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lunedì 30 settembre 2019

UN FALSO GERMANISMO: LA PAROLA 'BIONDO'

L'etimologia della parola biondo è incerta, checché se ne dica. Il Vocabolario Treccani riporta a questo proposito uno stringato commento: [da una radice *blund-, prob. germ.]. Simili proposte di un'origine germanica si trovano ancora di recente (Nocentini, 2010) e sono ben radicate nella tradizione. Sappiamo che si tratta di un vocabolo diffuso nelle lingue romanze, che sembra aver avuto il suo centro di diffusione nel territorio gallico. Le prime attestazioni in italiano risalgono al XIII secolo. Questo troviamo nella lingua d'oïl e nella lingua d'oc: 

Francese antico: blontz, blonz (forma obliqua blont, blunt
Provenzale antico: blons (forma obliqua blon

Lo spagnolo blondo è un evidente articolo d'importazione. In sardo abbiamo brundu "biondo", in genere ritenuto di introduzione tarda dalla Spagna, anche se avrei qualcosa da obiettare a riguardo.  

Il latino tardo *blundus, ricostruibile dai dati a disposizione, non è in ogni caso attestato. Piaccia o no, nessuna delle lingue germaniche conosciute possiede un vocabolo *blund col senso di "biondo" o di "giallo", che possa essere l'antenato diretto della forma tardolatina in questione. Certo, in inglese si trova blond "biondo", ma si tratta di un prestito dal francese, introdotto nel XVII secolo. Per giunta, la parola era sentita fino a non molto tempo fa come straniera, tanto che si usa tuttora la forma blonde "bionda" (variante antiquata blounde), con indicazione del genere femminile. Allo stesso modo in tedesco esiste l'aggettivo blond "biondo", che però non è affatto nativo, essendovi giunto dalla Francia. Non vi è alcuna prova che sia esistita nalla lingua dei Franchi la parola *blund "biondo", "giallo". Errano quindi coloro che danno per assodata questa etimologia. Il protogermanico *blundaz, ricostruito deduttivamente per spiegare le forme attestate nelle lingue romanze, è soltanto una futile speculazione: la sua natura è in ultima analisi fantomatica. 

Confutazione dell'origine anglosassone 

In antico inglese esistono due interessanti parole: il composto blonden-feax "dai capelli grigi" e il verbo beblonden "tinto". Il verbo d'origine di queste forme sarebbe il raro blandan "mescolare", che nel dialetto della Mercia suonava blondan. Così abbiamo anche blanden-feax per blonden-feax. Il participio passato beblonden avrebbe il significato originario di "mescolato" e sarebbe dunque passato ad acquisire il senso di "screziato", quindi "grigio" o "tinto". In norreno abbiamo blandinn "mescolato", attestato anche col senso di "confuso": ad esempio si usa questo vocabolo parlando di un colono che credeva sia in Cristo che in Thor, essendo molto confuso nelle cose della fede. Non esiste però nell'antico nordico nessuna menzione di un uso per indicare un colore. C'è un problema di non poco conto. Le forme anglosassoni citate hanno la vocale originale -a-, essendo -o- uno sviluppo successivo. La vocale -o-, che ha un suono aperto [ɔ], si è prodotta in epoca così tarda da non poter spiegare le forme romanze, che partono invece da un suono chiuso, reso con -u- in tardo latino e sviluppatosi in [o] in italiano.

La vera origine ligure della parola 

Esiste un toponimo ligure di estremo interesse nella Tabula alimentaria di Veleia che contiene proprio la radice che ci interessa:  si tratta di Blondelia. Questi sono gli estratti del testo in cui compare: 

[OBLIGATIO 5 / I]

   item l [1, 75] fund(um) Calidianum Licinianum, pag(o) s(upra) s(cripto), vico Blondelia, adf(inibus) Antonio Sabino et Calidio Prisco - 

Traduzione:

[IPOTECA 5 / I]
   e pure [1, 75] il fondo Calidiano Liciniano - che si trova nel distretto succitato, nella circoscrizione Blondelia, e confina con le proprietà di Antonio Sabino e di Calidio Prisco -

E ancora: 

[OBLIGATIO 21 / IV]

C(aius) Calidius Proculus prof(essus) est
   praed(ia) rustica (sestertium) CCXXXIII (milibus) DXXX n(ummum):  
   accipere deb(et) (sestertium) / XVI (milia) CCCXXXVIII n(ummum) et obligare
   fund(um) paternum, in Veleiate pag(o) Albense, / <vicis>
Blondeliae <et> Seceniae adf(inibus) Calidio Vero et Antonis Vero et Prisca, quem / professus est (sestertium) XCIV (milibus) DC (nummum):
    in (sestertium) VIIII (milia);


Traduzione: 

[IPOTECA 21 / IV]
Caio Calidio Proculo ha dichiarato
    proprietà agrarie per un valore di 233.530 sesterzi:
    deve ricevere 16.338 sesterzi e ipotecare
    il fondo ereditato dal padre - che si trova nel distretto Albese del territorio veleiate, nelle circoscrizioni Blondelia e Secenia, e confina con le proprietà di Calidio Vero e degli Antoni, Vera e Prisco -, che egli ha dichiarato per un valore di 94.600 sesterzi:
   riceve 9.000 sesterzi;



Il toponimo Blondelia significava "Terra Gialla", "Terra Ocra". Si noti che nello stesso documento è citato anche il f(undum) Glitianum Roudelium (sempre nel distretto Albese). Roudelium significava proprio "Terra Rossa". Le denominazioni tratte dal colore del terreno erano assai comuni nell'antichità. Il mistero è stato quindi svelato. Il ligure *blondos "giallastro" ha dato in latino tardo *blundus, donde derivano l'italiano biondo e le altre forme romanze. Già il Devoto a suo tempo aveva classificato questo vocabolo come "leponzio", intendendo evidentemente "ligure", sfidando così l'imperante ipotesi germanica.

Deliri dei romanisti 

Nessun senso pur elementare di ritegno alberga tra i romanisti, che hanno cercato di ricondurre il latino tardo *blundus a forme del latino più antico. Così alcuni di loro hanno scritto in preda alla demenza, affermando che *blundus sarebbe una "pronuncia popolare" di flāvus "biondo" - ovviamente senza avere idea di come una simile distorsione si sarebbe potuta produrre. Altri ancora, ignari persino dell'esistenza di lingue diverse dal latino, hanno costruito una forma artificiosa *albundus, facendola derivare chissà come da albus "bianco" e pensando che possa aver dato *blundus per "corruzione popolare". Dispiace constatare che gli autori di simili aberrazioni non siano stati deportati in Siberia e lasciati perire nudi nella tundra.

giovedì 30 marzo 2017

GLI ESITI DEL LATINO VOLGARE IN SICILIA E UNO STRANO NEGAZIONISMO

Esistono negazionisti che non riconoscono l'esistenza e la genealogia della lingua siciliana. Li chiamo negazionisti, senza indugio, e affermo che il loro è negazionismo puro e semplice, perché consiste nella negazione di una realtà incontrovertibile. Secondo i chierici traditori che propugnano queste idee aberranti, nell'isola non sarebbe mai esistito un latino volgare: la conquista araba avrebbe imposto l'uso della lingua araba e cancellato in men che non si dica ogni traccia di lingua romanza: soltanto una forma di greco sarebbe sopravvissuta nei distretti nordorientali. In seguito, cessata la dominazione araba, ad essere parlato dalle classi alte dell'isola sarebbe stato il latino ecclesiastico, tirato fuori dalla naftalina per l'occorrenza. Per questo motivo non pochi negazionisti sostengono l'esistenza di una vera e propria "romanizzazione secondaria" in seguito alla conquista normanna, innestatasi su un contesto arabofono e grecofono come un elemento intrusivo a partire dalla realtà artificiale della lingua dotta del clero. 

Una prima formulazione di questa folle tesi fu fatta negli anni '30 dello scorso secolo dal romanista Gerhard Rohlfs (1892-1986), che tuttavia in seguito la rinnegò, attribuendola alla propria impetuosità giovanile. L'abiura del Rohlfs non esito ad attribuirla a un processo di maturazione come quello che rende il cognac migliore al passar degli anni: egli ha identificato come aberrazioni alcune sue teorie e con grande senso critico ha provveduto a rimuoverle. Eppure nel mondo accademico italico l'élite massonica ha passato sotto silenzio la notizia di questa abiura, formando al contempo fanatici sostenitori della nullità di varietà romanze che sono tuttora parlate da centiniaia di migliaia di persone, che hanno avuto una loro genesi e che non possono essere piovute dall'Iperuranio di Platone. Il folle enunciato di Rohlfs è in altre parole divenuto un dogma. I suoi partigiani riportano come prova l'assenza di documentazione scritta del latino volgare nell'isola fino ad epoca molto tarda, così ne negano l'esistenza tout court. Tutto ciò si fonda sul demente presupposto dell'archeologismo, secondo cui l'assenza di una lingua scritta implica l'assenza della lingua parlata.

Con buona pace dei sostenitori di una discontinuità insanabile nella Romània di Sicilia, la lingua latina volgare è esistita nell'isola senza soluzione di continuità, come provato dagli sviluppi fonetici regolari che sono ben riconoscibili da un'analisi anche sommaria del lessico di base. Non si scorge nessun elemento di frattura. Fornisco un sintetico quadro dei cambiamenti del sistema vocalico occorsi nei secoli. Come di costume quando si considera l'origine delle lingue romanze dal latino volgare, le forme latine di origine, sostantivi e aggettivi (salvo qualche eccezione), sono fornite all'accusativo, perché quella è nella maggior parte dei casi la base delle forme volgari.

La vocale a latina, breve o lunga, resta a.

annu(m) > annu "anno" 
caballu(m)*
> cavaḍḍu "cavallo"   
latro: > latru "ladro"
patre(m) > paṭṛi "padre"
ma:sculu(m) > masculu "maschio"
ma:tre(m)
 > maṭṛi "madre"
  
*Forma volgare, nel sermo nobilis si usava equu(m).

La vocale e breve latina dà e aperta. 

bellu(m)* > beḍḍu "bello" 
fel > feli "fiele"
ferru(m) > ferru "ferro" 
melmeli "miele" 
ventu(m) > ventu "vento" 
 
   *Forma volgare, nel sermo nobilis si usava pulchru(m).

Può dare i in alcuni contesti: 

mentula(m) > minchia "pene" 

La vocale e lunga latina dà i.

fe:mina(m) > fimmina "femmina"
me:nse(m)
 > misi "mese"
re:ne:s
> rini "reni"
te:la(m)
 > tila "tela" 

La vocale i breve latina resta i.

cicere(m) > cìciri(1) "cece" 
illu(m)
 > iḍḍu "lui" 
nive(m)
> nivi "neve"
pice(m)
> pici "pece"
pisce(m)
 > pisci "pesce"
 
(1)Non *cicìrri

La vocale i lunga latina resta i.  

fi:lu(m) > filu "filo"
fi:ne(m)
 > fini "fine"
vi:nu(m)
> vinu "vino" 

La vocale o breve latina dà o aperta.

bonu(m) > bonu "buono"
cor
> cori "cuore"
homo:
 > omu "uomo"
mortua(m)
 > morta "morta"
orbu(m) >
orvu "cieco" 

La vocale o lunga latina dà u.

ante ho:ra(m) > antura "poco fa"
dolo:re(m)
> duluri "dolore"
flo:re(m)
> sciuri "fiore" 
so:le(m) > suli "sole"
vo:ce(m)
 > vuci "voce" 

La vocale u breve latina resta u.  

cruce(m) > cruci "croce"
nuce(m)
> nuci "noce" 
russu(m) > russu "rosso" 
surdu(m)surdu "sordo" 
turri(m) > turri "torre"  

La vocale u lunga latina resta u

fu:mu(m) > fumu "fumo" 
iu:dice(m)
 > jùrici "giudice"
lu:ce(m)
 > luci "luce"
lu:na(m)
 > luna "luna" 
mu:ru(m)
> muru "muro" 

In vari dialetti si producono fenomeni di metafonesi molto peculiari, che comportano la formazione di dittonghi e mutamenti vocalici. Così beddu "bello" può essere pronunciato bièddu, bìeddu, biddu. Per maggiori dettagli rimando a questo interessante documento, opera di Silvio Cruschina dell'Università di Cambridge:


Per quanto riguarda il consonantismo, si hanno diversi mutamenti comuni ad altri dialetti del Meridione. 

Il nesso cl- e il nesso pl- evolvono entrambi in chi-; il nesso fl- evolve in sci-

cla:ve(m) > chiavi "chiave"
cla:vu(m) > chiovu "chiodo"
clu:dere*chiùriri "chiudere"
plangere
> chiànciri "piangere"
platea(m) > chiazza "piazza"
plu:scchiù "più"
fla:tu(m) > sciatu "fiato"
flu:mensciumi "fiume"

   *Volgare per claudere.

La liquida seguita da semiconsonante -i- dà origine a un suono velare. 

fi:liu(m) > figghiu "figlio"
fi:lia(m) > figghia "figlia"
muliere(m)* "donna" > mugghièri, mugghièra "moglie"
  *In lat. classico era mulìere(m), poi passato a mulière(m) per regolare mutamento. 

La liquida seguita da altra consonante si oscura fino a dare origine a un dittongo in -u-.

alteru(m) > auṭṛu "altro"
altu(m) > autu "alto"
calceae > causi "calzoni"
falsu(m) > fausu "falso" 

Per inciso, questo mutamento è una prova lampante dell'origine diretta del siciliano dall'antichità, perché continua il suono che tale consonante aveva nel latino volgare. Il latino ecclesiastico non ha traccia di questa pronuncia. La caratteristica durò così a lungo da intaccare anche i germanismi: es. meusa "milza"

Il nesso -mb- si assimila in -mm-; il nesso -nd- si assimila in -nn-. Questo sviluppo si trova non soltanto nell'Italia Meridionale, ma anche nei dialetti italiani mediani (es. quello di Roma).

camba(m)*camma, gamma "gamba"
palumba(m)
 > palumma "colomba"
plumbu(m)
 > chiummu "piombo"
grande(m)
 > ranni "grande" 
manda:re
mannari "mandare"
mundu(m) > munnu "mondo" 
quando:
> quannu "quando" 

La liquida del latino volgare, quando forte, ha prodotto un suono cacuminale (retroflesso), che si è sviluppato anche nella lingua sarda. Così il siciliano cavaḍḍu è molto simile al sardo quaddu e varianti. Appare evidente che una simile pronuncia è dovuta all'evoluzione di un remoto elemento di sostrato preromano che accomunava la Sicilia alla Sardegna. 

collu(m) > coḍḍu "collo"
gallu(m)
 > aḍḍu "gallo"
galli:na(m) > aḍḍina "gallina"
nullu(m) > nuḍḍu "nessuno" 

Come vediamo, non pochi sviluppi dei dialetti della lingua siciliana sono parte di un continuum più vasto e non sono assolutamente spiegabili in termini di latino ecclesiastico.

Origini della delirante teoria di Rohlfs

A questo punto ci si può porre una domanda. Cosa ha portato Gerhard Rohlfs a vaneggiare? La risposta è semplice: è stata la tendenza alla semplificazione estrema e allo schematismo, che accomuna i romanisti agli archeologi e che ha la sua origine nei metodi di insegnamento tipici del mondo scolastico. Procediamo per passi per comprendere la nascita e la crescita di un'aberrazione che arreca ancora danni.

1) Rohlfs è partito dalla constatazione seguente: non esisterebbe in siciliano traccia alcuna di uno strato arcaico di latinità, come invece avviene in altre parlate del Meridione. Così in Sicilia abbiamo dumàni "domani" anziché crai < lat. cras "domani". Allo stesso modo abbiamo testa "testa" anziché capa < lat. caput "capo, testa".
2) Rohlfs ha dedotto che non essendo attestati i suddetti vocaboli arcaici nell'isola, questi non siano mai esistiti. Questa deduzione bacata è diventata un dogma. Si tratta della fallacia logica detta non sequitur: crai "domani" non esiste nella Sicilia odierna (dato di fatto) => crai "domani" non è mai esistito in Sicilia, neanche in epoca in cui non esistono documenti (assunzione gratuita e infondata) => crai "domani" non può essere esistito in Sicilia per impossibilità ontologica (articolo di fede).
3) Rohlfs ha quindi definito su questa base il siciliano come una "lingua romanza moderna".
4) Dato che una "lingua romanza moderna" nell'estremo Meridione non si spiega, Rohlfs ha creduto di poterla definire una realtà estranea, proprio come la pecora e il coniglio in Australia.
5) Non esistendo una fonte attendibile per questa lingua romanza "nuova", ecco che Rohlfs la riconduce al latino ecclesiastico. La teoria deleteria ha così preso forma.

Non è difficile confutare la ricostruzione storica e linguistica usata da Rohlfs e dai suoi seguaci, tuttora molto attivi. 

1) Il dominio dei Bizantini inizia nel VI secolo. In Sicilia il greco diventa la lingua corrente, mentre il latino volgare è scomparso oppure ha lasciato qualche residuo locale.
    I nostri avversari assumono che le date abbiano un potere magico: quello di operare la trasformazione demica di un territorio all'istante, proprio come è inculcato agli studenti nelle scuole. L'esperienza mostra che le lingue neolatine hanno una grande vitalità e che la loro estirpazione è tutt'altro che facile.  

2) Nell'anno 827 inizia la conquista della Sicilia per mano degli Arabi. Questo processo porta alla nascita dell'Emirato di Sicilia. 
   I nostri avversari assumono che al comparire dei primi turbanti in Trinacria, la lingua araba si sia subito diffusa come un'epidemia di peste, portando alla quasi totale arabizzazione dei Siciliani, come per magia. 
3) In Sicilia, a causa della separazione dalla Romània, scompare ogni traccia di esiti del latino volgare eventualmente superstite. Si estingue del tutto ogni eredità dell'Impero, mentre il greco bizantino permane.
    I nostri avversari non sono in grado di provare questa fantomatica estinzione dell'eredità del latino volgare di Sicilia. Non possono fornire la data in cui sarebbe morto il suo ultimo parlante, né posseggono una macchina del tempo per appurare quale fosse la situazione linguistica dell'isola, ad esempio nel X secolo. Certo, al pari dei settari archeologi, si illudono di possedere queste conoscenze, date loro dalla mitica sfera di cristallo. 
4) Nel 1061 giungono in Sicilia i Normanni. All'inizio sono mercenari in un contesto di staterelli musulmani indipendenti e in declino, ma presto si impongono e alla fine si impadroniscono dell'isola fondando un regno. Il Regno di Ruggero II d'Altavilla include oltre alla Sicilia e all'Italia Meridionale anche l'area costiera della Tunisia e della Tripolitania.
    I nostri avversari credono che la Sicilia abbia cambiato più lingue degli abiti cambiati da una donzella appariscente e volubile! 
5) I Normanni fanno giungere in Sicilia un gran numero di coloni, soprattutto dalla Marca Aleramica (attuale Monferrato).
    In pratica i nostri avversari postulano una spaventosa frattura genetica in Sicilia, la cui popolazione sarebbe stata più volte rimossa per intero e rimpiazzata da nuovi venuti. L'analisi del genoma degli isolani rileva la stratificazione di diversi contributi e non giustifica la tesi della sostituzione demica. Per approfondimenti rimando al sito Genealogiagenetica.it.    
6) Nel 1198, morta Costanza d'Altavilla, figlia di Ruggero II, il dominio della Sicilia passa agli Svevi. 
   Ecco pronta una nuova epoca di sostituzioni linguistiche!

Ogni passaggio fa acqua da tutte le parti. Appare evidente che i fatti storici registrati sono soltanto la superficie: non bastano per comprendere a fondo la realtà linguistica in divenire. Secondo queste narrazioni confuse e confabulanti, non appena i Normanni stabilirono il Regno di Sicilia, avrebbero provocato un vero e proprio esodo di Arabi, al punto che le terre sarebbero rimaste quasi del tutto deserte. Per avere qualcuno su cui regnare e per introdurre quella che alcuni studiosi chiamano "agricoltura cristiana" (facendo quasi intendere che i musulmani mangiassero sabbia e sassi anziché cereali), gli Altavilla avebbero richiamato in Sicilia una massa immensa di persone dalla Lombardia (così era chiamata allora l'intero Settentrione). Questo popolamento ha dato origine a dialetti peculiari che vanno sotto il nome di gallo-italico di Sicilia. Sono totalmente diversi dai dialetti siciliani nativi di cui ci stiamo occupando e sono chiaramente riconoscibili.
    Confutazione: Se l'isola fosse rimasta deserta come affermano i nostri avversari, la lingua dei coloni della Marca Aleramica sarebbe prevalsa e noi avremmo al giorno d'oggi soltanto parlanti di varietà gallo-italiche. Così non è. 

I negazionisti che affermano l'inconsistenza del siciliano e la sua origine dal Nulla ignorano tutte le criticità insite nei loro vaniloqui. Questo però non basta. Negli ultimi anni sono andati anche oltre. Procedono nel loro assurdo atteggiamento negando addirittura l'esistenza dei Normanni!

mercoledì 10 agosto 2016

PROVE ESTERNE E INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: I NOMI DEL CIGNO, CYGNUS, CUCINUS E CICINUS

Già abbiamo trattato dei prestiti greci nella lingua latina. Ora veniamo a un caso particolare e di estremo interesse, perché mette in luce l'ennesima situazione che i nostri avversari, sostenitori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno, non possono assolutamente spiegare. In greco antico il nome del cigno è κύκνος (kyknos), che come tutti sanno è passato in latino come cygnus.

Ovviamente i sostenitori della pronuncia ecclesiastica del latino prescivono per questa parola una pronuncia simile a quella del suo esito italiano, ossia /'tʃiɲ(ɲ)us/. Così facendo, essi proiettano l'attuale situazione fonetica del vocabolo italiano indietro nei secoli, senza tenere in alcun conto la sua etimologia, che ci dice tutt'altro.

Troviamo infatti alcune varianti di cygnus più vicine a quella greca. Non soltanto abbiamo cycnus, con consonante velare sorda, ma anche cucinus e cicinus, con tanto di vocale epentetica.

Questa è la sequenza delle pronunce ecclesiastiche delle forme qui riportate:

cygnus /'tʃiɲ(ɲ)us/
cycnus /'tʃiknus/
cicinus /'t
ʃitʃinus/
cucunis /'kut
ʃinus/
 

Si noterà la serie di alternanze inspiegabili e incoerenti tra /k/ e /tʃ/, dettate solo da motivi ortografici e oltremodo complesse, per non parlare della consonante palatale /ɲ/, che di certo non è riducibile allo scontro di /tʃ/ + /n/.

Vediamo ora la sequenza delle corrispondenti pronunce classiche, dove il carattere IPA /ŋ/ indica la n velare dell'inglese gang:

cygnus /'kignus, 'kiŋnus/(*)
cycnus /'kiknus/
cicinus /'kikinus/
cucunis /'kukinus/
(*) 

Le classi colte, che affettavano familiarità col greco, avranno cercato di mantenere la pronuncia /'kygnus/ con il suono greco originario espresso dal carattere IPA /y/.

Vedete come queste ultime corrispondono all'etimologia e alla logica? Già soltanto una cauta applicazione del Rasoio di Occam farebbe piazza pulita delle farneticanti tesi dei nostri avversari.

È chiaro e di per sé evidente che il suono epentetico -i- in cucinus e in cicinus doveva essere stato inserito per rendere pronunciabile il nesso /kn/.  

Gli esiti romanzi ci permettono di fare qualche altra considerazione. In italiano la forma cigno è provenuta da una regolare palatalizzazione del nesso /gn/, la cui prima consonante si è nasalizzata dando /ŋn/ e quindi ha subìto palatalizzazione in /ɲɲ/. Si noti che /gn/ ha invece dato origine a /nn/ in Sardegna: mannu "grande" < magnu(m).

In spagnolo si è avuta una sequenza più complessa. Il nome del cigno infatti in quella lingua è cisne /θisne/ (in America Latina /sisne/). Questa forma non può essere derivata direttamente da cygnus e richiede invece la variante cicinus. Così si è sviluppata la forma moderna, da tarde palatalizzazioni delle antiche velari:

/'kikinum/ > /'kjikjinum//'tsitsinu//'tsisne//'θisne/.

In sardo logudorese abbiamo chìghinu, senza traccia di palatalizzazione, mentre in sardo campidanese abbiamo la forma sìsini, che mostra assibilazione. La forma cicinus ha dato anche alcuni esiti in italiano antico: cécino e cécero, ormai desueti.

Per quanto riguarda l'alternanza /u/ - /i/ che abbiamo in cucinus - cicinus, deriva chiaramente dal tentativo di rendere il suono bemollizzato /y/ della lingua greca. Può apparire un puro e semplice vezzo ortografico, eppure non è così, come dimostrato dall'analisi degli esiti spagnoli e sardi di cicinus.

Il ruolo della lingua etrusca

Dalla stessa radice del greco κύκνος deriva, per intermediazione etrusca, il nome latino della cicogna, ossia cico:nia. In etrusco abbiamo attestato il gentilizio Cicunia /'kikunja/ (f.) che ci testimonia il diretto antenato della forma latina. Sono anche attestate le forme latine cico:nis e ciquo: "cigno", che corrispondono al gentilizio etrusco Cicu (m.), Cicui (f.).

PROVE ESTERNE E INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: L'EVOLUZIONE DEL PREFISSO ARCHI- IN ROMANZO E IN GERMANICO

Molte considerazioni possono dedursi dall'analisi degli esiti del prefisso greco ἀρχι- (arkhi-) in varie lingue. Incorporato in numerosi composti di uso comune, questo elemento deriva la sua origine dalla radice ellenica che significa "capo, primo", che si trova nel verbo ρχω (arkho:) "io comincio"; "io comando", "io governo" e nel sostantivo ρχων (arkho:n) "governatore" (pl. ρχοντες), da cui deriva il termine Arconte, usato dagli antichi Gnostici e dai moderni esoteristi. Dal greco il prefisso è passato in latino, dove è scritto archi- e compare in parole come archiepiscopus "arcivescovo", archigubernus "capo timoniere", archipirata "capo dei pirati", architectus "architetto", architriclinus "capo maggiordono".

La pronuncia del prefisso ἀρχι- era in greco antico /arkhi-/, con una occlusiva velare aspirata /kh/. In seguito questa aspirata divenne una fricativa velare o uvulare /x, χ/. In epoca bizantina questo suono divenne una fricativa palatale /ç/ quando seguito da vocale anteriore /e/ o /i/, del tutto simile alla consonante del tedesco ich /iç/. Le orecchie degli italiani spesso assimilano questo suono a /ʃ/ (la "sc" di scena), ma un ascolto attento rivelerà la differenza tra i due fonemi. La situazione del greco bizantino permane tuttora sia nella lingua colta e artificiale detta katharevousa che nel greco demotico.

In rumeno il prefisso è stato ereditato direttamente dal greco e compare come arhi-, con consonante aspirata, ad esempio in arhiepiscop "arcivescovo". Si noterà che in rumeno nelle parole native ha avuto la stessa palatalizzazione dell'italiano.   

La pronuncia ecclesiastica del latino, del tutto isolata dagli sviluppi avvenuti in greco nel corse dei secoli, realizza il prefisso archi- con una consonante occlusiva non aspirata, ossia /arki-/. Così la Chiesa di Roma pronuncia archiepiscopus come /arkie'piskopus/, con un singolare accordo con la pronuncia restituta. Questa pronuncia è tuttavia in netto contrasto con il suono che questo elemento assume nella maggior parte delle lingue moderne che lo continuano. Come sappiamo, in italiano si ha come esito arci- /artʃi-/ in arcivescovo, con un'affricata postalveolare /tʃ/ (la "c" di cece); soltanto quando il prefisso presenta un'antica perdita della vocale finale davanti a vocale non anteriore si mantiene l'antico suono velare, come in arcangelo  - o in parole dotte come archiatra e architetto.

In spagnolo l'arcivescovo è detto arzobispo /arθo'βispo/, con la regolare assibilazione: la consonante velare /k/, divenuta /kj/, si è evoluta in /ts/ e quindi in una fricativa interdentale /θ/, oggi pronunciata /s/ in gran parte dell'America Latina. In modo simile si è avuta la forma portoghesce arcebispo /arse'bispu/. Singolare il contrasto con il catalano, in cui si è conservata invece la consonante velare integra: arquebisbe /arkə'βizβə/.

In francese abbiamo archevêque /aRʃə'vɛ:k/, che presenta palatalizzazione secondaria. Non ha infatto l'esito /s/ di parole come ciel < caelu(m), cent < centu(m), ma l'esito /ʃ/ di parole come chose < causa(m), chair < carne(m), etc. Questa seconda palatalizzazione si è formata in epoca molto tarda, quando quella primaria si era già conclusa.

Il sardo, particolarmente conservativo, chiama l'arcivescovo archipíscamu, con la consonante velare integra.

In tedesco abbiamo due casi interessanti in cui il prefisso greco mostra una consonante fricativa /ts/, scritta -z-

archiangelus(1)Erzangel "arcangelo"
archiaterArzt "medico"
archiepiscopus > Erzbischof "arcivescovo" 

(1) Sta per archangelus 

Si noterà nel secondo esempio la presenza dell'Umlaut palatale: l'influenza dell'antica vocale -i- ha trasformato la a- del prefisso in e-. Questo indica che l'elemento che ha dato origine a Erz- è sufficientemente antico: il prefisso doveva trovarsi nella lingua prima che l'Umlaut palatale cominciasse ad agire. Questo significa che il prestito deve essere avvenuto dal latino ecclesiastico, che all'epoca realizzava l'esito di /k/ palatalizzata come /ts/, come si nota per esempio nella parola Zelle "cella" (monastica, di una prigione, etc.) < cella, in contrasto col più antico Keller "cantina" < cella:rium, che è giunto precocemente con la sua antica pronuncia. 

Anche l'olandese ha avuto il prestito dalla stessa fonte da cui l'ha avuto il tedesco, ma non si nota Umlaut: abbiamo infatti aartsbischop "arcivescovo"

In norreno notiamo l'Umlaut come in tedesco, ma per contro non si ha traccia di palatalizzazione: il prefisso si è evoluto in erki-, come ad esempio in erkibiskup "arcivescovo". La stessa forma si conserva ai nostri giorni in islandese. Anche le altre lingue scandinave moderne hanno ereditato questa situazione: il danese ha ærkebiskop, lo svedese ha ärkebislop, il norvegese (sia nynorsk che bokmål) ha erkebiskop

L'esito del prefisso in questione in antico inglese (anglosassone) non aggiunge granché a quanto visto finora, perché in quella lingua si è avuta una palatalizzazione di /k/ davanti a vocale anteriore come in italiano: abbiamo infatti ærċebisċop "arcivescovo", donde l'inglese moderno archbishop /'a:tʃbiʃəp/. La forma è stata adottata dapprima come /*arki-/, quindi ha subìto palatalizzazione come è accaduto per le parole native, dando le varianti arċe-, ærċe-, erċe-, con o senza Umlaut. Notare che questa palatalizzazione ha attaccato la /k/ anche davanti a una antica /a/ dopo che questa ha assunto una pronuncia anteriore /æ/ o /ea/, come nei seguenti casi:

ċealc "gesso" < lat. calce(m)
ċeald "freddo"(*) < proto-germ. *kald-
ċeaster "città romana" < lat. castru(m) 

(*) Forma sassone occidentale; l'inglese moderno cold viene dalla foma anglica cald, non palatalizzata. 

Si tratta di un mutamento che non ha nulla a che fare con quanto è avvenuto in italiano: in altre parole siamo di fronte a due fenomeni indipendenti.

Il nome gallese dell'arcivescovo, archesgob /ar'χɛsgɔb/, presenta una chiara consonante fricativa uvulare, prova che il vocabolo non è giunto dall'inglese ma continua direttamente la forma latina archiepiscopus, con regolare mutamento di /rk/ in /rχ/ (scritto rch) che troviamo anche nelle parole native, come march "cavallo" < *markos.

La situazione nelle lingue slave è eterogenea. In russo si ha una forma greca, архиепископ (arkhiepiskop), ereditata con la conversione al Cristianesimo Bizantino, mentre in polacco si ha arcybiskup con l'affricata /ts/, ereditata con la conversione al Cattolicesimo Romano. Le lingue baltiche hanno forme con /k/ non intaccato, come il lituano arkivyskupas, o con /h/, come il lettone arhibīskaps

Quali conclusioni possiamo trarre da questa grande mole di dati? Semplice. Come già accennato sopra, la stessa pronuncia ecclesiastica del latino prescrive di pronunciare col suono velare /k/ ogni occorrenza di -ch- in parole latine di origine greca. Quindi anche i fautori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno devono ammettere per forza di cose che la consonante palatale di parole come arcivescovo deve essere derivata in epoca tarda, ossia che non è primigenia. Quindi si prova che il loro scetticismo sui mutamenti fonetici, che li porta a postulare il fissismo linguistico, è frutto di ragionamenti inconsistenti. 
Si noti infine che nella pronuncia ecclesiastica si ha contrasto tra archi- /arki-/ "primo, capo" e arci-
/artʃi-/ "arco", come in arcipotens "pratico nel maneggiare l'arco" (epiteto di Apollo) e arcitenens "arciere" (epiteto di Apollo e di Diana).

P.S.

La ridicola fanfaluca delle consonanti palatali del greco antico è un'aberrazione sostenuta dai nostri avversari contro ogni evidenza dell'antichità e dell'epoca modern. Di questo avremo ancora occasione di parlare. 

sabato 6 agosto 2016

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: QUERCUS E DERIVATI, ITALIANO QUERCIA, CERQUA

Il fitonimo latino quercus "quercia" continua quasi inalterato nel sardo kerku, senza traccia alcuna di palatalizzazione della prima consonante velare. L'italiano quercia non può risalire direttamente alla forma latina, per ovvi motivi fonetici. Deve essere invece per necessità il derivato di una forma *quercea, di chiara origine aggettivale.

Vediamo ora le forme aggettivali attestate in latino col significato "di quercia"; "di foglie di quercia". Sono le seguenti: 


Evidentemente l'aggettivo più antico è quernus, formato con un suffisso *-no- di ottima tradizione indoeuropea. Le forme querqueus e querceus sono più moderne. La variante querneus proviene da quernus con l'aggiunta del suffisso di querqueus

Vediamo di ricostruire i passaggi. La radice indoeuropea del fitonimo latino è *perkw-. In latino la consonante labiale *p- è diventata kw- per assimilazione alla kw- seguente, mutamento che vediamo anche in altri casi (lat. quinque < IE *penkwe; lat. coquo: < IE *pekw-). Una volta creato l'aggettivo querqueus /'kwerkwḙus/, la seconda labiovelare /kw/ è diventata /k/ per dissimilazione, ossia si è semplificata naturalmente. Così si è avuta la variante /'kwerkḙus/. L'occlusiva velare /k/, seguita dalla semivocale, si è quindi alterata per vari gradi, dando origine al suono palatale che troviamo nella forma italiana quercia, suono la cui natura secondaria è dimostrata dall'etimologia.

La dissimilazione /-kw/ > /-k-/ è presente anche in un derivato che ha dato origine all'italiano "querceto"


In italiano esiste la variante cerqua, ormai desueta, che trae origine da una diversa dissimilazione della forma latina, in cui è stata la prima labiovelare a semplificarsi. La sequenza dei mutamenti è la seguente: *querquea /'kwerkwa/ > *cerquea /'kerkwa/. La palatalizzazione ha quindi agito sull'occlusiva iniziale in epoca tarda, portando infine all'esito italiano. 

Veniamo ora alla pronuncia ecclesiastica della lingua latina, che i nostri avversari vorrebbero proiettare agli Inizi dei Tempi. La sua incongruenza è marchiana: prescrive infatti le pronunce /'kwerkweus/ e /'kwertʃeus/; /kwer'kwetum/ e /kwertʃetum/, tutte con un'alternanza /kw/ - /tʃ/ che sarebbe assolutamente inesplicabile se la si considerasse primigenia, non potendo in alcun modo risalire a tempi remoti.

sabato 9 aprile 2016

UNA PROPOSTA ETIMOLOGICA PER IL ROMANESCO BURINO

Ben nota è la parola romanesca burino "contadino, campagnolo", quindi passata ad indicare una persona volgare e ignorante, dai modi rozzi. Le false etimologie non mancano, come spesso accade per le voci più tipiche del dialetto di Roma. Le riassumo in questa sede, fornendole di confutazione dove necessario:

1) I burini sarebbero stati in origine pastori che venivano nell'Urbe per vendere il burro. In romanesco è risaputo che alla consonante forte /rr/ dell'italiano corrisponde /r/ in modo sistematico: si ha guèra per guerra; tèra per terra; fèro per ferro; bìra per birra, e così bùro per burro. I burini dunque sarebbero stati in origine dei *burrini. Decisamente un'etimologia ingenua.
Non mi risulta che la formazione abbia alcun parallelo noto nell'intera Romània.  

2) Essendo in latino buris /'bu:ris/ il manico dell'aratro, i contadini ne avrebbero preso il nome. Secondo la spiegazione più diffusa, all'epoca dello Stato Pontificio, sarebbero avvenuti flussi migratori stagionali di braccianti romagnoli nell'Agro Pontino. La cosa pare poco probabile, dato che l'Agro Pontino era una terra paludosa di miseria e di morte, infestata dalla malaria e ben poco adatta a coltivazioni stagionali: fu il sempre vituperato Mussolini che la bonificò, eradicando le piaghe che la affliggevano da secoli. Certo, il burino è un contadino nel senso letterale della parola (è un abitante del contado), ma è più un pastore che un agricoltore. Data l'aria mefitica dei paesi fuori Roma e le febbri ricorrenti, non si può credere al burino aratore, capace di sgobbare dal mattino alla sera impugnando la bure. In effetti i burini erano più che altro pendolari, che giungevano a Roma il lunedì mattina per vendere prodotti della pastorizia, vi restavano l'intera settimana tornandosene a casa il sabato sera. Non mi risulta che la formazione abbia alcun parallelo noto nell'intera Romània.  

In alcune lingue romanze il latino bu:ri(m) ha lasciato discendenti:

piemontese bü "manico dell'aratro"
sardo sa buri "il manico dell'aratro"

Tuttavia non mi risulta che la parola sia mai stata vitale nell'Italia centrale. Nello stesso italiano, il lemma tecnico bure ha l'aria di essere stato reintrodotto dai letterati. Chi ritiene fondata la derivazione di burino da bure, dovrebbe fornire prove che bure fosse parola viva nelle varietà dialettali di Roma e del Lazio.

Sull'origine ultima della parola latina buris, prova del fatto che si trattava di un vocabolo importato sono le sue peculiarità morfologiche: accusativo sing. in -im (burim) e ablativo sing. in -i (buri). Può essere accostata al greco γύης "legno curvo dell'aratro" e risalire a una protoforma *gwu:sa:- con regolare rotacismo. Tale radice sembra indoeuropea come mandolino sembra inglese. La costumanza tipica dei romanisti di spulciare vocabolari di latino per cercare etimologie senza analizzare l'origine dei lemmi dovrebbe finire una volta per tutte.

Riporto il link a un articolo dell'Archivio Storico del Corriere della Sera, che insiste con la falsa etimologia appena confutata:


3) Una possibile etimologia germanica è stata segnalata da altri romanisti. Si rifà a una forma longobarda, ricostruita come *gaburo "garzone", corrispondente in tutto all'antico alto tedesco gibûro "garzone". Nella lingua longobarda da noi ricostruita (conlang neolongobarda), che utilizza la nobile tradizione di /p/ per l'antico /b/, si ha CAPURO /ka'pu:ro/. In ultima istanza la sua radice corrisponde al tedesco odierno Bauer "contadino". Il problema è che una forma germanica di questo tipo non avrebbe mai sostituito la sua terminazione con un suffisso diminutivo romanzo. Avremmo, in altre parole, *buro o *burone, non burino. Per inciso, la forma buros usata nel gergo dei Paninari di Roma (anni '80 del XX secolo) è soltanto una retroformazione.

4) Mi è stata segnalata da un navigatore l'assonanza tra il romanesco burino e l'olandese boerin "contadina" /'bu:rin/. Secondo lui, la parola romanesca sarebbe discesa naturalmente dall'olandese. Tuttavia vediamo come proprio il suffisso femminile -in sia un ostacolo. Bisognerebbe assumere che la forma originale fosse un femminile burina "contadina", da cui burino sarebbe stato retroformato. Di queste manipolazioni tuttavia non si trova traccia alcuna e non si riesce bene a capire come dall'Olanda la parola possa essere arrivata a diventare popolare a Roma. In realtà l'olandese non è una lingua così eccezionale come alcuni ritengono: è semplicemente parte di una varietà di basso tedesco denominata lingua francone, e la radice di boer /bu:r/ "contadino" è naturalmente condivisa da tutte le forme continentali di germanico occidentale anteriori alla dittongazione di /u:/ in /au/ così tipica del tedesco moderno. Si rimanda così al punto 3).   

Un'audace proposta

Per quel che mi riguarda, la più probabile etimologia di burino è quella già proposta nel Ventennio da Carlo Bornate in un suo manuale scolastico di storia romana a uso dei ginnasi superiori. In un memorabile brano sugli antichi Aborigeni, considerati i primi abitatori non indoeuropei del Lazio, l'autore suggeriva che discendenti di quelle genti fossero proprio i burini, ossia i pastori dell'Agro Pontino e delle montagne che ancora ai suoi tempi si vedevano calare a Roma. La parola latina classica è Abori:gine:s, gen. Abori:ginum (priva di singolare), ma si ha il sospetto che la forma originale sia stata adattata per ricalcare l'etimologia popolare dalla locuzione ab ori:gine, ossia "dall'origine". Tale paretimologia è da rifiutarsi, anche perché esiste la testimonianza di una forma greca Βορειγονοι (Licofrone).
Non è impossibile che *Bori:goni: e *Bori:geni: fossero le forme di partenza. Il passaggio da *Bori:geni: a Burini non è impossibile:

/*bo'ri:geni:/ > /*bo'ri:jeni:/ > romanesco /bu'ri:ni/.

Il mutamento sarebbe ben simile a quello che ha portato da /'digitu-/ a /'di:to/.

Questa parola potrebbe aver sviluppato la sua attuale fonetica nell'epoca oscura che seguì il crollo dell'Impero d'Occidente, quando la popolazione romana si era inselvatichita e tra le rovine dell'Urbe sparuti gruppi di pastori vivevano in condizioni peggiori di quelle vigenti nel Neolitico. Erano i tempi in cui hanno avuto origine i Frangipani (o Frangipane), da *Frangipagani, così chiamati per le loro guerre contro i pagani dei Monti della Tolfa. Anche qui in caso di dileguo di -g- intervocalica, addirittura tra vocali centrali.

mercoledì 30 dicembre 2015

ANCORA SUI FORMANTI ANTROPONIMICI IBERICI

Proseguiamo l'analisi dei formanti che compaiono negli antroponimi della lingua iberica. Dopo le 92 radici analizzate nel nostro precedente articolo sull'argomento, ne aggiungiamo altre 68, arrivando così a un totale di 160 voci. In pratica quasi tutti i formanti antroponimici trattati da Jesús Rodríguez Ramos nei suoi lavori, escludendo alcuni elementi che si sono dimostrati cattive letture (come quelli in cui la sillaba ta era letta erroneamente bo) e includendone alcuni nuovi. Questi sono i link agli articoli di tale autore:



Si tenga conto che questo materiale è praticamente inedito in Italia: non sono riuscito a trovare studi di alcun genere condotti nella nostra lingua sull'iberico, a parte le mie elucubrazioni pubblicate in questo blog. Ecco la seconda lista dei formanti antroponimici: 

1) aŕbi, ALBE /'arbi, 'albe/ "lato, fianco; pendio,
        montagna"
  
     basco alpi 'lato, fianco'
Attestazioni: ALBENNES (= lat. Montanus), ARBISCAR, aŕbiskaŕ, kaisuraŕbitan, śikaŕbi  

2) ASTE(R) "studio"
    basco azterren 'studio, indagine'
Attestazioni:
ASTERDUMARI*, ASTEDUMAE, astebeikeaie *Attestato in contesto vasconico, è evidente la sua natura iberica. Anche le voci basche devono essere prestiti iberici.

3) atun /'atun/ "cento; immenso" 
Orduña Aznar (2005) propone che possa essere il corrispondente iberico del basco ehun "cento". Accolgo la proposta; che la parola iberica sia imparentata con quella basca mi appare in ogni caso dubbio.
Attestazioni: atun-iu (con congiunzione), ATULLO.

4) AUSTIN- "prossimo"
   basco auzo 'prossimo; abitante'
Il vocabolo basco funge sia da sostantivo che da aggettivo ("comunale"), una caratteristica che è molto comune in iberico. Attestazioni: AUSTINCOauśtikum (Botorrita)*, auśtunikum (Botorrita)*
*Elementi onomastici iberici in contesto celtiberico

5) ban /man, -ban, -pan/ "caro"
    basco maite 'caro' < *banite 
Falsi parenti: iberico ban "uno" è chiaramente un omofono (o un quasi-omofono), dato che è evidente la sua occorrenza in contesti molto diversi. 
Per molto tempo si è ritenuto che basco maite fosse un celtismo: cfr. irlandese maith "buono". Soltanto che la parola gaelica è dal celtico (ibernico) *mati-, che non sembra un buon corrispondente della forma basca.

Attestazioni: baniteḿbaŕ, bilosban, kaŕesban-ite (ablativo) 

6) baŕstin /'barstin/ "sommo"
   < IE precelt.
   celtiberico barskunes
La forma celtiberica è la prima attestazione nota del nome dei Vascones.
Attestazioni: baŕstintike[

7) basto /'batsto/ "roccia; costa" 
    basco bazter 'costa', Baztan (topon.)
Evidentemente è la base da cui le parole basche citate sono state formate con l'ausilio di suffissi. Potrebbe trattarsi di antichi prestiti dall'iberico. È a parer mio da scartarsi l'ipotesi di un'origine dalla radice celtica *ba:s- "morire", essa stessa d'incerta etimologia.
Attestazioni: BASTOGAUNIN, bastobaśor-en (genitivo), bastokitaŕ, BASTUGITAS

8) bekon, bekoŕ /'bekon, 'bekor/ "cavallo, stallone" 
   basco behor 'giumenta', behoka 'puledro'
È possibile ricostruire, dalla stessa radice, la forma *bekiŕ "torello", corradicale di basco behi "vacca". Tale sarebbe infatti la protoforma da cui è derivato lo spagnolo becerro. Il trattamento dell'occlusiva velare implica un prestito precoce.
Attestazioni: bekoniltiŕ, bekoniltun, bekonkine, bekontekeŕ

9) beloŕ /'belor/ "ardente"
   basco bero 'caldo'
Si trova in pochi antroponimi, e in un caso Rodríguez Ramos segnala la possibilità di una cattiva lettura.
Attestazioni: beloŕtin, aibeloŕ-ar (genitivo), unibelo[

10) berton /'beṛton/ "mortale" < celtib.
Abbiamo attestato in celtiberico kormertones < *kobmertones.
Attestazioni: lauŕberton-te (ablativo), lauŕberton-ar (genitivo)

11) boŕ /bor/ "pugno; combattivo"
   basco borroka 'battaglia';
   basco bortz 'cinque' < *pugno
Per la semantica, confronta la lingua latina. Il numerale iberico bors "cinque" è dalla stessa base; l'alternanza tra le due rotiche è dovuta a qualche dettaglio perduto della protolingua.
Attestazioni: aŕkeboŕ, eikeboŕ-en (genitivo), kuleśbuŕ-ka (ergativo), SILLIBOR-I (dativo), tuitubor-en (genitivo)

12) boś /bos/ "combattivo" < *borś
Formato dalla radice boŕ tramite un suffisso sigmatico.
Attestazioni: anbośiltun-u (con congiunzione), ganikbos

13) boton /'bodon/ "battagliero"  < celt.
La radice celtica è *bodw- "battaglia", e di ritrova in antico irlandese nel nome della dea Bodb.
Attestazioni: botoltiŕ, BODONILUR, botoleis, bototaś, bototiki

14) ekaŕ /'egarr/ "bramoso"
    basco egarri 'sete'
In ultima analisi il termine basco pare un derivato di gar "fiamma". Ho notato che alcune mie proposte di traduzione sono simili a quelle di Silgo Gauche, ma in altri casi si distinguono. Non mi sembra infatti che il verbo basco egari "sopportare" (dal significato un po' distinto da quello di ekarri "portare") sia credibile in questo contesto. Se all'origine ci fosse un verbo transitivo, dovremmo avere un prefisso oggetto (cfr. takeŕ, tikirs, etc.). Anche ugari "quantità, molto" non sembra molto meglio.

Separo questo formante da eke(r)s (vedi nel seguito).
 
Attestazioni: ekaŕbilos, ekaŕśor-e (dativo)

15) eke(r)s, -kes /'ege(ṛ)ts, -gets/ "uomo"  
    basco gizon 'uomo'
    aquitano CIS(S)ON, GISON-; -GES
    paleosardo (etnonim.) -KES-
Come suffisso -qes si ritrova aggiunto a nomi di luogo la cui radice finisce in vocale (Serra, 1956). Una formazione simile deve essere postulata per il paleosardo, visto che ancora si trovano etnonimi in -kesu come Fonnikesu "uomo di Fonni" e Bittikesu "uomo di Bitti".
Attestazioni: ENNEGES*, koroiekers La lingua dei Vascones ha presi il suffisso a prestito dall'iberico
Etnonimi: ARSAQES (da Arsa), CALAQURIQES (da Calagurris), OLAISEQES (da Olaise), Pulaqes (da Pula). 

16) ELAN /'ellan/ "rondine"   
   basco elai 'rondine' < *eLana
A differenza di Rodríguez Ramos, separo questa forma da eleŕ (vedi sotto), che è di diversa origine.
Attestazioni: ELANDUS (Turma Salluitana) 

17) eleŕ /'eller/ "gregge; gruppo"     basco eli "gregge" Attestazioni: eleŕbaś, elerte[ke]r

18) eŕter /'erdeṛ/ "straniero"
    basco erdera 'lingua straniera' 
È diverso da erter /'eṛdeṛ/ "metà" (basco erdi), che è attestato tra i valori monetari (vedi Orduña Aznar).
Attestazioni: eŕtebaś-ka (ergativo), lakueŕter

19) eter /'edeṛ/ "splendore" 
    basco eder 'bello'
La forma iberica ha una rotica non trillata, a differenza di quella basca. Va anche detto che la forma iberica è un sostantivo, mentre quella basca, che è un aggettivo, ha un suono rotico trillato che potrebbe essere un suffisso. Lakarra ricostruisce *de-deR come antenato della forma protobasca.
Attestazioni: etenbilos, eteiltuŕ, eteitor, EDESCO

20) eton /'eton/ "sommo" 
   basco: -to, -do *'sommità'
Si trova come suffisso fossilizzato in formazioni come aizto "coltello" < *(h)anez-to (lett. "punta di pietra"), etc.
Attestazioni: BILESETON, SERGIETON 

21) -i- /i/ "e" (congiunzione)  
Già citato come elemento produttivo nella formazione dei numerali, era usato anche negli antroponimi per separare due aggettivi o due sostantivi. Attestazioni: aiunibaiser, anieskoŕ, basibalkar, iaribeŕ

22) ibeś, ibei(s) /'ibes, 'ibei(ts)/ "impeto; impetuoso"
    basco ibai 'fiume'
È ben possibile che l'aggettivo iberico abbia la stessa radice che è alla base dell'etnonimo Iberi. L'alternanza era bai- / ibei-. Al basco manca una simile flessibilità.
Attestazioni: ibeisur, ibeśor-en (genitivo), soribeis, basibeś-ka (ergativo)

23) -ike- /ike/ "e" (congiunzione)
    basco: -
Già citato come elemento produttivo nella formazione dei numerali, era usato anche negli antroponimi per separare due aggettivi o due sostantivi.
Attestazioni:
aiunikaŕbi, aitikeltun, tueitikeiltun Falsi formanti: keltun = ike + iltun

24) ike /'ike/ "altezza"
   baso: ike 'salire; costa pendente'
     (variante di igan 'salire')
Attestazioni: eike[, ikeatin, eikeboŕ-en (genitivo) 

25) ikoŕ /'ikor/ "duro, strenuo"
   basco gogor 'duro'
Mentre in basco si ha una forma reduplicata < *go-goR, in iberico abbiamo una forma semplice con un prefisso i-, comunissimo in questo gruppo di lingue. Un suffisso -kor col senso di "duro" si trova in alcune parole basche di sostrato, e va detto che spesso in iberico una k- sorda corrisponde in basco a una sonora g-.
Attestazioni: ikoŕbeleś, ikoŕbeleś-e (dativo), ikoŕiskeŕ, ikoŕtaŕ, ikoŕtas-te (ablativo), ikoŕtaś, ikoŕtibaś, taŕbanikoŕ, tikirsikoŕ

26) itor /'itoṛ/ "sommo" 
   basco: -tor, -dor *'sommità'
Si trova come suffisso fossilizzato in formazioni come gandor "sommità", etc.
Attestazioni: eteitor, lakeitor

27) kakeŕ /'kaker/ "curvo"
Derivato dalla stessa base del basco kako "gancio" con un suffisso aggettivale -eŕ che si trova anche in altri casi. 
Attestazioni: kakeŕikoŕ, baŕkakeŕ

28) CACU /'kaku, 'kako/ "curva, gancio"
    basco kako 'gancio'
Attestazioni: kuku, CACUSUSIN (Turma Salluitana) 

29) kaŕko /'gargo/ "selvaggio" < celt.
Attestazioni: kaŕkeskeŕ, kaŕkoskaŕ

30) kani /'kani, 'gani/ "sommità; sommo"
    basco gain 'sommità'
Attestazioni: kanibeŕon-ka (ergativo), ganikbos, κανικωνε, kanio

31) keltaŕ, kertaŕ /'keltar, 'keṛdar/ "nobile" < celt.
Distinguo questo raro formante dalla forma kelti- (vedi nel seguito), anche per motivi semantici.
Attestazioni: keltaŕerker, balakertaŕ, keltaio

32) kelti /'kelli/ "riva, costa, greto"
   paleosardo KILI- "ruscello, letto roccioso"
Considerato un lemma idronimico, date le evidenze della Sardegna, era a mio parere relativo alle rocce che costituiscono le rive o il letto del corso d'acqua, per motivi etimologici: lo riconduco al nord-caucasico *q̇wiłǝ "pietra, roccia, scogliera".
Attestazioni: keltibeleś, keltibeleś-ite (ablativo)
Il nome, data la sua frequenza di attestazione, non sarà sempre un antroponimo, ma un toponimo (vedi Blasco Ferrer).

33) kine /'gine/ "carne, midollo, parte centrale"
   basco giharre 'parte magra della carne'
      < *gin(h)aRe
Lo stesso vocabolo indica anche la parte interna del legno di un albero. 
Attestazioni: bekonkine, betukine-te (ablativo), ildiŕgine, tikirskine

34) koŕo /'gorro/ "sangue"
    basco gorri 'rosso'
Attestazioni: aŕskoŕo-ite (ablativo), goŕotigi-nai (con nai "io sono"), koŕasiŕ-en (genitivo), γολοβιυρ (con dissimilazione)

35) koŕś /kors/ "duro; strenuo" 
   basco gogor 'duro'
Attestazioni: tautinko : ŕś

36) lakeŕ /'laker/ "appariscente"
   basco lako 'somigliante a'
Derivato dal formante laku con il suffisso aggettivale -eŕ.
Attestazioni: lakeŕbelauŕ, lakeŕeiar, iskelaker, LACERIL-IS (gen. lat.)

37) leis /leits/ "desideroso; desiderio"
   basco lehia 'desiderio'
Attestazioni: leibiur, leisir, leisir-en (genitivo), bilos leistikeŕ, leistikeŕ-ar (genitivo), botoleis 

38) nere /'neṛe/ "donna"
    basco andere 'signora'
    aquitano ANDERE 'signora', ER(H)E- 'femmina' 
In un caso la forma aquitana ANDERE è scritta ANNERE.
Attestazioni: nereiltun

39) neron /'neṛon/ "giovane, fiorente"  
Si tratta di un derivato del formante nere "donna" (vedi sopra). 
Attestazioni: neron-ken (genitivo plurale)

40) NES /nets/ "uomo"
A parer mio si tratta di una variante di -kes (abbreviazione di eke(r)s), con la differenza che occorre soltanto aggiunta a nomi che finiscono in consonante. Così abbiamo BELENNES = beleś + -nes. Esiste una variante -NAS. Queste forme non hanno alcun parallelo in basco. 
Attestazoni: AGIRNES, ARRANES, BELENNES, ORDENNAS, NESILLE, niskeŕe 

41) niś /nis/ "donna"
    basco neska 'ragazza'
    aquitano NESCATO 'ragazzina'
    paleosardo NIS- 'donna'
    sorotaptico (ligure IE) NISCAS 'ninfe' (< vasc.)
Attestazioni: niśuni-ar (genitivo), niśunin 

42) olor, oloś /'oloṛ, 'olos/ "tutto; popolo" 
   basco oro 'tutto'
Rodríguez Ramos mostra la frequenza di questo elemento nella toponomastica catalana (Olor-, Oler-, Oles-), e arriva a proporre che in una lingua di sostrato significasse "villaggio, centro abitato". Un corrispondente basco in realtà esiste, anche se dotato di grandi anomalie (si usa dopo plurali in -ak, ma non vuole mai tale suffisso; si trova solo nei dialetti orientali). 
Attestazioni: olośortin, olośaiŕ, olortikirsbeŕian

43) ośor /'ossoṛ/ "lupo"
    basco otso 'lupo'
    aquitano OXSON-, OSSON-
Attestazioni: ośortaŕban
Toponimi: OSSONUBA 

44) sabaŕ /'tsabar/ "ventre; panciuto"  
   basco sabel 'stomaco'
Secondo Rodríguez Ramos il formante è incerto. Propongo questa interpretazione, avendo ragione di ritenere che il corrispondente iberico del vocabolo basco zabal 'largo' avesse un'occlusiva iniziale t-.
Attestazioni: sabaŕida-i (dativo), sabaŕbas-de (ablativo)

45) saiŕ /tsair/ "duro, strenuo"
    basco zail 'duro; arduo'
Attestazioni: beleśaiŕ (con assimilazione), olośaiŕ, toŕosair (con dissimilazione), iltuŕsaiŕ-sai

46) sekel, seken /'tsekel, 'tseken/ "avido"
   basco zeken 'avaro'
La consonante liquida finale è eccezionale in iberico. In ultima analisi può essere un prestito da IE *segh- "detenere, stringere", con una affricata come esito della sibilante originaria. Si noti anche la consonante velare sorda come esito di IE /gh/
Attestazioni: sekel-ka (ergativo), sekenius-u (con congiunzione), lakuseken, TASCASECER-IS (gen. lat.)

47) selki /'tselgi/ "catturato, prigioniero" < celt.
   basco: -
Le iscrizioni duali mostrano che l'occlusiva velare è sonora. La sibilante celtica mostra una corrispondenza irregolare, avendo come esito una affricata in iberico. Va comunque detto che la radice celtica *selga:- "caccia" non ha chiara origine ed è priva di corrispondenze IE credibili. Dev'essere un relitto di sostrato.

Attestazioni: selkibeleś, selkiskeŕ, selkinius-tai, selkisosin-kaste, selgitaŕ, [s]elgitibaś

48) seti, SEDE /'tsede/ "trono; regale" < celt.
Dalla radice IE *sed- "sedersi" deriva anche l'etnonimo SEDETANI.
Attestazioni: σεδεγων, setibios, -beŕiseti-, ḿbaŕseti

49) sike /'tsike/ "flusso, impeto" < IE precelt.  
   basco: -
Si tratta della radice *sik- attestata nell'idronimia in Spagna e altrove. Probabilmente l'antica sibilante era percepita come laminale ed è diventata una affricata. Da questa antichissima radice deriva l'idronimo ispanico Sicanus (oggi Júcar), da cui gli antichi autori romani facevano derivare il popolo dei Sicani, secondo una tradizione che li riteneva migrati in Sicilia dall'Iberia. Non ritengo tuttavia plausibile che la radice dell'etnonimo sia la stessa degli idronimi, a dispetto dell'omofonia.
Attestazioni: SICAE, siketaneś-ka (ergativo), sikeunin, sikounin

50) sine /'tsine/ "giuramento; leale"
   basco zin 'giuramento; leale'
Attestazioni: sinebetin, sinekun

51) sir /tsiṛ/ "splendore; splendido" 
  basco zirats 'bello'
La parola basca è formata con il suffisso -tsu "pieno di", poi abbreviato in -ts.
Attestazioni: sirbaiser, kaŕesir-te (ablativo), leisir, kuleśir (con assimilazione) 

52) SOCED(E) /so'kede/ "guardiano" 
Una radice dall'aspetto decisamente inconsueto. Rodríguez Ramos suggerisce un prestito culturale dal semitico škd "vigilare". La forma d'origine potrebbe essere fenicio /*ʃo:'ke:d/, piuttosto che neopunico /*su:'xe:d/
Attestazioni: SOCEDEIAUNIN, SOCED

53) sor, soŕ /tsoṛ, tsor/ "fortuna; fortunato"
    basco zori 'fortuna'
Attestazioni: soribeis, soŕike, beleśur, etesur, ibeśor-en (genitivo), kanisoŕ

54) śakin, SAGIN /'sagin, 'tsagin/ "piacere"
    basco: atsegin 'piacere'
Non è improbabile che la tradizionale spiegazione del basco atsegin (hats "respiro" + egin "fare") sia paretimologica.
Attestazioni: ENASAGIN, beleśakin-eai (dativo)

55) śitu /'situ/ "lungo; durevole" < celt.
Un prestito dal celtico (non è chiaro se dal celtiberico o da una lingua affine al gallico). Non deve essere troppo remoto, visto che ha ś /s/ per celtico /s/, mentre abbiamo appurato che negli strati più antichi di prestiti si ha s /ts/ per celtico e IE preceltico /s/.
Attestazioni: śitubolai

56) taŕkun /'tarkun/ "molto virile"
   basco ar 'maschio' 
Attestazioni: taŕkunbiuŕ

57) taś /tas/ "virile" < *taŕś
Attestazioni: atintaś, baisetaś, balketaś, bototaś, ikoŕtaś

58) tasbeŕ /'tatsberr/ "giovane maschio"
Attestazioni: tasbeŕiun, tasbarikibas 

59) teita /'deita/ "visibile, splendente"
     < IE precelt.
La radice è *dey- / *dya- "dare luce, essere visibile". Per la formazione, cfr. protogermanico *taita- "chiaro, visibile". Da questa radice deriva anche l'etnonimo DEITANI
Attestazioni: TEITABAS, teitataŕ

60) tetel /'tetel/ "balbuziente" 
    basco zezel 'balbuziente'
Attestazioni: tetel-i (dativo), biuŕtetel, URCHATETELL-I (dativo)

61) tilauŕ /'tilaur/ "egli lo accorcia, lo rimpicciolisce" 
   basco labur 'corto'
Forma verbale transitiva derivata dalla stessa radice di lauŕ "corto" - da non confondersi con laur "quattro". Ancora una volta vediamo come l'iberico aveva una flessibilità sconosciuta al basco. La comprensione della lingua è molto difficile anche per questo: il basco ha sclerotizzato pochi verbi transitivi dotati di flessione, mentre il sistema flessivo in iberico era pienamente sviluppato.
Attestazioni: biuŕtilauŕ

62) tileis /'tileits/ "egli lo desidera"
     basco lehia 'desiderio'
Attestazioni: aluŕtileis, kuleśtileis

63) tolor /'toloṛ/ "bianco, chiaro"
    basco: -
In alcune varietà di castigliano sopravvive la parola tolba "caolino bianco" < iberico *toluba. La possibilità che il toponimo Tolosa sia formato da questa radice iberica, con riferimento a terra argillosa chiara, non è poi così remota.
Attestazioni: bardaśtolor, TOLOCO, toloku, tolośar, taŕtoloi-keta-  

64) torsin /'toṛtsin/ "virile"
    basco -ots, -dots 'maschio di animale'
    aquitano -HOX (e varianti), 'maschio'
Attestazioni: torsinkeŕe, TORSINNO

65) tuitu /'tuitu/ "giusto, retto"
   -tuin /-tuin/ "giusto, retto"
   basco zuzen 'giusto, retto';
   basco zuin 'solco' < *'linea retta'
La forma più antica della radice era tueit-.
Attestazioni: tuitubolai, tuituiboŕ-en (genitivo), tuituiskeŕ-ar (genitivo), tueitikeiltun 

66) tuŕkes, tuŕkin /'turkets, 'turkin/ "alto"  
   paleosardo (topon.) TURKI 'fortezza'
Attestazioni: tuŕkeatin, TURCIRADIN, tuŕkeskeŕ, tuŕgosbetan

67) ulti /'uldi/ "gloria, glorioso" < IE precelt.
Cfr. protogermanico *wulθuz "gloria". Le iscrizioni in scrittura duale provano che l'occlusiva dentale era sonora. Questo morfo non può essere un prestito dal celtico, che invece conserva integro il nesso -lt- indoeuropeo. Possiamo ammettere che sia stato preso da una lingua indoeuropea preceltica, simile al lusitano, in cui la sonorizzazione di occlusive in nessi di questo genere era frequente (es. Pelendones, etc.).
Attestazioni: ultibaiser-te (ablativo), ultibei-kate, ultibeleś

68) ustain /'utstain/ "pesante, grave; peso"
    basco astun 'pesante'

Il termine ricorre anche come nome comune in un contesto combinatorio che ne permette l'attribuzione di un significato connesso con una qualche unità monetaria. Quindi l'identificazione con il vocabolo basco appare sensata, nonostante l'aspetto fonetico non sia molto simile. Si noti la differenza di sibilante, la metatesi vocalica e il fatto che la parola iberica è anche un sostantivo mentre quella basca soltanto un aggettivo. 

Attestazioni: uśtalaibi, ustainabaŕ-ar (genitivo), ustarike, ISTAMIUR-IS (gen. lat.) 

Il prossimo passo sarà la trattazione esaustiva dei morfi iberici non pertinenti al dominio dell'onomastica personale, in particolare dei verbi. Sono convinto che da tutto questo si potranno porre le basi per capire in che modo il protobasco e l'iberico, lontani parenti, si sono separati dal comune antenato. Se in Italia nessuno si occupa di questi argomenti, spero che in Spagna gli studiosi avranno accesso a questo mio materiale, che proprio per la sua audacia potrebbe contribuire al progresso delle conoscenze.