mercoledì 4 aprile 2018


L'UNDICESIMO COMANDAMENTO

Autore: Lester Del Rey
Anno: 1962
Titolo originale: The Eleventh Commandment 
Lingua: Inglese
Tipologia narrativa: Romanzo
Genere: Fantascienza
Sottogenere: Fantascienza distopica, fantascienza
    postapocalittica, fantareligione, clerical SF,
    fantagenetica
Editore (Italia): Editrice Nord
Collana: Cosmo Oro  

Trama:

Siamo nel 2190. La popolazione terrestre fatica a riprendersi dalle spaventose conseguenze di una guerra nucleare. Boyd Jensen è un giovane citologo, allampanato e biondiccio, che arriva sulla Terra da Marte, ufficialmente per via di un programma di scambi culturali. In realtà si tratta di una motivazione posticcia: il ragazzo è stato espulso dalla società marziana, rigida fautrice dell'eugenetica, a causa delle imperfezioni riscontrate nel suo DNA. Subito si trova immerso nel contesto spaventoso di una tirannia teocratica, in cui il potere assoluto è detenuto dalla Chiesa Eclettica Americana. Nata da uno scisma della Chiesa Cattolica Romana, questa congrega religiosa ha imposto un feroce culto della fertilità: il suo fondatore, Bonaforte I, è arrivato ad istituire come centro della nuova dottrina l'undicesimo comandamento, quello di mettere al mondo il maggior numero possibile di figli. Le condizioni della popolazione sono spaventose: carestia, sozzura e morbi vi prevalgono rendendo l'esistenza intollerabile come un cancro alle ossa. Boyd non si trova a suo agio nella teocrazia della Chiesa Eclettica, essendo ateo come tutti i coloni marziani. Impossibilitato a tornare su Marte, cerca di combattere contro il dominio dei preti, sondando l'ambiente nella speranza di trovare oppositori. Chiaramente i suoi spazi di manovra sono molto limitati, dato che è costretto a muoversi in un contesto in cui la Repubblica Islamica dell'Iran sarebbe considerata tollerante. Nel suo lavoro cerca di darsi da fare per aiutare il prossimo, conducendo la sua ricerca in segreto. Attraversa varie peripezie. Si innamora della sua assistente. Viene accusato di produzione di droghe illegali, processato e sottoposto a tortura, finendo tuttavia presto liberato. A un certo punto entra in uno squallidissimo ghetto abitato da fedeli della Chiesa Romana perseguitata, soltanto per soprirvi pazzoidi millenaristi che sognano un'impossibile rivincita. Infine arriva a trovare una setta satanica denominata Stregoneria 2.0, che pratica in un sudicio scantinato orge grottesche quanto deprimenti. Alcuni adepti copulano more ferarum con donne brutte e vecchie, stando bene attenti a usare il vaso procreativo, tanto è il terrore della morale eclettica; altri fumano grandi quantità di erba, mentre l'officiante blatera di una gigantesca astronave partita da Saturno e guidata da Lucifero, diretta verso la Terra - certo una reminiscenza del mito di Nibiru. Queste esperienze convincono il giovane Boyd dell'impossibilità di opporsi alla Chiesa Eclettica: il potere religioso è troppo potente e capillare per essere sfidato, oltre al fatto che i potenziali oppositori sono di una pochezza intellettuale e umana assoluta. A un certo punto sarà proprio il pontefice eclettico, Bonaforte VII, a spiegare al colono marziano cose che non avrebbe mai immaginato e che lo porteranno a un'inattesa conversione: il genere umano è talmente degenerato a causa di mutazioni genetiche infauste, da rendersi necessario per la sua sopravvivenza un numero illimitato di nascite, nella speranza che possa nascere qualche individuo sano in grado di rigenerare la specie. Non soltanto Boyd smetterà ogni tentativo di contrastare la Chiesa Eclettica, ma si getterà addirittura a capofitto in un crociata bandita da un eremita cieco e folle contro le popolazioni pagane dell'Asia.

Recensione:

Leggendo la presente opera di Lester del Rey si ha l'impressione di essere calati nell'orrido e affollato mondo postatomico in cui imperversa la Chiesa Eclettica Americana. Le descrizioni sono tali da far sentire tutta la miseria di quell'inferno brulicante, fin nei minimi particolari del sudiciume corporeo dei singoli dannati costretti a viverci - posto che quella possa essere chiamata "vita". Il romanzo è stato da molti ritenuto una critica caustica alla politiche demografiche della Chiesa Romana, notoriamente fondate sull'esercizio senza limiti della fecondità umana e aventi come fine ultimo l'accrescimento esponenziale della popolazione. Queste dottrine embriolatriche hanno conosciuto la loro massima diffusione sotto il pontificato del tonitruante Karol Wojtyla, ma L'undicesimo comandamento ha visto la luce nel 1962, verso la fine del pontificato di Giovanni XXIII; soltanto l'anno successivo sarebbe salito al soglio pontificio Paolo VI, anodino e uranista. In realtà, quello che vediamo è un repentino cambiamento, una discontinuità nel tessuto del romanzo, in cui dalla critica della procreazione illimitata si passa quasi senza soluzione di continuità alla sua affermazione fanatica. Difficile interpretare una simile anomalia, che di certo renderà l'opera di Lester del Rey molto indigesta agli adepti dell'UAAR (Unione Atei Agnostici Razionalisti). Lo scrittore spiazza tutti. Prima descrive l'Inferno sulla Terra, poi si arrende al suo potere, lo propugna come l'unica salvezza per il genere umano piagato e terminale. Il protagonista, giunto dall'esterno, da una società asettica, si ritrova a cercare di stare a galla in un oceano di sterco, e alla fine smette di dare bracciate, fa il morto e si lascia portare dalla corrente fecale. Arriviamo così alla conclusione che l'autore è riuscito a farsi malvolere tanto dai papisti che dai materialisti, proprio perché l'intuizione alla base de L'undicesimo comandamento non può essere inscritta in categorie comprensibili. Non c'è nulla che riesca riconoscibile a colpo d'occhio dai religiosi e dagli atei. Sappiamo che Lester del Rey non ha mai amato le interpretazioni degli scritti propri ed altrui. Si racconta a questo proposito un singolare aneddoto. Sfidato da Damon Knight ad interpretare un racconto del clericale James Blish, Common Time, in cui la critica vedeva la descrizione di un atto sessuale, rispose che per lui si parlava soltanto di un uomo nell'atto di ingurgitare un sandwich. Detto questo, con un po' di pazienza è possibile comunque dedurre qualcosa di interessante.

Alcune note biografiche e qualcosa d'inatteso...  

A quanto si riporta, Lester del Rey è lo pseudonimo di Ramon Felipe San Juan Mario Silvio Enrico Smith Heathcourt-Brace Sierra y Alvarez Del Rey y De Los Huerdes (altre fonti riportano la variante Uerdes, altre ancora Verdes). Sembra tuttavia che alla nascita egli si chiamasse Leonard Knapp - almeno, questo è quanto ha dichiarato sua sorella. Secondo Lawrence Watt-Evans, il suo vero nome sarebbe stato Leonard Stamm. A quanto pare, queste agnizioni sono ben lungi dall'essere certe. Cosa curiosa, il nome della sorella non salta fuori neanche frugando da cima a fondo il Web. Del resto lo scrittore amava la confusione: nel corso della sua carriera ha utilizzato un gran numero di pseudonimi, tra i quali John Alvarez, Marion Henry, Philip James, Philip St. John, Charles Satterfield, Erik van Lhin, Kenneth Wright e via discorrendo. Nacque a Saratoga nel 1915 ed ebbe un'infanzia terribile, segnata da una grande povertà e denutrizione, con annessi problemi di salute. Molti sono i punti oscuri sulle sue origini e sulla sua biografia, tanto che sono state notate diverse contraddizioni in ogni resoconto. Sembra quasi che egli volesse nascondere qualcosa. Si potrebbe ipotizzare che egli provenisse da un ambiente in cui le dottrine marxiste erano molto popolari. Parlo del contesto degli esclusi, di coloro che erano stati schiantati dal Moloch del Sogno Americano e costretti a vegetare ai margini della società. Non potevano essere insensibili al messianismo comunista. Nonostante il regime descritto da L'undicesimo comandamento abbia il tipico aspetto di una teocrazia, è possibile che nasconda la dittatura del proletariato: i preti, che sono medici e genetisti, non servono a narcotizzare le masse e a giustificare il potere economico dei potenti laici (politici, principi, etc.), semplicemente perché nel mondo di Bonaforte non esistono più né potenti laici né economia. Questi preti, questi papi, appartengono al Popolo, che detiene tutti i mezzi di produzione. La politica, si può dire, è cessata. Si è giunti all'Eschaton immanentizzato, all'inveramento di tutte le profezie di Karl Marx. Per contro, Marte è socialista: in quelle desolazioni rossicce è lo Stato a detenere tutti i mezzi di produzione. Così facendo, la società marziana si è messa in un vicolo cieco, che può soltanto portare all'indebolimento del genere umano e alla sua cessazione. Viene evidenziata la frattura ontologica tra socialismo e comunismo e l'impossibilità di passare spontaneamente dal primo al secondo.  

Le conseguenze di poche parole a un party 

A quanto ho appreso nel Web, Harlan Ellison ha riferito a Robin Williams qualcosa di sconvolgente. In poche parole, è da imputarsi proprio a Lester del Rey la creazione della Chiesa di Scientology. Secondo questa narrazione, lo scrittore di fantascienza L. Ron Hubbard si sarebbe lamentato durante un party, dicendo che nonostante il suo duro lavoro e il suo impegno continuo, non riusciva a guadagnare quasi nulla dalla vendita del suo materiale. Allora Lester del Rey gli avrebbe suggerito di crearsi una sua religione, cosa che gli avrebbe permesso di risolvere ogni problema economico. Non so dire se queste informazioni siano veritiere o apocrife, tuttavia credo che sia importante farle conoscere. 

Altre recensioni e reazioni nel Web: 

Segnalo l'ottima recensione di Giuseppe Giannozzi, apparsa sul sito Fantascienza.com:


Mi limito a deprecare l'uso del termine "arianesimo": non è lecito usarlo per descrivere le dottrine razziali di Adolf Hitler, dato che indica la dottrina cristologica di Ario, prete alessandrino che negò la consustanzialità di Cristo rispetto al Padre e ne affermò la creaturalità. Questo errore era già stato segnalato nella mia recensione del film di Wolf Rilla Il villaggio dei dannati.

Tra tutte le recensioni trovate nel Web, stupisce senza dubbio quella di Andrea Scacco, pubblicata sul suo sito Futureshock.com.


L'autore in questione propugna una "fantascienza umanista" e ritengo i suoi scritti agli antipodi rispetto alla mia sensibilità. A quanto ho capito è un acceso sostenitore della Chiesa Romana e delle sue dottrine (forse non realizza che sono ormai defunte e incomprensibili alle genti). Egli ritiene l'opera di Lester del Rey un attacco feroce non soltanto alla Chiesa di Roma, ma più in generale allo stesso Cristianesimo. A mio avviso il suo intervento potrebbe essere concentrato nel detto latino excusatio non petita accusatio manifesta. Questo per un fatto che non si può negare: secondo Scacco è tipica di gran parte della fantascienza una visione della religione cristiana come oppressiva e oscurantista, così egli passa ad attaccare L'undicesimo comandamento, sostenendo che la dottrina della Chiesa Eclettica Americana non si può definire cristiana. Ad esempio, argomenta che in una chiesa cristiana i comandamenti non possono mai essere undici, avendo il decalogo fondamento nelle Scritture (Esodo e Deuteronomio, per la precisione). Forse gli sfugge una cosa: la Chiesa Eclettica Americana - che nella realtà non esiste, è bene ricordarlo - è una chiesa scismatica. Un cattolico romano la riterrebbe chiaramente eretica. Che senso ha quindi disquisire sui dogmi di Bonaforte I e sulla natura non mosaica di questo undicesimo comandamento? Lo stesso Lester del Rey specifica che il fondamento è in Genesi. Quello che leggo delle pagine scacchiane, lo decodifico così: "Non si può dire che la Chiesa di Bonaforte, eretica e scismatica, faccia schifo, perché se lo si fa si attacca la Chiesa di Roma". Al contempo, quella stessa Chiesa di Bonaforte viene accusata di occuparsi di questioni "terrene", e via discorrendo, dicendo che per contro la Chiesa di Roma sarebbe "santa". Certo, tutti possono vedere la natura "celeste" e "non terrena" dello IOR. Una bella montagna di paradossi, di cui forse dovrei evitare ulteriori approfondimenti. La mia opinione - credo che ci sia ancora il diritto di esprimerla - è questa: se proprio il medico ha prescritto di consumare i polpastrelli a furia di battere le dita sulla tastiera di un computer, esistono modi molto più proficui per farlo.

Segnalo infine una bella recensione in inglese di Joachim Boaz (salta all'occhio lo pseudonimo derivato dal nome delle due colonne del Tempio di Salomone): 

domenica 1 aprile 2018

NOTE SUL LAVORO DI ZBIRAL

David Zbíral, dell'Università Masaryk di Brno (Repubblica Ceca), è l'autore dei contributi Édition critique de la Charte de Niquinta selon les trois versions connues (Edizione critica della Carta di Niceta secondo le tre versioni conosciute) e La Charte de Niquinta et le rassemblement de Saint-Félix: État de la question (La Carta di Niceta e il convegno di Saint-Félix: Stato della questione). Questi due lavori sono tra gli atti del colloquio internazionale 1209-2009, cathares : une histoire à pacifier?, tenutosi a Mazamet il 15, 16 e 17 maggio 2009 sotto la presidenza di Jean-Claude Hélas. Questi sono i link: 



Questo è l'abstract del primo articolo, da me tradotto:

"La Carta di Niceta, testo che riporta una grande raduno eretico a Saint-Félix de Lauragais nel 1167 e che rivendica la provenienza dissidente, è una questione chiave della ricerca attuale sul Catarismo e sul Bogomilismo. La Carta è il solo documento dissidente a testimoniare un'organizzazione molto solida della dissidenza catara nel Mezzogiorno del XII secolo e a postulare legami degli eretici meridionali con la dissidenza orientale. L'ipotesi di un falso moderno si dimostra piuttosto improbabile. Ma restano diverse altre ipotesi sulla sua redazione nel Medioevo, dunque della sua interpretazione: si può trattare di una stilizzazione antieretica, di un documento in gran parte legato ai fatti storici, di un falso dissidente, di una leggenda dissidente del XIII secolo. Questo articolo riassume lo stato attuale della discussione e apporta argomenti a favore e contro le diverse ipotesi."

Il secondo articolo contiene il testo della Carta, con spiegazioni sul suo adattamento a partire dalle tre versioni conosciute. Come spiega l'accademico ceco, le lettere illeggibili sono state restaurate; le lettere u e v sono state impiegate secondo il loro valore fonetico, la lettera j è stata trascritta come i tranne che in Fanumjovem, l'uso delle minuscole e delle maiuscole ha subìto adattamento, come la punteggiatura. A parer mio, i testi originali avrebbero dovuto essere riportati tal quali, senza alcuna modifica, accanto al testo restaurato. Infatti, più che di adattamento si dovrebbe parlare di ricostruzione.

Resta fondamentale l'importanza di questa edizione critica della Carta di Niceta, in un periodo in cui i decostruzionisti cercano di destrutturare la Storia, negando addirittura l'autenticità di questo cruciale documento. Il fatto che nel comitato di studio sia stata inclusa Anne Brenon, una delle principali voci del decostruzionismo, è a parer mio una pecca non emendabile che getta ombra sull'intero progetto. Anche se di certo le sue posizioni sono lontane da quelle di Monique Zerner - che nega l'esistenza stessa della religione dei Buoni Uomini - è notorio il suo scetticismo sui rapporti tra i Catari e i Bogomili. Ancora a distanza di secoli, la Carta di Niceta fa tremare, dando la prova che il Catarismo era una vera religione organizzata, di origine orientale e non una forma di evangelismo elementare autoctono riconducibile all'identità nazionale occitana. Ecco perché molti cercano con ogni mezzo di far sparire ogni documento e di pervertire ogni dato, ad esempio non considerando la diffusione della religione dualista in Italia. Purtroppo Zbíral non ce la fa a sostenere a spada tratta l'autenticità della Carta. Gira intorno alla stessa colonna, enumera svariate ipotesi, analizza una possibilità dopo l'altra, ma non osa proclamare la Verità - dato che non riconosce l'esistenza di tale concetto. Postmoderno fino al midollo, egli dice che la questione stessa dell'autenticità non è ben posta. Queste sono le sue parole: "Le scienze non dovrebbero pretendere di possedere delle verità: piuttosto dovrebbero cercare delle probabilità. Ciò che voglio fare nel seguito non è dunque decretare se la Carta è autentica o falsa, ma esaminare attentamente le differenti possibilità e, in base ai loro pro e contro, stimare la loro probabilità". Sembra dimenticarsi che la Scienza deve obbedire al principio di non contraddizione, che serve a determinare ciò che non può essere vero. Troppa è l'ammirazione di questo Zbíral per gli studiosi francesi. Non ho stima alcuna di tali accademici: li reputo servi della retorica e dei paroloni, che spargono fumo su tutto e restano irresoluti davanti ai fatti. Sono invertebrati incapaci di ammettere anche soltanto un singolo fatto come qualcosa di incontrovertibile. Sono amebe. Ecco perché l'accademia francese è stata intaccata dalla peste decostruzionista diffusa dal diabolico Derrida. Dopo tanti secoli ancora non si giunge ad alcuna pacificazione. Resto in attesa della cacciata dei mercanti dal Tempio. 

Etimologia di Papa Niquinta

Traduciamo il nome Niquinta con Niceta, perché questa è la sua origine: Papa Niquinta /ni'kinta/, attestato anche con la variante Pope Niquinta, viene dal bulgaro Pop Nikita. Si tratta di un semplice adattamento della forma slava alla lingua d'oc. Il religioso in questione era Niceta di Dragovitsa, la cui autorità era riconosciuta all'epoca da tutte le Chiese Dualiste, in Occidente come in Oriente. Questo dimostra che il Dualismo Assoluto è la dottrina più antica e autorevole. Se la cosa non è chiara alle attuali amebe di Francia, era invece chiarissima ai Buoni Uomini e ai Credenti dei tempi di Niceta, che non esitavano a professare la Fede patendo la tortura e la morte.

Il testo

Riportiamo in questa sede il testo della Carta di Niceta, omettendo tutte le note di Zbíral e i corsivi:

Anno MCLXVII. Incarnationis Dominice in mense madii. In diebus illis ecclesia Tolosana adduxit Papa Niquinta in Castro Sancti Felicii et magna multitudo hominum et mulierum ecclesie Tolosane aliarumque ecclesiarum vicine congregaverunt se ibi ut acciperent consolamentum.
Et dominus Papa Niquinta cepit consolare. Postea vero Robertus de Spernone, episcopus ecclesie Francigenarum, venit cum consilio suo, et Marchus Lombardie venit cum consilio suo similiter, et Sicardus Cellarerius, ecclesie Albiensis episcopus, venit cum consilio suo, et Bernardus Catalani venit cum consilio ecclesie Carcassensis, et consilium ecclesie Aranensis fuit ibi. Et omnes sic innumerabiliter congregati, homines Tolosanae ecclesie voluerunt habere episcopum et elegerunt Bernardum Raimundum. Similiter vero et Bernardus Catalanus et consilium ecclesie Carcasensis rogatus ac mandatus ab ecclesia Tolosana et cum consilio et voluntate et solucione domini Sicardi Cellarerii elegerunt Guiraldum Mercerium, et homines Aranensis elegerunt Raimundum de Casalis.
Postea vero Robertus d’Espernone accepit consolamentum et ordinem episcopi a domino Papa Niquinta ut esset episcopus ecclesie Francigenarum.
Similiter et Sicardus Cellarerius || accepit consolamentum et ordinem episcopi ut esset episcopus ecclesie Albiensis. Similiter vero Marchus accepit consolamentum et ordinem episcopi ut esset episcopus ecclesie Lombardie. Similiter vero Bernardus Raimundus accepit consolamentum et ordinem episcopi ut esset episcopus ecclesie Tolosanae. Similiter et Guiraldus Mercerius accepit consolamentum et ordinem episcopi ut esset episcopus ecclesie Carcasensis. Similiter et Raimundus de Casalis accepit consolamentum et ordinem episcopi ut esset episcopus ecclesie Aranensis. Post haec vero Papa Niquinta dixit ecclesie Tolosane : Vos dixistis mihi ut ego dicam vobis consuetudines primitivarum ecclesiarum sint leves aut graves et ego dicam vobis : Septem ecclesie Asiae fuerunt divisas et terminatas inter illas et nulla illarum faciebat ad aliam aliquam rem ad suam contradicionem.
Et ecclesia Romanae et Drogometie et Melenguie et Bulgarie et Dalmaciae sunt divisas et terminatas et una ad altera non facit aliquam rem ad suam contradicionem, et ita pacem habent inter se. Similiter et vos facite. Ecclesia vero Tolosana elegit Bernardum Raymundum et Guillermum Garsias et Ermengaudum de Forest et Raimundum de Beruniaco et Guilabertum de Bono Vilario et Bernardum Contor et Bernardum || Guillermum Bone Ville et Bertrandum de Avinione ut essent divisores ecclesiarum. Ecclesia vero Carcasensis elegit Guiraldum Mercerium et Bernardum Catalanum et Gregorium et Petrum Calidas manus et Raimundum Poncium et Bertrandum de Molino et Martinum de Ipsa Sala et Raimundum Guibertum ut essent divisores ecclesiarum. Et isti congregati et bene consiliati dixerunt quod ecclesia Tolosana et ecclesia Carcacensis sint divisas propter episcopatos et sicut episcopatum Tolose dividitur cum archiepiscopato Narbone in duobus locis et cum episcopato Carcasensis : a Sancto Poncio sicut montana pergit inter Castrum Cabarecii et Castrum Altipulh et usque ad divisionem Castri Saxiaci et Castri Verduni et pergit inter Montemregalem et Fanumjovem et sicut alii episcopati dividuntur ab exitu Redensis usque ad Leridam sicut pergit apud Tolosam, ita ecclesia Tolosana habet in sua potestate et in suo gubernamento.
Similiter et ecclesia Carcasensis, sicut dividitur et terminatur, habet in sua potestate et in suo gubernamento omnem episcopatum Carcasensis et archiepiscopatum Narbonensis et aliam terram sicut divisum est et dictum usque ad Leridam, sicut vergit apud mare. Et ita ecclesie sunt || divisas, sicut dictum est, ut abeant pacem et concordiam adinvicem et iura ad altera non faciat aliquid ad suam contradicionem. Huius sunt testes rei et defensores : Bernardus Raimundus et Guillermus Garsias et Ermengaudus de Forest et Raymundus de Bauniaco et Guilabertus de Bone Vilario et Bernardus Guillermi Contor et Bernardus Guillermi de Bone Ville et Bertrandus de Avinone et ecclesie Carcasensis Guiraldus Mercerii et Bernardus Catalani et Gregorius et Petrus Calidas manus et Raimundus Poncii et Bertrandus de Molino et Martinus de Ipsa Sala et Raymundus Guiberti. Et omnes isti mandaverunt et dixerunt Ermengaudo de Forest ut faceret dictatum et cartam Tolosane ecclesie. Similiter et Petro Bernardo mandaverunt et dixerunt ut faceret dictatum et cartam ecclesie Carcasensis. Et ita fuit factum et impletum.
Hoc translatum fecit translatare dominus Petrus Isarn de antiqua carta in potestate supradictorum facta qui  ecclesias sicut superius scriptum est diviserunt. Feria II. in mense augusti XIIII. die in introitu mensis, anno MCCXXIII ab Incarnatione Domini. Petrus Pollanus translatavit haec omnia rogatus ac mandatus.

NOTE SUL LAVORO DI DARDAGAN

Amer Dardağan (STANAK, Society for Research of Bosnian Medieval History - Facoltà di Filosofia di Sarajevo) è l'autore dell'articolo Neoplatonism: the response on Gnostic and Manichaean criticism of Platonism, ossia "Neoplatonismo: la risposta sulle critiche gnostiche e manichee del platonismo". Il lavoro è consultabile e scaricabile seguendo questo link: 


Questo è l'abstract, da me tradotto:

"Lo Gnosticismo e il Manicheismo presero alcune delle idee di Platone e le plasmarono nel loro credo dualistico, causando in questo modo una tempesta di proteste da parte dei Neoplatonici, che condannarono le distorsioni gnostiche degli insegnamenti Platone. Plotino credeva che gli insegnamenti degli Gnostici fossero orribili, perché essi evidentemente seguivano gli insegnamenti di Platone e avevano alcune opinioni compatibili col Platonismo sull'origine della natura de del cosmo, ma in realtà il "mito Gnostico" travisava gli insegnamenti originali di Platone e in ultima istanza li rivoltava contro di lui. I Neoplatonici avevano una visione del mondo generalmente gioiosa e ottimistica, opposta a quella degli Gnostici che lo disprezzavano. Secondo i Neoplatonici, il Male non esiste, è soltanto una "mancanza o deficit di Bene". La sola sorgente del Male per i Neoplatonici consiste nella distanza dall'Uno, come risultato dal rivolgersi verso il basso, a piaceri materiali eccessivi e non verso l'alto, alla realtà spirituale superiore. Agostino divenne un neoplatonico in un modo indiretto, e noi sappiamo che i testi neoplatonici lo aiutarono nella sua transizione al Cristianesimo. Egli usò gli scritti platonici per attaccare il Manicheismo, una setta a cui un tempo era appartenuto. Egli giunse ai lavori neoplatonici di Plotino e di Ambrogio scritti in latino, che lo aiutarono a cambiare il suo modo manicheo di pensare al Bene e al Male. Agostino disse che il Dio Manicheo non è il vero Dio perché è vulnerabile al Male, affermando che un Dio vero è onnipotente e non può essere colpito in alcun modo. Dopo che Agostino si imbatté negli insegnamenti neoplatonici, egli definì "estremamente semplificati" gli insegnamenti manichei, mostrando che la gente in ogni situazione della vita non si trova divisa soltanto tra due alternative: il bene e il male - dato che la gente ha desideri e bisogni molteplici, complessi e complicati. Secondo Agostino, non abbiamo due sostanze in noi, in guerra l'una con l'altra, luce e tenebra, bene e male, ma il problema sta nella nostra volontà che desidera una moltitudine di cose che vogliamo, di cui soltanto alcune sono buone. In questo modo egli formulò la sua dottrina del Bene e del Male, influenzato dal Neoplatonismo, che era completamente diverso dall'approccio dualistico che troviamo nello Gnosticismo e nel Manicheismo."

Adversus Plotinum et Augustinum

Vediamo che purtroppo un pensiero banale come quello neoplatonico è riuscito a sopravvivere e a prevalere, con il suo melenso ottimismo cosmico, facendo scomparire tutti i suoi oppositori - e questo nonostante neghi in modo radicale la realtà stessa delle cose. Non spiega nulla, mente e impedisce di conoscere l'abisso in cui siamo precipitati. Oggi il mondo si inchina davanti a Plotino e ad Agostino e li celebra come massimi sapienti, anche se le opinioni da loro professate sono stolte. Gli accademici si prostrano davanti alle mummie dei due filosofi, annusandole e praticando l'osculum infame, subito imitati dai media. Ogni voce critica tace da troppi secoli. A quanto pare resto soltanto io, assieme a pochissimi simpatizzanti, a combattere contro i laudatores mundi e a squarciare questo silenzio opprimente.   

Plotino, l'Uno e lo sterco

Nella buona essenza, il pensiero platonico e neoplatonico è tutto incentrato su un'idea gerarchica dell'esistenza, al cui centro si trova l'Uno. Rispetto a Platone, i Neoplatonici come Plotino immaginarono l'Uno in modo nuovo, infondendo a tale filosofema un significato prettamente politico, plasmato in modo manifesto sulla struttura dell'Impero Romano. L'Uno veniva a rappresentare l'Imperatore, un despota divinizzato di ispirazione orientale, che irradiava perfezione e ordine come il sole genera e diffonde i suoi raggi luminosi rischiarando le tenebre intorno a sé. Man mano che ci si allontanava da questa sorgente di luce, ecco che si giungeva negli angiporti, i recessi più laidi e sordidi in cui non giungeva il fulgore della divinità. Plotino aveva tutto chiaro nei minimi dettagli: a detta sua l'esistenza della merda si spiegherebbe con la lontananza dei viventi dall'Uno. Se i mortali fossero più vicini all'Uno, la loro merda non puzzerebbe affatto. Verrebbe costantemente insufflato ossigeno nel colon sigmoide di tutti, umani e animali, così le maligne fermentazioni anaerobiche non potrebbero avvenire e la merda sarebbe commestibile! 

L'ontologia delle feci

Il punto è che non soltanto la merda si mette di traverso, invalidando ogni filosofia dell'esaltazione dell'esistenza. La merda puzza e continuerà sempre a puzzare: è inemendabile. Come ci ricorda l'autore dell'articolo, il Neoplatonismo conferma che l'anima è eterna e indistruttibile, esponendo l'idea dell'unità di tutto ciò che esiste e la sua origine da una stessa fonte. Mi domando come questa origine di tutto nell'Uno sia compatibile con la stratificazione gerarchica verticale degli stessi Neoplatonici, in cui andando verso l'alto si giunge alla perfezione e andando verso il basso si giunge nell'immondizia. Se l'Uno è ciò a cui si deve l'esistenza di ogni ente, allora ha in sé l'imperfezione, i piani bassi, il male... e la merda! Una bella antinomia! Eppure Plotino e i suoi seguaci ne erano più che certi: affermavano senza sosta che tutto ciò che esiste è buono, perché partecipa della Bontà dell'Uno. Allora anche la merda è buona!   

La schizofrenia di Plotino

Come mai Plotino polemizzò e si accanì contro gli Gnostici? Secondo Dardağan, il filosofo sarebbe stato pieno di risentimento per via delle distorsioni del pensiero platonico operate dai suoi avversari e del loro esclusivismo, per usare un vocabolo oggi tanto comune. Secondo altri, avrebbe contestato agli Gnostici l'idea di salvezza raggiunta col mero intelletto, senza pratica alcuna della virtù. In realtà è possibile che la causa ultima fosse d'altra natura. Secondo quanto ipotizzo, Plotino fu corrotto dall'Imperatore, che gli affiancò una fellatrice spermatofaga. Mi sembra quasi di assistere alla scena: quella fallofora passava il tempo a ciucciare il budellino del vegliardo, a ingerire i suoi spurghi spermatici e a disinfettargli le emorroidi con la lingua. Questa corruzione sarebbe stata dettata da motivi eminentemente politici: all'Imperatore serviva una giustificazione del suo potere, che gli Gnostici delegittimavano e attribuivano all'opera del Demiurgo. Ma chi era questo principe? A parer mio era il femmineo Gallieno, sotto cui Roma raggiunse il fondo dello sfacelo. Mi sembra troppo audace supporre che la fellatrice fosse addirittura la moglie di Gallieno, Cornelia Salonina, che aveva grande stima del padre del Neoplatonismo. Forse il dotto di Licopoli si vergognava di avere un corpo, come ci riferisce un suo biografo, proprio perché divenne del tutto asservito alle sensazioni bizantine ottenute dalla meretrice che gli fu offerta. Non si vede infatti come si possa glorificare la biologia e al contempo ritenerla vergognosa, a meno che non si sia affetti da qualche forma di grave schizofrenia. Questa nella sostanza è l'origine dell'invereconda polemica plotiniana contro gli Gnostici, poi ripresa da Agostino contro i Manichei. Un'origine ben vile, si converrà. Naturalmente le prove concrete dell'accaduto ancora mancano, ma si può ricostruirlo in ogni caso con un certo grado di sicurezza da indizi indiretti. 

La natura attiva del Male è una realtà 

Come già abbiamo rimarcato, per Plotino il Male non esiste: egli lo definisce una mera condizione negativa, che consiste nella lontananza dall'Uno. Veniamo dunque a svelare ulteriori paradossi. Sentite quanta demenza è insita nei sofismi plotiniani: "Qui ci sono alcune analogie, per prima cosa immaginiamo un corpo sano che è buono, quindi immaginiamo la ferita sul corpo. La ferita o lo stato vulnerabile del corpo non è una cosa indipendente o una sorta di "essere" che progetta di attaccare il corpo, ma semplicemente una mancanza di salute, il deficit di bontà del corpo. In modo simile, immaginiamo la ruggine su un carro, che non è una cosa indipendente, o qualcosa che esiste separatamente dal carro stesso, ma è lo stato di qualche deficit sul carro in questione". Dunque per i seguaci di una simile follia, non esistono armi né assassini. Per loro la chimica e la fisica sono cose sconosciute, come la scienza medica! Per loro non è la daga affilata ad aprire un'asola nell'addome: la ferita si formerebbe da sé per magia, per la mancanza subitanea di qualcosa di fantomatico! E noi siamo qui a sopportare un'intera civiltà fondata su simili inconsistenze partorite dalla folli! Le cose stanno ben diversamente. La patologia non è affatto un deficit: è invece un panorama immenso in cui spiccano organismi che considerano il corpo umano un immenso banchetto, difetti nel codice genetico e quant'altro. La stessa salute non è un fluido magico emanato dall'Uno, ma il frutto di complessi equilibri. Torniamo alla nostra pietra d'inciampo preferita. Torniamo alla merda. Ebbene, la merda non puzza perché le manca qualcosa. Puzza perché è un ammasso di scorie, tra cui muco, batteri e residui vari, il cui fetore è dovuto a precise reazioni chimiche di fermentazione e di putrefazione, che nascono dai programmi genetici degli organismi decompositori! Dove il Neoplatonismo vede mancanze, noi vediamo universi di una spaventosa molteplicità e complessità, in cui ciò che reca danno ai viventi è il prodotto di ben precisi codici. La stessa Scienza dà ragione a Mani, schiantando i buffoni di Licopoli e di Ippona. Peccato che gli stessi accademici non se ne rendano conto.

giovedì 29 marzo 2018

NOTE SUL LAVORO DI DELLA TORRE ARRIGONI

Dianora Della Torre Arrigoni è l'autrice dell'interessantissimo trattato Seta selvatica: passato e presente. Il lavoro è diviso in due parti, consultabili e scaricabili sia dal sito del GENM (Gruppo Entomologico Naturalistico Meldolese) che dalla pagina dell'autrice su Academia:

Prima parte:



Seconda parte: 



Indice

Parte prima
  Caratteristiche, proprietà e usi
  Amica dell'ambiente
  Panorama storico
  La stagione europea
  Bibliografia

Parte seconda  Scenario attuale
  Da parassiti dannosi a fonte di guadagno
  Madagascar: un modello per l'Africa
  Referenze bibliografiche
  I bachi da seta esistono ancora

Immergendosi nella lettura, si apprendono molte utili nozioni. Il baco da seta, ossia la larva del bombice del gelso (Bombyx mori), non è l'unico bruco in grado di produrre un filo serico utilizzabile dal genere umano per confezionare indumenti. Esistono in natura circa 400 specie diverse dal Bombyx mori, i cui bruchi tessono un bozzolo che permette di ottenere la seta selvatica, usata da epoche immemorabili in varie parti del mondo. L'allevamento di queste larve presenta diversi vantaggi: si tratta di specie non completamente domesticate, che non dipendono dall'uomo, inoltre si nutrono di foglie di diversi alberi - mentre il baco da seta si nutre esclusivamente di gelso. L'autrice tratta le caratteristiche dei vari tipi di seta selvatica e fa un quadro storico molto esauriente del loro utilizzo. In Cina, prima ancora della domesticazione del Bombyx mori, era usata la seta ottenuta dall'Antheraea pernyi, originaria della Mongolia e utilizzata anche dalle sue genti già nel II secolo a.C. In India, la seta selvatica era conosciuta già diversi millenni prima di Cristo, mentre il baco da seta vi fece la sua comparsa soltanto più tardi, verso il III secolo d.C. Alcune farfalle produttrici di seta sono da epoche immemorabili ritenute sacre dalla religione Hindu, come ad esempio l'Antheraea mylitta, i cui ocelli erano visti come il disco di Visnu. In tempi più vicini a noi, Gandhi affermò nel corso della sua visita in Assam che "le donne Bodo tessevano sogni sui loro telai": la specie utilizzata in quella regione è Antheraea assama. Nel Messico precolombiano, gli Aztechi e altri popoli traevano la loro seta dai grandi nidi comuni delle larve di Gloveria psidii. I bozzoli di una Pieride, Eucheria socialis, fornivano agli Aztechi non soltanto tessuti, ma anche la carta. L'estinzione dell'uso della seta selvatica in Messico è molto recente, risale a circa cinquant'anni fa. Le informazioni raccolte nel trattato sono numerose e di gran pregio: ne consiglio vivamente la lettura a tutti, è qualcosa che allarga i propri orizzonti e permette di far luce su aspetti poco noti dell'esistenza.  

L'epidemia di pebrina e le sue conseguenze 

Si apprende che l'uso della seta selvatica si diffuse in Europa nel XIX secolo. Una spaventosa epidemia di natura virale aveva aggredito i bachi da seta in molti paesi, devastando la sericoltura tradizionale. La malattia era detta pebrina, dall'occitano pebre "pepe", perché sul corpo dei bachi colpiti comparivano caratteristiche macchie nere, che ricordavano nella forma grani di pepe. Il motivo di una denominazione di origine occitana è presto spiegato: i primi focolai della malattia si sono formati nel Midi francese verso la metà del secolo, diffondendosi poi a macchia d'olio. La sericoltura dipende dal seme-bachi (il vocabolo ha una struttura abbastanza curiosa), che consiste nelle uova della farfalla da seta. Col propagarsi della pebrina in Francia, l'unica risorsa degli allevatori era procurarsi seme-bachi sano da regioni in cui non era ancora giunta l'infezione. Per porre rimedio alla calamità, iniziarono così a importare seme-bachi dall'Italia. Quando l'epidemia oltrepassò le Alpi, la situazione divenne critica: la sericoltura italiana, diffusa e prospera nella quasi totalità degli stati preunitari, subì danni ingentissimi. Di qui la necessità di ricercare seme-bachi sano in terre lontane: i semai andarono a procurarselo nei Balcani, in Turchia, in Asia Centrale, in Cina e persino in Giappone - dove era iniziata l'apertura commerciale ai paesi stranieri dopo secoli di isolamento. Mi ha molto colpito la determinazione con cui i semai affrontavano la durissima via del Giappone, giungendo fino a Yokohama, dove si teneva da agosto a fine ottobre un regolare mercato del seme-bachi. I molli francesi, incapaci di tanto eroismo e privi di tempra, non tentarono nemmeno simili imprese, così quando la pebrina si estinse, la sericoltura non si fu in grado di risollevarsi. Un effetto collaterale di questa crisi fu l'importazione e l'acclimatazione in Europa di specie di farfalle da seta diverse dal Bombyx mori, come alternativa alla seta tradizionale. In particolare furono utilizzati Saturnidi provenienti dalla Cina e dall'India.  

Il Brucaliffo e la serendipità

Sono giunto a conoscere il presente lavoro per puro caso, mentre cercavo notizie sull'allevamento delle larve di Saturnia pyri, farfalla notturna nativa dell'Europa, da cui secondo alcune fonti si può ottenere seta di alta qualità. Ho ricordi d'infanzia di questi bruchi del pero, grossi e molto appariscenti, tanto da somigliare al Brucaliffo. Avevo letto da qualche parte che questa specie, diffusa dalla Spagna alla Siberia e in parte del Nordafrica, in passato era stata utilizzata nella sericoltura. Ho potuto constatare che la Della Torre Arrigoni menziona a malapena nel suo lavoro, ma riporta un fatto importante. Il bozzolo tessuto dal bruco del pero è composto da filamenti spezzati in più punti e necessita di cardatura e filatura per poter essere utilizzato. Peccato: essendo una specie autoctona, avrebbe potuto essere una risorsa importante. In passato supponevo che le larve della Saturnia pyri non fossero di facile allevamento o che la resa fosse scarsa: non potendo disporre di conoscenze più dettagliate, facevo illazioni. Adesso ho imparato qualcosa di molto utile. Navigando nel Web ho poi scoperto che la specie non si trova in Inghilterra, anche se ne sono stati recentemente scoperti alcuni esemplari a Swaythling, nello Hampshire. Con ogni probabilità provengono da un allevamento abbandonato, anche se si specifica che questa pratica non è attestata nel Regno Unito.


Etimologia di tussah

In inglese la seta ricavata dai bozzoli di bachi selvatici è detta tussah, con le varianti tussor, tussore, tusser, tussas, tussus. L'origine di questa parola è dall'indostano tasar, a sua volta dal sanscrito tasara, trasara "spola". Per motivi fonetici, il vocabolo sanscrito non può essere derivato dalla radice taṃs- "decorare; muovere", come suggerito da Monier-Williams (non dimentichiamo la variante con tr-!): è con tutta probabilità un relitto di una lingua del sostrato preindoeuropeo dell'India. 

Gli Aztechi, i bachi selvatici e la seta

Non sono riuscito a reperire i nomi Nahuatl delle farfalle Gloveria psidii ed Eucheria socialis, menzionate dall'autrice. Gli Aztechi usavano il nome ocuilicpatl per indicare la seta (selvatica), nome derivato da ocuilin "verme" e da icpatl "filo" (alla lettera "filo del verme"). Il bruco produttore di seta era chiamato tzāuhqui ocuilin "verme filatore" (da tzāhua "filare"), mentre il bozzolo era chiamato cochipilōtl (da cochi "dormire"). Un sinonimo di cochipilōtl è calocuilin, alla lettera "verme-casa" - e non "casa del verme", che sarebbe *ocuilcalli

Etimologia del nome Dianora

Non posso resistere alla tentazione di inserire un'ultima nota etimologica. Il nome Dianora, davvero curioso e raro, è attestato già in epoca medievale. La sua origine è controversa. Nasce a parer mio da Eleonora, di cui sono attestate le varianti Lionora e Lianora. Alla forma Lianora si è sovrapposto il nome della dea Diana, il cui culto è riuscito a sopravvivere alla dissoluzione dell'Impero Romano d'Occidente, perdurando a livello popolare per tutto il Medioevo.

domenica 25 marzo 2018

NOTE SUL LAVORO DI JACQUES

Guillaume Jacques (Centre des Recherchers Linguistiques sur l’Asie Orientale, Paris) e Johann-Mattis List (Max Planck Institute for the Science of Human History, Jena) sono gli autori del lavoro Save the Trees: Why We Need Tree Models in Linguistic Reconstruction (and When We Should Apply Them). Il manoscritto degli autori è consultabile al seguente link:


L'articolo è etichettato come "Authors manuscript" (sic). Si precisa altresì che "This article will appear in the Journal of Historical Linguistics in 2018, Volume 8".

Questa è la traduzione dell'abstract:

"Lo scetticismo verso il modello ad albero ha una lunga tradizione nella linguistica storica. Anche se gli studiosi hanno enfatizzato che il modello ad albero e la sua teoria concorrente, la teoria dell'onda, non sono necessariamente incompatibili, ha sempre goduto di una certa popolarità l'opinione secondo cui gli alberi genealogici non sono realistici e dovrebbero essere abbandonati completamente dalla linguistica storica. Questo scetticismo si è ulteriormente accresciuto con la tecnica, recentemente proposta, per una visualizzazione dei dati che sembra confermare che possiamo studiare la storia delle lingue senza gli alberi genealogici. Mostriamo che gli argomenti concreti addotti a favore dei modelli di onda anacronistica non reggono. Confrontando il fenomeno dell'ordinamento del lignaggio incompleto (incomplete lineage sorting) in biologia con i processi in linguistica, mostriamo che i dati che non sembrano risolvibili in alberi genealogici, possono essere ben spiegati senza rivolgersi alla diffusione. Nello stesso tempo, i limiti metodologici nella ricostruzione storica possono facilmente portare a una sovrastima della regolarità, che può a sua volta emergere come schemi conflittuali quando si tenta di ricostruire una filogenesi coerente. Illustriano con diversi esempi come gli alberi genealogici possono portare beneficio alla comparazione linguistica, ma facciamo anche notare i loro svantaggi nel modellizzare le lingue miste. Mentre riconosciamo che non tutti gli aspetti della storia della lingua sono rappresentabili con alberi genealogici, e che i modelli integrati che catturano le relazioni sia verticali che laterali di una lingua possono dipingere la storia della lingua in modo più realistico, concludiamo che sono essenzialmente erronei tutti i modelli che sostengono che le relazioni verticali di una lingua possono essere del tutto ignorati, sia che essi ancora usino implicitamente gli alberi genealogici, o che forniscano uno schema statistico di dati e quindi falliscano la modellizzazione degli aspetti temporali della storia della lingua." 

Dendrofobia e dendrofilia in linguistica 

L'autore fa una panoramica sull'origine dei modelli linguistici ad albero e delle reazioni scettiche che questi hanno generato. Il primo studioso che divulgò l'idea di classificare le lingue in alberi genealogici fu August Schleicher (1821-1866), da non confondersi con il fantomatico Egon Schleicher inventato da George Steiner. Egli partì dall'assunzione che il modo migliore per rappresentare la nascita e lo sviluppo delle lingue consistesse nell'usare l'immagine di un albero ramificato. Grazie a lui divenne comune l'uso del termine Stammbaum in linguistica. Le prime critiche giunsero da Johannes Schmidt (1843-1901) e da Hugo Schuchardt (1842-1927). Il primo di questi studiosi rimase molto sul vago, mentre il secondo cominciò a far notare che nelle varie lingue indoeuropee sono presenti distribuzioni molto irregolari di vocaboli. Le mappe delle isoglosse lessicali presentano lacune e solo poche caratteristiche sono presenti in tutte le lingue indoeuropee contemporaneamente. Da una stima fatta, risulterebbe che il greco antico e il sanscrito hanno in comune il 39% di parole imparentate, mentre si arriverebbe al 53% considerando il greco antico e il latino. Per quanto riguarda il latino e il sanscrito, la percentuale scende addirittura all'8%. Le percentuali reali possono essere più basse, dato che esistono etimologie fallaci da molti considerate valide (es. latino cālīgō "oscurità" - sanscrito kāla- "nero" sono falsi parenti). Come conseguenza, il modello ad alberi genealogici andò in crisi. Nacquero modelli alternativi che in realtà non spiegano nulla. Prevalse l'idea delle convergenze multiple che avrebbero portato realtà dissimili ad assomigliarsi per mutua influenza nel corso dei secoli. Tra l'altro, solo per fare un esempio, l'influenza dei sostrati preindoeuropei era gravemente sottostimata. Gli attuali dendrofobi hanno diversa origine: sono convinti che partendo col considerare una lingua come un organismo biologico si arrivi ineluttabilmente al darwinismo sociale e al razzismo. Il presupposto politico è l'associazione degli alberi genealogici con la genetica. Rimando all'articolo per un'approfondita disamina del moderno dibattito sugli alberi linguistici e sulla necessità di salvare il modello in questione dagli attacchi di studiosi ipercritici. 

L'identificazione delle innovazioni

Per identificare le innovazioni del lessico ereditato e distinguerle da prestiti recenti, il metodo della glottometria storica usa un criterio che non dovrebbe essere controverso: le etimologie i cui riflessi seguono corrispondenze fonetiche regolari sono da considerarsi ereditate (François, 2014). Così, quando una protoforma comune può essere postulata per un particolare insieme di parole in numerose lingue e può essere derivata dall'applicazione meccanica di leggi fonetiche, è considerata parte del vocabolario ereditato. Tuttavia in questo modo non si tiene conto di un fatto molto importante: il criterio di attribuzione sopra enunciato riguarda una condizione necessaria, ma non sufficiente. Questo perché esistono prestiti e prestiti nativizzati.

Prestiti non identificabili  

Jacques riporta esempi molto interessanti per mostrare come non sia sempre possibile discriminare tra lessico ereditato e lessico preso a prestito. Un caso già noto nel tardo XIX secolo riguarda i prestiti iranici in armeno. Nel 1897, Hübschmann scriveva: "In casi isolati, le forme iraniche e quelle armene genuine coincidono foneticamente, e la questione se si tratti di prestiti [o di eredità comune] deve essere decisa da un punto di vista non linguistico". In una tabella contenuta nell'articolo, sono riportati alcuni esempi, già evidenziati da Hübschmann ai suoi tempi, poi confermati da Martirosyan e da Martzloff nel XXI secolo. 

Armeno naw "barca" - Proto-iranico *nāw-
Armeno mēg "nebbia" - Proto-iranico *maiga-
Armeno mēz "orina" - Proto-iranico *maiza-
Armeno sar "testa" - Proto-iranico *sarah-
Armeno ayrem "bruciare" - Proto-iranico *Haid-

Anche nelle lingue Pama-Nyungan, che costituiscono gran parte delle lingue aborigene australiane, si notano tanti e tali casi di sospetti prestiti, da spingermi a pensare che il gruppo linguistico in questione possa non essere valido. Gli idiomi in questione hanno così poche innovazioni fonologiche che il riconoscimento dei prestiti si presenta davvero complesso - se non impossibile. Aggiungerò un esempio che ho potuto trovare nel corso dei miei vagabondaggi nel Web (Alpher, 2004). La radice proto-Pama-Nyungan *ngulu- dovrebbe significare "fronte". In una moltitudine di lingue derivate troviamo parole che sarebbero ottimi derivati da tale radice, se non fosse per la varietà dei significati: "fronte", "faccia", "guancia", "testa", "nuvola", "tuono", "pene", "copulare", "primo", "presto", "suolo", "creta", "scogliera", "montagna", "cielo". Ciò implicherebbe una serie di slittamenti semantici a volte abbastanza discutibili, con buona pace di Alpher e di altri: è chiaro che alcuni dei significati sono difficilmente compatibili, anche se si potrebbe dire che la parola per "nuvola" venga da qualcosa come "fronte nuvoloso", mentre la parola per "pene" potrebbe essere da un equivalente aborigeno del nostro "testa di cazzo". Sarà, comunque non mi convince.

Nativizzazione dei prestiti

Quando una lingua contiene un cospicuo strato di prestiti da un'altra lingua, i parlanti bilingui possono sviluppare l'intuizione delle corrispondenze fonologiche tra i due idiomi, applicandole a parole prese a prestito di recente. Jacques discute due esempi di questo fenomeno, noto come nativizzazione dei prestiti:  

1) Ci sono casi ove prestiti recenti dal finnico al Saami presentano corrispondenze indistinguibili da quelle del lessico ereditato, come barta "cabina", dal finnico pirtti, a sua volta dal russo dialettale pert' "un tipo di cabina", che mostra la stessa corrispondenza vocalica CiCi : CaCa della parola per "nome" (finnico nimi : Saami namma) e di altre simili. Ancora una volta, l'origine straniera della parola è una chiara indicazione che barta "cabina" non può aver subìto la serie di cambiamenti fonetici regolari che hanno portato dal proto-ugrofinnico *CiCi al Saami CaCa, e che invece la comune corrispondenza CiCi : CaCa è stata applicata al finnico pirtti.

2) La nativizzazione dei prestiti può occorrere tra lingue senza parentela genetica. Un chiaro esempio è il caso del basco e dello spagnolo (Trask 2000, Aikio 2006). Una corrispondenza ricorrente è quella tra spagnolo -ón e basco -oi in fine parola. Il protoromanzo *-one (< latino -ōnem) dà in spagnolo -ón. Tuttavia nei prestiti protoromanzi nel basco, questa uscita ha subìto la regolare perdita della *-n- intervocalica (un mutamento fonetico interno al basco): *-one ha dato *-oe e quindi -oi. Un esempio di questa corrispondenza è fornito dallo spagnolo razón e dal basco arrazoi "ragione", entrambi dal protoromanzo *ratsone, a sua volta dall'accusativo latino ratiōnem. Questa corrispondenza comune è stata applicata a prestiti recenti dallo spagnolo, come kamioi "camion" e abioi "aereo" (da camión e da avión risp.). Questo adattamento non ha giustificazione fonetica, visto che parole uscenti in -on sono attestate in basco, e può essere spiegato solo con l'iper-applicazione della corrispondenza -oi : -ón. È chiaro che in proto-basco all'epoca di Cesare non esistevano *kamione e *abione!

Posso citare altri casi. Un'anziana cugina di Milano, tumulata da tempo, in un'occasione disse: "L'altréer u tòlt un rüm inscì bun al süper", ossia "L'altro ieri ho preso un rum così buono al supermercato". Il termine rüm ha ricevuto la vocale bemollizzata -ü- /y/ a partire da corrispondenze come italiano muro - milanese mür; italiano culo - milanese ; italiano venuto - milanese vegnü. Allo stesso modo supermercato è stato adattato in süpermercàa e quindi abbreviato in süper. Nel comune di Valmadrera mi capitò di udire l'anziano R., già all'epoca quasi decrepito e ormai defunto, dire menü per indicare il menù - inteso come lista di desiderata. Lì per lì rimasi basito. "Caspita", pensai, "sembra un vecchietto così poco istruito e conosce il francese". Subito dopo sentii che chiamava ÜSL /yzl/ la USSL (ossia Unità Socio-Sanitaria Locale: all'epoca le ASL avevano questo nome). Si trattava di nativizzazione dei prestiti, così spinta da intaccare persino le sigle pronunciate come se fossero parole. È chiaro che nel latino volgare diffuso in Insubria non esistevano *rūmu(m), *sūpperu(m) e *ūsle(m)!

Il problema delle lingue miste

Esistono casi di inapplicabilità del modello ad albero genealogico. Ciò accade quando una lingua risulta dalla fusione di due lingue tra loro mutuamente inintelligibili (non importa se siano o meno tra loro imparentate). In questi casi, il lignaggio della lingua ibrida dovrà essere rappresentato da due radici. Jacques riporta il caso del Michif, una lingua di contatto basata sul francese del Canada e sul Cree. I parlanti sono detti Métis e sono discendenti di franco-canadesi che si sono uniti in matrimonio con donne native Cree e di altre nazioni native come gli Ojibway. Un parlante Michif che non conoscesse altra lingua, non sarebbe in grado di comprendere né il francese né il Cree. I sostantivi sono in prevalenza presi dal francese. I verbi e la grammatica sono invece per lo più di origine nativa, a parte i verbi "essere" e "avere", presi dal francese con tutta la loro coniugazione irregolare. Nell'articolo sono riportate due frasi, con le parole di origine francese in grassetto:

1) o-pâpa-wa êtikwenn kî-wîkimê-yiw onhin la fâm-a "suo padre evidentemente ha sposato quella donna".
2) stit=enn pchit orfelin "lei era una piccola orfanella".

Numerose altre frasi in questa lingua possono essere raccolte nel Web, con un po' di pazienza.  Jacques, sconsolato, afferma che "l'applicabilità del modello ad albero genealogico su scala globale dipende in modo cruciale dalla rarità di lingue come il Michif". La vedrei in un modo un po' meno drammatico. In qualsiasi modo si formi una lingua, a partire dalla sua piena definizione, la sua evoluzione è in ogni caso descritta da un albero, quali che siano le sue radici. Questo perché appena qualcuno la parli, la lingua prende ad evolvere naturalmente, cambiando, dando vita a nuove varietà, prendendo a prestito parole da altre lingue, etc. Anche se una lingua nuova fosse creata da uno stregone che porta agli uomini la voce degli Spiriti, nel momento in cui cominciasse a essere la lingua parlata da un gruppo, diverrebbe una lingua naturale ed evolverebbe dando origine a lingue discendenti, a diramazioni.

mercoledì 21 marzo 2018

NOTE SUL LAVORO DI SHIN-KOMINSKI

Hyon B. Shin e Robert A. Kominski sono gli autori del rapporto Language Use in the United States: 2007, ossia "L'uso delle lingue negli Stati Uniti: 2007". Il lavoro è stato rilasciato nell'Aprile 2010 dall'American Community Survey - Census Bureau (ACS) e si trova nel Web al seguente url: 


Introduzione

"Questo rapporto fornisce informazioni sul numero e sulle caratteristiche della gente negli Stati Uniti nel 2007 che parlava in casa una lingua diversa dall'inglese. Mentre la vasta maggioranza della popolazione al di sopra dei 5 anni negli Stati Uniti parlava solo inglese in casa (80 per cento), la popolazione che parlava in casa una lingua diversa dall'inglese è cresciuta nettamente negli ultimi tre decenni. Il numero di parlanti è cresciuto per molte lingue diverse dall'inglese, ma non per tutte. In questo rapporto si evidenzia questo paesaggio in mutamento dei parlanti di lingue diverse dall'inglese negli Stati Uniti."

Il questionario e la sua struttura

I dati dell'American Community Survey, relativi al 2007, sono stati usati per descrivere l'uso delle lingue da parte della popolazione statunitense dai 5 anni in su. Le risposte alle domande sulla capacità di parlare inglese e altre lingue che erano raccolte ogni dieci anni in un censimento, adesso sono raccolte ogni anno nell'ACS. La prima domanda riguarda chiunque abbia cinque o più anni, e chiede se la persona in questione parla in casa una lingua diversa dall'inglese. A ogni persona che risponde "sì" a questa domanda è richiesto di riportare la lingua. Il Census Bureau codifica le risposte col dettaglio di ben 381 lingue. La terza domanda serve a capire "quanto bene" la persona parli l'inglese, dando le opzioni "molto bene", "bene", "non bene" e "per niente". I risultati raccolti sono stati elaborati e usati per produrre un gran numero di tabelle e di mappe.

Tendenze 1980-2007

I risultati dell'indagine, riassunti in un'apposita tabella, mostrano la crescita di alcune lingue dal 1980 così come il declino relativo di altre. Nel 1980, 23,1 milioni di persone parlavano in casa una lingua diversa dall'inglese, contro i 55,4 milioni di persone nel 2007: un aumento percentuale del 140% in un lasso di tempo in cui la popolazione degli USA è cresciuta del 34%. Il più grande aumento è stato per i parlanti dello spagnolo (23,4 milioni in più nel 2007 rispetto al 1980). I parlanti del vietnamita hanno avuto il più grande aumento percentuale (511%). Otto lingue sono più che raddoppiate in numero di parlanti nel corso dello stesso periodo, incluse quattro che avevano meno di 200.000 locutori nel 1980: russo, persiano, armeno e vietnamita. Alcune lingue sono declinate dal 1980. L'italiano, la seconda lingua non inglese parlata nel 1980 dopo lo spagnolo, ha avuto un declino netto di circa 800.000 parlanti (50%). Adesso è alla nona posizione nella classifica delle lingue non inglesi parlate in ambito domestico. Anche altre lingue, come il polacco, lo Yiddish e il greco, hanno avuto consistenti decrementi. Anche il tedesco non gode di buona salute, pur non avendo subìto un vero e proprio collasso. Mentre l'accresciuta immigrazione ha portato guadagni per certi gruppi di lingue, altri gruppi hanno sperimentato l'invecchiamento della popolazione e flussi oscillanti di migrazione negli Stati Uniti.

Alcune considerazioni deprimenti  

Il rapporto mostra numeri e mappe molto utili, di grandissimo interesse scientifico, tuttavia sono convinto che la realtà sia descritta in termini un po' asettici e in alcuni casi a dir poco eufemistici. Prendiamo per esempio il disastroso crollo della comunità italo-americana. Quando si parla del declino netto di circa 800.000 parlanti della lingua italiana, si parla di 800.000 di cadaveri il cui smaltimento è stato tutt'altro che facile! Immaginate di essere becchini e di trovarvi all'improvviso di fronte a quasi un milione di corpi in decomposizione da inumare, tumulare o cremare: di certo vi mancherebbe il respiro! Certo, la comunità italo-americana finora non ha subìto un genocidio (anche se il futuro è incerto): le morti sono avvenute piuttosto per stillicidio, nell'arco di diversi decenni.  Il fenomeno è comunque impressionante e mi ha colpito profondamente. Tanto più che va considerato al netto di flussi migratori recenti dall'Italia, così il collasso può essere stato ancor più marcato. Nel rapporto di Shin-Kominski, quanto mai approssimativo nel classificare le lingue, si accomuna la lingua italiana a parlate italo-americane il cui lessico consiste in gran parte di parole inglesi italianizzate nella fonetica, con qualche traccia di voci dei dialetti meridionali. Questi sono alcuni esempi: bisinissi "affari", tracco, trocco "camion" (< truck), baccauso, baccausa "cesso" (< backhouse), p'o becco "da dietro" (< back), coppesteso "in cima alle scale" (< 'ncopp' "in cima" + stairs), genitore "portinaio" (< janitor), stima "caldaia" (< steamer), guazzamara? "che succede?" (< what's the matter?), orrioppo! "sbrigati!" (< hurry up!), sanguiccio "sandwich, tramezzino" e via discorrendo. Un decennio dopo la situazione fotografata dal presente rapporto, le comunità italo-americane sono state oggetto di violenze e di ostilità montante da parte degli antirazzisti (o meglio autorazzisti), inferociti per via della celebrazione del Columbus Day, da loro definito "suprematista". Se la tendenza andrà avanti, finirà che i superstiti italo-americani dovranno essere chiusi nelle riserve: sarebbe l'unico sistema per tutelarli dalla furia degli autorazzisti.

Il melting pot

Per le autorità statunitensi, l'ideale è sempre e soltanto la completa assimilazione di ogni componente alloglotta, il solo fine è il trionfo dell'inglese d'America - che personalmente trovo orrendo, anche se so bene che non esistono lingue brutte in sé. Il modello proposto è raggelante nella sua banalità - per quanto non mi piaccia parafrasare la Arendt. 

1) Prima generazione di immigrati: monolingui nell'idioma di origine;
2) Seconda generazione di immigrati: bilingui nell'idiona di origine e in inglese;
3) Terza generazione di immigrati: lingua madre inglese, qualche conoscenza dell'idioma di origine;
4) Quarta generazione di immigrati: integrazione completata, inglese unica lingua, al massimo conoscenza di qualche parola o frase dell'idioma di origine.
5) Quinta generazione di immigrati: oblio totale della propria origine, testimoniata al massimo dal cognome (nella maggior parte dei casi soggetto a pronuncia ortografica).

Dove questo sistema non vuol saperne di attecchire, scatta la repressione. Repressione democratica, of course. Questo è il caso, tristissimo, dei tedeschi del Texas. Una popolazione laboriosa e onesta, che da generazioni usava la propria lingua avita, detta Texasdeutsch. Questi germanofoni restavano tra loro, avevano pochi contatti con l'esterno e non si assimilavano. Così è accaduto che all'epoca della seconda guerra mondiale sono stati accusati di aderire al Nazionalsocialismo e di sostenere il Reich Millenario. Con questo pretesto capzioso e fabbricato, del tutto falso, migliaia di persone sono state deportate, rinchiuse in campi di prigionia e riallocate nelle terre d'origine solo in seguito, a conflitto finito. In particolare è stata proibita loro la trasmissione del tedesco ai figli, anche tramite sistemi di lavaggio del cervello e di indottrinamento operato dal moloch del sistema scolastico. Come risultato di queste politiche, oggi il tedesco del Texas è parlato soltanto da pochi anziani ed è destinato all'estinzione.

Senilità di una lingua

Fa riflettere l'orribile fato che ha colpito lo Yiddish. Un tempo fiorente, l'idioma giudeo-tedesco ha finito con l'essere perseguitato e stritolato in Israele all'urlo di "un popolo, una lingua" (in ebraico "Am ehàd, safà ahàt"). Definito "meno kosher della carne di porco", è stato una vittima delle dottrine di Theodor Herzl. Come se non bastasse, muore anche negli States. A tal punto siamo arrivati, che l'ashkenazita Barbra Streisand non sopporta che il suo cognome sia pronunciato /'ʃtraɪzant/, come lo pronunciavano i suoi antenati, così cerca di imporne una pronuncia anglizzata /'straɪsænd/. Siamo al paradosso e all'assurdo! Sorprende che tutto ciò accada nonostante l'assenza di persecuzione dello Yiddish negli Stati Uniti. Eppure non ci sono dubbi, la diagnosi è chiara: è una lingua che va incontro alla dissoluzione finale e viene cancellata come la memoria di una persona affetta dal morbo di Alzheimer.

Ispanici rampanti 

Il sistema della sostituzione linguistica prescritto dalle autorità americane ovviamente può valere soltanto in sistemi quasi isolati, in cui i parlanti alloglotti si trovano immersi in una realtà anglofona e sono indotti ad assimilarsi. Non funziona affatto se ci sono incessanti flussi migratori, come nel caso degli ispanofoni, che giungono nel territorio statunitense e vi si radicano per accumuli, tanto da far temere ai WASP un profondo cambiamento etnico e culturale in alcuni stati, come la California, il Nuovo Messico e il Texas. Di fronte a un fenomeno tanto esteso, ecco un Trump uscirsene con l'idea di costruire un muro. A quanto pare nessuno gli ha insegnato che per ridurre l'entropia in un territorio occorre crearne molta di più altrove, per giunta consumando risorse in quantità immani. Dubito molto che sarà evitata l'ispanizzazione delle regioni di frontiera con Messico - dettaglio del tutto irrilevante di fronte a problemi ben più gravi. L'avvenire degli USA può essere soltanto il caos.

domenica 18 marzo 2018

NOTE SUL LAVORO DI MOSENKIS

Iurii Leonidovych Mosenkis (Università Nazionale Taras Shevchenko di Kiev, Ucraina) è l'autore del lavoro Paleo-West European Languages, che con molto coraggio tratta quelle lingue considerate paria dal mondo accademico, idiomi antichi e misteriosi che sono tutto ciò che rimane di continenti culturali scomparsi, la sola luce residua che giunge a noi da una preistoria sconosciuta e sprofondata nell'Oblio. Purtroppo la trattazione è poco approfondita e alcune sue ipotesi presentano gravi criticità. Lo studio è consultabile e scaricabile liberamente al seguente link: 


Questo è l'abstract, da me tradotto in italiano:

"Le lingue aborigene delle isole Canarie (Guanche) appartenevano chiaramente alla macrofamiglia afro-asiatica. Tuttavia, in aggiunta all'idea tradizionale delle lingue dei Guanche come berbere-libiche, sono dimostrati legami guanche-chadici.
La lingua pictica potrebbe essere vicina alle lingue siberiane Yenissei, cfr. il possibile sostrato Yenissei in proto-germanico e il proto-hattico come lingua sino-caucasica (di possibile origine indoeuropea occidentale) strettamente imparentata con lo Yenissei.
Resti di sostrato pre-ugrofinnico in Saami/Lappone (connesso all'aplogruppo I1?) mostra somiglianze con il sostrato pre-rumeno (connesso all'aplogruppo I2?). Potrebbe essere una traccia di una lingua d'origine dall'aplogruppo maschile I."
 

Le lingue dei Canari

Da tempo sospettavo che le lingue dei Guanche delle Canarie non fossero semplici dialetti berberi. Esistono sostrati molto difficili da trattare. Se ci sono numerose parole ascrivibili al ceppo berbero, non va nascosto che ne esistono altre che presentano caratteristiche incompatibili con tale origine - anche nel lessico di base. Alcuni dei raffronti proposti da Mosenkis sono fondati e oltremodo interessanti, altri mi lasciano perplesso, altri ancora sono di certo da rigettarsi. A quanto mi è parso di capire, non è stata tentata la ricerca di corrispondenze fonetiche regolari. Talvolta si trovano corrispondenze in antico egiziano, in chadico e in cuscitico, ma non in berbero. In alcuni casi sono riportate anche possibili corrispondenze con il basco, non sempre a proposito. Riporto alcune considerazioni:

1) Guance cel /tsel/ "luna" viene ricondotto al proto-afroasiatico *ṭilVʕ- "sorgere (della luna)", che ha dato esiti in semitico (solo in arabo, col senso di "sorgere del sole"), in chadico occidentale (col senso di "sole") e in chadico centrale (col senso di "luna"). Mosenkis connette a questa radice il cretese talos "sole" (glossa di Esichio) e il proto-basco *hil- "luna" (in realtà è *(h)iL-, con la liquida forte). Si noterà che la forma basca potrebbe essere benissimo un prestito dal proto-afroasiatico *hilal- "luna" (con esiti in semitico e in berbero), ben diverso da *ṭilVʕ-. Al momento, la questione non può essere facilmente risolta.  
2) Guanche tea "pino" sembra derivato dal latino taeda "pino resinoso; torcia" (cfr. berbero taida "pino"). In spagnolo vive ancora la parola tea "torcia", sempre da taeda, così alcuni decostruzionisti hanno ritenuto che la voce Guanche in realtà sia un ispanismo equivocato. A parer mio può ben trattarsi di una mera convergenza fonetica, essendo l'origine ultima la stessa. Non mi sembra necessario ricorrere a un proto-afroasiatico *tVʔal "albero, cespuglio". Esistono antichi prestiti dal latino nelle Canarie (il toponimo Afur a Tenerife, < lat. furnus) e anche iscrizioni rupestri in caratteri romani.
3) Guanche guirre /'girre/ "avvoltoio" a parer mio corrisponde alla perfezione al berbero igider "aquila": il mutamento è stato /*i'gidre//'girre/. L'etimologia data da Mosenkis (proto-afroasiatico ʔac̣ir- "uccello da preda") mi pare vana, non rendendo conto della consonante /g/ iniziale, che ben difficilmente potrebbe risalire a PAA c̣ /tsʔ/. I decostruzionisti vorrebbero ricondurre guirre allo spagnolo buitre "avvoltoio" (esito del lat. vultur), cosa che è impossibile per motivi fonetici e priva di qualsiasi senso. 4) Guanche mayec "madre" viene ricondotto al proto-afroasiatico *maH- "madre". Il paragone con il basco emazte "donna" è da rigettarsi non soltanto per motivi semantici, ma per l'errata etimologia: non è lecito ritagliare da tale parola una radice -ma-, dato che è un composto di eme "femmina" e di gazte "giovane", la protoforma essendo *ema-gazte. A parer mio eme viene da *enbe ed è un termine nativo, anche se la massima parte dei vasconisti lo ritiene un prestito dal guascone hemna "femmina" (< lat. fēmina) - cosa che porrebbe gravi problemi fonetici. 5) Guanche cancha "cane" (Tenerife) è fatto risalire da Mosenkis al proto-afroasiatico *kwVHen-, che ha dato esiti solo in omotico e in chadico. Tuttavia la stessa radice è diffusa in moltissime lingue nostratiche, come ad esempio nel proto-indoeuropeo. È ben difficile capirne il percorso. Si noterà che oltre a cancha è documentato anche cuna "cane", che ipotizzo essere un prestito dal celtiberico < *kunam (acc.). La cosa non è così folle come potrebbe sembrare: è possibile che ci siano state spedizioni dall'Iberia alle Canarie nel corso dei secoli. Esistono anche altre voci che potrebbero essere prestiti: si veda magua, maguada, magada "vergine" (Gran Canaria), che rimanda al proto-germanico *maγaθi- "vergine"

La lingua dei Picti 

La lingua dei Picti è una crux per gli studiosi. I decostruzionisti cercano con ogni mezzo di negarne l'esistenza, servendosi di argomenti derridiani futili e capziosi. Con buona pace di questi propagatori di virus memetici, è chiaro che esiste un residuo di lingua non indoeuropea, un nucleo che non può essere spiegato a partire dal celtico.

1) Il nome dei Picti viene ricondotto al proto-Yenisei *pixe- "essere umano" (-x- è una forte aspirazione), che ha dato in Yug fik. Tuttavia, per quanto ne sappiamo, il nome non era un endoetnico. La spiegazione tradizionale vuole che i Picti siano semplicemente dei "dipinti", per via dei loro tatuaggi, ma questa sembra proprio una falsa etimologia. Per alcuni, la riprova starebbe nel fatto che Picti ha l'aria di essere una traduzione della denominazione gaelica Cruithne e di quella gallese Prydein (< *Pritanī < *Kwritanī). In antico irlandese abbiamo cruith "forma" e in gallese pryd "forma". Da questa fonte sarebbe derivato il nome dei Britanni, pur con una consonante iniziale di difficile spiegazione. Resta poi da colmare la distanza semantica tra "forma" e "dipinto, tatuaggio". Potrebbe anche essere sensata l'ipotesi di una somiglianza col nome della popolazione celtica dei Pictavi (Pictones) della Gallia Transalpina, che potrebbe ben risalire a piχto- "quinto" (sinonimo del più comune pinpetos "quinto", attestato nella forma piχte "come un quinto"). Al momento attuale delle conoscenze, non scomoderei le lingue paleosiberiane.
2) Interessante il tentativo di accostare il nome degli Scotti, donde deriva quello della Scozia, agli etnonimi Yenissei Ket e Kott. La stessa origine avrebbe anche il nome dei misterioso popolo antropofago degli Attacotti (e varianti), sempre formato da una radice *kott-. Va detto che a quanto pare, i nomi paleosiberiani Ket e Kott non avrebbero la stessa etimologia. 
3
) Mosenkis fornisce un'etimologia Yenissei per il termine IPE, con ogni probabilità da tradurre con "figlio". Questa parola enigmatica è attestata in due iscrizioni - la più famosa riporta DROSTEN IPE UORET ETT FORCUS. L'autore fa risalire questo IPE al Ket hyp "figlio". Si noterà però che poi prende Fip (variante Fibe), nome di un figlio di Cruithne, l'antenato mitico dei Picti, e lo correla allo Yug fyp "figlio". Dalla ricostruzione fatta da Starostin, risulta chiarissimo che il Ket hyp e lo Yug fyp risalgono alla stessa protoforma. Quindi è difficile ammettere che nella lingua non indoeuropea dei Picti esistessero entrambe le forme. Per quanto riguarda ETT, Mosenkis l'analizza come un suffisso del genitivo con corrispondenze in Ket. Credo più probabile che si tratti del latino et, preso come prestito. Si tradurrà dunque "Drosten figlio di Uoret, e Forcus". Non sussiste infatti traccia alcuna di un ETT interpretabile come genitivo in altre iscrizioni. Quelli di Mosenkis sembrano voli pindarici. Dal canto suo, Theo Vennemann fa risalire IPE a una protoforma semitica (donde ebraico bēn, arabo ibn). Si noterà che la parola pictica più comune per "figlio" è MAQQ, un evidente prestito dal goidelico.

La scarsità di materiale è un fattore limitante e non è facile capire se queste proposte di Mosenkis hanno un senso. Per quanto mi riguarda, credo che il pictico fosse una lingua imparentata alla lontana con il proto-basco, ma con una fonotassi radicalmente dissimile in quanto ha subìto mutamenti divergenti. Mi propongo di esporre le mie teorie e relative prove in altra sede; posso tuttavia anticipare di aver trovato una certa quantità di materiale interessante nello Shelta, la lingua degli stagnini itineranti irlandesi, che conserva un gran numero di vocaboli finora inspiegabili.

La lingua pre-Saami e
la lingua paleobalcanica

L'autore tenta una classificazione delle parole del sostrato pre-Saami, basandosi sulla loro somiglianza con materiale di altre lingue, in particolare cercando connessioni con vocaboli problematici comuni all'albanese e al rumeno. Questo è il riassunto proposto dall'accademico ucraino, in cui le voci trattate sono qui riportate tal quali:

1) Parole di aspetto indoeuropeo comune: viske "giallo", ken'te "uccidere"
2) Parole di aspetto indoeuropeo satem: sar'D' "cuore di cervo"
3) Parole di aspetto iranico: s'avn'e "diventare scuro";
4) Parole di aspetto germanico: ur'm "tafano"
5) Parole di aspetto russo antico: v'arv "cappio, occhiello"*
6) Parole di aspetto basco: niŋgлes' "femminile", nizan "donna"
7) Parole di aspetto urartaico: šuɛn'n' "palude"
8) Parole di aspetto "pre-inglese": odgi "giovane volpe"
9) Parole di aspetto albanese o "carpatico": beaski "passo montano", roahpi montagna rocciosa"
10) Parole che hanno aspetto paleo-balcanico: čearr "vetta", čerr "cresta" (cfr. mediterraneo kar "pietra"); abbr' "pioggia" (pre-rumeno abur, albanese avull "vapore"); k'ed'd'k "pietra" (pre-rumeno codru "foresta densa", albanese kodër, kodrë "collina").

*L'autore riporta "loop" come traduzione, senza specificare altro. Ho cercato senza successo la parola lappone, perdendo tempo senza arrivare a nulla. Non so quindi se il lemma sia corretto. Questo rende l'idea di quanta approssimazione regni nel mondo accademico dei paesi slavi.

Resterebbe da spiegare cosa si intenda per "parola di aspetto pre-inglese". Si dovrebbe anche specificare che la radice kar- è ricostruita a partire da vocaboli residuali di varie lingue e da toponimi, da come viene posta sembra invece che kar- sia "mediterraneo" attestato, cosa ovviamente non possibile. Questa approssimazione può rendere difficile per molti accademici cogliere quanto di interessante c'è nella trattazione, che reputo senza dubbio utile. Per maggiori dettagli rimando ai lavori del finlandese Ante Aikio e alle mie note sull'argomento.

Limiti del lavoro

Non nascondo la mia grande sfiducia nell'archeolinguistica fondata sulla genetica. La storia ci insegna che numerosi gruppi umani possono cambiare lingua nel corso dei secoli: non c'è ragione alcuna per pensare che le cose andassero diversamente nella preistoria. Così come un afroamericano di Harlem si esprime in un bizzarro inglese e non in Yoruba, è possibile che persino un sostrato linguistico antichissimo non fosse in realtà la lingua originale di un dato popolo identificabile dall'analisi degli aplogruppi. Non dimentichiamoci che i Pigmei dell'Africa e i Negritos dell'Indonesia hanno abbandonato le loro lingue d'origine da tempo immemorabile, per adottare quelle dei popoli stanziali con cui vivevano a contatto.