto e vivere da anacoreta. Iosafat lascia a sua volta il potere per raggiungere il santo Barlaam nella sua cella.


Nel Romanzo è contenuta la descrizione poetica di una visione, la cui origine è fenicia. Un uomo, per fuggire da un terribile unicorno, cade in una fossa e si mette in salvo afferrando un albero, solo per accorgersi con orrore che le radici sono rosicchiate da una talpa bianca e da una nera. In fondo al baratro un immane dragone si prepara a divorarlo, e quattro serpi si muovono sul terreno. A questo punto l'uomo si accorge che l'albero secerne stille di miele che lo narcotizzano e gli fanno obliare l'amaro destino che lo attende. Distratto dall'ebbrezza, egli si scorda del pericolo mortale e precipita. L'unicorno è la Morte, la fossa il Mondo, l'albero è la Vita, le due talpe il Giorno e la Notte. Il dragone è l'Inferno, i serpenti sono i Quattro Elementi. Le gocce di miele sono i piaceri terreni, che impediscono al gaudente la percezione della morte.

La narrazione agiografica della vita di Barlaam e Iosafat era ritenuta opera di S. Giovanni Damasceno e fedele alla realtà storica. Nel secolo XIII le fu data immensa risonanza da un agiografo famoso: Jacopo da Varagine. Nella sua Legenda Aurea, egli raccoglie questa lontana tradizione divulgandola. Anche il suo contemporaneo Vincenzo di Beauvais ne parla in forma più estesa nel suo Speculum Historiae. Se ne trovano molte versioni in latino e in volgare, in prosa come in poesia. Si conosce persino una versione in lingua islandese del XV secolo. Il principe indiano e l'eremita di Senaar non furono mai formalmente canonizzati dalla Chiesa di Roma, ma risultano inclusi nelle versioni più antiche del martirologio romano, che fissava la loro festa il 27 novembre. La Chiesa Greca Ortodossa tuttora li venera (il nome Iosafat è riportato come Ioasaph), e li festeggia invece il 26 agosto.


Chiunque abbia anche una minima conoscenza di Buddhismo, rimarrà stupito dalla somiglianza tra la vicenda di Barlaam e Iosafat e la vita del Principe Siddhartha Gautama, più noto come il Buddha. Le analogie sono così numerose e profonde da non poter essere liquidate come coincidenza. Gli studiosi sono riusciti a provare questa origine e ad attribuire l'opera ritenuta in precedenza di Giovanni Damasceno a un monaco georgiano di nome Eutimio, che la scrisse nell'XI secolo. A sua volta Eutimio utilizzò come fonte scritti in arabo e in georgiano aventi come argomento proprio la vita del Buddha. Il nome che nei codici buddhisti è attribuito al Principe Gautama prima dell'Illuminazione è Bodhisattva, termine sanscrito che si corruppe in Bodisav, giungendo con questa forma nel territorio dell'attuale Afghanistan per poi entrare in persiano come Bodasif e in arabo come Budhasaf. Alcuni copisti arabi invece della lettura Budhasaf utilizzarono Yudasaf per via di un errore di trascrizione: la lettera che rappresenta la b- se scritta on un puntino sottostante, diventa invece la y- se scritta con due. Così Yudhasaf passò in georgiano come Iodasaph (X secolo) per diventare infine Ioasaph, Iosafat.

La fonte ultima è un testo usato dai Manichei che in seguito passò ad ambienti islamici con il titolo di Kitab Bilawhar wa-Yudasaf (ossia Libro di Bilawhar e Yudasaf), diffuso a Baghdad nell'VIII secolo.

domenica 7 gennaio 2018


I RE DI TARTESSO E LA NASCITA
DELL'INGIUSTIZIA SOCIALE

Forse non tutti sanno di quale terra gloriosa era figlio il grande filosofo stoico Seneca. La Turdetania, parte della Betica, ora nota come Andalusia, era stata un tempo la sede di una civiltà millenaria che purtroppo ci ha lasciato poche vestigia. Tartesso ne era il centro culturale e politico, quella stessa città rifulgente di ricchezze di ogni sorta che è citata anche nell'Antico Testamento con il nome di Tarshish: gli antichi Israeliti vi giungevano per fare commercio e ne importavano beni di lusso, soprattutto metalli come l'argento, lo stagno e il piombo. Nell'antichità le genti della Spagna si dividevano in molti popoli dalle lingue diverse: c'erano i Celtiberi, che parlavano un idioma di tipo celtico, i Lusitani, che avevano una lingua indoeuropea preceltica, i Vasconi e gli Aquitani, il cui idioma era l'antenato dell'odierno Basco, oltre naturalmente agli Iberi, la cui lingua non indoeuropera era diversa dal Basco e tuttora quasi del tutto incomprensibile(1). I Tartessi erano più antichi di tutti questi popoli, e già nel secolo VI a.C. erano probabilmente già scomparsi come entità etnica. Non erano Indoeuropei ed erano già stanziati in loco molto prima dell'arrivo degli Iberi(2). Nessuno ha mai potuto capire la loro lingua, anche se sono state ritrovate molte iscrizioni(3). La sola cosa che si sa con una certa probabilità è che BARE NABE KEENTI dovrebbe significare "in questa tomba giace"(4). Gli Autori ci dicono che in quel centro commerciale della Turdetania fossero custodite tavole che riportavano leggi vecchie di ben settemila anni. Esistevano anche cronache storiche che parlavano degli antichi regnanti. Quel poco che possiamo conoscere sull'argomento va sotto il nome di Mitologia Tartessa.

È riportato che dopo la sconfitta dei Titani regnava su Tartesso il grande Gargoris(5) della stirpe dei Cureti, detti anche Cuneti, inventore dell'apicoltura. Egli diede all'umanità due immensi doni: la dolcezza del miele e l'ebbrezza dell'idromele che se ne imparò a ricavare. Il suo nome potrebbe essere in qualche modo collegato con quello di Gerione, che gli Autori ritengono il capostipite dei Tartessi.
Questo ci dice Giustino (II d.c.):
"Saltus vero Tartessiorum, in quibus Titanas bellum adversus Deos
genisse proditur, incolere Curetes, quorum rex vetustissimus Gargoris mellis colligendi usus primus invenit", ovvero "Nei boschi dei Tartessi, nei quali i Titani osarono muovere guerra agli Dei, abitavano i Cureti, il cui re antichissimo, Gargoris, per primo scoprì il modo di raccogliere il miele."
Si dice che il sovrano fece la sua scoperta in un modo molto strano: rinvenne dei
ricchissimi favi prodotti da api che avevano nidificato nella carcassa putrescente di un bue. Questo fatto è denso di significati simbolici, in quanto il migliore tra gli alimenti era ricondotto nella sua formazione a un processo di sfacelo nel corpo di un animale che era ritenuto sacro.

Il successore di Gargoris si chiamava Habis. A cominciare dalla definizione della parentela di questa stirpe vi sono stranezze non trascurabili: non ci si deve stupire se qualcuno definisce Gargoris padre di Habis e qualcun altro afferma che fosse suo nonno, perché egli era entrambe le cose. In altre parole, Gargoris aveva concupito carnalmente sua figlia e l'aveva ingravidata, cosicché era sia padre che nonno del bambino. Le cose andarono così, a quanto ci viene riferito. Una volta che Gargoris capì che sua figlia era incinta di un suo figlio, fu colto da un'immensa vergogna e la fece rinchiudere in un recesso appartato. Quando partorì, un uomo forte prese il bambino e lo portò al nonno-padre, che subito decise di metterlo a morte. Così ordinò che fosse abbandonato alle fiere perché lo sbranassero, ma quando mandò un servo per controllare trovò che il bambino godeva di ottima salute. Gli animali selvatici lo avevano nutrito con il loro latte. Allora lo fece gettare su una via di transito dei buoi affinché lo calpestassero e lo riducessero in poltiglia. Con grande stupore le bestie lo evitarono con cura, deviando dal loro cammino.
A questo punto Gargoris stabilì che il bambino fosse gettato ai cani,
che di certo l'avrebbero sbranato. Invece non accadde nulla. Era come se il piccolo fosse protetto da forze soprannaturali che impedivano alle fiere di nuocergli. Man mano che questi strani fatti accadevano, l'ira del sovrano cresceva e il suo cuore si colmava di crudeltà. Così decretò che lo scomodo infante fosse fatto dato in pasto ai maiali. Tuttavia ancora una volta si salvò, come Daniele nella fossa dei leoni. Neppure la precipitazione in mare da un burrone sortì gli effetti sperati: il figlio-nipote di Gargoris galleggiava allegramente come una barchetta. Alla fine fu lasciato nella foresta, in mezzo agli animali selvaggi. Non dovette faticare troppo a sopravvivere, perché una cerva gli permetteva di poppare il latte dai suoi capezzoli. In questo modo il giovane crebbe fino a diventare un ragazzo robusto. Un giorno i cacciatori di Gargoris lo videro e lo catturarono con una rete. Lo portarono nella reggia come dono. Quando Gargoris lo vide, riconobbe sul suo corpo i segni della regalità, verosimilmente dei tatuaggi che gli erano stati fatti poco dopo la nascita. Così, preso dai sensi di colpa per le persecuzioni terribili che gli aveva ingiustamente inflitto, si decise alla fine ad accoglierlo come proprio figlio. Lo chiamò Habis (Habidis secondo altri testi), nome il cui significato tramandato è "Colui che si è perso"(6). Habis imparò a parlare e quando il nonno-padre morì ebbe il Regno di Tartesso per sé.
La sua grandezza, è riportato, fu tale che tutti seppero per certo che
egli era stato salvato da un'infinità di pericoli per poter regnare per volontà degli Dei. Egli portò alle genti sottoposte al suo dominio doni molto innovativi.
Legando due buoi a un ramo adunco, inventò quasi per caso l'aratro,
seguendo una strana fantasia ispiratagli da chissà quali potenze soprannaturali. Con l'aratro venne quindi l'agricoltura, che permise alle genti di avere nuove fonti di cibo e di moltiplicarsi. Inventò le leggi e con esse sottomise i popoli, codificando ogni minimo dettaglio delle vite dei singoli. Stabilì che ognuno dovesse rifiutare la caccia e nutrirsi unicamente dei frutti dei campi, in odio verso gli stenti che egli stesso era stato costretto a subire quando viveva come un selvaggio. Con queste innovazioni introdusse anche ogni sorta di iniquità. Impose così le distinzioni tra classi sociali, decretando che i nobili dovessero essere mantenuti dal lavoro duro e servile di masse di schiavi afflitti senza possibilità di miglioramento sociale.
È spesso menzionata un'opera su questi due remoti sovrani, detta
Tragicommedia di Gargoris e Habis(7), il cui autore non è però specificato; non solo non si riesce a trovare alcun riferimento valido, ma tutto sembra far pensare che il testo sia andato perduto. Pare che si trattasse di una satira caustica del sistema di vita predatorio delle classi alte che sarebbe di certo piaciuta a Mikhail Bakunin e a Karl Marx. 

A parte le notevoli inconsistenze del mito di Gargoris e Habis, che dovrebbero saltare subito all'occhio (come l'uso dei buoi prima dell'aratro), il racconto insiste su un aspetto non da poco: la connessione di causa-effetto tra la scoperta dell'agricoltura e l'introduzione della diseguaglianza sociale nel mondo. Molti studiosi sono concordi sulla sostanziale democrazia paleolitica, che conosceva soltanto capi concepiti come primi inter pares. La necessità di cacciare per sopravvivere rendeva preziosi il contributo di tutti, e si sa per certo che già tra gli uomini di Neanderthal gli invalidi, i malati e gli anziani erano curati. Con la possibilità di ottenere una migliore nutrizione e accumulare eccedenze, molte cose sono cambiate in modo radicale: han fatto la loro comparsa la tirannia, la proprietà terriera, il lavoro servile e insostenibile, lo sfruttamento, la gonorrea, la carie. Mentre la leggenda tartessa ha come protagonisti di questi mutamenti due sovrani maschi, sembra che nella realtà la Rivoluzione Neolitica sia stata causata e portata avanti dalle donne. Le società del Neolitico erano a privilegio femminile. Mi scuso se semplifico un po' troppo un problema davvero complesso, ma la cosa ha un suo fondamento logico. La donna ha scoperto la semina, ha osservato a lungo come pianticelle utili germogliassero dai rifiuti e potessero essere coltivate. La donna ha spinto l'uomo a ottenere una posizione sociale migliore. La sua spietata ambizione opera sempre e rende la vita come un dente cariato. Il motore di tutto ciò è il più banale che si possa immaginare: la chiusura delle cosce femminili in caso di rifiuto del maschio a cooperare. Si possono fare alcuni esempi significativi. Con l'agricoltura è nato il concetto di prestito. "Queste piantine ci danno il cibo", disse la donna all'uomo, "Non devi perdere il tuo tempo ad andare a caccia, devi vivere con gli occhi sempre rivolti al suolo e con la schiena curva": era nato il lavoro. L'uomo, ingenuo, prestava le sementi ai vicini, accontentandosi di avere in cambio una parte del raccolto, finché la donna gli disse che doveva chiedere più dell'intero raccolto: era nata l'usura. "Devi avere di più e lottare per ottenere ciò che ti chiedo, o non avrai da me cosa che ti piaccia", disse la donna all'uomo: era nata l'avidità, era nato il ricatto. Una volta realizzato questo stato di cose, divenne naturale, divenne ineluttabile: ogni tentativo di vivere al di fuori della società sarebbe stato sempre più inaccessibile. Un sistema fatto apposta per far sì che chi si ribella non possa procacciarsi cibo sufficiente, deperisca e finisca così col morire ed essere dimenticato. Ci avrebbe pensato il Potere della Vagina a rendere eterne queste sofferenze, a permettere il trasmettersi del regno, della dominazione e della schiavitù. Un carissimo amico mi ricorda sempre che le donne stesse sono vittime di questi perversi meccanismi di iniquità, ma ciò non cambia la sostanza delle cose. Ogni piaga sociale ha la sua origine ultima nell'accoppiamento, nell'unione tra i sessi. Il maschio coglione bramoso che cade vittima della femmina dispensatrice usuraia: ecco il motore del progresso. Lo stesso affermarsi del patriarcato non fu che una vendetta illusoria: l'essere che ha il potere di mettere al mondo figli ha il potere assoluto, e anche i più valorosi guerrieri furono servi della vulva. Nessun dubbio quindi che se pure Gargoris e Habis non furono semplici parti della fantasia al pari di Ercole e di Wotan, dovettero essere soltanto burattini di donne ambiziose e malvagie che i Tartessi hanno per buona decenza depennato dalle loro cronache.

(1) La lingua iberica è con ogni probabilità un lontano parente del basco, come provato dalle concordanze dei numerali - nonostante il parere di molti accademici politicizzati. (2) Le infiltrazioni celtiche dovettero essere importanti: il primo re storico di Tartesso fu Arganthonios (670 a.C. - 550 a.C.), il cui nome è eminentemente celtico (< arganto- "argento").
(3) In tutto i testi sono più di novanta; ci sono inoltre antroponimi non indoeuropei e non iberici incorporati in iscrizioni latine. Questi sono caratterizzati da una fonetica davvero bizzarra (es.
Candnil, Icstnis, Ildrons, Insghana).
(4) John T. Koch ha ipotizzato che le iscrizioni siano redatte in una lingua celtica con segni di evoluzione precoce. Le sue tesi sono tuttavia assai opinabili, come avremo modo di approfondire in altra sede. In ogni caso, è possibile che nelle iscrizioni sia presente materiale onomastico di origine celtica.  
(5) Per l'antropoonimo Gargoris è stata proposta un'etimologia celtica: deriverebbe da gargo- "feroce" e da -rīx "re". Resta il fatto che il vocalismo di -rīx sarebbe anacronistico. 
(6) Il nome è di chiara origine semitica, con ogni probabilità fenicia. La forma ricostruita è /Ɂa'bi:d/, si confronti l'ebraico 'ābēd "perduto". La stessa parola esisteva anche in punico, varietà tarda del fenicio, ma il dominio di Cartagine su Tartesso risale al 500 a.C. circa ed è dubbio che possa aver contribuito al formarsi del mito. 
(7) Marco Giuniano Giustino ci fa un riassunto dell'opera di Pompeo Trogo, sulle cui fonti ultime ben poco si può dire.

giovedì 4 gennaio 2018

L'USO DEL LONGOBARDO MORGINCAP NELLA PUGLIA DEL XIII SECOLO

Il carissimo amico Rocco Zunino mi ha trasmesso un testo altamente significativo e di grande importanza, tratto dal Codice diplomatico terlizzese e risalente al XIII secolo. Lo riporto nel seguito: 



[Anno incarnationis Christi millesimo ducentesimo quadragesimo tertio] Imperii vero domini nostri Frederici [invictissimi Romanorum imperatoris semper augusti anno vigesimo tertio] et regni eius Ierusalem anno octavodecimo, [regno vero Sicilie anno quadragesimo sexto] eiusdem indictionis prime, ego Caro-Iohannes in nomine Iesu Christi ut puella nomine Pasca filia Riccardi Iohannis de Troia iugum sacrassem tunc alio die nuptiarum nostrarum, ante amicos, vicinos et parentes [sedundum ritus] gentis nostre Longobardorum ostendi et tradidi tibi hoc scriptum morgincap subscripto domino iudico et ydoneis testibus roboratum, et per ipsum tradidi [ei, videlicet] quartam partem omnium rerum mearum stabilium et mobilium, tam earum quas nunc [abeo] ubicumque, quam et illarum quas in antea diebus vite mee undecumque et quandocumque [acquisiero]. [Ita ut ipsa quarta pars in tue et tuorum heredum ait dominio et potestate, et quicquid inde feceris vel iudicaveris, semper firmum et stabile permaneat. Et hoc morgincap scriptum semper firmum et stabile permaneat, quod Nicolaus Notarius meis precibus [scripsit] 
(Signum) 
   Roggerius imperialis Barensium iudex
   Nicollay propontini Benedictus notarius
 
Bisantius

Salta subito all'occhio l'uso della parola longobarda morgincap, letteralmente "dono del mattino", che nel diritto delle genti germaniche indicava per l'appunto il dono fatto dal marito alla sposa la mattina successiva alla prima notte di nozze, al fine di sancirne l'onorabilità davanti ai parenti. L'etimologia del composto è di una chiarezza cristallina: senza entrare troppo nei dettagli, dirò che ancor oggi in tedesco Morgen è il mattino e Gabe è il dono. In italiano esiste l'aggettivo morganatico, che ha la stessa identica origine e definisce un tipo di matrimonio in cui la seconda moglie di un nobile riceveva una donazione ed era esclusa assieme ai suoi eventuali figli da ogni pretesa sull'eredità e sulle sostanze del marito. 

L'amico che mi ha segnalato il documento del 1243 mi ha anche riferito di aver sottoposto la questione ad alcuni romanisti. Questi, pieni di spocchia e di accademica sicumera, hanno subito liquidato la cosa come "una semplice memoria tradizionale", aggiungendovi con tono sprezzante l'etichetta "nulla di speciale". Per loro l'intero mondo germanico è da dichiararsi "inesistente" in quanto "barbarico". Una semplice memoria tradizionale? Sarà, ma essa dista da Alboino come questi dista da Cristo e da Augusto. Se stendessimo una corda ponendo a un capo Cristo e all'altro il documento terlizzese, Alboino verrebbe a trovarsi all'incirca nel mezzo. Una cosa che deve dare da pensare e che non può essere liquidata tanto facilmente come "nulla di speciale". Evidentemente ancora nel XIII secolo esisteva la consapevolezza dell'esistenza della lingua dei Longobardi ed era possibile studiarla, anche se non sappiamo con quale dettaglio. Le tesi dei romanisti possono essere descritte in un solo modo, come disonestà intellettuale.

PROVE DELLA TARDA SOPRAVVIVENZA DELLA LINGUA LONGOBARDA: IL LATINO AGRAMMATICALE

Nel terzo tomo della sua opera Dissertazioni sopra le Antichità Italiane, Ludovico Antonio Muratori (1672 - 1750) riporta il testo di un'interessante iscrizione veronese del VIII secolo, commentandolo e aggiungendo informazioni di grande utilità. Questo è quanto scrisse: 

"Figuratevi un uomo di bassa sfera oggidì, il quale abbia un po' di tintura della Lingua Latina, e impari da' Predicatori e Letterati molte voci di quella, quando gli venga in capo di parlar Latino, parlerà senza fallo; ma un Latino pieno di Solecismi e Barbarismi, e vi mescolerà voci della Volgar sua Lingua; nè osserverà regola alcuna di casi, numeri, verbi, e nomi. Altrettanto fecero gli antichi Notai, benchè si abbia a credere, che studiassero alquanto di Latino. Cioè per esempio scrivevano: Anno Lotharii &c. & Domni filio ejus Regem in Italia, come apparirà da una Carta, che ho quì data alla luce. In una Lingua vivente non si può immaginare tanta deformità. Così in altra Carta dell'Anno 839. (vedi la Dissert. XIII.) si legge: Post pœna composita, hos libelli convenience in sua permaneat firmitate. Non è differente la sottoscrizione di una Carta pubblicata quì nella Dissertaz. XXI. Ego Radeberto Presbitero rogatus ad Aliberto Presbiter manu meo subscripsi. Voglio quì aggiungere un'Iscrizion Veronese, rapportata dal Panvinio, Moscardi, Ughelli, Francesco Bianchini, Fontanini, e ultimamente dal Chiarissimo Marchese Maffei nella Verona illustrata. Circa l’anno 725 fu essa incisa in marmo; ed ecco le sue parole, testimonj autentici dell’ignoranza di allora:"

X  IN N ΔNI IHV XPI DE DONIS
SCI IVHANNES
BAPTESTE EDI
FICATVS EST HANG
CIVORIVS SVB TEMPORE
DOMNO NOSTRO
LIOPRANDO REGE
ET VB PATERNO
DOMNICO EPISCOPO
ET COSTODES EIVS
VV VIDALIANO ET
TANCOL PRBRIS
ET RELOF GASTALDIO
GONDELME
INDIGNVS DIACONNVS SCRIPSI 

"Nell’altra parte del Marmo si legge:"

+ VRSVS MAGESTER
CVM DISCEPOLIS
SVIS IVVINTINO
ET IVVIANO EDI
FICAVET HANC
CIVORIVM
VERGONDVS
TEODOAL
FOSCARI

Analisi dell'iscrizione di Verona

Iscrizioni di questo tipo ci mostrano la genuina evoluzione della pronuncia dei suoni del latino nel protoromanzo, che ha influenzato la stessa lettura del latino ecclesiastico. Ad esempio /i/ breve è diventata /e/ chiusa in BAPTESTE e in MAGESTER; /u/ breve è diventata /o/ chiusa in DISCEPOLIS e in COSTODES; altre volte è /o/ a diventare /u/, quando è a contatto con /v/, dando IVVIANO; /b/ intervocalica è diventata una fricativa /v/, scritta con la lettera V, ad esempio in CIVORIVS; si è avuta lenizione di /t/ in /d/ in VIDALIANO e via discorrendo. Come vedremo nel seguito, il problema principale non è la pronuncia.  

Questi sono i vocaboli e gli antroponimi latini con caratteristiche evolutive o con ortografia non conforme:

IVHANNES: Iohannis (gen.)
BAPTESTE: Baptistae (gen.)
EDIFICATUS EST: aedificatus est
HANG: hanc (solecismo; Orti Manara legge
    HANC)
CIVORIVS: ciborius
DOMNO: domino (abl.)
COSTODES: custodes

DOMNICO: dominico (abl.)

VIDALIANO: Vitaliano (abl.)
DIACONNVS: diaconus (Orti Manara legge
   DIACONHVS) 
MAGESTER: magister
DISCEPOLIS: discipulis
IVVINTINO: Iuventino (abl.)
IVVIANO: Ioviano (abl.)
EDIFICAVET: aedificavit
CIVORIVM: ciborium
VERGONDVS: Verecundus 

Questo possiamo dire sugli antroponimi longobardi incorporati nel testo:

1) LIOPRANDO: sta chiaramente per LIUTPRAND, dal protogermanico *leuði- "gente" e *branda- "tizzone" (> poet. "spada").
2) TANCOL: dal protogermanico *θanka- "grazie".  

3) RELOF: è oscurissimo. Studiando il documento avevo ipotizzato una cattiva grafia per *REOLF, a sua volta da *REIOLF, *RAIOLF "Lupo dei Cadaveri", dal protogermanico *χraiwa- "cadavere" e *wulfa- "lupo". Leggendo un altro studio sull'iscrizione (Orti Manara, 1840), noto che il nome è invece riportato come REFOL, non meno problematico di RELOF. Anche Meyer legge REFOL, senza proporre un etimo, mentre Bruckner si astiene addirittura dal parlarne. Forse il Muratori ha effettuato una metatesi? 

4) GONDELME: sta per GONDELM, varianti GONDELMUS, CONTELMUS, GUNTELM, GUNTELMUS (cfr. Bruckner, 1895; Meyer, 1877), è chiaramente dal protogermanico *gunθi- "battaglia" e *χilma- "elmo"
5) TEODOAL: immagino che sia scritto male per THEODOALD, varianti THEODALD, TEUDOALD, TEUDALD, THEUDUALDUS, etc. (cfr. Bruckner), dal protogermanico *
θeuðō- "popolo" e *walda- "dominatore, principe". Alcuni propongono di leggere *TEODOALF, che non potrebbe spiegarsi in alcun modo. 
6) FOSCARI: formato col suffissoide -ARI, dal protogermanico *χarja- "esercito", essendo il primo membro del composto l'aggettivo latino fuscus "scuro". È un nome ibrido latino-germanico. Simili formazioni onomastiche, non esclusive dei Longobardi, saranno trattate in dettaglio in altra sede.

Si nota un vocabolo longobardo:

GASTALDIO "amministratore regio"

Queste sono le abbreviazioni usate:

IN N ΔNI: In Nomine Domini  
IHV XPI: Iesu Christi (gen.)
SCI
: Sancti (gen.)

VB
: Viro Beatissimo (abl.)
PATERN
O: secondo Orti Manara sta per *Pater Nostro, seppur con una discordanza. Altri hanno pensato alla forma declinata di un antroponimo Paternus
VV: Venerabilibus (abl. pl.)
PRBRIS, a prima vista forma oscurissima, sta semplicemente per PRESBYTERIS, come documentato anche altrove. 

Spiegazione del latino agrammaticale

Questo è il commento del Muratori, che mi sembra molto utile riportare:

"Non so figurarmi, che il Volgo, se avesse usato allora la Lingua Latina, fosse caduto in sì grosse deformità, come è il dire: edificatus est hanc Civorius &c. Così nella Dissert. XIV. rapportai le Note Cronologiche di varie Carte Lucchesi dall'Anno 736. fino al 742. Ivi fra l'altre si legge: Regnante piissimi Domno nostro Liutprand & Hilprand vir excellentissimis Regibus &c. In un'altra: Regnante Domnos nostros Liutprand & Helprand viri Rex excellentissimis Regibus &c. Se questa fosse stata la Lingua Popolare d'allora, non si sa vedere, come nello stesso tempo, e nella medesima Città, que' Notai fossero così discordi fra loro; perchè, come anche oggidì ne' più corrotti Dialetti della Lingua d'Italia si può scorgere, tutti adoperano il medesimo ordine e struttura di parole. Voglio quì aggiugnere due antichissimi Contratti, ricavati dal ricchissimo Archivio dell'Arcivescovato di Lucca. Nell'uno, scritto l'Anno 740. regnando il Re Ratchis, si legge una vendita fatta da Tanualdo Prete. Chiunque ben considera le sconcordanze del Latino di esse Carte, meco verrà a confessare, che quella non potea essere la Lingua del Popolo, perchè quasi nulla v'ha di Gramatica, di cui nondimeno dicemmo servirsi ogni Lingua vivente; e però avere i Notai, siccome forzati a valersi del Latino, fatto un guazzabuglio di quella Lingua colla Volgare, commettendo perciò tanti Solecismi e Barbarismi. Qualora il Popolo avesse comunemente parlato quel Latino corrotto, quale Lingua materna, confrontando insieme molte Carte di quel tempo, noi troveremmo fra esse una sensibile uniformità di parole, frasi, costruzione, terminazion di vocaboli &c. Venti Notai Milanesi, per esempio, de' nostri giorni, che scrivessero un Contratto nel Dialetto corrente in quella Città, non discorderebbono mai nella Gramatica, e sintassi di Lingua tale: laddove nelle antiche Carte i Notai niuna regola osservano di Gramatica, niuna uniformità nelle costruzioni e declinazioni de' verbi e nomi, eccettochè dove si servono de' Formolarj comuni a ciascuno, ricorrendo essi al Volgare, dove mancava loro provvision di Latino. Rilessioni tali quelle in fine sono, che mi fan credere, essere stata, mille anni sono, la lingua del volgo Italiano diversa dalla Latina." 

Ritengo che da quanto esposto sia ben evidente che il latino usato dai notai e dagli scribi dei Longobardi era per loro una sorta di corpo estraneo la cui grammatica era quasi inassimilabile. La presenza di stridenti discordanze non è tipica di una popolazione di lingua romanza, bensì di una popolazione di lingua germanica che non ha quasi alcun contatto con parlanti romanofoni. Possiamo affermare senza timore di smentita che nessun parlante di una forma di latino tardo o di protoromanzo avrebbe mai detto hanc ciborius o manu meo: non dimentichiamoci che all'epoca non esistevano i metallari. Resta però il fatto che proprio manu meo per il corretto manu mea potrebbe ricalcare in qualche modo una forma longobarda, che possiamo ricostruire come *ANDU MINU o *ANDO MINO, al caso strumentale. La parola per dire "mano" doveva essere femminile anche in longobardo, come in tutte le lingue germaniche che hanno conservato il genere. Negli aggettivi forti, l'antico alto tedesco e l'antico sassone non hanno una forma strumentale femminile attestata, ma se in longobardo fosse esistita una forma residuale uguale per i tre generi, si capirebbe all'istante l'origine del solecismo attestato negli archivi notarili.