mercoledì 5 aprile 2023


TRE SULL'ALTALENA
 
 
Autore: Luigi Lunari 
Anno di composizione: 1990 
Prima assoluta: 10 luglio 1990 
Lingua originale: Italiano 
Genere: Commedia 
Sottogenere: Commedia paradossal
Tempi:
Edizione di debutto (1990): Teatro dei Filodrammatici
II edizione (1993): Compagnia Pambieri-Tanzi-Beruschi 
III edizione (1994): Compagnia Campogalliani 
- Seguono numerose altre edizioni - 
Regia (Filodrammatici, 1990): Silvano Piccardi 
Regia (Pambieri-Tanzi-Beruschi, 1993): Silvano Piccardi 
Regia (Campogalliani, 1994): Aldo Signoretti 
Titoli in altre lingue: 
   Francese: Fausse adresse 
   Tedesco: Drei auf der Schaukel 
   Inglese: Three on the swing 
   Spagnolo: Tres en el columpio 
   Russo: трое на качелях 

Interpreti e personaggi (1993): 
  Antonio Guidi: Il Commendatore 
  Enrico Beruschi: Il Professore
  Giuseppe Pambieri: Il Capitano 
  Lia Tanzi: La donna delle pulizie 

Nota: 
In almeno un'altra edizione successiva ci sono stati "cambi di sesso": il Commendatore è diventato la Signora, il Professore è diventato la Professoressa, la donna delle pulizie è diventata l'uomo delle pulizie. Inoltre il Capitano, oltre al sesso ha cambiato grado, è diventato Sergente. Questi sono gli interpreti e i personaggi dell'edizione con regia di Sebastiano Boschiero (2021): 

  Marisa Gianni: La Signora
  Alessandra Tesser: Il Sergente
  Angela Caltanella: La Professoressa
  Mattia Mometti: L'uomo delle pulizie 

N.B.
A differenza di quanto accade nel cinema, nel teatro si rivela un'impresa quasi disperata reperire informazioni complete e attendibili. Ad esempio, mancano gli interpreti della versione di debutto del 1990.
 
Sinossi (da Teatro.it):
Un commendatore, un capitano dell'esercito ed un professore, si trovano nello stesso luogo per tre ragioni diverse: il primo per un incontro galante, il secondo per trattare un acquisto di materiale bellico, il terzo per ritirare le bozze di un suo libro. Ma cos'è esattamente quel luogo? Un albergo “discreto”, un luogo di affari, o una casa editrice? È possibile che tutti e tre abbiano avuto l'indirizzo sbagliato? La strana situazione si aggrava per la circostanza di un'improvvisa esercitazione anti-inquinamento che impedisce loro di uscire da questo posto ambiguo, costringendoli a passarvi la notte. I tre cominciano a sospettare che potrebbero trovarsi in un'anticamera per l'aldilà... probabilmente loro sono morti e stanno lì in attesa del Giudizio! 

Un estratto:

IL PROFESSORE - No, no, non è niente di complicato. Le faccio un esempio. La frase "Finché la barca va, lasciala andare". Tratta, come dice lei, da una canzone... non è particolarmente intelligente. Giusto? 
IL CAPITANO - Giusto.
IL PROFESSORE - Bene. Ora state a sentire. (Apre il librone nero che gi abbiamo visto nelle mani del Commendatore e legge, con tono biblico) Ed egli allora vide la barca di Simon Pietro e dei suoi fratelli che, spezzati gli ormeggi, veniva trascinata dalla corrente al largo del lago di Tiberiade. Simon Pietro sporgevasi dal bordo, e tendendo le braccia verso di lui, gridava tra le lacrime: "Rabbi, rabbi, non vedi che si sono spezzati gli ormeggi, e la corrente ci trascina verso la malvagia Samaria? Perché non ci soccorri?". Ed egli, senza allontanarsi dal gruppo dei fedeli che lo circondavano, così gli rispose: "Simon Pietro, uomo di poca fede, credi tu che un ormeggio possa spezzarsi senza che ciò sia da sempre previsto nella mente del padre mio che nei cieli? In verità in verità ti dico: finché la barca va, lasciala andare." 
IL CAPITANO - Hai visto i parolieri? Copiano proprio da tutto.
IL COMMENDATORE - Questo sarebbe nel Vangelo?
IL PROFESSORE - No. L'ho inventato io.
IL CAPITANO - Come, come?...
IL PROFESSORE - Ma semplicissimo. In letteratura ma che dico, in letteratura: nella vita! non è vero che non è l'abito che fa il monaco! L'abito fa il monaco. La stessa identica frase, in una canzonetta è una cretinata, ma ben ambientata sul lago di Tiberiade, in bocca a uno tutto drappeggiato, con opportuna messa in scena, preceduta da "in verità in verità vi dico" diventa una di quelle cose che poi dai pulpiti te le commentano per duemila anni.
(Pausa e perplessità) 
IL COMMENDATORE - E allora, cosa significa?
IL PROFESSORE - Wittgenstein l'aveva detto: la filosofia è la lotta dell'uomo contro le ambiguità del linguaggio.
IL COMMENDATORE - Lasci perdere Vitt... quello là. Arrivi al dunque.
IL PROFESSORE - Il dunque, caro signore, è che effettivamente può avere ragione lei. Il significato di tutto quello che quell'uomo ha detto dipende da chi è, o anzi: da chi crediamo che sia. Se è lo Spirito Santo... e beh: ogni sillaba pronunciata ha una valenza incredibile e misteriosa. Ma se è uno spazzino, come ovviamente non può che essere, non esiste nessun doppio fondo: la cretinata rimane cretinata. 


Edizioni del copione:

Titolo: Tre sull'altalena
Autore: Luigi Lunari
Ia edizione: 1994
IIa edizione: 2009
Lingua: Italiano
Editore (1994): Rizzoli
Collana: BUR Teatro
Editore (2009): ‎Book Time
Lunghezza stampa: 96 pagine
Codice ISBN (1994): 9788817169844
Codice ISBN-10 (2009): 8862181450
Codice ISBN-13 (2009): 978-8862181457  

L'autore (da Ibs.it): 
Luigi Lunari (1934-2019) drammaturgo, romanziere, storico e saggista, è stato per vent’anni al Piccolo Teatro di Milano con Grassi e Strehler. Nel 1991 ha scritto Tre sull’altalena che, dopo un trionfo al Festival di Avignone, è stata tradotta in ventisette lingue, è correntemente rappresentata in tutto il mondo e ha aperto la strada ad altri testi, quali Il senatore Fox, Nel nome del padre e Sotto un ponte, lungo un fiume… (rappresentati anche a Parigi, Tokyo e New York). Al di fuori dell’impegno drammaturgico, ha scritto diversi saggi e tre romanzi. Per la collana i “Classici” di Feltrinelli ha curato I Viceré di Federico De Roberto (2011) e Il Cid di Pierre Corneille (2012). Ha tradotto e curato anche Ritratto di signora (2013) e Giro di vite (2017) di Henry James e tradotto Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll (2013). 

Recensione: 
Vidi quest'opera teatrale molti anni fa in televisione. Era la versione interpretata da Enrico Beruschi. Mi è rimasto impresso il suo faccione barbuto, perennemente contratto in smorfie e tic, con gli enormi occhi strabuzzati che sembravano essere sul punto di uscire dalle orbite. Più che una commedia, direi che è una tragedia ontologica, non meno angosciante del Faust di Christopher Marlowe (The Tragical History of Life and Death of Doctor Faustus, 1590) o del film sulfureo Angel Heart - Ascensore per l'inferno (Angel Heart, Alan Parker, 1987). Solo in Italia si può reputare comica o umoristica quella che a tutti gli effetti è la dannazione eterna. Con grande fatica, sono riuscito a reperire informazioni più precise sulla rappresentazione beruschiana di Tre sull'altalena: fu trasmessa il 18 novembre 1995, su RaiDue. Per pura fortuna, a un certo punto mi sono imbattuto in una pagina di programmazione della Rai, sopravvissuta ai decenni allo stato fossile. Se già nel 1995 la commedia paradossale era stata trasmessa in televisione su RaiDue, non è possibile che la prima della Compagnia Pambieri-Tanzi-Beruschi fosse lo spettacolo del 1996 al Teatro Carcano di Milano, come pure è riportato su molti siti Web. Se anche il 18 novembre 1995 la commedia fosse stata trasmessa in diretta, c'è un altro fatto da considerare. Siccome nel libro edito da Rizzoli (1994) compare in copertina il faccione di Beruschi, in ogni caso la Compagnia Pambieri-Tanzi-Beruschi avrà portato in scena l'opera non oltre il 1994. 

Fisica quantistica in scena:
il paradosso del gatto di Schrödinger
 

I personaggi non sono né vivi né morti. Esistono e al contempo non esistono. Sono reali e al contempo sono irreali. La loro condizione è qualcosa che appartiene sia al mondo terreno che all'Oltretomba. Viene in mente qualcosa di ben preciso: la meccanica quantistica e un famosissimo Gedanken (esperimento concettuale) immaginato nel  1935 da Erwin Schrödinger. Eccolo illustrato per sommi capi:   

1) La scatola: 
Il gatto è chiuso in una scatola ermeticamente sigillata, di cui non si può osservare l'interno. 
2) Il meccanismo: 
Nella scatola è presente un meccanismo che, a seguito di un evento quantistico (ad esempio il decadimento di un atomo radioattivo), può rilasciare un veleno e uccidere il gatto. 
3) L'evento quantistico:
Il decadimento radioattivo, con conseguente uccisione del gatto, è un evento casuale, con una certa probabilità di verificarsi. 
4) Lo stato del gatto:
Fino a quando non si osserva la scatola, il gatto si trova in uno stato di sovrapposizione: è sia vivo che morto, con una certa probabilità per ciascuno stato. 
5) L'osservazione:
Quando si apre la scatola e si osserva il gatto, lo stato di sovrapposizione "collassa" e il gatto è o vivo o morto, con una probabilità determinata dallo stato dell'evento quantistico. 

Schrödinger usò questo esperimento concettuale per rimarcare la differenza tra il mondo microscopico (descritto dalla meccanica quantistica) e il mondo macroscopico (descritto dalla meccanica classica). Le leggi della meccanica quantistica, che permettono la sovrapposizione, non sembrano applicabili a oggetti macroscopici come un gatto. L'esperimento evidenzia anche la questione dell'osservazione e del ruolo dell'osservatore nella meccanica quantistica. Eppure, a quanto pare, è stato possibile applicarle a Beruschi! 
La scatola in cui sono rinchiusi i personaggi sembra una buca di potenziale con dentro alcune particelle confinate: ogni tentativo di fuga è impossibile. Quando il Professore cerca di uscire, trova un'insormontabile barriera di pioggia battente che lo costringe a rientrare. Lo stesso meccanismo d'azione vanifica nel finale ogni possibilità di ristabilire la normalità del mondo dei vivi!  
Traendo spunto dalle stranezze estreme della fisica quantistica, Lunari fa riflettere sull'impossibilità sostanziale di conoscere ciò che si estende oltre la soglia della misurabilità. L'esistenza, descritta da leggi che ci appaiono logiche, non è tuttavia logica: possiamo sempre chiederci perché diamine esista qualcosa e non il Nulla - oppure perché diamine le cosa stiano proprio come stanno e non in modo diverso. Anche la metafisica non è logica: se ci ritrovassimo all'Inferno, non dovremmo poi stupirci più di tanto! 

Curiosità

Talvolta l'autore, Luigi Lunari, viene erroneamente citato come Luigi Lunardi

Altre recensioni e reazioni nel Web 

Riporto alcuni frammenti trovati nel Web, riferiti ad alcune tra le innumerevoli edizioni. 

"In scena l’equivoco della vita, la drammaticità dell’ironia e l’irresistibile risata nel dramma insolubile e insoluto. Se fuori tutto è fermo, a causa di una prova anti inquinamento, sarà il nostro futuro?, che costringe tutti al chiuso con tutto spento, in quella sala anonima che potrebbe essere una casa editrice, o una ditta o una pensione per incontri d’amore, la vita non si ferma, perché si parla, ci si confronta, si litiga anche, si ride, si ha paura. Ma di cosa si parla, si litiga, si ha paura? Della vita? Della morte? E a che serve parlare della vita se basta viverla? E a che serve parlare della morte se è assenza di vita? E perché averne paura?" 
(Isabella Ferrara, 2016, apemusicale.it

"La regia è attenta al ritmo, ai movimenti, gradazioni di toni, luci e ombre sono ben rese. Gli attori, bravi a rendere vive non solo le parole, ma anche le emozioni, le sfumature dei personaggi. Ogni gesto è studiato. La scena è scarna, essenziale, tutto in bianco e nero, linee rette, figure geometriche sul pavimento, si sta giocando una partita a scacchi? Un punto di domanda sul cuscino del divano  evoca un “non luogo”. Se i contesti e i luoghi creano le parole, che cosa creano i “non luoghi”? Precarietà? Provvisorietà? Insicurezze? Le persone transitano nei non luoghi, ma nessuno li abita, nulla è definitivo. Nel finale, un improvviso e inaspettato coup de théâtre, ci spinge a dubitare ancora."
(Angela Villa, 2012, dramma.it

"Lo spettacolo, scritto nel 1989 da Luigi Lunari, affronta in chiave comica i dilemmi dell’esistenza: l’importanza del caso nella vita, la paura della morte e dell’ignoto, la religione, il senso della vita stessa, il libero arbitrio. Molto essenziale la scenografia. In un “non luogo” dove i tre si incontrano, infatti, predominano solo il colore grigio e il nero. Protagonista è la parola. Ci sono molte citazioni di autori famosi come Pirandello, Vico, Boccaccio, Schopenhauer, ciascuno vede ciò che desidera vedere. Shakespeare (la vita è una favola narrata da uno sciocco, piena di strepito, ma senza significato alcuno); Cartesio (cogito ergo sum); dei filosofi stoici (finché vivi la morte non c’è, quindi perché averne paura? Quando la morte arriva tu non ci sei più, come potresti averne paura?). Ma anche del parroco del paese (dalla vita nessuno esce vivo!) e della canzone famosa di Orietta Berti (finché la barca va lasciala andare). Il ritmo è incalzante e coinvolgente. Il pubblico si diverte. Finale a sorpresa!?"
(Filomena Brancaccio, 2016, mydreams.it

"Il ritmo serrato e la fine ironia sono gli ingredienti forti di questa commedia definita da Dario Fo: “Una macchina di fantastica fattura. Io l’ho letta di un fiato, ridendo a bocca spalancata. E’ una delle poche invenzioni teatrali per le quali valga la pena uscire la sera, sobbarcarsi il rito della vestizione, prenotare il biglietto e starsene seduti in una sala stipata di gente…”"
(Sebastiano Boschiero, 2021, strebenteatro.it)

lunedì 3 aprile 2023

 
SETTE BREVI LEZIONI DI FISICA 
 
Autore: Carlo Rovelli 
Anno: 2014 
1a pubblicazione: 22 ottobre 2014 
Lingua originale: Italiano 
Editore: Adelphi
Collana: Piccola Biblioteca Adelphi
   Numero: 666 
Genere: Saggio 
Sottogenere: Scientifico 
Temi: Fisica, relatività, quantistica, natura del tempo 
Pagine: 88 pagg., brossura 
Codice ISBN: 9788845929250 
Percentuale di utenti a cui è piaciuto il libro: 91% 

Risvolto: 
"Ci sono frontiere, dove stiamo imparando, e brucia il nostro desiderio di sapere. Sono nelle profondità più minute del tessuto dello spazio, nelle origini del cosmo, nella natura del tempo, nel fato dei buchi neri, e nel funzionamento del nostro stesso pensiero. Qui, sul bordo di quello che sappiamo, a contatto con l'oceano di quanto non sappiamo, brillano il mistero del mondo, la bellezza del mondo, e ci lasciano senza fiato». Tale è il presupposto di queste «brevi lezioni», che ci guidano, con ammirevole trasparenza, attraverso alcune tappe inevitabili della rivoluzione che ha scosso la fisica nel secolo XX e la scuote tuttora: a partire dalla teoria della relatività generale di Einstein e della meccanica quantistica fino alle questioni aperte sulla architettura del cosmo, sulle particelle elementari, sulla gravità quantistica, sulla natura del tempo e della mente."

Indice: 

Premessa .......... 11 

Lezione prima: La più bella delle teorie .......... 13 
Lezione seconda: I quanti .......... 23 
Lezione terza: L'architettura del cosmo .......... 31
Lezione quarta: Particelle .......... 39 
Lezione quinta: Grani di spazio .......... 47 
Lezione sesta: La probabilità, il tempo e il calore 
       dei buchi neri .......... 57 
In chiusura: Noi .......... 71 
 
Indice analitico .......... 87 

L'autore:  

Laureato in Fisica all’Università di Bologna, ha poi svolto il dottorato all’Università di Padova. Ha lavorato nelle Università di Roma e di Pittsburgh, e per il Centro di Fisica teorica dell’Università del Mediterraneo di Marsiglia. Ha introdotto la Teoria della gravitazione quantistica a loop, attualmente considerata la più accreditata in ambito fisico.
Si è dedicato anche alla storia e alla filosofia della scienza con il libro Che cos'è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro (Mondadori Università, 2011).
Tra gli altri suoi libri, Che cos'è il tempo? Che cos'è lo spazio? (Di Renzo Editore, 2010), La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose (Raffaello Cortina Editore, 2014), Sette brevi lezioni di Fisica (Adelphi, 2014), Helgoland (Adelphi, 2020), Relatività generale (Adelphi, 2021).
Nel 2023 è uscito, sempre per le edizioni Adelphi, Buchi bianchi. Dentro l'orizzonte, entrato immediatamente ai primi posti delle classifiche di vendita. Nello stesso anno esce per Solferino, Lo sapevo, qui, sopra il fiume Hao. Articoli per giornali.
Nel 2025 pubblica per Feltrinelli insieme a Massimo Tirelli, Giorgia Marzano e Francesca Zanini, Il volo di Francesca, un memoir politico sulla libertà, sul coraggio di affrontare l’ignoto e la diversità. 

Recensione:  
Testo agevole, tanto che sono riuscito a immergermi nella sua lettura di sera, dopo giornate di lunghissime camminate in montagna, senza provare alcun segno di affaticamento mentale. Avendo studiato questi argomenti all'Università, avendo quindi conseguito una laurea in Fisica, la cosa non dovrebbe stupire più di tanto. Va però detto che non servono studi specifici per apprezzare il libro di Rovelli. Tutto è presentato in estrema sintesi, in modo che sia comprensibile anche all'uomo della strada, posto che questi abbia il benché minimo interesse a seguire un discorso articolato sulle fondamenta della realtà. I detrattori, che pure non mancano, accusano l'autore di aver raccolto una serie di suoi articoli già pubblicati sul Sole 24 Ore, oppure di essersi ispirato troppo a due opere di Richard Feynman, Sei pezzi facili (Six Easy Pieces: Essentials of Physics Explained by Its Most Brilliant Teacher, 1994) e Sei pezzi meno facili (Six Not So Easy Pieces: Einstein's Relativity, Symmetry and Space-Time, 1997) - anch'esse pubblicati da Adelphi. Mi ha sorpreso l'insurrezione di un tale che affermava di aver scagliato contro una parete il libro di Rovelli, quando ha letto che l'autore aveva usato un volume di fisica per occludere una tana di topi, che ne avevano rosicchiato il bordo. Se bastasse un aneddoto studentesco per far crocifiggere qualcuno, chi potrebbe salvarsi dal supplizio? La realtà è questa: c'è in Italia un mondo scolastico greve e bilioso, incapace di sopportare tutto ciò che esce dai propri angusti schemi mentali. Se qualcuno parla di Scienza senza fare gnè gnè gnè gnè, si infuriano e lo vogliono linciare.  

Lezione prima:
La più bella delle teorie

Si parla della teoria della Relatività ristretta e generale di Albert Einstein. 
Tre articoli di importanza capitale furono pubblicati dal giovane di Ulm nel 1905 sulla rivista Annalen der Physic. Questi sono gli argomenti trattati:  
1) Dimostrazione della reale esistenza degli atomi. 
2) Teoria dei quanti (trattata nellezione seconda). 
3) Teoria della Relatività ristretta. Viene dimostrata una sorprendente verità: il tempo non passa allo stesso modo per tutti. Viene formulato il paradosso dei gemelli, che hanno età diverse se uno dei due viaggia a velocità superiore rispetto all'altro. 
Einstein divenne all'improvviso uno scienziato rinomato, ma qualcosa continuava a roderlo. Vedendo che la teoria della Relatività ristretta era in contrasto con quella della gravitazione universale formulata da Newton, si convinse che ad essere errata fosse quest'ultima. Dopo 10 anni di studi convulsi e spesso confusi, riuscì finalmente a venire a capo del problema: nel 1915 fece pubblicare un articolo sulla nuova teoria della Relatività generale. Questa potente costruzione fu definita "la più bella delle teorie scientifiche" dal fisico russo Lev Landau (no, non è l'attore di Spazio 1999). 
Newton aveva sempre considerato lo spazio come un mero contenitore dell'esistente, in ultima analisi inspiegabile. Gli studi di Michael Faraday e di James Clerk Maxwell, avevano portato a una nuova branca della fisica: l'elettromagnetismo. Era stato introdotto un nuovo concetto, quello di "campo elettromagnetico", un'entità diffusa ovunque, che diffonde l'interazione elettromagnetica. Einstein comprese che doveva esistere, in modo del tutto analogo analogo, un campo gravitazionale. Poi era giunta la grande intuizione: il campo gravitazionale è lo spazio
Abbondano le digressioni rovelliane sul concetto stesso di bellezza e di armonia, in cui vibrano i ricordi della gioventù "hippy" dell'autore. La lezione si inoltra nella trattazione del concetto di spazio curvo, accennando alla matematica di Riemann e citando infine un'equazione abbastanza criptica, che è come uno scrigno di tesori preziosi. Sembra quasi che ci venga detto qualcosa come: "Fidatevi, è così"

Lezione seconda:
I quanti

Si parla della teoria quantistica, che ha avuto inizio nel 1900 quando Max Planck è riuscito a riprodurre i dati sperimentali grazie a un trucchetto matematico che si rivela provvidenziale, ipotizzando che l'energia di un campo elettrico in particolari condizioni sia quantizzata, ossia composta da minuscoli pacchetti chiamate quanti. Planck era convinto che questo artificio non poggiasse su qualcosa di reale: non c'era motivo di credere che l'energia non fosse distribuita in modo continuo nello spazio. Cinque anni più tardi,  nel 1905, proprio Albert Einstein comprende che questi pacchetti sono reali e che compongono la radiazione luminosa. Sono quelli che conosciamo come "fotoni". In questo modo finalmente è stato possibile spiegare il mistero dell'effetto fotoelettrico - cosa che ha portato lo scienziato di Ulm a vincere il Nobel. 
Eppure, in seguito, Einstein ha avuto enormi problemi a portare avanti la teoria dei quanti e non l'ha più riconosciuta. È stato come se si fosse tirato indietro, timoroso delle conseguenze della rivoluzione concettuale da lui stesso innescata. Le nuove idee sono sviluppate dal danese Niels Bohr, che comprende qualcosa di sconvelgente: anche l'energia degli elettroni negli atomi può assumere soltanto certi valori, ossia che è quantizzata. Gli elettroni possono solo "saltare" da un'orbita permessa a un'altra, emettendo un fotone. 
Werner Karl Heisenberg nel 1925 arriva a formulare la meccanica matriciale, che permette di calcolare le energie degli stati stazionari. Egli comprende che gli elettroni non hanno un'esistenza in sé, "newtoniana", indipendente da tutto il resto: la loro sola realtà consiste nell'interazioneDi lì a poco, nel 1926, Erwin Schrödinger (non citato da Rovelli) enuncia la meccanica ondulatoria, dimostrando poi la formale equivalenza con la meccanica matriciale di Heisenberg: si tratta di due approcci diversi che descrivono la stessa realtà. Una volta note le equazioni, la teoria quantistica viene portata al trionfo. La meccanica di Newton viene rimpiazzata. Si comprendono persino le ragioni profonde della tavola periodica di Mendeleev: ogni elemento è una soluzione dell'equazione di base della meccanica quantistica. La chimica emerge così dalla fisica. 
Incapace di accettare tutto questo, Einstein cerca di evidenziarne la natura contraddittoria e incoerente. I suoi argomenti tuttavia non fanno altro che portare nuovi problemi senza risolvere alcunché. Il problema, gravissimo, è che meccanica quantistica e relatività sembrano essere tra loro  incompatibili
Rovelli non fa menzione di alcune cose molto interessanti. 
1) Heisenberg aderiva al Nazionalsocialismo tedesco, anche se aveva la mente aperta verso le teorie enunciate da eminenti studiosi ebrei, sostenendo la necessità di studiarle e di integrarle. Non seguiva il movimento della cosiddetta Deutsche Physik o "Fisica Ariana", che rigettava la quantistica.  
2) La meccanica quantistica dimostra l'impossibilità di un essere con le caratteristiche che la tradizione scritturale attribuisce a Dio. I concetti di onnipotenza e onniscienza sono contraddetti dal principio di indeterminazione di Heisenberg, che dimostra l'impossibilità intrinseca di determinare al contempo la posizione e la velocità delle particelle. 
3) Pascual Ernst Jordan, allievo di Heisenberg, ha dato una dimostrazione da cui consegue l'inesistenza di Dio, in un modo ancor più devastante. Avevo trovato questo lavoro su una dispensa di fisica teorica all'epoca degli studi universitari, comprendendo le implicazioni che erano sfuggite ai docenti. A Jordan non fu perdonata l'adesione alla NSDAP. Al contempo, i vertici della NSDAP lo avevano ritenuto "politicamente inaffidabile" per via della sua difesa di Einstein e dei suoi legami con gli scienziati ebrei. Per paradosso, dopo la guerra era in politica come democristiano. 

Lezione terza:
L'architettura del cosmo 

Si parla del Macrocosmo, ossia dell'Universo a livello macroscopico. Rovelli comincia a fare una carrellata di cosmologie antiche, con tanto di disegnini esplicativi, partendo dai Sumeri e dalla Bibbia per arrivare a Copernico. Poi, col crescere delle conoscenze scientifiche, giunge la comprensione che lo stesso sistema solare di cui fa parte la Terra, è soltanto uno tra moltissimi altri. Ognuna delle stelle è un sole che ci sembra microscopico soltanto perché è molto lontano da noi. Queste stelle compongono una vastissima nuvola chiamata Galassia. Il passo successivo, compiuto intorno agli anni '30 del XX secolo, consiste nella comprensione dell'esistenza di un numero immenso di altre galassie, centinaia di miliardi. Ed ecco che Rovelli giunge dalla cosmologia alla cosmogonia, ossia alla nascita dell'Universo. Con un linguaggio comprensibile a tutti, l'autore spiega che in origine l'Universo era una palla piccolissima, poi esplosa ed espansa fino a raggiungere le attuali dimensioni - espandendosi ulteriormente, senza sosta. Mi piace l'umiltà scientifica e l'estremo realismo della risposta rovelliana al cruciale interrogativo: "Cosa c'era prima dell'Inizio? Cosa c'era prima del Big Bang?" Egli dice questo: "Non lo sappiamo." 
Ricordo che non ha sempre regnato questa serenità di pensiero tra i fisici. Fino a poco tempo fa, se si poneva la domanda di cui sopra, la risposta del mondo scientifico era immancabilmente la seguente: "Non ha senso chiedersi cosa c'era prima gnè gnè gnè gnè gnè gnè!!" E questo è quanto.  

Lezione quarta:
Particelle
 

Si parla delle particelle elementari, scendendo a livello subatomico. I protoni e i neutroni costituiscono il nucleo dell'atomo, ma sono a loro volta formati da particelle ancor più minuscole, tra cui i quark. Questi quark sono tenuti insieme da altre particelle chiamate "gluoni" (dall'inglese glue "colla"). Ogni cosa esistente, ci dice Rovelli con pazienza, è costituita da  queste componenti, che sono le particelle elementari

1) elettroni,
2) fotoni,
3) quark,
4) gluoni.

Il loro nome, che tanto ha suggestionato Houellebecq, deriva dal fatto che al momento queste particelle non sono suscettibili di ulteriore analisi. Certo, Rovelli aggiunge subito che ci sono altre particelle ancora, come i neutrini e il bosone di Higgs, dicendo al lettore che tanto non contano nulla e di stare tranquillo. Poi prosegue affermando che l'Universo è un LEGO i cui mattoncini sono proprio le particelle elementari. Non esiste una sola regione che sia davvero vuota. Anche il vuoto intergalattico pullula di particelle. Dopo aver evocato per l'ennesima volta gli hippy a lui tanto cari e il loro mondo come "insieme di vibrazioni", Rovelli arriva al cosiddetto modello standard, una teoria intricata e complessa, basata sulla meccanica quantistica, messa a punto negli anni '70 del XX secolo. Il problema è che questo modello fa schifo. Anche se funziona, non si riesce a capire perché. Dopo aver fatto sbucare il problema della materia oscura come un tarlo dal legno fradicio, l'autore dice che ci conviene tenere il modello standard. Sfuma nel romanticume coi sorrisi dei ragazzi alle feste, il cielo stellato etc. 

Lezione quinta:
Grani di spazio 

Si parla della gravità quantistica e del suo tentativo di arrivare a una sintesi tra relatività e fisica quantistica. Il punto, già menzionato, è che queste due teorie, che funzionano benissimo (ciascuna nel loro ambito), fanno a pugni tra loro. Pur avendoci dato moltissimi frutti, pur avendo cambiato in concreto le nostre esistenze, si contraddicono a vicenda. Non ne esce una visione coerente del mondo: è come se ci fosse un'intrinseca schizofrenia. Un piccolo gruppo di scienziati, ci fa sapere Rovelli, si sta dedicando anima e corpo a superare questo dissidio. Immagino che conducano esistenze monastiche. Esistono diverse soluzioni possibili, cosa che genera dibattito. L'autore sostiene la teoria della gravità quantistica a loop

Premesse: 
- Lo spazio fisico è qualcosa di dinamico;   
- Ogni campo è fatto di quanti (ha una struttura fine granulare). 
Conseguenza: 
- Lo spazio fisico è fatto di quanti. 

Questi sono i capisaldi: 
- I quanti sono chiamati "atomi di spazio"
- Gli atomi di spazio sono "un miliardo di miliardi di volte più piccoli del più piccolo dei nuclei atomici"
- Gli atomi di spazio non sono da nessuna parte: essi sono lo spazio;
- La teoria descrive l'evolversi degli atomi di spazio in forma di equazioni matematiche; 
- Gli atomi di spazio interagiscono tra loro formando strutture chiamate "loop", ossia "anelli" (o meglio "circuiti"
- Nelle equazioni che descrivono gli atomi di spazio non è contenuta la variabile "tempo"

La scomparsa del tempo newtoniano, non deve portare a concludere che tutto sia immobile e che il cambiamento non esista, ci avverte Rovelli in modo esplicito. Significa che il cambiamento è onnipresente, ma non descrivibile come una dimensione indipendente, una linea lungo la quale avvengono gli eventi. Purtroppo la gente non lo capisce e dice così: "Rovelli, quello che il tempo non esiste". Lascio al lettore la trattazione del concetto di "stella di Planck" (immaginate se il sole collassasse fino a raggiungere le dimensioni di un atomo). Viene quindi ripreso il tema del Big Bang: cosa c'era prima? Ecco, la gravità quantistica a loop permette di abbozzare una soluzione. L'Inizio può essere stato causato dal rimbalzo di un altro Universo in contrazione, attraverso una fase intermedia "senza spazio e senza tempo"

Lezione sesta:
La probabilità, il tempo
e il calore dei buchi neri
 

Si parla del calore, della natura del tempo, per finire coi buchi neri e il loro ruolo nell'Universo. Rovelli descrive i misteri del calore. Fino a metà del XIX secolo, il mondo accademico era convinto che esistesse un fluido chiamato "calorico", oppure due fluidi diversi, uno caldo e uno freddo. James C. Maxwell e Ludwig Boltzmann fecero tramontare queste idee arcaiche, riuscendo a spiegare il fenomeno del calore come uno stato di agitazione degli atomi. Gli atomi vibrano, si agitano, si urtano, etc. A questo punto si pone una domanda cruciale. Perché il calore va dalle cose calde alle cose fredde? Perché non si verifica il contrario? Boltzmann trovò una risposta controintuitiva quanto geniale. Non esiste una legge fisica assoluta che impedisce a un corpo caldo di riscaldarsi quando è messo a contatto con un corpo meno caldo: è soltanto estremamente improbabile che ciò accada. Gli atomi di un corpo caldo hanno maggior energia, che possono trasmettere agli atomi di un corpo freddo nel corso dell'interazione, ad esempio urtandoli. Gli atomi di un corpo caldo si muovono di più, è improbabile che vibrino ancora di più a contatto con atomi più quieti. 
Rovelli enuncia alcune verità profonde e importantissime: 

1) La probabilità connessa al calore, descritta da Boltzmann, è connessa alla nostra ignoranza. Facendo osservazioni sullo stato degli oggetti fisici, sappiamo qualcosa ma non tutto, così abbiamo solo una possibilità: fare previsioni probabilistiche.
2) Esiste uno stretto legame tra il calore e il tempo. Possiamo distinguere il presente dal passato e dal futuro soltanto quando viene scambiato calore

In assenza di attrito, un pendolo oscillerebbe in eterno. Non si fermerebbe mai. Tuttavia, esistendo l'attrito, che è calore disperso, il pendolo scalda i suoi supporti, perde energia e rallenta fino a fermarsi.  Siamo quindi in grado di distinguere passato, presente e futuro. Se filmiamo il pendolo che si smorza e poi proiettiamo il filmato al contrario, otteniamo sequenze che non hanno senso fisico: nessun pendolo parte da fermo e si mette a muoversi in modo spontaneo. Rovelli, che è sempre molto pudico e timido, si è astenuto dal fare esempi ancora più eloquenti. Se un uomo defeca e si riprende la scena, quando si proietta il filmato al contrario si vedono gli escrementi animarsi e salire fino all'ano di chi li ha deposti! Una situazione antifisica. Nell'Universo, si noterà, tutto scambia calore. Un fisico formato su esercizi che presuppongono condizioni ideali (es. il moto rettilineo uniforme, senza attrito, di gravi puntiformi, etc.), farà fatica a rendersi conto del fatto che, nel mondo reale, non ci sono poi molte situazioni in cui il presente è indistinguibile dal passato e dal futuro. 
Rovelli introduce quindi i buchi neri, che sono sempre "caldi", come Stephen Hawking ha dimostrato servendosi della meccanica quantistica. I buchi neri costituiscono un indizio di campi gravitazionali caldi. Lo studio di questo fenomeno, che collega tra loro meccanica statistica, relatività generale e scienza del calore, è il punto di partenza per comprendere in modo profondo la natura del tempo. Una specie di Stele di Rosetta.

In chiusura: Noi 

Si parla del nostro posto nell'edificio della fisica moderna. Il concetto portante è questo: tutto ciò che vediamo (e che non vediamo) condivide la stessa natura. Forse l'autore vorrebbe trasmettere un senso di ottimismo e di speranza, tipicamente hippy, ma ciò che vi scorgo a me suona così: non c'è una vera differenza tra un essere umano e una squallida tarma alimentare. Tutt'altro che incoraggiante. 
Ci sono lettori che si sono stupiti di questa settima lezione, ritenendola impregnata di misticismo panteista spinoziano. Sono andato oltre. A me ha stupito constatare che Rovelli, in questo ultimo capitolo, all'improvviso si è messo a fare propaganda anticatara e antimanichea. Ha intonato il Cantico dell'Uno-Tutto. Perché? Se le idee catare e manichee sono morte e sepolte, per quale motivo parlarne ancora per cercare di confutarle? Perché la comunità scientifica continua a scomodarsi per affermare e ribadire a ogni piè sospinto che il nostro essere ha in fin dei conti la stessa sostanza della merda? 
Il dogmatismo materialista impone di negare l'esistenza di una qualsiasi natura acosmica della coscienza. Resta però il fatto che la coscienza è un fenomeno tutt'altro che spiegato. A questo si aggiunge ora una specie di dogmatismo panteista. Tutto ciò senza avere alcun vero dato a disposizione per poter ragionare in modo attendibile - perché si esce dal dominio misurabile dell'indagine scientifica per entrare in quello della metafisica. In ogni caso non si può impedire al lettore intelligente di trarre alcune deduzioni che certo sarebbero piaciute al Caporale di Braunau e al Biondo Dio della Morte: se l'essere umano ha la stessa dignità ontologica dei cagnotti e delle feci, allora è possibile porre fine alla superstizione cristiana della "sacralità della vita"

Il concetto di bellezza è soggettivo

Nella comunità scientifica esiste un'idea totalitaria e molto invasiva, che ha la pretesa di definire standard universali di bellezza. Se uno si discosta dalla tirannia di questi standard, viene considerato un reietto. La conclusione implicita e fallace di un simile atteggiamento è questa: se uno non apprezza ciò che la comunità scientifica considera "bellezza" e "armonia", ne consegue che non può nemmeno essere definito intelligente. Insorgo contro tutto ciò. Nessuno può impormi un apprendistato per apprezzare ciò che non amo o che mi lascia indifferente, o ritenermi un idiota per via dei miei gusti. Solo per fare un esempio, ciò che apprezzo in Mozart sono le sue inclinazioni perverse, come la coprofagia. Non il Requiem, bensì Leck mich im Arsch, inteso in senso letterale: "Leccami nel culo". Invece ascolto volentieri gruppi come gli Anal Blasphemy e i Behemoth. Inoltre sono un Bastian Contrario e un ribelle. Cercare di obbligarmi a fare qualcosa è il modo migliore per farmela detestare. 

Altre recensioni e reazioni nel Web 

Si trovano alcune brevi opinioni sparse sul sito Ibs.it. Ne riporto alcune: 

Valy ha scritto: 

"Carino. se come me ne sapete poco di fisica e vi piacerebbe capire qualcosa in più senza annoiarvi, questo libro può dar al caso vostro. L'autore è piuttosto bravo a semplificare le spiegazioni sebbene rimanga un mondo complesso."

Silvia ha scritto: 

"Libricino semplice con spiegazioni fluenti. Purtroppo ormai un po' datato dato che alcune informazioni le si studiano di norma nei banchi di scuola."

Queste cose si studiano con scarso profitto, a quanto vedo, dato che la scuola è soprattutto una schifosa fabbrica di bulli, maranza e simili energumeni riscimmiati! Si suggerisce di introdurre nel sistema educativo alcuni strumenti innovativi: la culla di Giuda, il solletico spagnolo e il piffero del baccanaro.

MB ha scritto: 

"Banale e inutile. In giro ci sono libri molto migliori"

Un'opinione che non condivido, ma che trovo estremamente coraggiosa, quasi eroica!

M. ha scritto: 

"Incredibile come questo libro possa appassionare alla fisica anche chi come me l'ha sempre odiata. Uno sguardo interessante per indurre curiosità, perfettamente riuscito."  

Su Anobii.com si trovano recensioni decisamente più interessanti. Non mancano tuttavia le stroncature feroci. Riporto un paio di reazioni tutto sommato eulogistiche.

sigurd ha scritto:

Uno dei versi più belli di sempre si trova nelle "Contemplazioni" di Hugo e dice: "L'hydre Univers tordant son corps écaillé d'astres". Più tardi, Chesterton dirà, in "Seconda Infanzia", che la notte è un mostro fatto d'occhi.
L'idra è un mostro mitologico fatto di tante teste. più queste vengono tagliate, più ricrescono in una sorta di caos senza limiti della creazione. Così Hugo ha questa intuizione geniale: l'Universo è un'Idra. Un mostro che contorce il suo corpo squamoso, le cui squame sono scintillanti come stelle, che più viene mutilato più si espande. Terribile e sublime allo stesso tempo.
In qualche modo, sintetizza poeticamente la teoria della relatività di Einstein, le forze gravitazionali dell'universo hanno un corpo che si contorce, che crea buchi neri, che attira spaventosamente a sè: lo spazio. 

Procyon Lotor ha scritito: 

[...] Non capisco se è un caso o se all'Adelphi hanno un curioso senso dell'umorismo: quello di far uscire un libro nella corrente del migliore umanesimo degli ultimi tre millenni al numero "666" della collana "piccola biblioteca".
Non c'è nulla di satanico qui, bontà casomai e luciferina è l'ignoranza applicata.

sabato 1 aprile 2023

 
QUELLO DI CUI LA NATURA
NON HA BISOGNO
 
 
Titolo originale: More than Nature Needs: Language,
      Mind, 
and Evolution
Autore: Derek Bickerton  
Lingua originale: Inglese 
Anno: 2014  
I ed. italiana: 2022  
Genere: Saggio 
Temi: Neuroscienze, linguaggio, biologia, 
   evoluzione, lingue creole 
Editore: Adelphi  
Collana: Biblioteca Scientifica 
Numero: 66
Codice ISBN: 9788845936593 
Pagine: 477 pagg. 
Traduzione: Davide Bordini 
 
Sinossi (risvolto): 
Noto per aver formulato, in parallelo a Darwin, una teoria evoluzionistica «per selezione naturale», Alfred Wallace ne coglieva fin dall’inizio uno dei limiti principali: l’incapacità di spiegare perché la nostra specie abbia acquisito una mente «di gran lunga più potente» rispetto alle necessità adattative. Domanda ingombrante, a cui lo stesso Darwin tentava di rispondere ipotizzando che quella ridondanza cognitiva fosse l’esito «dell’uso continuo di un linguaggio perfetto». Congelato per oltre un secolo e riaffiorato solo negli ultimi anni, il «problema di Wallace» ha trovato infine una convincente soluzione in questo libro ammaliante e definitivo. Riconsiderando punti di forza e carenze delle principali teorie sull’argomento, Bickerton ricolloca il linguaggio nell’alveo evoluzionistico e in­dividua tre fasi decisive per il suo sviluppo: quella della generazione nel cervello di «rappresentazioni di unità simboliche», innescata dalla comunicazione dislocata necessaria per il reclutamento di alleati nella saprofagia conflittuale; quella della riorganizzazione neurale in rapporto alle sollecitazioni ambientali, in cui il cervello ridisegna le proprie connessioni in modo da collegare le parole ai concetti appropriati; e quella culturale, in cui un processo di elaborazione grammaticale sviluppa unità sintattiche elementari in altre più ampie. Bickerton riesce così ad attualizzare la risposta di Darwin al «problema di Wallace», delineando un nuovo orizzonte: «Linguaggio e cognizione (almeno quegli aspetti della cognizione propri degli esseri umani) sono cresciuti a partire da un’origine comune e hanno le stesse fondamenta». La locuzione Homo sapiens loquens sarebbe dunque molto più di un gioco di parole. 

L'autore: 
Derek Bickerton (1926 - 2018), eminente linguista nato in Inghilterra, ha a lungo insegnato alla University of Hawai'i a Mānoa. Basandosi sul suo lavoro sulle lingue creole in Guyana e nelle Hawaii, ha proposto che le caratteristiche delle lingue creole forniscano importanti spunti di riflessione sullo sviluppo del linguaggio sia a livello individuale che come caratteristica della specie umana. È stato l'ideatore e il principale sostenitore dell'ipotesi del bioprogramma linguistico, fondata su questa idea: la somiglianza delle lingue creole è dovuta al fatto che sono state formate da un pidgin preesistente da bambini che condividono tutti una capacità grammaticale innata universale umana.
 
Struttura del volume: 
 
1 Il problema di Wallace 
     La risposta di Darwin 
     La chiave d'accesso al problema 
     La struttura di questo libro 
2 La teoria generativa 
     Le tre fasi della grammatica generativa 
     La teoria standard (1957-1980) 
     Princìpi e parametri (1981-1994) 
     Il programma minimalista (dal 1995 a oggi) 
     Minimalismo ed empirismo 
     Minimalismo e biologia 
     Operazioni minimaliste
     Il problema di Chomsky 
     Proscritto 
3 L'«unicità» degli esseri umani 
     Un «istinto ad apprendere»? 
     L'approccio all'evoluzione in termini di «caratteristiche componenti»
     Sovrastimare la evo-devo 
     Il «patchwork» delle caratteristiche componenti 
     Risalendo la scala fino agli esseri umani 
     Primati e pressioni 
     La teoria della costruzione della nicchia 
     La costruzione della nicchia e la speciazione ominide 
     Alcune linee guida per lo studio dell'evoluzione del linguaggio
4 Dalla comunicazione animale al proto-linguaggio 
     Il paradosso della cognizione 
       Prove a favore della cognizione avanzata 
       Prove contro la cognizione avanzata 
       La soluzione del paradosso della cognizione 
     Il primo passo verso il linguaggio 
     Gli imenotteri dimenticati 
     Una nicchia per «Homo» basata sulla saprofagia? 
     Saprofagia conflittuale e dislocamento 
     La saprofagia e il problema di Wallace 
     L'importanza del dislocamento 
     Dalla cognizione preumana a quella umana 
     Quello che le parole possono fare 
     Il proto-linguaggio 
     Dopo il proto-linguaggio 
5 La grammatica universale 
    La struttura costituente e le sue implicazioni 
    L'«impossibilità» della grammatica universale 
    Il cervello dà una mano 
      Dall'inizio del proto-linguaggio 
      Un modello dell'evoluzione della sintassi come dettata dal cervello 
    Dalla stringa alla frase 
       Concatenare unità simboliche 
       Strutturare le concatenazioni 
    Un modello astratto di come il cervello gestisce la sintassi 
    Il processo di costruzione delle frasi 
       Il c-comando 
       Gli effetti-isola 
       Il riferimento delle «categorie vuote» 
    Dopo la grammatica universale
6 Variazione e cambiamento 
    Perché la variazione e il cambiamento?
    Instabilità intrinseca 
    Sotto-specificazioni che vanno specificate 
      Ordine delle parole 
      Sistemi tempo-modo-aspetto (TMA) 
    Sotto-specificazioni che non richiedono di essere specificate 
      Grammaticizzazione delle relazioni tra parole 
      Grammaticizzazione delle relazioni verbo-argomento
      Grammaticizzazione dei confini tra sintagmi e clausole 
    Cause del cambiamento 
    Obiezioni a questo modello 
      Un'obiezione particolare: categorie funzionali
      Un'obiezione generale: la teoria dei parametri 
7 L'«acquisizione» della lingua 
   Un'alternativa al consenso 
   Il linguaggio infantile è un proto-linguaggio? 
   La fase della parola singola 
   La fase delle due parole 
   Il «discorso telegrafico» 
   La distinzione causativo/non causativo 
   La negazione in francese e in inglese 
   Acquisire le forme interrogative 
   L'«errore» come fonte di comprensione
8 Creolizzazione 
   Il «continuum» delle lingue creole  
   Il ciclo della piantagione 
   Critiche al programma innato 
      Adulti e bambini 
      L'influenza delle lingue di sostrato 
      Creolizzazione «graduale» 
      Negazione del pidgin 
      Differenze nel creolo 
   Lo sranan e il saramaccano: origini comuni o indipendenti? 
      La storia degli albori del Suriname 
      Il lessico dello sranan e del saramaccano  
   La creolizzazione alla Hawaii 
      Lo stato della generazione G2 
      G2 e le lingue dei genitori
   Le lingue creole e l'argomento universalista
9 «Homo sapiens loquens» 
   Le tre stanze e la scala mobile
   L'«uso continuo» e il fattore Joyce 
   Il fattore Joyce 
   Perché non abbiamo bisogno di capacità ulteriori
   Alcune conseguenze di queste proposte 
       Quanto erano probabili gli esseri umani?
       Innatismo contro empirismo 
Conclusione 
Bibliografia
 
Recensione:  
Il problema dell'origine del linguaggio umano è ben lungi dall'essere risolto, con buona pace di quanto affermano il contrario (ad esempio i sostenitori della grammatica generativa di Noam Chomsky). Questo ponderoso testo di Bickerton è certo affascinante, ma tutt'altro che "definitivo" e non fornisce comunque alcuna spiegazione convincente del mistero che è il fondamento della nostra stessa esistenza come creature pensanti. Per quanto il risvolto presenti l'opera come il compimento supremo dell'impresa di ridurre il linguaggio "nell'alveo dell'evoluzionismo", direi piuttosto che lo colloca nel letto di Procuste, tagliando ciò che sporge e stirando ciò che manca. Gli sforzi fatti dall'autore sono senza dubbio eroici e lodevoli, ma credo che ci sia ancora molta strada da percorrere. 

Un'osservazione cruciale 

Questo scrisse nel 1869 il naturalista e geografo britannico Alfred Russel Wallace (1823 - 1913), intendendo con "selvaggi" coloro che vivevano in una società senza scrittura (agrafa) e pre-industriale: 

"La selezione naturale avrebbe potuto dotare i selvaggi di un cervello di poco superiore a quello di una scimmia, mentre essi possiedono un cervello che è di poco inferiore a quello di un membro medio delle nostre società scolarizzate."

Ai frequentatori compulsivi di Facebook il nome di Wallace dirà ben poco. Basti ricordare che fu il cofondatore della teoria dell'evoluzione per selezione naturale, assieme al più noto Charles Darwin (1809 - 1882). Bickerton ci fa capire l'enormità delle conseguenze di quanto Wallace aveva compreso:

"Un cervello leggermente migliore di quello di una scimmia sarebbe comunque bastato per superare in intelligenza qualsiasi altra cosa si muovesse su due o quattro zampe e raggiungere così la cima della catena alimentare. I primi umani non avevano bisogno di occuparsi di matematica, di costruire barche, di comporre musica o di avere idee circa la natura dell’universo per poter fare tutte le cose che in concreto facevano. Il fatto che, all’improvviso, scoprissero di essere dotati di un cervello che potenzialmente avrebbe potuto renderli capaci di tutte queste cose era già abbastanza notevole. Ma ancor più straordinario era che quegli stessi cervelli avrebbero reso capaci coloro che li possedevano di ricoprire il mondo intero delle proprie opere, di immergersi negli abissi più profondi degli oceani e addirittura (meno di mezzo secolo dopo la morte di Wallace) di lasciarsi alle spalle la Terra." 
 
Una singolare contraddizione di Darwin  

Bickerton riporta 
quanto scrisse Darwin nel 1871 (pag. 101, trad. it. pag. 106), in risposta alle argomentazioni del suo connazionale Wallace

"Se si potesse provare che alcuni elevati poteri mentali, come la formazione di concetti generali, l’autocoscienza, ecc. sono assolutamente peculiari all’uomo, il che sembra estremamente dubbio, non sarebbe improbabile che queste qualità apparissero come il risultato incidentale di altre facoltà intellettuali altamente avanzate e queste ancora principalmente il risultato dell’uso continuo di un linguaggio perfetto." 

Se la logica è il prodotto dell'uso continuo di una lingua perfetta, come ebbe a dire Darwin, come si spiega allora l'origine di questa perfezione? Come si è formata la lingua perfetta? Il problema è che Darwin non lo chiarisce affatto, in qualche modo si tira fuori dalla scomoda discussione. Soltanto pochi anni prima, egli avrebbe affermato quanto segue: "La lingua perfetta è stata data all'essere umano dal Creatore". In altre parole, il dono del Logos sarebbe qualcosa di acosmico, quindi non soggetto alle regole dell'evoluzione per selezione naturale. Qualcosa di non scandagliabile dalla stessa mente umana che ne fa uso. Proprio questa è la risposta data da Wallace, che postulava la necessità di un intervento soprannaturale, in grado di conferire alla specie umana la sua unicità rispetto agli altri viventi. In un'altra occasione, sempre nel 1871 (pag. 57, trad. it. pag. 79), Darwin si era contraddetto, affermando quanto segue: 

"[...] i poteri mentali in alcuni primi progenitori dell’uomo devono essere stati più altamente sviluppati che in ogni scimmia esistente, anche prima che la più imperfetta forma di discorso fosse entrata nell’uso."

Mettiamo dunque assieme quanto affermato da Darwin: 
 
I) Pag. 57: le facoltà logiche preesistevano al linguaggio articolato.
II) Pag. 101: le facoltà logiche sono la conseguenza dell'uso del linguaggio articolato. 

Si applica il principio di non contraddizione: le proposizioni I e II non possono essere entrambe vere
 
Bickerton fa notare che i creazionisti, sostenitori del cosiddetto Disegno Intelligente, non hanno sfruttato questo bug. Quindi riporta dichiarazioni di un'estrema gravità e importanza: 

"Il divario cognitivo tra umani e nonumani è il tallone d’Achille dell’evoluzione. Il problema di Wallace è reale, e gli evoluzionisti lo hanno semplicemente ignorato oppure hanno cercato di dare delle spiegazioni che lo facessero scomparire. A quanto ne so, l’unico che ha provato a riaffermarlo è David Premack (1986, p. 133), il quale ha fatto notare che «il linguaggio umano è fonte di imbarazzo per la teoria evoluzionista, perché è molto più potente di quanto si possa spiegare nei termini delle forze selettive»."

Il nascondimento è sempre indice di disonestà intellettuale. A maggior ragione in questo caso, così delicato. Più che di fronte a un'onesta comunità scientifica, vediamo gli effetti deleteri di quella che ha tutte le parvenze di una camorra e di una camarilla. 

Deprivazione linguistica

In buona sostanza, Bickerton ammette che non è facile dedurre qualcosa di utile dalle normali condizioni in cui avviene l'apprendimento di lingue ben consolidate, come ad esempio l'inglese e lo spagnolo. Occorre quindi studiare circostanze in cui l'input linguistico dato ai bambini presenta carenze e distorsioni. Per ragioni etiche, l'autore rifiuta la possibilità di utilizzare metodi sperimentali, che comporterebbero la crescita di bambini "con qualche grado di deprivazione degli input". Restano quindi soltanto due situazioni "naturali" utili: quella dei ragazzi selvaggi e quella in cui hanno origine le lingue creole. Si noterà che in passato ci sono stati studiosi che non hanno avuto scrupoli a tentare esperimenti di deprivazione linguistica, pur con risultati scarsi e assai dubbi. A quanto ci narra Erodoto, il Faraone Psammetico I (... - 610 a.C.), della XXVI dinastia, fece crescere due bambini da un pastore, in modo tale che non gli fosse insegnato a parlare. Quando questi bambini videro per la prima volta il sovrano, pronunciarono la parola "bekos", che in frigio significa "pane". Il Faraone dovette quindi ammettere la maggior antichità dei Frigi rispetto agli Egizi. L'Imperatore Federico II di Svevia (1194 - 1250) decise di far crescere alcuni bambini senza che fosse insegnato loro a parlare. Lo Stupor mundi era convinto che gli infanti si sarebbero messi a parlare in ebraico, ritenuto per motivi religiosi la prima lingua del genere umano - quella in cui Adamo avrebbe dato nome a tutte le cose esistenti, su comando di Dio. Questa convinzione biblica si dimostrò fallace: certamente nessuno dei bambini si mise mai a parlare, in ebraico o in qualsiasi altra lingua. Anzi, finirono col morire a causa della salute cagionevole. Sappiamo che i ragazzi selvaggi, bambini cresciuti senza contatti con adulti (o con scarsi contatti), hanno insormontabili problemi ad acquisire anche soltanto l'uso di poche parole. Bickerton non tratta di questi casi nel volume, ritenendoli irrilevanti e concentrandosi invece sul problema delle lingue creole, che costituisce la sua idée fixe. A parer mio ha commesso un grave errore. Una cosa mi è subito saltata agli occhi: i ragazzi selvaggi, che non hanno il linguaggio articolato, non hanno il tabù degli escrementi. In altre parole, prima che apparisse il linguaggio articolato, la coprofagia doveva essere una condizione normale tra gli antenati degli esseri umani! Ciò pone problemi a non finire, perché il tabù degli escrementi esiste presso i macachi, che pure non hanno il linguaggio articolato. Le fonti? Si trovano nel Web filmati in cui viene porto un escremento a un macaco, che reagisce con furia, soffiando e minacciando, per poi allontanarsi. 

Pidgin e lingue creole

È necessario a questo punto dare alcune definizioni per capire meglio il fumoso mondo delle lingue ibride. Un mondo che è stato ben poco studiato, anche a causa di pregiudizi. Senza dubbio il lavoro sul campo fatto da Bickerton è molto meritorio.

1) I pidgin 

Un
pidgin è una lingua che nasce dalla mescolanza di lingue di popolazioni differenti, venute a contatto a seguito di migrazioni, colonizzazioni e relazioni commerciali, che non è tuttavia la lingua madre di alcuna generazione. I pidgin si apprendono in età adulta; sono caratterizzati da strutture non codificate e fortemente semplificate, sia nella struttura sia nel vocabolario. 
 
2) Le lingue creole 

Una lingua creola nasce dall'ibridazione di due o più lingue esistenti, diventando la lingua madre di una nuova generazione di parlanti che non hanno imparato una delle lingue di origine. In sostanza è una lingua stabilita, con una propria struttura grammaticale e vocabolario, che si sviluppa quando i parlanti di diverse lingue entrano in contatto e devono interagire. Si chiama lessificatore principale la lingua (in genere europea, con alcune eccezioni) da cui proviene la maggior parte del vocabolario.

3) Creolizzazione dei pidgin 

Un pidgin che comincia ad essere appreso dai bambini di una nuova generazione, diventa una lingua creola, ossia subisce un processo di creolizzazione

4) Decreolizzazione dei creoli 

Una lingua creola subisce un processo di decreolizzazione man mano che si riducono le differenze con il suo lessificatore principale. Alla fine di questo processo, si può arrivare ad avere un dialetto del lessificatore.  

Due lingue creole:
Sranan e Saramaccano
 

In Suriname sono parlate tuttora due lingue creole molto singolari: lo Sranan e il Saramaccano. Lo Sranan (più propriamente Sranan tongo) è parlato da circa 500.000 persone ed è formato soprattutto da parole inglesi, con prestiti portoghesi e olandesi, oltre a un significativo sostrato africano. Il Saramaccano è parlato da circa 58.000 persone in Suriname e da 25.000 in Guyana Francese; il suo lessico è formato per il 30% da parole inglesi, per il 20% da parole portoghesi e per il 50% da parole africane (Fongbe, Akan, Twi, Kikongo, etc.). Si trovano anche tracce di parole di origine Carib. 
Queste ed altre simili lingue creole hanno avuto origine da un pidgin informe, non documentato, formatosi in tempi rapidi nel corso della seconda metà del XVII secolo nelle piantagioni. La creolizzazione del pidgin originario (dalla fine del XVII secolo) è avvenuta in circostanze diverse, che hanno portato alla divergenza delle lingue derivate. I parlanti dello Sranan sono i discendenti degli schiavi rimasti nelle piantagioni, mentre i parlanti del Saramaccano sono i discendenti dei cimarroni, schiavi fuggiaschi che si sono rifugiati nelle foreste. 
A questo punto riporto una tabella con alcuni dati lessicali relativi allo Sranan e al Saramaccano. In particolare ho aggiunto a quanto mostrato da Bickerton alcune parole del vocabolario di base e qualche altra voce relativa alla fauna. Ho inoltre cercato di evidenziare non soltanto la grande differenza tra i due creoli, ma anche la presenza di importanti lessemi in comune ("io", "acqua", "fiume", "piede", oltre agli articoli determinativi). 

Glossa italiana

Sranan

Saramaccano

il, lo, la

da

di

i, gli, le

den

dee

io

mi

mi

tu

yu

i

noi

unu, wi

u

voi

unu

un

chi

suma

ambé

che cosa

faa, san

andí

quando

oten

na unten

dove

ope, pe

ka, naase

quale

sortu

un

perché

sanede

andi-mbei

in

ini

a

con

psa

langalanga

dentro

ini

dendu

sopra

tapu

liba

sotto

ondro

basu

e

e, nanga

ku

se

efu

ee

acqua

watra

wata

fiume

liba

lio

montagna

bergi

kúnunu

cielo

loktu

gaangadu

fuoco

faya

faja

uomo

kel, man, mansma

womi

donna

frow, uma

mujee

bocca

mofo, smuru

buka

mano

anu

máun

piede

futu

futu

lucertola

lagadisi, lagadisa

kaluwá

alligatore

kaiman 

akalé, gandí, káima 

formica

mira

hansi


Si riconoscono facilmente le origini di numerose parole, solo in pochi casi trattate nel volume di Bickerton. Ecco alcune etimologie trasparenti: 

Saramaccano liba "sopra" < Portoghese arriba "su" 
Sranan watra "acqua" < Inglese water 
Saramaccano wata "acqua" < Inglese water 
Sranan liba "fiume" < Portoghese arriba "scoglio"
Saramaccano lio "fiume" < Portoghese rio 
Sranan faya, Saramaccano faja < Inglese fire 
Samaraccano womi "uomo" < Portoghese homem
Sranan uma "donna" < Inglese woman 
Saramaccano mujee "donna" < Portoghese mulher 
Sranan mofo "bocca" < Inglese mouth 
Saramaccano maun "mano" < Portoghese mão 
Sranan, Saramaccano futu "piede" < Inglese foot 
Sranan mira "formica" < Olandese mier 
Saramaccano hansi "formica" < Inglese ants "formiche" 

Si notano alcune parole africane, ben incastonate nella parte più importante del lessico: 

Saramaccano: ambé "chi" < Fongbe    
Saramaccano: andí "che cosa" < Fongbe àni 
Samaraccano: i "tu" < Fongbe ye 
Sranan: unu "voi" < Igbo únù
Samaraccano: un "voi" < Fongbe un 

Tra le poche parole di origine amerindiana, possiamo citare senza dubbio queste, derivate da una lingua di ceppo Carib: 

Samaraccano: kaluwá "lucertola"  
Samaraccano: akalé "alligatore" 
Sranan: kaiman; Samaraccano: káima "alligatore"  

Bickerton, che ha il merito di aver confrontato per la prima volta il lessico Sranan a quello Saramaccano, è dell'idea che non esista un proto-Sranan-Samaraccano ricostruibile, perché le due lingue creole si sarebbero formate in modo del tutto indipendente. 

La teoria della saprofagia organizzata

Bickerton sostiene che le caratteristiche peculiari della nicchia ecologica dell'uomo primitivo abbiano permesso questo passaggio da un sistema di comunicazione animale al linguaggio articolato. Cita il fatto che circa due milioni di anni fa i nostri antenati si facevano strada verso la cima di una piramide di spazzini, accedendo alle carcasse della megafauna prima di altri predatori, che tenevano a bada lavorando in gruppi coordinati. Imitando un animale, come un mammut, un membro poteva tentare di comunicare informazioni su tali fonti di cibo. Sebbene tale segnalazione imitativa mantenesse un carattere iconico piuttosto che completamente simbolico, implicava un atto di spostamento nella comunicazione, poiché il corpo poteva trovarsi a chilometri di distanza ed essere scoperto ore prima. Col tempo, i suoni che significavano qualcosa come un mammut sarebbero stati decontestualizzati e avrebbero finito per assomigliare a qualcosa di molto più simile a una parola. Questo spostamento è la caratteristica distintiva del linguaggio. 
Sempre secondo Bickerton, queste parole permettevano la formazione di concetti, piuttosto che delle semplici categorie di cui anche gli animali sono capaci. Le parole hanno avuto origine come un sistema di ancoraggio per le informazioni sensoriali e i ricordi relativi a un animale o un oggetto specifico. Una volta che il cervello aveva a disposizione le parole, poteva creare concetti che si assemblavano in un "protolinguaggio". Il protolinguaggio rimase molto simile a un pidgin per un milione di anni o più, per poi passare dal modello linguistico "a perline su un filo" a una struttura gerarchica tramite combinazione di stringhe. 

Un punto debole

Il problema è che né i pidgin né i creoli sono davvero "lingue primitive": derivano dalla degradazione e dalla ricombinazione di lingue già esistenti. A quanto si sa, non esistono lingue simili a pidgin e creoli, 
ma nate dal nulla (o meglio, da precedenti forme di comunicazione non linguistica, non articolata, animale). Quindi si sta lavorando facendo ipotesi in assenza di dati misurabili. In sintesi, non sono affatto sicuro che la pidginizzazione e la creolizzazione descrivano il processo di formazione degli antenati delle lingue naturali a noi note. 

L'inesistenza delle "lingue primitive" o "pre-lingue"

Purtroppo manca qualsiasi attestazione di lingue umane che possano essere chiamate "primitive" o "rudimentali". Con ogni probabilità saranno esistite, ma nessuna è riuscita a sopravvivere tanto a lungo da poter essere documentata. Qualcuno parla di "pre-lingue" o "protolingue assolute", ma il concetto è lo stesso - per quanto ritenga che la seconda locuzione sia un po' impropria. Trovo ragionevole pensare che una pre-lingua dovrebbe avere le seguenti caratteristiche: 

i) una fonologia semplice, con poche consonanti e soltanto sillabe aperte 
ii) un lessico poverissimo, che consiste di un centinaio o al massimo di poche centinaia di vocaboli; 
iii) assenza di numerali 
iv) assenza di pronomi personali 
v) assenza di mezzi grammaticali, in particolare: 
   - assenza di suffissi e di prefissi, 
   - assenza di parole composte, 
   - assenza di qualsiasi modificazione delle parole;  
vi) frasi telegrafiche, costituite da semplice giustapposizione di vocaboli; 
vii) assenza di paratassi (frasi coordinate) e di ipotassi (frasi subordinate). 

Si noti che esistono nel mondo diverse lingue anumeriche, come quelle degli Andamanesi e di alcuni popoli dell'Amazzonia (Pirahã, Nambiquara, etc.). La lingua Pirahã ignora l'ipotassi e ha preso in prestito i pronomi personali da una lingua Tupí. Eppure tutte le lingue di questi popoli sono sufficientemente complesse, ricche nel lessico e dotate di mezzi grammaticali sviluppati (composti, morfologia, etc.). Sarebbe interessante cercare di capire se antiche lingue rudimentali scomparse possano aver contribuito alla formazione delle lingue in questione, ad esempio fornendo elementi di sostrato. 

L'immaginario collettivo

Nonostante non ci sia attestazione di "lingue primitive", sembra che il genere umano abbia un'idea ben precisa di come queste dovrebbero essere. In realtà, ne esce qualcosa di più complesso ed "evoluto" rispetto alle caratteristiche della proto-lingua assoluta sopra menzionate. La frase "Io Tarzan, tu Jane" mostra già una rudimentale paratassi e la capacità di servirsi di pronomi personali per indicare la contrapposizione tra il parlante (Tarzan) e un altro essere (Jane). I sostenitori dell'innatismo considererebbero questo fatto come una prova dell'esistenza di una natura intrinsecamente sintattica e grammaticale dell'essere umano. In altri termini, secondo costoro le parole sarebbero nate assieme alla sintassi, alle strutture grammaticali. Non sono affatto convinto che questo sia vero. 

Anelli mancanti?

Bickerton ha sempre dato prova di essere ben consapevole di questi problemi: 

"Se vi sono innumerevoli specie dotate di capacità a metà strada tra quelle di una lampreda e quelle di uno scimpanzé, dovrebbero esserci anche molte specie intermedie tra esseri umani e scimpanzé. Come mai, allora, non ci sono animali dotati di una piccola o moderata quantità di autocoscienza, né c’è un aumento graduale della capacità di innovazione o della creatività, né ci sono livelli diversi di produzioni artistiche (anche solo in una singola arte o in due), o per lo meno un linguaggio rudimentale? Il mero asserire che non vi è nessuna «differenza fondamentale» non è (e non avrebbe potuto essere, neppure al tempo di Darwin) un pronunciamento scientifico. Era ed è una pura e semplice dichiarazione di fede."

L'unico modo di risolvere la questione sarebbe la scoperta, in qualche densissima foresta dell'Indonesia o della Papua Nuova Guinea, di una specie di ominide diversa da Homo sapiens, qualcosa come l'Uomo di Flores (Homo floresiensis), che sia sopravvissuta nell'isolamento e che ci permetta finalmente di gettare un po' di luce sul nostro passato più oscuro. 

Il pericolo della presunzione dogmatica 

Riporto a questo proposito quanto scritto qualche tempo fa dal professor Fabio Calabrese. Sono parole che condivido appieno, perché esprimono molto bene il mio profondo disagio verso ogni tentativo di fondare una "religione scientista", con sostituzione di dogmi preconcetti alla ricerca della Conoscenza: 

"Una volta invitai alla mia scuola a tenere una conferenza ai ragazzi, un esponente del CICAP triestino, perché ritenevo l'opera di questa associazione nello smascheramento di guru e ciarlatani, assolutamente meritoria. Me ne fece pentire. Iniziò facendo un disegno alla lavagna, un castello incompleto in una parte del muro in basso e in una parte della merlatura. Disse che quello rappresentava l'edificio della conoscenza, ormai completo, tranne qualcosa che non sappiamo del mondo subatomico, e qualcosa che non sappiamo delle lontane galassie. Trovai il suo atteggiamento indisponente, e irritante la presunzione che "ormai sappiamo tutto", o "sappiamo quasi tutto".
Secondo me, una scienza che smette di porsi domande, è una scienza morta."