Interessanti attestazioni di importanti parole longobarde si trovano in atti notarili e in altri documenti di epoca sorprendentemente tarda. A tutto ciò non sembra esser fatta molta pubblicità in Italia, a causa dei pregiudizi degli autori, che ancora chiamano "gotico" e "longobardo" qualsiasi cosa riesca loro ripugnante sotto il profilo linguistico, estetico e persino morale. Peggio ancora, c'è chi cerca di far violenza ai dati per affermare le proprie idee preconcette. A un simile scempio va posta la parola fine.
Cominciamo con la seguente citazione:
Cominciamo con la seguente citazione:
Ego Pedreuerto notario rogitus ad iam dicto Staualene in hanc cartolam ih me subscripsi. (anno 872)
Il documento in questione è un atto notarile scritto ad Asti, che risale in pratica a un secolo dopo l'estinzione del Regno Longobardo. Eppure il pronome longobardo ih è stato conservato nell'atto, come prova eloquente del fatto che esisteva ancora una lingua parlata chiaramente germanica. I fautori della scomparsa precoce della lingua balbettano e farfugliano applicando un ragionamento circolare. Siccome essi assumono per dogma che non poteva esistere nulla di germanico nell'Italia del tardo IX secolo, dicono che questo ih in realtà sarebbe il latino hic, nonostante non vi sia somiglianza grafica tra le due parole. Non possono riportare alcun caso in cui una forma ih sarebbe scritta per hic: la loro sicumera viene soltanto dal fatto che hanno assunto come vero il loro pregiudizio. Proprio come quelli che quando vedono un fulmine globulare in cielo dicono che è la Madonna, anche se tra la figura di una donna in cielo e quella di una sfera lucente non sussiste somiglianza veruna. Noi però sappiamo, ed è pienamente documentabile, che in antico alto tedesco ih significa "io": non è necessario pretendere l'attestazione del pronome nell'attuale forma tedesca ich.
Sempre da documenti e atti notarili:
Paulus Drancus (anno 812), "giovane gagliardo" (1)
Julianus Dungo (anno 818, Abbazia di Nonantola), "grasso", "pesante" (2)
Johannis Zanvidi filii quondam Petri Zanvidi (anno 919, Chioggia), "coi denti dagli spazi larghi"
Benedictus Scarnafol (anno 1003, Abbazia di Farfa), "sporcaccione" (3)
(1) cfr. norreno drengr "ragazzo"
(2) cfr. norreno þungr "grave"
(3) cfr. antico alto tedesco scarno "sterco", antico inglese scearn id., norreno skarn.
(2) cfr. norreno þungr "grave"
(3) cfr. antico alto tedesco scarno "sterco", antico inglese scearn id., norreno skarn.
A quanti affermano che Zanvidi (gen.) non sarebbe altro che un derivato di Gian Vito, faccio notare che siamo agli inizi del X secolo e che Zanvidus è chiaramente un soprannome che in un caso si applica a Petrus e in un altro a Johannes. Non ha la struttura di un nome proprio Gian Vito: se fosse stato ritenuto un ipocoristico di Johannes, non sarebbe stato apposto a tale nome. In tale epoca non si può ancora parlare di veri e propri cognomi. Nel Codice Diplomatico Padovano in cui si trova l'attestazione di Zanvidi, non sembrano esserci evidenze dell'ipocoristico Zan(i) per Johannes in epoca tanto precoce. Si ha invece la prova che alcune persone si definivano appartenenti alla nazione dei Longobardi, professandone il diritto.
Affermo con forza l'idea di Wilhelm Bruckner contro quella dei romanisti: esistevano ancora famiglie in grado di parlare la lingua longobarda in epoca tarda. I soprannomi sopra riportati danno il senso di una lingua germanica viva, colloquiale, opposta al pur approssimativo latino degli atti notarili. Allo stesso modo capita ai nostri giorni che parlanti dialettali abbiano un nome colloquiale nel loro idioma vernacolo, di uso familiare, che viene apposto al nominativo italiano negli annunci funebri. La differenza è che spesso i soprannomi dialettali odierni sono oscuri, mentre quelli longobardi dei secoli IX-XI appaiono chiarissimi e comprensibili a chiunque abbia qualche nozione di filologia germanica.
Da una cronaca anomima del tardo X secolo:
Defunctus ut diximus Grimoalt, Idelrici filius Grimoalt, quem lingua todesca, quod olim Langobardi loquebantur, stoleseyz fuit appellatus, quod nos in nostro eloquio, qui ante optulibus principis et regis milites hic inde sedendo perordinat possumus vocitare, in principali dignitate est elevatus. Chronicon Salernitanum (anno 978)
Il termine stoleseyz è una variante tarda di stolesazo "funzionario regio", derivato dalle radici stol- "sedia" e saz- "sedere". Questo mutamento fonetico, prova una tarda applicazione di un Umlaut in -i-, che non appare nei testi più antichi. Una forma con un suffisso *-io aggiunto a una radice con vocale breve è all'origine della forma stoleseyz (confronta medio alto tedesco stuol-sezze; < proto-germanico *-satjan-), mentre una forma con suffisso -o aggiunto a una radice con vocale lunga è all'origine di stolesazo (confronta medio alto tedesco stuolsaze; < proto-germanico *-se:tan-). Tutto ciò non sarebbe potuto accadere se la lingua fosse morta rapidamente: è chiaro che l'autore del Chronicon non ha semplicemente copiato la forma attestata nei documenti più antichi. Vediamo che nel tardo X secolo ancora permaneva una certa capacità di comprendere la lingua, che pure l'autore del Chronicon afferma essere uscita dall'uso corrente. Evidentemente la morte della lingua longobarda non avvenne dovunque nello stesso tempo, come vorrebbero gli autori dei manuali scolastici italiani, ma in tempi diversi presso comunità diverse, a seconda anche della densità della popolazione di origine germanica: l'autore del Chronicon si sarà riferito alla situazione di Salerno. Appare in ogni caso chiaro che se il longobardo fosse stato dimenticato nel VII secolo, come per ragioni ideologiche qualcuno vorrebbe, non sarebbe neanche perdurata memoria della sua esistenza nel X secolo.
L'ottima studiosa Giovanna Princi Braccini ha recentemente citato un incantesimo antiemorragico longobardo scritto a margine del ms. Vat. lat. 5359. Purtroppo non sono riuscito a reperire il suo lavoro e non ho potuto quindi analizzare il testo della formula. Attraverso l'analisi dei documenti disponibili, compresa l'Historia Langobardorum di Paolo Diacono e il Chronicon Salernitanum, l'autrice giunge a conclusioni cautelative, collocando l'estinzione della lingua dei Longobardi in qualche momento indefinito tra i primi e gli ultimi decenni del secolo VIII - in ogni caso non "prestissimo" come voluto dalla tradizione del mondo scolastico italiano. Tale stima permetterebbe di identificare il declino del longobardo con la fine del Regno. A parer mio un conto è la fine di una lingua come normale mezzo di comunicazione, un altro è invece la morte degli ultimi gruppi superstiti di parlanti: non sarebbe il primo caso di lingue credute estinte in un certo periodo di cui sono saltati fuori parlanti isolati anche dopo un secolo o più.
Lo studio in cui Princi Braccini tratta l'interessante questione è il seguente:
Lo studio in cui Princi Braccini tratta l'interessante questione è il seguente:
Giovanna Princi Braccini Vecchi e nuovi indizi sui tempi della morte della lingua dei Longobardi
Studi in memoria di Giulia Caterina Mastrelli Anzilotti Firenze, Istituto di studi per l'Alto Adige 2001 = Archivio per l'Alto Adige. Rivista di studi alpini, Firenze 93-94 (1999-2000) 353-74
Nessun commento:
Posta un commento