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giovedì 8 aprile 2021

ETIMOLOGIA DI NERONE E UN'INASPETTATA SOPRAVVIVENZA ITALICA

L'etimologia del nome Nerone non è affatto banale come potrebbe sembrare a prima vista. Molti tenderanno naturalmente ad associare il nome dell'inclito Imperatore all'aggettivo nero, cosa assurda per chiunque abbia anche una minima conoscenza della lingua latina. 
Famoso a questo proposito è un gioco di parole che ricordo fin da quando ero un moccioso: la frase latina "Cane Nero" significa "Canta, Nerone". È un ingegnoso trabocchetto usato per scherzi e indovinelli, che si è formato tra gli studenti di latino, anche se non è facile tracciarne con esattezza l'origine. Ne esiste anche una versione estesa, "Cane Nero magna bella Persica", che in latino significa "Canta, Nerone, le grandi guerre persiane", mentre il romanesco ha tutt'altro senso, parlando banalmente di un cane nero che mangia una bella pesca. 
Detto questo, Nerone non ha nulla a che fare con il colore nero, che in latino è niger (femminile nigra, neutro nigrum). Il glorioso cognomen romano Nerō (gen. Nerōnis), la cui origine è con ogni probabilità sabina, significa "Forte, Valente". Deriva dall'antica radice italica *ner-, di chiarissima origine indoeuropea, che significa "virile, forte".

Mirate tutti la potenza della Scienza linguistica! Da cose oscure e poco note, tramite le attestazioni e la forza delle ricostruzioni, fondate sulla Logica, in molti casi è in grado di illuminare l'Oscurità del passato, rendendo perfettamente comprensibile ciò che non si capiva. Riporto in questa sede ciò che serve allo scopo che mi sono prefisso. Certo, si tratta di cose acclarate da tempo. Eppure credo che sia sommamente utile divulgarle. 
 
Protindoeuropeo: *(a)ner- "uomo" 
Ricostruzione glottalica: h2nḗr "uomo; potere, forza, energia vitale" 

Anatolico: Ittita innarawatar "potere vitale", innarawant- "forte"; Luvio annar-ummi- "forte" (vedi Tischler); lidio nãrs "virtù, valore".

Sanscrito: nṛ́,
nár- "uomo, eroe", nára- (m.) "uomo; persona", nā́rī (f.) "donna, moglie"; nárya- "virile, umano"; sū-nára- "giovane uomo; giovanile".

Iranico: avestico , nar- "uomo, persona", nāirī "donna"; nairya- "virile"; curdo; ossetico næl "maschio"; persiano moderno nar /nær/ "virile, maschio; marito, stallone", nari "pene".

Armeno: ayr "uomo, persona" (gen. aṙn); aru "virile".
 
Frigio: αναρ (anar) "marito".
 
Greco antico: ἀνήρ (anḗr) "uomo", gen. ἀνδρός (andrós), acc. ἄνδρα (ándra), acc. epico ἄνέρα (anéra); epico ὴνοαέη (ǟnoréǟ) "virilità"; δυσ-ᾱ́νωρ (dus-ā́nōr) "che ha un cattivo marito".
 
Latino: neriōsus "forte, vigoroso; resistente" (di origine sabina); Nerō "Nerone" (antroponimo).
 
Altro italico: Osco niir, ner /ne:r/ "uomo", gen. pl. nerum; umbro acc. pl. nerf, dat. nerus "primi cittadini, nobili, prìncipi" (Tabole Iguvine); sud piceno nír "uomo", acc. pl. nerf  "uomini" (vedi Zamponi).
 
Celtico: *nerto-m "forza, virilità": gallico Esu-nertus, Nerto-marus, Nertacus (antroponimi), celtiberico Nerto-briga (nome di città); antico irlandese nert "forza, virilà"; gallese nerth "forza, virilità", cornico nerth "forza, virilità", medio bretone nerz "forza", bretone moderno nerzh "forza"; 
*nero-s "eroe": gallese nêr "eroe"; antico irlandese ner "cinghiale" (simbolo della virilità); celtiberico Neri (una tribù celtica della Galizia).
 
Albanese: njeri "uomo, persona" (antico albanese njer, proto-albanese *nera). 

Un'inaspettata sopravvivenza italica: 
la nerchia
 
La radice ner- "forte, virile" è sopravvissuta come relitto nella parola nerchia "pene, membro virile", molto diffusa nel Lazio (ad esempio si trova a Viterbo). Si può ricostruire una protoforma italica *ner-tlā- "pene, membro virile": con buona pace delle femministe convulsionarie, questo nome fallico è di genere grammaticale femminile - come spesso accade (vedi anche verga e minchia). Il Dizionario Treccani riporta la voce nerchia soltanto come una delle tante glosse di vocaboli fallici ma non la tratta, si trincera dietro il silenzio dell'ignoto. Molta gente, in modo stolto, ritiene che nerchia sia semplicemente una variante di minchia (da latino mentula "pene"), cosa impossibile per motivi fonetici. A sostenere questa pretesa derivazione di nerchia da minchia ci sono i fallocefali di Quora, è ovvio. Come di costume, stigmatizzo e fustigo i romanisti, che non hanno dedicato nemmeno mezza parola su una così importante testimonianza di un sostrato preromano indoeuropeo! Per loro, tutto ciò che non può essere ricondotto al vocabolario di latino che usavano al liceo, deve essere di "etimologia sconosciuta" o di "origine incerta". Per fortuna abbiamo trovato nel Web il meritorio sito di Aracne Editrice, in cui l'utente Nessuno ha pubblicato un interessante contributo, riportando l'etimologia di nerchia dalla radice italica *ner- e confermando la diffusione del vocabolo anche in Calabria, terra degli antichi Bruzi: 
 

L'etimologia è inclusa in un volume dello studioso John Bassett Trumper: Geostoria linguistica della Calabria (2016). Questa è la sinossi: 
 

"L’attuale divisione geopolitica della Calabria non corrisponde certo con esattezza alla terza Regio romana; non è quindi utile descrivere le centinaia di parlate singole della regione che oggi chiamiamo Calabria, spesso molto diverse tra loro, unite solo perché hanno una comune origine nel tardo latino. Questa regione non ha mai avuto, nella sua lunga storia, alcun centro dominante in senso culturale, politico–economico e soprattutto linguistico, nessun luogo, o luoghi, identificabile con un centro urbano, o un agglomerato consistente, che livellasse e koinizzasse l’intera area. Storicamente, il punto d’inizio sarà l’“italicizzazione” dell’odierna Italia nel periodo 3200–2800 a.C., discutendo la formazione di un gruppo italico Umbro–Sabino–Sudpiceno–Osco e considerando se una denominazione quale Enotro/Enotria sia riferita a uno stadio antico di questo stesso gruppo. L’autore si è concentrato principalmente sullo studio dei rapporti (biculturali) tra i microgruppi sabellici più meridionali e i Dori; è notevole che, mentre i Campani e gli Osci si alfabetizzano tramite le rivisitazioni etrusche dell’alfabeto greco, con la formazione dell’alfabeto detto “osco nazionale”, gli Osci più meridionali – che si chiamino Brettii o Enotri, non ha eccessiva rilevanza – ricevono l’alfabeto direttamente dai Dori, con lievi adattamenti."

domenica 16 giugno 2019

UN VOCABOLO NORRENO PER INDICARE UN TIPO DI FOCA: ORKN, ERKN, ØRKN

Approfondendo i miei studi di lessico norreno, la mia attenzione è caduta sulla seguente voce, estratta dal dizionario di Zoëga

orkn (n.), tipo di foca 

Si trovano anche le seguenti varianti:  

erkn (n.),
ørkn (n.). 


Le corrispondenti forme ricostruite in protogermanico sono le seguenti: 

*urkanan
*urkinan 


La prima delle protoforme riportate spiega la variante orkn, mentre la seconda è senza dubbio all'origine delle due forme che mostrano l'Umlaut palatale, ørkn e erkn, essendo la forma con vocale /e/ una mera semplificazione fonetica di quella con vocale bemollizzata /ø/

Ci sono stati alcuni deboli tentativi etimologici per spiegare queste voci enigmatiche e antichissime, a parer mio tutti vani, grotteschi o insidiosi.

Alcuni reputano che l'origine sia l'antico inglese orc "demonio", che viene dal latino Orcus "Averno, Regno dei Morti; Dio degli Inferi" (e per metonimia "morte"), a sua volta prestito dal greco Ὅρκος (Horkos). Il teonimo ellenico indica il figlio di Eris, una divinità che si credeva punisse il falso e gli spergiuri. Si tratta di uno sviluppo semantico che si riscontra anche nell'italiano orco "gigante, mostro". La traduzione della parola greca ὅρκος, supposta origine del corrispondente teonimo, è "oggetto su cui si giura". L'etimologia ultima è a mio avviso sconosciuta; l'associazione al giuramento potrebbe anche essere dovuta a una paretimologia. 

Coloro che sostengono l'origine della parola norrena orkn "tipo di foca" dall'antico inglese orc "demonio", "Inferno", potrebbero addurre a giustificazione dello slittamento semantico il fatto che i pinnipedi erano di fatto ritenuti sinistri e funesti già in epoca pagana. Con l'arrivo del Cristianesimo, questa opinione si sarebbe addirittura rafforzata. Gianna Chiesa Isnardi accenna a fatti davvero singolari: i cavalieri del re cristiano Olaf Tryggvason uccidevano foche e trichechi ritenendoli manifestazioni del Demonio. Si gettavano contro i pingui animali infilzandoli con le lance e finendoli a colpi di mazza o di scure, per la gioia dei moderni animalisti. Lascio ai miei detrattori la fatica di sfogliare il seminale volume dell'autrice in questione, I miti nordici, per trovare la citazione esatta (non colorita come la mia descrizione, ma comunque evocativa di stragi e mattanze).

La prima cosa che può venire in mente a un lettore è la parola italianissima orca, che indica il ben noto cetaceo, chiamato in inglese killer whale, alla lettera "balena assassina". Certo, una foca non è un'orca, ma entrambi sono senza dubbio mammiferi acquatici. Hanno qualcosa in comune.  

In latino abbiamo il seguente interessante vocabolo:  

orca (f.)
1) orcio, barile, giara
2) bussolotto per i dadi
3) orca, cetaceo


Secondo i romanisti, il significato 3) proverrebbe dal significato 1) per metafora, come se l'orca fosse un grosso recipiente rigonfio, data la sua forma. Essi sostengono anche che alla base di questa parola ci fosse l'idea dell'Ade come di un immenso animale inghiottitore. Anche per l'amatissimo Popolo Eletto, l'Oltretomba, chiamato Sheol, è una specie di animale inghiottitore non dissimile da un mostro marino. Certo, tutto è molto tirato per i capelli - cosa che è la norma nel mondo concettuale degli accademici. 

Il latino orca nel senso di "barile" è una parola giunta a mio avviso dall'etrusco: si tratta in sostanza di una variante della seguente: 

urceus (m.)
1) orcio, brocca
2) boccale


Con l'aggiunta di un suffisso in nasale abbiamo questo derivato: 

urna (f.)
1) brocca, orcio
2) scrigno
3) urna elettorale
4) urna funebre
5) unità di misura per liquidi (circa 13 litri)


Ricostruiamo queste forme etrusche indicanti tipi di vasi:

*urce 
*urcna
, *urχna


Una forma urcna è attestata realmente in falisco, una lingua italica molto affine al latino. Si tratta di un chiaro prestito dall'etrusco. In greco antico troviamo poi anche ὔρχα e ὔρχη "giara", senz'altro della stessa identica origine. Nobili ingegni come il Trombetti già ai tempi del Duce ipotizzavano che questi vocaboli traessero la loro origine da una radice "mediterranea" che ritroviamo anche nel basco ur "acqua". L'orcio e l'urna dovevano essere in origine dei vasi potori, atti a contenere l'acqua.

Resta ora da capire quale sia la vera origine di orca nel senso di "cetaceo", che è il corrispondente più probabile e diretto del norreno orkn "tipo di foca". In greco esiste ὄρυξ (óryx) "grosso pesce", di origine pre-ellenica, che potrebbe avere qualche connessione. E se si trattasse di una "bestia acquatica", proprio come l'orcio e l'urna sono "vasi dell'acqua"? Sarebbe suggestivo. Forse un giorno recupereremo tutti i dati necessari a determinare una volta per tutte la genealogia di questa famiglia lessicale! 

Nel mondo anglosassone ci sono accademici, per tradizione poco attenti al vasto ginepraio dei sostrati preindoeuropei presenti in greco e in latino. Le idee che coltivano costoro sono molto più prosaiche delle mie: credono che il latino Orcus sia giunto dal latino fino all'antico irlandese, entrando poi direttamente in norreno all'epoca delle scorrerie vichinghe. Il punto è che in antico irlandese orc ha tutt'altro significato, che mi accingo a illustrare nel seguito.

La questione delle connessioni col mondo celtico insulare è in ogni caso particolarmente importante, perché già i Vichinghi avevano usato la parola orkn "tipo di foca" per fornire un'etimologia facilmente comprensibile e diretta del toponimo Orkn-eyjar "Orcadi", alla lettera "Isole delle Foche". Dobbiamo però notare che il toponimo era già noto nell'antichità classica come Orcades. Per l'appunto, le Orcadi.

In antico irlandese abbiamo le seguenti voci, di origine indoeuropea:

orc "maiale"
     < protoceltico *orkos < IE *pork'os
   
(cfr. latino porcus)
orc "salmone"
     < protoceltico *orkos < IE *pork'os
    (cfr. greco antico πέρκη "tipo di pesce di fiume, perca") 


La forma orc "salmone" ha un parallelo notevole anche in antico ligure nell'idronimo Porcobera "Polcevera", alla lettera "che porta trote".  La perdita della labiale *p- indoeuropea è un tipico carattere celtico, presente già nelle più antiche attestazioni delle lingue di quel tipo - e per contro assente in ligure.

Conclusioni: 

Capiremo qualcosa di più quando si potrà diradare la nebbia che ricopre il panorama delle lingue preindoeuropee che precedettero il latino, il greco, il celtico e il germanico. Spero ardentemente che quel giorno arriverà presto!

lunedì 12 febbraio 2018

CONTRO L'ALINEISMO

Quando la Scienza viene meno ai propri princìpi per asservirsi alla politica, diventa all'istante Pseudoscienza. La trasformazione è drammatica e irreversibile. La Pseudoscienza può essere paragonata a un albero infestante che produce frutti mostruosi quanto nocivi: non ne sortirà mai nulla di buono, neppure per puro caso. Se a diffondere idee pseudoscientifiche è un pazzoide senza titolo alcuno, che delira senza sosta sui Rettiliani, si tende a non dare troppo peso alla cosa. Tanto si tratta per l'appunto di un pazzoide, spesso senza arte né parte, del tutto privo di qualsiasi traccia di istruzione e di cultura scientifica. Ai tempi di Carlo Cotenna c'era un individuo bizzarro che girava Milano in bicicletta, cercando di diffondere la sua grande scoperta, riassumibile in una frase stringata: "La Terra è piatta". Veniva deriso da tutti, anche dai più ignoranti popolani. Cosa dire invece quando a formulare teorie assurde e contrarie ai dati di fatto è un luminare? Questa è una cosa terribile, un funesto portento di questi tempi degeneri. Provate a immaginarvi uno studioso, parte del mondo accademico, con un curriculum da far paura e la conoscenza di una gran mole di informazioni, che si mette a costruire a tavolino una teoria assurda quanto il terrapiattismo o l'antivaccinismo, diffondendola poi con grandi mezzi tra le genti. Forse non lo sapete, ma cose simili accadono davvero.

Un esempio di teoria pseudoscientifica diffusa da un accademico di fama è quella che va sotto il nome di Continuità Paleolitica, escogitata dal linguista Mario Alinei. Non si tratta di uno sconosciuto. Non è nemmeno un rubicondo cronista sportivo come David Icke o un terrapiattista friggitore di psilocybe. Nato a Torino nel 1926, Alinei è professore emerito all'Università di Utrecht, dove ha insegnato per molti anni (1959-1987). Fondatore della rivista Quaderni di Semantica, è stato presidente dell'Atlas Linguarum Europae presso l'Unesco assieme ad Anton Weijnen dell'Università di Nimega. È autore di numerosissime pubblicazioni ed è un'autorità nel campo della dialettologia. Per rendersene conto basti guardare la sua bibliografia, facilmente reperibile nel Web. A quanto sono riuscito ad apprendere, Alinei fu un pioniere dell'uso del computer nella linguistica. Il dialettologo serbo Pavle Ilić ha dichiarato che "Alinei è uno tra i non numerosi linguisti europei che già negli anni '60 erano desiderosi e capaci di applicare i risultati delle innovazioni tecnologiche allo studio del linguaggio". Le cose hanno assunto una svolta improvvisa e sorprendente quando il luminare torinese si è ritirato, nel 1996. A partire da quella data, si è messo a produrre una mole immensa di lavori tutti incentrati sull'idée fixe dell'origine delle lingue indoeuropee nell'Europa del Paleolitico Superiore. Secondo la sua teoria, ogni lingua e soprattutto ogni dialetto di origine indoeuropea dell'Europa attuale sarebbe stato parlato senza interruzione e in forma riconoscibile fin dall'epoca più remota, anteriore addirittura alla fine dell'ultima glaciazione. In pratica, la protolingua indoeuropea risalirebbe a Homo erectus!

Prendiamo per esempio il lombardo, ben rappresentato dal dialetto di Milano. Secondo Alinei, le sue caratteristiche sarebbero già state presenti prima ancora della rivoluzione agricola, prima ancora della comparsa dell'aratro. Così, immaginiamo che con una macchina del tempo, senza muovermi nello spazio, io arrivi da un cacciatore-raccoglitore del Leptolitico e lo apostrofi così: "Ti, balabiòtt, va a dà via i ciapp e càghes adòss!". Ebbene, a quanto pare il glottologo continuista è assolutamente certo che sarei capito alla perfezione e che il cavernicolo mi risponderebbe: "Tel rüzzi denter in del cü, sacrament d'un'òstia!". Il tutto con una bestemmia inconcepibile prima di Cristo. La cosa travalica talmente i confini del ridicolo che ci sarebbe da considerarla una barzelletta. Che non sia una vana facezia lo dimostra il fatto che la reazione del mondo scientifico a queste scempiaggini è stata a dir poco flaccida. Così è riportato in Wikipedia: "Questa sua (e di pochi altri studiosi e accademici) visione della storia delle lingue e dei "dialetti" d'Europa contrasta con quella "corrente" ed è rifiutata dalla maggior parte dei linguisti storici “tradizionali”." Diabole! Un giudizio blandissimo, di un'incredibile tolleranza!

Tutto ciò che non conocorda con i dogmi alineisti, viene semplicemente rimosso, passato sotto silenzio come se non fosse mai esistito. Così sono fatte scomparire moltissime lingue parlate in epoca antecedente alla diffusione del latino. Le loro attestazioni scritte non rilevano. Le lingue italiche sono ritenute inesistenti! Le lingue celtiche sono ritenute inesistenti! Intere masse di antroponimi ben dcumentati, che non collimano con l'idea di Alinei, non vengono nemmeno menzionati! Dove questa strategia non riesce, come nel caso della lingua etrusca, che non può semplicemente esser fatta sparire nel Nulla, ecco che viene ridefinita. Siccome nell'Europa centrale esiste un'unica isola non indoeuropea, l'Ungheria, ecco che l'etrusco viene dichiarato ungherese! Gli Etruschi vengono considerati una naturale propaggine dei Magiari, nonostante questi ultimi siano migrati nelle loro attuali sedi in epoca medievale! I dati della lingua dei Rasenna vengono fatti a pezzi e rimontati a piacimento, ovviamente per essere confrontati con l'ungherese contemporaneo proiettato nella preistoria, con tanto di prestiti da lingue slave e altaiche! Del resto le lingue uraliche e quelle altaiche sono confuse e vengono affermate le equazioni Magiari = Turchi e Turchi = Etruschi! Non dovrebbe sorprendere che Alinei in Ungheria sia ritenuto un eroe nazionale, al punto che le sue baggianate sull'etrusco-ungherese sono addirittura strombazzate come una "scoperta". Una tattica semplicissima, comprensibile da tutti. E che dire dei Baschi e della loro enigmatica lingua? Semplice: sarebbero migrati da Marte in epoca recentissima!

Se si risapesse cosa penso della perniciosa opera di Alinei, subito qualcuno si inalbererebbe urlando allo scandalo. "Luminare giudicato da un blogger!", esclamerebbero. La cosa molto probabilmente non avverrà, anche perché i miei scritti non li legge quasi nessuno, li pubblico soltanto per diletto mio e di pochissimi altri. In ogni caso il problema sussiste. Se qualcuno osa insorgere contro un'idea palesemente falsa e dannosa diffusa da uno studioso, viene ritenuto "arrogante" e "intollerante", il più delle volte da gente che non ha alcuna competenza nel campo in questione. Il mondo accademico è malato, è come se fosse affetto da una grave forma di morbo di Alzheimer che ne corrode il senno.

Questo però non è tutto. Esistono propagandisti attivissimi, a cui possiamo ben dare il nome di alineisti militanti, che cercano di diffondere con ogni mezzo la teoria della Continuità Paleolitica nei social network e nei forum. Dovunque ci sia una discussione su un argomento sensibile, arrivano prontamente. Hanno tutte le caratteristiche di una setta di fanatici. Sono tutti uguali e scrivono tutti le stesse identiche cose. Mettono il massimo impegno nel catechizzare i presenti, riportando lunghi papiri con gli enunciati delle dottrine di Alinei. Come se si trattasse di una gemma di inestimabile valore, ecco che forniscono l'url del sito del loro signore e mentore, denominato Continuitas. Ogni volta che avviene questa operazione, parlano di tale portale con estrema deferenza, con frasi del tipo "Questo è il loro sito" (dei continuisti), con tono sacrale, come se si aspettassero che i presenti si mettessero a prostrarsi in adorazione. A ogni minima obiezione, sommergono gli interlocutori con scritti lunghissimi senza né capo né coda, pieni di deliri e di paralogismi. Non ascoltano e pretendono di avere la parola soltanto loro. I loro argomenti sono di questo tenore: "Risalendo al passato c'è sempre unità, quindi le teorie di Alinei sono giuste". Il fatto che andando indietro nella storia di diverse lingue si arrivi a una protolingua comune, da ricostruirsi con fatica, non implica affatto che si possano prendere lingue viventi per proiettarle immutate nel Paleolitico! 

Adesso vediamo un po' di capire quale sia l'origine di questi partigiani delle teorie di Alinei. Evidente come la luce del sole è il fatto che a muoverli siano basse motivazioni politiche. La politica è una brutta bestia e soprattutto ha risorse da spendere per le sue finalità squallidissime. Riporto il commento di un navigatore, Tom Sawyer, apparso su un thread politico come risposta a un missionario alineista: 

"il problema pero’ e’ che questa teoria non e’ accettata dalla comunita’ scientifica, mentre viene esaltata (per motivi politici) in ambienti che non hanno niente a che fare con la scienza. puo’ darsi che alinei sia un genio incompreso, e puo’ darsi che no. qui nessuno e’ un esperto di linguistica comparata, di glottologia, di archeologia ecc., e quindi la questione resta in sospeso. quel che NON resta in sospeso e’ che l’ estrema destra russa utilizza questa teoria per motivi, diciamo cosi’, poco nobili. idem per l’ estrema destra slovena. idem per l’ estrema destra veneta. il motivo e’ chiaro: tutti questi gruppi vedono in questa teoria un buon argomento per opporsi all’ immigrazione, oppure per avanzare rivendicazioni territoriali. io non ho niente contro alinei. ma se questa teoria (che e’ ancora ampiamente da dimostrare, per quel che ho capito) viene utilizzata in questo modo dai gruppi di cui sopra, allora siamo di fronte ad un uso strumentale della scienza, che andrebbe condannato senza riserve. da alinei per primo."

Tutto è molto chiaro. A foraggiare è nientepopodimeno che Putin. Al tiranno russo interessa aumentare con ogni mezzo l'entropia in Europa, e a questo scopo profonde capitali ingentissimi. Tom Sawyer non può avere che un vago sentore di quanto le idee di Alinei distino dalla realtà delle cose, ma di certo ha una grande capacità intuitiva. Purtroppo mostra un po' di ingenuità quando dice che lo studioso dovrebbe condannare per primo l'uso strumentale della Scienza. Il fatto è che la Continuità Paleolitica non è affatto Scienza. Parrebbe (il condizionale è d'obbligo) costruita proprio perché la politica possa farne un uso strumentale.

Rimando a quest'altro mio post sull'argomento:

domenica 4 febbraio 2018

ETRUSCO S'A 'QUATTRO': L'ARGOMENTO DEL QUADRATO


Una famosa iscrizione su uno specchio volterrano (TLE 399, aka ET Vt S.2) ha il seguente testo:

eca: sren: tva: iχnac: hercle: unial: clan: θra: sce

Questo scrive Koen Kylin sull'argomento:

"Lo specchio rappresenta una scena con Giunone allattante Ercole barbato; Giove tiene in mano una tavoletta recante l'iscrizione. Alcuni autori in passato avevano tradotto: questa figura mostra come Ercole di Giunone il figlio il latte succhiava. Credo però che la Fiesel, ora seguita da quasi tutti gli etruscologi, avesse ragione quando diceva che la rappresentazione della scena fosse perfettamente chiara al pubblico etrusco, in modo tale che l'iscrizione dovesse spiegare la scena anziché ripeterla. L'allattamento di Ercole indica piuttosto l'adozione di Ercole da parte di Giunone. Da molti autori l'iscrizione viene dunque tradotta nel senso di questa figura mostra come Ercole di Giunone figlio divenne."

Sono certo che la Fiesel si sia grossolanamente sbagliata. I due punti tra le parole θra e sce , perfettamente visibili a occhio nudo, non possono semplicemente scomparire come se nulla fosse solo perché a qualche etruscologo non garbano - tanto più che gli Etruschi sapevano benissimo segmentare le parole. Nessuno avrebbe scritto θra: sce se il verbo fosse stato *θras-. Sostengo la traduzione "il latte succhia" o "il latte succhiava". Non è necessario supporre che l'iscrizione sia descrittiva: è ben possibile che in etrusco la locuzione "succhiare il latte" esprimesse in modo idiomatico il concetto di "essere adottato". Una possibilità ben concreta che a quanto pare non è saltata in mente a nessuno. Tra l'altro, su una pentola compare la parola isolata θre (Maggiani, Artigianato artistico in Etruria, pag. 115 n. 145), il che può costituire un interessante parallelismo. Guardando la scena mitologica sullo specchio volterrano, si noterà lo sguardo perplesso e arcigno di Giove, evidentemente geloso.

Non è tuttavia la semantica delle parole θra e sce il centro di questa trattazione, e nemmeno i turbolenti sentimenti di Giove, con rispetto parlando. Il termine che ci interessa di più in questa sede è sren, in genere tradotto con "figura" o "disegno". Ebbene, io sostengo che sren traduca alla perfezione il latino quadrum e il greco πίναξ e che significasse in origine "quadrato" o "quadro". Quindi passò a indicare anche la rappresentazione di una scena, uno slittamento semantico del tutto comprensibile. Anche se lo specchio di Volterra è rotondo, guardandolo sembra quasi che la scena con le figure divine sia stata pensata dall'artista come un quadrato inscritto nella forma circolare del manufatto. Notiamo ad esempio gli elementi architettonici che la delimitano sopra e sotto. 

La radice śren- compare anche le Liber Linteus nella locuzione ricorrente cletram śrenχve (variante śrencve). Forte della traduzione di sren come "figura", ecco che Pallottino tradusse cletram śrenχve con un improbabile "il carro adorno", dal momento che nelle Tavole Iguvine (scritte in umbro) vi era la parola kletra indicante un congegno per trasportare le offerte. All'epoca di Pallottino molti erano gli elementi incerti della morfologia etrusca, così fu creduto verosimile interpretare il suffisso -χve aggiunto a sren- come una terminazione aggettivale, mentre la -m di cletram era da alcuni interpretata come "accusativo fossilizzato". A nessuno è saltata agli occhi la discordanza! Ora sappiamo che -χva, -cva è un suffisso del plurale inanimato, e che -a finale non alterna arbitrariamente con -e: il suffisso -χve deve essere un locativo plurale derivato da un più antico -*χva-i (suffisso attestato in altri vocaboli). Facchetti fa un'analisi geniale di cletram śrenχve, concludendo giustamente che non vi è alcun carro adorno. Il termine cletram è un falso amico della parola umbra: è da analizzarsi come c-le-tram, con l'elemento -tram visto anche in c-n-tram. Se c-n è l'accusativo del pronome ca "questo, egli", c-le è il suo pertinentivo II, in buona sostanza un locativo del genitivo in -al. Così Facchetti traduce cletram śrenχve come "nelle aree all'esterno". Condivido appieno e aggiungo che si tratta di aree quadrate: "nei quadrati esterni". Per approfondimenti, si rimanda all'opera dello stesso studioso, Elementi di morfologia etrusca (Arcipelago Edizioni, 2002), consultabile su Scribd.

Nel testo del Cippo di Perugia compare śran-c, lemma che giustamente si ritiene il nome di un'unità di misura di area (-c è la comunissima congiunzione enclitica che vale "e", proprio come il latino -que). Anche in questo caso, il significato centrale di "area quadrata" è perfettamente pertinente. Anche nella Tabula Cortonensis compare śran, nelle linee 3-4 della faccia A, dove si legge tênθur . sa . śran . śarc . clθil . têrsna, traducibile come "quattro misure e dieci aree quadrate vicine a queste". Facchetti interpreta śran in modo abbastanza fumoso, come "in estensione".

Da dove verranno dunque queste parole, sren e śran? A parer mio si tratta di antichi composti che incorporano il numerale śa "quattro", la cui traduzione letterale deve essere "quattro angoli", "quattro punte" o "quattro lati". Proprio come in tedesco, in cui Viereck significa "quadrato" e "quadrilatero". La differenza delle sibilanti è in questo caso apparente: anche se nel contesto del Liber Linteus s indica il suono palatale e ś il suono laminale, mentre in altre iscrizioni avviene l'inverso, śrenχve potrebbe avere in realtà una š palatale iniziale. Facchetti trascrive le s dell'iscrizione di Volterra come š, ottenendo eca: šren: tva: iχnac: hercle: unial: clan: θrašce. È ben possibile che le due sibilanti non fossero ben distinte dallo scriba e che un nesso sibilante + rotica fosse di realizzazione abbastanza incerta. L'ortografia della Tabula Cortonensis sembra seguire il Liber Linteus nel modo di rappresentare le sibilanti, e Facchetti trascrive tênθur . sa . śran . śarc . clθil . têrsna come tênθur . ša . sran . sarc . clθil . têršna.

Queste sono le protoforme ricostruite: 

śran < *ŚA-RANA
sren
< *ŚA-RANI
śrenχve < *ŚA-RANI-ΧVA-I


Sono convinto che un giorno tutti questi dettagli saranno chiariti meglio. In ogni caso credo che quanto esposto costituisca un potente argomento linguistico in più in favore dell'identificazione del numerale śa con "quattro" e non con "sei".

mercoledì 12 luglio 2017

NOTE SUL LAVORO DI RIGOBIANCO

Luca Rigobianco (Università Ca' Foscari di Venezia, Dipartimento di Studi Umanistici) è l'autore di un interessante lavoro sulla lingua etrusca, Su numerus, genus e sexus. Elementi per una grammatica dell'etrusco. Quest'opera, edita da Edizioni Quasar, è senza dubbio meritoria. Al momento porta la scritta "Copia autore", ma in ogni caso è consultabile e scaricabile gratuitamente al seguente url: 


Un lavoro davvero eccellente, che cerca di collegare alcune caratteristiche morfologiche della lingua dei Rasna all'indoeuropeo. Concordo senza dubbio sulla provenienza della radice tin- "giorno", donde Tin(i)a "Giove", da IE *din- (un prestito di ambito religioso), mentre su altri punti ho qualche dubbio.

L'idea ormai corrente di una derivazione del suffisso femminile etrusco -i dall'indoeuropeo, e in particolare dalle lingue italiche, è a mio avviso ben poco plausibile, con buona pace di Rix e di Prosdocimi. Come posso provarlo? Semplice.

1) Il suffisso etrusco si aggiunge al tema anche quando termina in vocale.
Se un gentilizio maschile termina in -a, il corrispondente femminile termina in -ai, suffisso evoluto poi in -ei. Esempio: Tarcna (m.), Tarcnei (f.).
L'evoluzione verso -ei è dovuta all'indebolimento della vocale tematica, causato dalla -i finale, che si è sempre mantenuta. L'analisi del suffisso femminile è -a-i, dove si vede bene che la vocale -a del tema è preservata. Questo non accade in nessuna lingua indoeuropea.
2) Come ammette anche l'autore, non esiste una tradizione chiara di femminili in -i: (< IE -*iH2) in nessuna lingua nota di popoli italici confinanti con gli Etruschi, almeno nelle loro sedi storiche. Dunque è senz'altro da escludersi che la provenienza del suffisso sia italica. In latino troviamo femminili in -i:x, da analizzarsi come -i:-k-s, per esempio in na:tri:x "biscia". Si vede che questo femminile presenta un suffisso velare. Si hanno anche forme come re:gi:na e galli:na, in questo caso con un'estensione nasale. Si noterà che dove l'etrusco ha un nome divino in -i, Uni "Giunone", il suo corrispondente latino ha invece un suffisso diverso: Iu:no:, gen. Iu:no:nis. Un relitto di un antico tema in -i:- si trova nel nome Iu:nius "Giugno" (mese), "Giunio" (gentilizio), oltre che nella forma iu:ni:x "giumenta", che è corradicale. Tuttavia, forme "nude" di femminile in -i nella lingua di Roma non le troviamo nemmeno se ci mettiamo a piangere e ci strappiamo i capelli, neanche nelle fasi più antiche documentate. Come è possibile dunque che una simile caratteristica, che deve essere remota, abbia avuto una simile fortuna in etrusco come prestito?

Mi sento di aggiungere un paio di considerazioni che reputo di una qualche utilità. 

1) Si tende a cercare un femminile in -i anche in due termini di parentela: ati "madre" (genitivo ati-al) - che tuttavia sembra una forma non ulteriormente analizzabile - e seχ "figlia" (genitivo seχi-s). Un fatto che gli etruscologi hanno passato sotto silenzio è l'anomalia assoluta di questo genitivo in -s di seχ, che non corrisponde mai ai genitivi dei femminili in -i. Infatti i gentilizi femminili in -ai-ei hanno il genitivo in -al, mentre i femminili in -i hanno il genitivo in -ial. Non si può quindi assimilare seχ ai femminili in -i, per nessun motivo. 
2) Un'iscrizione vascolare (DETR 263) ci attesta la forma Lusχnei accanto alla figura della luna. Questa forma è senza dubbio un prestito religioso dall'italico *louksna, l'antenato diretto del latino lu:na. Se non fosse stato usato soltanto come teonimo, ma anche come sinonimo dotto del più comune tivr "luna", questo potrebbe essere un caso singolare di uso di suffisso di mozione in un nome comune - tanto più che un corrispondente maschile non avrebbe ragion d'essere! 

domenica 12 febbraio 2017

LONGOBARDO RICOSTRUITO: UNA FORMULA PER GUARIRE IL MAL CADUCO

Testo in longobardo (ricostruito), con introduzione e altre parti in latino:

CONTRA CADUCUM MORBUM
ACCEDE AD INFIRMUM IACENTEM ET A SINISTRO USQUE AD DEXTRUM LATUS SPACIANS, SICQUE SUPER EUM STANS DIC TER:
THONOR THUTIGO, THEUDEUIGO! 
THAU QUAM THES TIUFOLES SUNO, UF ADAMES PRUCCON, ANDI SCHITODA AINAN STAIN ZO GUIDE. THAU QUAM THES ADAMES SUNO, ANDI SLOH THES TIUFOLES SUNO ZO AINERU STUDON. PETRUS CASANTIDA PAULUM SINAN PRODER THAZ ER ADERRUNA ADERON FERPUNDI, FERPUNDI THEN PANDON. FERSTEZ ER THEN SATANAN. ALSUA TON IH THIH UNRAINER ATHMO FRAM THISEMO CHRISTINON LICHAMON. SUA SCAIRO IH MIT THEN ANDON THEA ERDA PIRORIU. POST HEC TRANSILIAS AD DEXTRAM ET DEXTRO PEDE DEXTRUM LATUS EIUS TANGE ET DIC: STAND UF GUAZ GUAS THIR. THER GOD CAPAUT THIR IZ. HOC TER FAC ET MOX VIDEBIS INFIRMUM SURGERE SANUM. 
 

Trascrizione fonologica (semplificata): 

/'kontra ka'dukum 'morbum
ats'tsede ad in'firmum ja'tsentem et a si'nistro 'uskwe ad 'dekstrum 'latus 'spatsjans, 'sikkwe super 'eum 'stans et 'dik 'ter :
'θɔnor 'θu:ti:go 'θeud'e:wi:go
θau 'khwam θɛs 'tiufoles 'suno u:φ 'adames 'prukko:n, andi 'skito:da ainan 'stain tso: 'gwide.
θau 'khwam θɛs 'adames 'suno andi 'slo:χ θɛs 'tiufoles 'suno tso: 'aineru 'stu:do:n
'petrus ka'santida 'paulum si:nan 'pro:der θats er 'a:derru:na 'a:dero:n fer'pundi, fer'pundi θe:n 'pandon. fer'ste:ts 'ɛr θɛn 'satanan. 'alswa: 'to:n iç 'θiç, 'unraine:r 'a:tmo, fram 'θisemo 'kristi:non 'li:ççamon. swa: 'skairo iç mit θe:n 'andon θea 'ɛrda pi'ro:rju. post 'ek tran'siljas ad 'dekstram et 'dekstro 'pede 'dekstrum 'latus 'ejus 'tanje et 'dik : 'stand 'u:φ, gwats 'gwas θir. θɛr 'gɔd ka'paut 'θir its. ok 'ter 'fak et 'moks vi'debis in'firmum 'surjere 'sanum/ 

Per la pronuncia delle parole latine in questo genere di formule rimando a quanto specificato a proposito dell'incantesimo per curare la paralisi del cavallo.   

Traduzione: 

Contro il morbo caduco.
Avvicinati al malato che sta disteso e, protendendo<ti> dal lato sinistro al destro e stando così sopra di lui, di’: 
Donar* Tonante, Eterno del Popolo!
Allora venne il figlio del Diavolo sul ponte di Adamo e spaccò una pietra sul legno. Allora venne il figlio di Adamo e uccise il figlio del Diavolo a un ramo.
Pietro mandò suo fratello Paolo perché legasse la runa delle vene alle vene, <la> legasse con legacci. Egli cacciò fuori Satana. Allo stesso modo faccio io con te, spirito immondo, da questo corpo cristiano, così velocemente come io tocco la terra con le mani. E tocca la terra con entrambe le mani e di’ un Padre nostro.
Dopo questo, passa a destra e tocca il piede destro dal lato destro e di’:
Alzati! Cosa avevi? Dio te lo ordinò! Fai questo per tre volte, e subito vedrai il malato alzarsi sano.

*Corrisponde a Thor, teonimo universalmente noto ai lettori. 

Testi di partenza:

1) Testo in antico alto tedesco tardo (francone renano, XII sec.):

Contra caducum morbum.
Accede ad infirmum iacentem et a sinistro vsque ad dextrum latvs spacians. sicque super eum stans dic ter.
Donerdutigo. dietewigo.
do quam des tiufeles sun. uf adames bruggon. unde sciteta einen stein ce wite. do quam der adames sun. unde sluog des tiufeles sun zuo zeinero studon. petrus gesanta. paulum sinen bruoder. da zer aderuna. aderon ferbunde pontum patum. ferstiez er den satanan. also tuon ih dih unreiner athmo. fon disemo christenen lichamen. so sciero so ih mit den handon. die erdon beruere. et tange terram utraque manu. et dic pater noster. Post hęc transilias ad dextram et dextro pede dextrum latus eius tange et dic. stant uf waz was dir. got der gebot dir ez. hoc ter fac. et mox uidebis infirmum surgere sanum.

2) Testo in antico alto tedesco tardo (bavarese, XI sec.):

pro cadente morbo
Doner dutiger
diet mahtiger
stuont uf der adamez prucche schitote den stein zemo Wite.
Stuont des adamez zun. unt sloc den tieules zun. zu der studein.
Sant peter. sante zinen pruder paulen daz er arome adren ferbunte frepunte den paten. frigezeden samath friwize dih unreiner atem. fon disemo meneschen.
zo sciero zo diu hant wentet zer erden.
ter cum pater noster. 

Per approfondimenti rimando al lavoro di Eleonora Cianci (2004).

Commenti: 

Giustamente si è visto nell'incantesimo francone renano e nel suo analogo bavarese un'eredità dell'epoca in cui i missionari cristiani combattevano contro il paganesimo dei Germani. Il tema del duello tra Cristo e Donar (Thor) si trova ben documentato. Tra i Sassoni pagani in guerra contro i Franchi era credenza comune che uno dei passatempi del dio rossochiomato fosse duellare con il dio dei cristiani. In Islanda è riportata la discussione tra un missionario e una valente poetessa, Steinunn Refsdóttir (Brennu-Njáls saga, ossia Saga di Njáll del rogo, cfr. Chiesa Isnardi). Steinunn affermò che Thor aveva sfidato a duello Cristo, chiedendosi con parole di scherno come osasse il nuovo dio confrontarsi con il dio dei Padri.

Esiste però anche un altro tema nel materiale a.a.t., che non è stato finora messo nella giusta evidenza. Nella mitologia scandinava, Thor combatte contro il gigante Hrungnir e riceve nel cranio il frammento di una cote (pietra per affilare). La maga Gróa cerca di estrarre il frammento di selce, ma non ci riesce: come conseguenza quel corpo estraneo continua a causare a Thor forti dolori e periodiche convulsioni. Le coti erano ritenute manufatti magici e pericolosi, tanto che non era permesso ai bambini usarle per giocare. Si deduce quindi che l'epilessia era ritenuta dai Germani il prodotto di questo problema cranico del fulvo figlio di Wotan. Nulla di più naturale quindi di una serie di invocazioni a tale divinità per guarire dal mal caduco. A riprova di questo, nel testo francone renano la divinità pagana viene invocata esplicitamente. Sono perciò indotto a credere che le formule siano rudimentali cristianizzazioni di qualcosa di più antico e che il motivo del duello tra Donar e Cristo sia soltanto un'innovazione successiva sovrapposta al racconto del frammento di cote conficcato nel cranio del dio pagano. Con ogni probabilità il duello originale era tra Donar e un gigante. Se così fosse, sarebbe Donar ad essere chiamato "Figlio di Adamo", mentre il nome del gigante sarebbe finito rimosso e sostituito da "Figlio di Satana". Non dimentichiamo infine che il nome norreno Hrungnir ha la stessa radice del gotico hrugga "bastone" (-gg- suona -ng-): nel materiale tedesco abbiamo una pietra scagliata e un ramo. La studiosa dell'Università di Chieti fa molti interessanti riferimenti a materiale biblico, tuttavia non si cura molto della religione nativa e conclude che non si riesce a giungere a un'interpretazione soddisfacente. 

A.a.t. Donerdutigo e Doner dutiger: l'aggetivo è una crux per i germanisti. Credo di poterne finalmente offrire una sicura soluzione. Elenchiamo le proposte finora fatte dagli accademici per passare poi a confutarle:

1) A.a.t. dutigo viene tradotto con "del popolo" e ritenuto corradicale di a.a.t. diota "popolo, gente", che è come il gotico þiuda "popolo, nazione", dal protogermanico *θiuðo: id. La Cianci aderisce a questa proposta, seppur obtorto collo.
2) A.a.t dutigo viene tradotto con "pettoruto" e ricondotto ad a.a.t. tutto, tutta "mammella, poppa". Secondo Grienberger, il riferimento sarebbe stato al torace muscoloso dell'Aso dalla barba rossa.
3) A.a.t. dutigo viene tradotto con "valente", riconducendolo a un vocabolo anglosassone *dytig, glossato con lat. valens. La proposta si trova in un testo della Catholic University of America (Studies in German, 1944, vol. 19-21), più vecchio del famoso chinotto di Leone di Lernia. 
4) A.a.t. dutigo viene tradotto con "benigno" e ricondotto al gotico þiuþeigs "buono, degno di lode".

Tutte queste proposte non sono soltanto errate, ma sono anche impossibili per elementari ragioni fonetiche.

1) A.a.t. dutigo non può aver nulla a che fare con diota. In nessuna varietà di germanico la forma protogermanica mostra qualcosa di diverso dal dittongo /iu/ (con l'accento sulla -i-). Se guardiamo anche le altre lingue indoeuropee in cui la radice è rappresentata, vediamo che tutte le forme attestate sono riconducibili a una protoforma IE col dittongo /eu/. Anche il latino totus /'to:tus/ "tutto", l'osco touto "cittadinanza" e tovtix "pubblico", così come le forme celtiche, mostrano regolari esiti di /eu/. Dove sarebbe dunque la variante con una /u/ semplice? Anche l'ittita tuzzi "armata" a parer mio ricade in quanto visto: la sua vocale /u/ è chiaramente il frutto di una monottongazione. Se un celtico *toutikos fosse l'antenato della voce a.a.t. dutig-, per avere /u:/ dovremmo essere in presenza di un prestito tardo e non si spiegherebbe d- iniziale, che viene regolarmente da th-2) Per prima cosa a.a.t. tutto, tutta "poppa" è una forma di origine basso tedesca dovuta a prestito. La forma genuina con II rotazione è documentata dal m.a.t. zutzel, glossato con Sauglappen "panno assorbente". Grienberger non si è accorto che il consonantismo non quadra per nulla e che d- sarebbe impossibile, perché evidentemente era uno studioso scadente. Inoltre tutto, tutta indica solo il seno femminile e non il torace maschile. Giova ricordare che a Thor è attribuita quella che i buonisti oggi chiamerebbero omofobia feroce. Soltanto insinuare che la divinità avesse atteggiamenti femminei o caratteristiche equivoche era un insulto che avrebbe portato i suoi fedeli a uccidere i responsabili della bestemmia. Tra i Germani una simile onta poteva essere lavata soltanto col sangue.   3) L'anglosassone *dytig "valente" non può essere corradicale al nostro dutig-. Non è proprio possibile, visto che la corretta parola anglosassone è dyhtig. In a.a.t. /χt/ non si semplifica mai in /t/. Evidentemente gli studiosi della Catholic University of America erano troppo distratti dalla presenza di bambini nell'ateneo per ricordare correttamente parole in antico inglese. 
4) La soluzione non è soddisfacente per il vocalismo e neppure per il consonantismo. Ci aspetteremmo *diedigo come riflesso di *θiuθi:ɣ- e *dietigo come riflesso di un'eventuale variante *θiuði:ɣ-. Resta il fatto che forme con un'antica /u(:)/ non se ne trovano.

In protogermanico abbiamo la radice verbale *θiutanan "fare rumore, tuonare", donde è formata una variante ablautica *θu:tanan, documentata ad esempio nel gotico wulfiliano þuthaurn /'θu:t-hɔrn/ "tromba" e nel norreno þútr "rumore", "frastuono". Noi ipotizziamo che in gotico esistesse un derivato *þuteigs /'θu:ti:xs/ "tonante", che sarabbe entrato in longobardo come prestito, a causa della forte influenza del germanico orientale su tale lingua. Così la forma longobarda si espanse nell'area bavarese e francone renana in un tempo in cui il mutamento da /t/ a /ts/ e a /s̪/ non era più attivo, ma in cui restava vivo l'adattamento di /θ/ con /d/. Questo portò alle forme dutigo (flessione aggettivale debole) e dutiger (flessione aggettivale forte). Tutto ciò è ben plausibile, vista la natura magica delle formule. La genuina forma a.a.t. del verbo è diozan "fare frastuono". Le forme corrispondenti in longobardo ricostruito sono THUZAN /'θu:tsan/ e THEUSSAN /'θeus̪s̪an/

A.a.t. zuo zeinero studon è una grave crux. Cianci traduce con "al suo ramo", come fanno molti altri accademici. La parola per dire ramo in questo testo è studa, con la flessione debole, gen. e dat. studon. Il problema, ben grave, è che c'è un errore marchiano. Tradurre zuo zeinero con "al suo" (dat. f.) è una palese assurdità. C'è un anacronismo, perché l'aggettivo possessivo sarebbe sinero! Potremmo supporre una traduzione errata. Qualche studioso avrebbe confuso zeinero col la forma moderna dittongata, interpretando incredibilmente z- iniziale come la s- sonora del tedesco moderno sein "suo"! L'errore si sarebbe poi propagato e nessuno se ne sarebbe accorto, nemmeno la Cianci. Il problema è che un aggettivo a.a.t *zein o *zeini non sembra esistere. Non c'è alcuna connessione con a.a.t. zein "ramo", che corrispondente a gotico tains "ramo" ed è di genere maschile. Infatti zuo zeinero è una contrazione di un più antico zuo zi einero. Tutto è iniziato da zi einero contratto in zeinero, rafforzato quindi con zuo. Reduplicazioni di questo tipo non sono rare.

A.a.t aderuna aderon: a quanto pare la corretta traduzione era finora impossibile. C'è chi etichetta il termine aderuna come ungedeutet, ossia "non interpretato". C'è chi considera la parola ostica come un nome proprio e non lo traduce, lasciando Aderun. C'è chi lo vede come semplice plurale della parola ādra, ādara "vena", cosa che dal punto di vista morfologico è impossibile. Cianci sorvola su aderuna, limitandosi a parlare di aderon, che è un dativo plurale. A parer mio sta per *āderrūna, un antico composto formato da ād(a)ra "vena" e da rūna "segreto, mistero", i.e."formula magica" o "segno magico".  

A.a.t. pontum patum: un altro passaggio difficile. Per alcuni sarebbe una fantasiosa abbreviazione di Pontium Pilatum (acc.), che non ha il minimo senso nel contesto. Il testo bavarese ha invece frepunte den paten, che potrebbe spiegarsi bene se paten stesse per panten "ai legacci". Senza il minimo senso è la proposta di vedere patum come voce del verbo beiten "spingere, impellere" non quadra assolutamente il vocalismo, oltre al fatto che è un verbo debole. Sbagliare è certo una cosa normale, ma questi sono errori che difficilmente uno si aspetta di trovare tra gli accademici. 

giovedì 15 settembre 2016

IL FARNETICANTE RIDICOLO MARAVOT

Espongo al pubblico ludibrio il seguente sito farlocco, di certo un prodotto dell'Accademia di Lagado:

www.maravot.com/Etruscan_Phrases_a.html

Ovviamente non lo linko per non regalargli visite, anzi raccomando a chi voglia entrarvi di usare un sito che anonimizza le visite: 


L'autore del sito Maravot, certo Mel Copeland, parte dalla falsa idea (molto diffusa tra i dilettanti, soprattutto albanesi) che le Tavole Iguvine siano scritte in etrusco; da questa base erronea egli ricostruisce uno pseudo-etrusco interamente formato a partire da radici latine e addirittura da forme romanze, alterandone le desinenze e reinterpretandole allo scopo di provare la natura italica della lingua.

Poco importa a questo webmaster che sia di per sé evidente la natura del tutto dissimile della lingua delle Tavole Iguvine e di quella del Liber Linteus. Il fatto che l'una non serva ad interpretare l'altra non lo tiene nella minima considerazione: egli pretende di piegare la realtà dei fatti alle sue idee deliranti. La sua nociva invenzione dello pseudo-etrusco italico è da esporre alla gogna e all'irrisione come monito ai ricercatori.

Il principio su cui si fonda è quello della grossolana assonanza. Tra le "perle" del sito si può menzionare la coniugazione HV "io ho", HE "tu hai", HA "gli ha". Incredibile dictu, Mel Copeland ha tratto queste false agnizioni direttamente dalla lingua italiana! Ha preso parole italiane fatte e finite, le voci della coniugazione del verbo avere, quindi le ha proiettate indietro nel tempo fino a trapiantarle all'epoca dei Lucumoni. Inutile dire che tutto ciò farebbe ridere persino i polli.

Riporterò a questo punto un singolare aneddoto il cui scopo è quello di far comprendere la natura degli osceni abusi introdotti da Mel Copeland nel Web. Ricordo che un amico da giovane affermava di parlare il cinese. Caspita, ero davvero stupito, nella mia ingenuità di quell'epoca, da una simile capacità. Ecco che egli sciorinava i primi quattro numerali cinesi, che fornisco con a fianco la trascrizione in ortografia anglosassone:

unci (oonchie)
dunci (doonchie)
trinci (treenchie)
cali-calinci (kaly-kaleenchie)
 

Non andava oltre nella numerazione: evidentemente non era riuscito a costruire forme convincenti per le unità più alte. A queste voci cantilenate aggiungeva, come prova della sua presunta dimestichezza col mandarino, anche una frasettina che a sua detta i mariti cinesi avrebbero rivolto alle mogli prima di coricarsi:

cià-ciu-cia-chì (chah-choo-chah-kee)

Il punto è che questa sequenza di sillabe ha effettivamente senso compiuto... ma in dialetto milanese. Per coloro che ignorano l'idioma meneghino, darò la traduzione della frase: "Dai, succhia qui". Davvero poco a che fare con la lingua del Celeste Impero. 

C'è tuttavia una grande differenza, nonostante l'analogia nel metodo, tra questo pseudo-cinese e lo pseudo-etrusco di Maravot. Il primo è un prodotto ingenuo della gioventù spensierata ed esuberante. Il secondo è un prodotto doloso, una nociva menzogna che ha lo scopo di contaminare la Scienza, traviando gli sprovveduti per far loro credere cose molto distanti dalla realtà dei fatti. 

Riporto infine i numerali autentici del cinese mandarino:

一  yī "uno"
二 
èr "due"

三  sān "tre"
四 
sì "quattro"

wŭ "cinque"
liù "sei"
qī "sette"
bā "otto"
jiŭ "nove"
shí "dieci" 

lunedì 12 settembre 2016

I LIMITI INTRINSECI DEL PALLOTTINISMO

Una caratteristica comune tra gli archeologi è il pretendere di pronunciarsi su questioni linguistiche e rifiutare ogni confronto con gli interlocutori che hanno competenze diverse: l'archeologia appare fin troppo spesso come setta dogmatica che di fronte ad avverse argomentazioni ne nega l'esistenza e si chiude nell'autismo. A quanto pare manca alla maggior parte degli archeologi il metodo scientifico e tale carenza risulta ben evidente ogni volta che essi cercano di dedicarsi all'indagine linguistica.

Massimo Pallottino giustamente ha cercato l'etimologia etrusca di lemmi latini problematici: in un lampo di felice intuizione è riuscito a trovare nell'etrusco tus "letto" il corrispondente e l'antenato del latino torus "letto". Poi non è stato in grado di proseguire. Non ha infatti potuto comprendere che tus - torus dimostra la presenza del rotacismo in proto-latino: *tozos > torus - o meglio, non ha potuto capire le conseguenze cruciali e altamente produttive di questa assunzione, che non si limitano certo a una sola parola. Non ha capito che è possibile che anche altri vocaboli latini con -r- intervocalica risalgano a parole etrusche con -s-, e ha cercato in modo sistematico corrispondenti etruschi con -r-. Per contro Pallottino ha suggerito forme etrusche con -r- anche quando la corrispondente voce è attestata in latino arcaico e mostra invece -s-, fallendo in modo grossolano. Ad esempio ha cercato erroneamente nella base etrusca lar- il prototipo del latino Lares, nonostante il Carmen Arvale dimostri che anticamente si diceva Lases - il che prova che l'antenato etrusco di Lares era il teonimo Lasa e non la radice lar-.

La metodologia da applicare è la seguente:
1) individuare un lemma latino problematico, sospettato di essere di origine etrusca;
2) cercare la forma latina arcaica attestata (anche nell'antroponimia);  
3) cercare un termine etrusco (anche nell'antroponimia) che sia adatto a spiegare il lemma latino in questione.

Un'incompleta applicazione del metodo scientifico può portare a risultati simili a quelli prodotti dal Pallottino per il caso Lares. Così vediamo etimologie difettose proposte da Massimo Pittau, che pure è un linguista e che ha vigorosamente attaccato l'approccio degli archeologi agli studi etruschi. Prendiamo ad esempio il lemma etrusco fanu (con i suoi derivati). Come già Pallottino, anche Pittau è incline a vedere in esso l'antenato del latino fanum /'fa:num/ "tempio, luogo santo". Eppure sappiamo che il latino arcaico aveva fasnom. La forma etrusca corrispondente al vocabolo latino in questione non potrebbe mai essere fanu, in quanto in etrusco l'antico nesso -sn- non diventa -n- come in latino. Dovremmo avere semmai *fasnu o *faśnu, posto che f- sia un corrispondente corretto - il che non è detto. Infatti considerazioni etimologiche ci permettono di far risalire il latino antico fasnom a una forma con *dh-, da paragonare a greco θεός (thes) < *thesos, e all'armeno dik' "divinità pagane". L'origine ultima di questa radice è sconosciuta: è tradizionalmente considerata indoeuropea perché presente in alcune lingue di ottima tradizione indoeuropea: greco, armeno, latino e osco. Anche i dettagli dei singoli esiti di questa radice non sono esenti da problemi: ad esempio la vocale -a- del latino fanum rispetto alla vocale breve -e- del greco θεός, alla vocale lunga del latino fe:stus, fe:ria, e alla vocale lunga -ii- dell'osco fiisnam (acc.). La parola latina ha un vocalismo che è come un pugno in un occhio e che ha portato alcuni a postulare una variante della protoforma con una vocale indistinta (schwa) -ə-.

Siccome in caso di isoglosse tra etrusco e indoeuropeo, a forme IE con *dh- corrispondono forme etrusche in θ-, dovremmo aspettarci di trovare come parallelo una parola etrusca *θasnV o *θaśnV (V indica una vocale non determinabile), al momento non attestata. Sarà esistita? Non sarà esistita? Per ora nessuno lo sa, ma se il latino fanum ha avuto un corrispondente etrusco genuino (non dovuto a prestito), dovrebbe essere quello da me ricostruito.

In sintesi ci sono queste possibilità:

1) *fasnV o *faśnV - se è stato l'etrusco a prendere il lemma dall'italico (latino arcaico, etc.); 
2) *θasnV o *θaśnV - se è stato l'italico a prendere il lemma dall'etrusco (che a sua volta potrebbe aver preso a prestito il lemma da una lingua IE in una fase più antica); 
3) le forme in questione non esistono, la radice non ha avuto origine dalla lingua etrusca e non vi è mai giunta come prestito.

La questione non può ancora essere decisa con gli scarsi dati a nostra disposizione. Occorre attendere tempi migliori.

L'etrusco fanu invece è un participio passato passivo formato con il classico suffisso -u che si trova in moltissimi altri casi. Il significato deducibile dal contesto delle iscrizioni è "dichiarato". Giulio Facchetti sostiene questa interpretazione esplicitamente. Per quanto mi riguarda, concordo appieno con le sue conclusioni, anche se non ho una chiara idea sull'origine ultima della radice. Oltre a questo, egli ha identificato nella forma finora enigmatica zarfneθ che ricorre nel Liber Linteus un composto che contiene questo fan- in forma foneticamente ridotta. Il primo membro del composto è corradicale di zeri "rito", così zar-fn-eθ "che dichiara rituale". Forse la radice etrusca fan- corrisponde in qualche modo alla forma IE *bha:- che si trova nel latino for, fa:ris, fa:tus sum, fa:ri: "dire", con l'aggiunta di un'estensione in consonante nasale. Sergei Starostin nel suo database The Tower of Babel riporta i discendenti di questa radice nelle seguenti lingue: sanscrito, armeno, greco antico, slavo, proto-germanico, latino, osco. Rimando al sito per una trattazione più approfondita.  

Proto-IE: *bhā-
Meaning: to say

   Old Indian: sa-bhā́ f. `assembly, congregation'
   Armenian: ban, gen. -i `Wort, Rede, Vernunft, Urteil, Sache'; bay, gen. bayi `Wort, Ausdruck' (*bhǝti-s)
   Old Greek: phǟmí `sage', pháskō, inf. att. phánai̯, hom. phámen, ipf. éphǟn, inf. phásthai̯, aor. phǟ̂sai̯, pf. m. péphatai̯, ipv. pephásthō, va. pható- `sagen, erklären, behaupten'; phǟ́mǟ f. `Ausspruch, Kundgebung, Gerücht, Ruf, Rede'; phǟ̂mi-s, -ios f. `Rede, Gerede', pl. phḗmata = rhḗmata, phásmata Hsch., hüpo-phǟ́tǟ-s m. `Deuter, Ausleger', hüpo-, pro-phǟ́tōr m. `id.', pháti-s f. `Ausspruch, Gerücht, Kunde', phási-s `id.', phátǟ-s `pseústēs' Hsch., phōnǟ́ f. `Laut von Menschen und Tieren, Ton, Stimme, Aussprache, Rede, Sprache, Äusserung'
    Slavic: *bā́jātī, *bā́jǭ; *bāsnь; *bālьjь
    Germanic: *bō-n-ī(n-) f., *ba-nn-a- vb., *ba-nn-a- m., etc.
    Latin: for (Gramm.), fārī, fātus sum `sprechen', fācundus, -a `redegewandt', fātum, -ī n. `Schicksalsspruch, Orakel, Weissagung; Schicksal, Geschick', fāma f. `Sage, Gericht, Kunde; öffentliche Meinung (Gerede der Leute); Ruf, Leumund; guter und schlechter Ruf', fābula f. `Rede, Gerücht; (erdichtete) Erzählung, Sage, Fabel; Theaterstück'; fateor, fatērī, fassus sum `zugestehen, einraumen; bekennen, kundtun'; fās n. (indecl.) `das göttliche Recht'; nefās `Unrecht, Sünde'; fascinum n., fascinus, -ī m. `Behexung'; īnfāns, -antis `wer noch nicht sprechen kann'
    Other Italic: Osk faamat `ēdīcit', faammant `ēdīcunt', famatted `ēdīxīt, iussit'; fatíum `fārī'

L'origine ultima della radice è oscura. Il fatto stesso che la forma proto-indoeuropea sia ricostruibile con una vocale -a:- depone a favore di un antichissimo prestito. Come si vede le cose non sono tanto semplici: è un ginepraio che non può essere facilmente districato. Per giungere a conclusioni sicure sono necesari studi molto lunghi e complessi che difficilmente potrebbero essere portati a compimento da una sola persona. Le competenze di Pallottino in materia di lingue indoeuropee diverse dal latino erano abbastanza labili e ben lontane da quanto richiesto per esplorare un vasto paesaggio di rovine sprofondate nell'Oblio. Tale esplorazione tra l'altro all'archeologo romano non interessava minimamente, dato che era uno studioso politicizzato, cosa che lo portà a decretare la sostanziale illiceità di ogni seria ricerva volta a determinare l'origine degli Etruschi e la natura della loro lingua.

domenica 14 agosto 2016

PROVE ESTERNE E INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: DIGNUS VIENE DALLA RADICE DI DECET E DI DECUS

Questo riporta il benemerito Sergei Starostin nel suo immenso dizionario etimologico The Tower of Babel a proposito della radice indoeuropea *dek'-, da cui provengono le parole latine dignus "degno", decet "si addice", decus, gen. decoris "dignità, onore" e deco:rus "bello; conveniente":  

Proto-IE: *dek'-
Meaning: to acquire, gain; respect, thank

    Old Indian: daśā f. `state or condition of life, condition, circumstances, fate'; dāśnóti, dā́ṣṭi, dā́śati `to serve or honour a god, offer, present', dāśváṁs- `honouring the gods'; daśasyáti `to render service, serve, worship'; dakṣati `to act to the satisfaction of', dákṣa- `able, fit, passable' 
    Avestan: dāṣṭa- `erhalten, erlangt', dasa- n. `Gegenstand der fahrenden Habe, Vermögennsstück'
    Old Greek: dékhomai̯, 3 pl. dékhatai̯ (Hom.), protí-degmai̯ `prosdékhomai' (Hsch.), aor. déksasthai̯, ep. edégmǟn, dékto, ptc. dégmeno-; [ dokó-s m. `Balken' ], dokhós `Behälter', -deksi-s `Aufnahme, Empfang'; -déktōr der etwas auf sich nimmt'; dektḗr `Einnehmer', déktǟ-s m. `Almosenempfänger, Bettler'; hom. 3 pl. d[ē]dékhatai̯, ipf. d[ḗ]dekto, d[ē]dékhato (codd. dei-) `begrüssen, bewillkommen'; iter. d[ē]dísketo, d[ē]diskómeno- (codd. deid-); d[ē]knǘmeno-, d[ē]kanóōnto (codd. dei-) `huldigen, grüssen'
    Slavic: *desītī, *dosī́tī
    Germanic: *tix-ɵ=
Meaning: execute

    Latin: decet, -ēre, -uit `einen zieren, kleiden; sich für jd. schicken, geziemen', decus, -oris n. `Zierde, Schmuck, Würde'; dī̆gnus, -ä `würdig, wert'
   
Other Italic: Umbr tic̨it `decet'
    Celtic: MIr dech `der beste, vorzüglichste'

In modo simile a quanto avvenuto per cygnus, cycnus, che ha prodotto le varianti cucinus e cicinus, si è avuta una variante digina per digna (CIL 6, 25741), citata da Xaverio Ballester nel suo lavoro Fonematica del Latin Clasico. Consonantismo. Si noti che non sto parlando della forma *dicinus per dignus costruita da Daniël van Lennep nel suo Etymologicum Linguae Graecae nel tentativo di dare un'etimologia a questa parola, falsamente ricondotta al greco δείκνυμι "io mostro" (che è invece parente del latino di:cere). Appare più che evidente che uno scriba antico non avrebbe mai usato una grafica digina se la pronuncia del nesso gn fosse stata /ɲɲ/ e se la lettera g fosse servita ad esprimere il suono palatale /dʒ/ davanti alla vocale i

Queste sono le pronunce ecclesiastiche delle parole in questione:

dignus /'diɲ(ɲ)us/(1)
digina /'did
ʒina/(2)
decet /'detʃet/
decus /'dekus/
deco:rus
/de'korus/ 


(1) Si noterà tuttavia che Karol Wojtyła pronunciava /'dignus/.
(2) Così a scuola un docente leggerebbe questa variante.


Queste sono invece le pronunce classiche:

dignus /'di(:)gnus, 'di(:)ŋnus/(3)
digina /'digina/
decet /'deket/
decus /'dekus/
deco:rus /de'ko:rus/ 

(3) Secondo gli antichi la vocale tonica era prolungata dal nesso consonantico, ma le forme romanze discendenti - come l'italiano degno - postulano invece una vocale breve.

Mentre il greco kyknos non ha etimologia indoeuropea credibile e deve trarre la sua origine dal sostrato pre-ellenico (la tradizionale connessione con IE *kan- "cantare" è insostenibile per motivi fonetici), le parole latine dignus, decet, decus e deco:rus ci permettono di fare confronti più estesi. Così vediamo che in sanscrito la radice indoeuropea mostra esiti con consonante sibilante e . La prima è l'usuale fricativa palatale /ʃ/ (la sc di scena), la seconda è un suono simile ma retroflesso. Queste pronunce assibilate derivano dal fonema indoeuropeo originale, che era una /kj/, ossia suonava in modo simile alla chi di chiesa. Nelle lingue cosiddette "centum" questo suono è diventato /k/ diventando pienamente velare, mentre nelle lingue cosiddette "satem" lo stesso suono ancestrale si è assibilato - e questo indipendentemente dalla vocale seguente. Sono in grave errore i nostri avversari, che confondono la situazione del sanscrito con quella del latino e dei suoi esiti romanzi - o dell'umbro, una lingua italica in cui /k/ davanti a vocali anteriori /e/ e /i/ si è assibilata in /ʃ/.

Tuttavia quando il suono IE /kj/ precedeva la sibilante -s- di un suffisso, ha perso il suo elemento palatale e si è conservato come occlusiva velare anche in sanscrito, ecco perché abbiamo la forma dákṣa-.