mercoledì 15 marzo 2017

 

IL SEGRETO DEGLI INCAS 

Titolo originale: Secret of the Incas
Lingua originale: Inglese, Quechua (Qusqu
     Runasimi), spagnolo, rumeno
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Anno: 1954
Durata: 100 min
Colore: Colore
Audio: Sonoro
Genere: Avventura
Regia: Jerry Hopper
Soggetto: Sydney Boehm,
  Ranald MacDougall,
  Boehm Maximum
Sceneggiatura: Sydney Boehm,
  Ranald MacDougall,
  Boehm Maximum
Produttore: Mel Epstein,
  Hal B. Wallis
Casa di produzione: Paramount Pictures
Fotografia: Lionel Lindon,
  Irma Roberts
Montaggio: Eda Warren
Musica: David Buttolph
Interpreti e personaggi:
    Charlton Heston: Harry Steele
    Robert Young: Stanley Moorhead
    Nicole Maurey: Elena Antonescu
    Thomas Mitchell: Edward "Ed" Morgan
    William Henry: Dott. Lang
    Glenda Farrell: Mrs. Winston
    Michael Pate: Pachacutec
    Yma Sumac: Kori-Tika
    Leon Askin: Anton Marcu
    Grandon Rhodes: Mr. Winston
    John Marshall: Charlie
    Booth Colman: Direttore del Museo
    Kurt Katch: Sicario
Doppiatori italiani:
    Emilio Cigoli: Harry Steele
    Augusto Marcacci: Stanley Moorhead
    Rosetta Calavetta: Elena Antonescu
    Mario Besesti: Edward "Ed" Morgan
    Pino Locchi: Dott. Lang
    Franca Dominici: Mrs. Winston
    Cesare Polacco: Pachacutec
    Andreina Pagnani: Kori-Tika
    Carlo Romano: Anton Marcu; Sicario
    Lauro Gazzolo: Mr. Winston
    Stefano Sibaldi: Charlie
    Gianfranco Bellini: Direttore del Museo

Trama:

Il polveroso avventuriero Harry Steele, romantico sotto la dura scorza e con uno strano concetto di igiene, vive in Perù e ha dimestichezza con i nativi, tanto che ha appreso alla perfezione la lingua Quechua. Per guadagnarsi da vivere fa la guida turistica a Cuzco, ma in lui rifulgono ben altre aspirazioni. Ha adottato come perno della propria esistenza una singolare teoria partorita dalla sua immaginazione e da abbondanti bevute di ayahuasca. La civiltà degli Inca a parer suo non sarebbe andata in rovina a causa della brutalità dei Conquistadores, delle terribili malattie da essi introdotte e dall'incapacità di reggere l'impatto con il nuovo mondo portato dagli stranieri: sarebbe invece scomparsa per via della volontà degli Dei capricciosi, adirati in seguito al furto sacrilego del tesoro del Tempio del Sole. Anziché proteggere il popolo loro devoto, questi esseri sovrumani lo avrebbero punito per la colpa commessa da uno spagnolo, alla faccia di ogni parvenza di senso della giustizia e di amore per i propri figli. Acquisite queste fondamentali conoscenze tra una crisi di vomito da ayahuasca e l'altra, Steele è più che convinto di poter operare la resurrezione dell'Impero dell'Inca, il Tawantinsuyu, trovando il fantomatico tesoro sottratto e riportandolo nel Tempio. Magari pensa anche di ricevere come ricompensa i favori di qualche dea. Come sempre accade nella filmografia americana, c'è il cattivo, certo Edward Morgan, soprannominato con molta fantasia Ed. Ovviamente si tratta di un cattivo sommamente banale, che non può stare nemmeno al livello di Macchia Nera o di Gambadilegno: è piuttosto un vecchio ubriacone avido e taccagno. Non poteva poi mancare la maliarda fatale, l'esule rumena Elena Antonescu, elegantissima e rossochiomata. Fuggita dal suo paese per la sua inclinazione al furto e alla truffa, più che per motivi politici, si è rifugiata in Sudamerica, braccata dal console Anton Marcu, parente del più famoso Silupescu: in parole povere è un energumeno che si distingue da Polifemo per il solo fatto di aver due occhi. Costretta a fuggire dalla Bolivia, la Antonescu è finita proprio a Cuzco, ma gli emissari del Partito non demordono e cercano di acciuffarla per ricondurla nel Paradiso dei Proletari. Inutile dire che la leggiadra fanciulla incontra proprio Steele e gli chiede aiuto. Dopo una fuga rocambolesca, prima in aeroplano e poi a piedi per i dirupi, i due si ritrovano tra le rovine di Machu Picchu nel bel mezzo di un raduno dei discendenti degli Incas e di una spedizione archeologica il cui fine è la ricerca della tomba del Primo Inca, Manco Capac. Qui ogni tassello del mosaico ritorna al suo posto. Prima viene esumata la mummia di una principessa, la Mamakuna, subito esposta all'adorazione dei nativi. Poi Steel scopre il Tesoro, un disco d'oro tempestato di diamanti (che gli Inca non conoscevano e non avrebbero saputo lavorare) proprio in un anfratto della tomba dell'Inca, mettendo così in crisi l'idea del furto. Non si capisce infati perché mai il prezioso manufatto sia stato sottratto a un tempio per essere sepolto proprio in una parete del sepolcro di Manco Capac, Figlio del Sole e sacro a sua vola. Alla fine i protagonisti raggiungono l'Apoteosi e tutti vissero felici e contenti: il malvagio tirchio alcolizzato Ed precipita in un baratro, l'attempato archeologo Moorhead riceve picche dalla Antonescu, che si riconcilia con Steele dopo tutta una serie di litigi. Il disco d'oro con i suoi improbabili diamanti ritorna al Tempio del Sole e gli epigoni degli Incas iniziano la resurrezione dell'Impero.

Curiosità:

Il film non ha utilizzato scenari di cartapesta. È stato girato in Perù, proprio nei luoghi reali in cui si svolge l'azione: Cuzco e Machu Picchu. Per la prima volta il cinema americano si è interessato a questi siti incaici e soprattutto alla popolazione indigena che tuttora parla la lingua Quechua. Furono infatti impiegati più di cinquecento nativi come comparse.

In svariate occasioni George Lucas ha molto insistito sul fatto che Il segreto degli Incas gli ha ispirato I predatori dell'arca perduta (1981). La figura di Steele ricorda infatti quella di Indiana Jones: un uomo selvatico e coperto di polvere, sotto il cui involucro abita un'immensa conoscenza e splendono grandi ideali. 

Recensione:

Pur essendo la trama abbastanza banale e a tratti degna di essere messa in satira, questa pellicola ha comunque qualche merito, perché ha promosso l'uso della lingua Quechua nel cinema, contribuendo ad innalzarne il prestigio in un contesto particolarmente difficile. Il fatto è passato inosservato al pubblico italiano e nessuno sembra aver fatto caso alle conversazioni in purissimo Runasimi di Cuzco (Qusqu). Già solo per questo motivo sarebbe auspicabile che l'opera di Jerry Hopper godesse di una maggior fama.


Splendori della tradizione incaica

Quando la fulva protagonista si fa il bagno in una vasca rudimentale scavata nella roccia, una donna autoctona la guarda con intenso disgusto. Questo non perché sia turbata dalla nudità della profuga, nonostante le genti incaiche siano abbastanza puritane, ma per l'incapacità di reggere senza disgusto la vista di un corpo dalla pelle tanto lattea. Così essa, in preda allo sdegno, esclama "aya khanka!" /'aya 'khanka/, parole che vengono tradotte da Steele come "pallida come un pesce morto". In realtà il pesce menzionato da Steele non c'entra granché: aya khanka significa "cadavere sudicio" e fa riferimento al terrore superstizioso per i morti e per il loro colorito alterato. Infatti aya si traduce con "morto, cadavere", ma anche "spettro". La stessa radice aya si trova anche nel vocabolo ayawaska (in genere scritto ayahuasca), che indica un beverone allucinogeno dal sapore ripugnante in grado di fungere da violento purgante, inducendo vomito e diarrea: alla lettera è la "liana dei morti" o "corda dei morti" (waska indica la corda). La pronuncia corretta è /aya'waska/ e non /*aya'waʃa/ come a volte si sente. La principessa Kori-Tika è interpretata dalla splendida Yma Sumac, il cui nome in Quechua significa "che bella!", essendo formato dal pronome ima /'ima/ "che cosa; quanto" e dall'aggettivo sumaq /'sumaχ/ "bello". Kori-Tika significa invece "Fiore d'Oro", da qori /'qɔri/ "oro" e da t'ika /'tʔika/ "fiore". Pachacutec è una trascrizione di Pachakutiq, che significa "Trasformatore del Mondo": deriva da pacha /'patʃa/ "terra; mondo" e dal verbo kutiy /ku'tij/ "cambiare". Pachakutiq Yupanki è il nome del nono Inca, a cui è attribuita la costruzione della maggior parte dell'Impero Incaico. Regnò tra il 1438 e il 1471. Quando ho sentito la fulva Elena Antonescu apostrofare l'archeologo e accusarlo di essere "ignorante" perché ha confuso sarcasticamente George Washington con Abraham Lincoln, mi è andato in ebollizione il sangue nelle vene. Come si fa a definire "ignorante" un conoscitore di una lingua amerindiana tanto complessa e ricca? Una rifugiata che si atteggia a insopportabile maestrina, che già ha l'arroganza di una nobildonna senza averne alcuna virtù! I danni provocati dal sistema scolastico sono più devastanti di quelli della Terza Pandemia di peste! 

Il mito di Machu Picchu

Il film riflette le idee un tempo popolari su Machu Picchu, che era ritenuta la Città Santa degli Incas. Alla sua scoperta nel 1911 il sito fu confuso con Vilcabamba (Willkapampa), l'ultimo centro del potere dell'Inca dopo l'espugnazione di Cuzco ad opera di Francisco Pizarro nel 1533: era una enclave fondata da Manco Capac II (Manqu Inka Yupanki), che durò fino al 1572. In realtà oggi sappiamo che la fondazione di Machu Picchu risale al XV secolo e fu probabilmente opera dell'Inca Pachacutec, che intendeva imporre una residenza estiva forzata ai nobili dell'Impero, in pratica per tenerli in ostaggio e impedire rivolte. Era un luogo ben diverso da Vilcabamba e che non vi si potrà mai trovare la tomba del Primo Inca Manco Capac (Manqu Qhapaq). A scanso di equivoci, non è nemmeno possibile che  nel film si parli della tomba di Manco Capac II, primo sovrano dello Stato Neoincaico di Vilcabamba, dato che i suoi resti mummificati furono distrutti dagli Spagnoli. Il film di Hopper si mostra estremamente grossolano e non aderente alla realtà storica. Notevole la presenza di un soffietto tra gli oggetti recuperati in un sito archeologico incaico. La scarsa cura per questi dettagli anacronistici e incoerenti è la norma e ci sarebbe piuttosto da stupirsi del contrario. Allo stesso modo, il disco del Sole è incastonato di diamanti perché l'ideatore della trama ha pensato di proiettare caratteristiche del mondo moderno nella civiltà del Tawantinsuyu. Questo ci dice Garcilaso de la Vega nei suoi Commentari reali degli Incas (Libro III, cap. XXII): 

"Lungo gli spigoli delle modanature stavano molte pietre preziose incastonate, come smeraldi e turchesi, perché in quella terra non s'avevano né diamanti né rubini. In codesti tabernacoli s'assideva l'Inca in occasione delle feste del Sole, ora in quelli di una parete, ora in quelli dell'altra, a seconda della festa." 

E ancora (Libro I, cap. IX), quando si parla dell'idolatria degli Indiani preincaici: 

"Adoravano la pietra smeralda, soprattutto in una provincia che oggi chiamano Puerto Viejo; non adoravano diamanti né rubini perché in quella terra non se ne trovavano."

Il termine Quechua per indicare il diamante, q'ispirumi, è un neologismo che significa "pietra di vetro", da q'ispi (variante qhispi"vetro; cristallo" (dall'omonimo aggettivo che significa "trasparente") e da rumi "pietra". In realtà il Disco d'Oro esisteva e si trovava nel Tempio del Sole di Cuzco, che era chiamato Coricancha (Qorikancha "Corte dell'Oro"). Era incrostato di turchesi e di altre pietre preziose, di certo non di diamanti - e non fu mai a Machu Picchu. Fu proprio questo manufatto, che era un simbolo della Dinastia dell'Inca, a cadere nelle mani del Viceré Francisco de Toledo quando nel 1572 fu catturato Tupac Amaru I, l'ultimo sovrano di Vilcabamba.

Stratificazioni etniche

Il Perù è rappresentato da Hopper in modo verosimile, come una realtà composita e variegata, in cui convivono popolazioni tra loro diversissime. Questo si nota anche nell'uso della lingua spagnola da parte della classe dominante, che si contrappone all'uso generale del Runasimi tra gli Indiani. Quello che in Europa sanno davvero in pochi è che in America latina esiste un fortissimo pregiudizio nei confronti delle lingue native. Se un turista cercasse di parlare in Quechua a un peruviano ispanofono, il suo tentativo potrebbe anche essere considerato un insulto. Il termine runa, che in Quechua significa "uomo, essere umano", è stato adottato dallo spagnolo locale col significato di "campesino" e addirittura di "uomo rozzo, ignorante", in frasi come "es un verdadero runa". Anche se il Quechua è lingua ufficiale del Perù assieme allo spagnolo, il suo futuro è abbastanza incerto. Il sistema scolastico, causa e radice di tutti i mali di ogni società, opera infatti attivamene per eradicare l'idioma, anche perseguitando gli alunni che osano pronunciarne in pubblico qualche parola.


Il mistero di Yma Sumac

La cantante peruviana conosciuta come Yma Sumac ha dietro di sé un passato a dir poco misterioso. Il suo vero nome è Zoila Augusta Emperatriz Chávarri del Castillo e nacque nel lontano 1922 a Ichocán, nella regione di Cajamarca che diede i natali anche a Carlos Castaneda. Il suo nome d'arte è spesso scritto con ortografia incostante, come Ymma Sumak o Imma Sumack. In genere è tradotto come "la più bella", anche se non mi risulta che in Quechua i superlativi si formino in questo modo (vedi l'etimologia più sopra). Sulla sua biografia permangono ombre e circolano diverse versioni contraddittorie, il cui studio riguarda la scienza della memetica. Alcuni ritengono che sia nata in uno squallido sobborgo di Lima, pur essendo cresciuta a Ichocán, dove i suoi avevano una fattoria. Per accrescere e propagare intorno a lei un alone leggendario, qualcuno ha provveduto a diffondere la voce che attribuiva la sua origine addirittura all'Inca Atahuallpa, di cui sarebbe stata l'ultima discendente diretta. Sarebbe meraviglioso se fosse così, purtroppo non si hanno prove scientifiche che possano dimostrare la fondatezza di una simile voce. Altri fabbricatori di pacchetti memetici hanno anagrammato il nome d'arte Yma Sumac, leggendolo al contrario e ottenendone Amy Camus. Per questo motivo si è diffuso il mito di sue origini canadesi del Québec o addirittura statunitensi di New York. La sua voce era portentosa e copriva l'estensione di cinque ottave (secondo alcuni soltanto di quattro, ma è già una cosa incredibile). Sua fu la nota più acuta mai registrata in una voce femminile. Nel film di Hopper la si sente mentre intona una strana e bellissima opera lirica di stile incaico, anche se non immune da infussi musicali più moderni. In diverse sequenze vediamo i nativi che la fissano come ipnotizzati, rapiti nell'Iperuranio. La Sumac ha avuto una vita abbastanza irrequieta, ha viaggiato in lungo e in largo per il mondo e il suo matrimonio col compositore e direttore d'orchestra Moisés Vivanco è stato poco felice. Incurante delle voci confuse e divergenti sui suoi natali, la cantante si è spenta nel 2008 a Los Angeles.  


Il declino della reputazione della Romania 

All'epoca in cui il film fu girato, negli anni '50 dello scorso secolo, la popolazione della Romania doveva godere di una fama non troppo cattiva negli States e più in generale nell'Occidente: la donna rumena era ritenuta piena di fascino e di mistero, al punto da poter essere la protagonista di un film di avventura. Qualche decennio più tardi, nel film Alibi seducente (Her Alibi, 1989) con Tom Selleck, si mostrano già stereotipi non proprio positivi sulle donne della Romania, sospettate addirittura di essere assassine e avvelenatrici solo per esser nate e cresciute nel paese sbagliato: è sufficiente che il protagonista oda la moglie pronunciare la parola înmormântare "funerale" (da *in-monumentare) per scatenare il panico e far sottoporre a lavanda gastrica gli invitati a un banchetto. Oggi l'italiano medio che guardasse Il Segreto degli Incas rimarrebbe basito nel vedere un tipo di donna molto distante dalla realtà a cui è abituato: Elena Antonescu è chiaramente un'americana WASP in ogni fibra del suo essere. Ancor più si stupirebbe il regista se potesse vedere qual è la reputazione della Romania nell'Italia degli inizi del XXI secolo. Additata come terra di ladri, di assassini e di prostitute, è maledetta migliaia di volte ogni giorno da innumerevoli persone, complice anche la confusione tra i Rumeni e i Rom, che è diffusissima. Perderei tempo e fiato a spiegare che i primi, discendenti di Daci e di Romani, nulla hanno a che fare coi secondi, che sono giunti in Europa dalla remota India. Data l'avversione assoluta e viscerale che le popolazioni della Penisola nutrono verso le genti zigane, la confusione con il popolo rumeno ha lo scopo precipuo di disumanizzarlo. Queste stranezze non dipendono nemmeno dalla politica, sia essa di destra o di sinistra. Coloro che si definiscono di destra o neofascisti dimenticano la stessa esistenza di Corneliu Codreanu e considerano personalità come Emil Cioran e Mircea Eliade alla stregua di extraterrestri di Altair o di Vega. Coloro che si definiscono di sinistra e si danno nome di antirazzisti, a conti fatti si limitano a nascondere la loro avversione per motivi di ipocrisia politica, poi in privato odiano mortalmente sia i Rumeni che i Rom - puntualmente ritenuti lo stesso popolo. Questi sono meccanismi che meritano studi antropologici approfonditi.

Reazioni nel Web 

Forse ho cercato in modo poco approfondito, ma su questo film non ho trovato online recensioni o pensieri meritevoli di qualche interesse. 

Così su Filmscoop.it:

Siamo agli sgoccioli della carriera cinematografica di Hopper, il quale troverà nel piccolo schermo la sua dimensione intrattenitiva, Heston nei panni di un Indiana Jones ante litteram, impressionante quanto in look e in stilemi i 2 personaggi siano collimanti, presente anche Thomas Mitchell nel ruolo di una carriera a rappresentare il villan attraverso forme bonarie. (NotoriousNiki)

Simili concetti sono espressi anche su Davinotti.com:

domenica 12 marzo 2017


LA CADUTA DELL'IMPERO ROMANO

Titolo originale: The Fall of the Roman Empire
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Lingua: Inglese
Anno: 1964
Durata: 153 (USA 188 min)
Colore: Colore
Audio: Sonoro
Rapporto: 2.35:1
Formato della pellicola: 65mm Ultra Panavision
   70 in Technicolor
Genere: Epico, storico, drammatico
Tipo di film: Kolossal
Regia: Anthony Mann
Sceneggiatura: Ben Barzman, Philip Yordan,
    Basilio Franchina
Casa di produzione: Samuel Bronston Productions
Fotografia: Robert Krasker (Technicolor-Ultra
   Panavision 70)
Montaggio: Robert Lawrence, Magdalena Paradell
Musiche: Dimitri Tiomkin
Orchestratore: George Korngold
Suono: Milton C. Burrow, David Hildyard, Gordon
   K. McCallum
Dialoghi: George Tyne
Effetti speciali: Alex Weldon
Scenografia: Venerio Colasanti, John Moore
Costumi: Veniero Colasanti, John Moore
Trucco: Grazia De Rossi, Mario Van Riel, José Luis
   Pérez
Casting: Maude Spector
Regia della II unità: Andrew Marton, Yakima
   Canutt
Consulente Technicolor: Will Durant
Titoli di testa: Maciek Piotrowski

Interpreti e personaggi:

    Sophia Loren: Lucilla
    Stephen Boyd: Livio
    Alec Guinness: Marco Aurelio
    James Mason: Timonide
    Christopher Plummer: Commodo
    Anthony Quayle: Verulo
    John Ireland: Ballomar
    Omar Sharif: Sohamus
    Mel Ferrer: Cleante
    Eric Porter: Giuliano
    Finlay Currie: senatore
    Andrew Keir: Polibio
    Douglas Wilmer: Nigro
    George Murcell: Vittorino
    Norman Wooland: Virgiliano
    Michael Gwynn: Cornelio
    Virgilio Teixeira: Marcello
    Peter Damon: Claudio
    Rafael Calvo: Lentulo
    Lena von Martens: Helva
    Guy Rolfe: Mario
Doppiatori italiani:
    Sergio Rossi: Livio
    Stefano Sibaldi: Marco Aurelio
    Arturo Dominici: Timonide
    Renzo Palmer: Commodo
    Carlo Buratti: Cleante
    Aldo Silvani: senatore
    Leonardo Severini: Polibio
Luoghi delle riprese in Spagna: 
  Segovia (sequenza d'apertura)
  Sierra de Guadarrama (battaglia contro i Germani
    nella foresta)
  Las Matas, Madrid (foro romano)
  Manzanares, Madrid (battaglia contro i Persiani)
  Valencia (Ravenna)
  Studi Samuel Bronston Production, Madrid
     (interni)
Premi: 
    Nomination all'Oscar per la miglior colonna
    sonora;
    Golden Globe 1965: migliore colonna sonora
    originale

Curiosità: 

Il set cinematografico di questo film è il più grande di tutta la storia della settima arte. Furono necessari ben due anni a John Moore e a Veniero Colasanti per progettare e costruire lo scenario in grandezza naturale su una superficie di più di 24 ettari in una zona periferica di Madrid. Questo scenario comprendeva ben 400 statue, tra cui quella di Giove Capitolino, alta 30 metri, oltre a più di 600 colonne, a 35 edifici e a 7.400 metri di scalinate percorribili. Per completare quest'opera ciclopica è stato necessario il lavoro di 1.000 operai, che hanno impiegato 200.000 blocchi di marmo.   

Fu pubblicato un romanzo tratto dal film, scritto da Harry Whittington e anch'esso intitolato La caduta dell'Impero romano (The Fall of the Roman Empire), edito da Fawcett Publications, Inc. & Frederick Muller Ltd. (1964). Le copertine delle varie edizioni di questo romanzo sono screenshot tratto dal film. Il testo fornisce un'esposizione più dettagliata della trama del film. 

Trama:

Siamo nell'inverno del 180 d.C., lungo la frontiera settentrionale dell'Impero romano, nella regione che attualmente è nota come Austria e che all'epoca era la terra dei Quadi e dei Marcomanni. Quelle fiere popolazioni germaniche si sono ribellate e stanno imperversando in territorio romano. L'Imperatore Marco Aurelio, allo scopo di sedare la rivolta, riunisce in riva al Danubio gli alleati di Roma e tiene loro un discorso. Il suo intento appare fin da subito utopistico: egli vagheggia una condizione di pace universale in cui tutte le genti godano condizioni paritarie nell'illuminata architettura imperiale. Per raggiungere questo scopo, intende nominare suo successore il generale Gaio Metello Livio, promesso sposo della figlia Lucilla. Questa decisione non piace alla nobiltà, che teme la perdita dei propri privilegi, essendo Livio un uomo integerrimo che avrebbe esercitato il suo compito con grande rigore. Così accade che Marco Aurelio finisce ucciso dal veleno: il figlio Commodo viene acclamato Imperatore al posto dell'erede designato. Per prima cosa Commodo pone fine alla guerra contro i Germani, quindi si mette in viaggio per Roma. Una volta insediatosi al potere, inizia una vita dissoluta e dimostra di non avere il benché minimo interesse per la politica, cosa che in un Imperatore può soltanto portare alla rovina dello Stato e dei popoli. I bagordi e gli spettacoli dei gladiatori diventano la sola ragion d'essere del giovane figlio di Marco Aurelio, che prende molto sul serio la formula "panem et circenses". Per farsi benvolere dal popolo di Roma e dell'Italia, lo narcotizza con spettacoli e piaceri, mantendolo nel lusso; come è ovvio, per poter far questo deve applicare una feroce tassazione delle altre province. Il generale Livio non è più capace di sopportare le iniquità del tiranno, così decide di avviare una ribellione per deporlo. Alla testa delle sue legioni marcia su Roma, ma all'ultimo il sostegno dell'esercito gli viene a mancare: Commodo è riuscito a corrompere gli ufficiali, neutralizzando il tentativo di golpe. Livio viene arrestato. Commodo viene a sapere di non essere figlio biologico di Marco Aurelio, ma figlio illegittimo del Prefetto Verulo. Come reazione, il despota fa uccidere il proprio vero padre. Condanna quindi Livio e Lucilla all'arena. Alla presenza del popolo dell'Urbe, della nobiltà e del Senato, l'Imperatore è preso dal delirio di onnipotenza e sfida il generale a un duello all'ultimo sangue. Ne segue un combattimento accanito il cui esito è la morte di Commodo. A questo punto i presenti acclamano Imperatore Gaio Livio Metello, ma questi, schifato dal tanfo della corruzione, decide di rifiutare e di lasciare Roma al suo destino, portando con sé la donna amata.      

Recensione: 

Un kolossal di capitale importanza nella storia del cinema, che non può per nessuna ragione essere dimenticato - nonostante sia in diversi punti cruciali poco aderente alla realtà dei fatti. Anthony Mann proveniva dal contesto dei film western e non aveva alcuna esperienza nella sperimentazione di pellicole incentrate sull'Impero romano, all'epoca tanto comuni. Inoltre non era uno storico: per realizzare questo film fece tesoro soprattutto della sua lettura del capolavoro di Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, o più verosimilmente di un suo riassunto, dato che un regista non ha certo il tempo di immergersi in un'opera ponderosa di ben sei volumi, per giunta senza una specifica preparazione. Tuttavia possiamo dire per certo che dell'opera di Gibbon, Mann ha assimilato l'essenza profonda. Il suo film si distanzia molto dai prodotti dei contemporanei, che presentavano Roma antica come uno scenario di cartapesta in cui il potere dell'Impero trionfava per principio, il cui finale era un'apoteosi. Questa discrepanza stridente tra gli scenari foschi della corruzione e le aspettative del pubblico, abituato agli splendori di un mondo fantastico, è stata indicata dal regista come la causa principale dell'insuccesso della pellicola, che fu una vera catastrofe finanziaria: solo un quarto del budget è stato coperto dalle entrate. Ultimo del suo genere, La caduta dell'Impero romano chiuse l'epoca dei kolossal sull'Impero, portando all'estinzione i film del genere peplum. Da allora non si videro più nemmeno film di argomento paleocristiano come Quo vadis, La tunica, Barabba e via discorrendo.

Una scelta oltremodo interessante

Cosa ha spinto il regista a parlare proprio di Commodo? In fondo, uno spettatore con un minimo di cultura storica si sarebbe aspettato un film ambientato nella seconda metà del V secolo d.C., ai tempi in cui l'erulo Odoacre depose Romolo Augusto, detto Augustolo, inviando le insegne imperiali a Bisanzio - evento che nella tradizione scolastica segna (in modo assolutamente discutibile) la transizione dall'Evo Antico al Medioevo. In realtà la deposizione di Romolo Augustolo non fu percepita come una cesura storica dai contemporanei - anche perché l'inetto sovrano era considerato un usurpatore. A quell'epoca non esisteva nemmeno più l'Impero, soltanto il suo cadavere decomposto stillante percolato. Per colmo del paradosso, mostrare gli eventi del 476 d.C. non avrebbe avuto alcun senso e non avrebbe aiutato nessuno a comprendere le dinamiche della Caduta. Quello che interessava a Mann non era un particolare evento che un manuale storico ad uso delle scuole medie potesse catalogare in modo inequivocabile come la parola "FINE" calata sull'Impero tra capo e collo: gli premeva invece descrivere l'inizio di un processo che ha intaccato la compagine statale dall'interno, passando inosservato e continuando il suo corso come la sifilide non curata, che alla fine porta alla tabe dorsale e alla pazzia. L'ascesa al potere di Commodo è stata scelta come il punto d'inizio dell'incancrenimento. Semmai si può obiettare che già prima di Marco Aurelio non erano mancati i sovrani degeneri: ad esempio Tiberio viveva in perenne stato di ubriachezza e si faceva fellare dei poppanti, mentre Caligola mangiava le feci delle sue amanti e in spaventose visioni conversava con un mostro marino. Che dire poi del cornuto Claudio e dell'incestuoso Nerone? Potremmo affermare che l'Impero portava già in sé alla nascita i semi della propria distruzione, ma avremmo ragione soltanto a metà. All'epoca dei primi imperatori pazzi della dinastia giulio-claudia, Roma aveva ancora molto da dare, era ben organizzata e non si scorgevano ancora i segni delle crisi venture. Non si avvertiva ancora la pressione demografica dei popoli cosiddetti "barbari", anche se occasionali conati di caos già eruttavano, senza che nessuno li riconoscesse come precoci segni infausti di un futuro non proprio roseo. Sarebbe troppo dispendioso trattare in modo approfondito questi processi. Aggiungerò soltanto che, per le ragioni esposte, reputo molto assennata la decisione dell'artefice del film di ambientare le sequenze nel tardo II secolo, al termine dell'Età dell'Oro del Principato Adottivo. 

Un portento funesto

Una scena di cui il pubblico non sembra aver compreso l'importanza è quella in cui l'aruspice scruta le viscere della vittima sacrificale. Subito dopo il criptocristiano Timonide annuncia che non è stato trovato il cuore dell'animale immolato. È qualcosa che avrebbe dovuto mettere i brividi. Si potrebbe quasi affermare che Mann pone l'Inizio del Declino proprio nell'istante in cui l'aruspice ha scrutato le interiora non trovando l'organo più importante, il cuore. Se qualcosa di simile si fosse verificata e fosse stata resa nota, sarebbe bastata per gettare le genti nel panico più totale e per farle tremare di terrore. L'assenza del cuore ha significato profondi: a non esistere più, avvisava il portento, era il Mos Maiorum, il nucleo stesso dell'ethos romano di cui all'improvviso si era manifestata la morte. Stupisce che al giorno d'oggi esistano non pochi esaltati che parlano di Roma Eterna e di resurrezione dell'Impero, quando tali realtà erano già seriamente compromesse ai tempi della morte di Marco Aurelio. Affermare una continuità diretta e ininterrotta tra la realtà imperiale e l'Italia moderna, invertendo per giunta il flusso della decadenza, è assurdo come credere alla possibilità di ottenere da una gran massa di sterco un ricco piatto di lasagne.


Le mostruose aberrazioni di Commodo

Commodo faceva le gangbang spermatiche e durante una di queste orge sporcò sua sorella Lucilla con i fiotti del prorio seme, cosa che fece inorridire i contemporanei, al punto che gli storici cercarono di presentare questi fatti come dicerie. Da parte sua, Lucilla deve aver gradito poco le morbose attenzioni del fratello, dal momento che complottò per farlo uccidere. A tal punto giunse Commodo nella sua depravazione da gettare una luce sinistra sullo stesso suo padre, il virtuosissimo Marco Aurelio. Ci si può infatti porre una domanda inquietante: com'è possibile che un padre tanto buono abbia cresciuto un simile demonio? Anthony Mann cerca di dare una risposta a questo interrogativo, affermando che in realtà Commodo non sarebbe stato figlio biologico di Marco Aurelio. Una supposizione che non ha alcun fondamento. La scelleratezza dell'atroce personaggio è ben descritta nella Vita Commodi (Historia Augusta) di Elio Lampridio: 

Post haec Commodus nunquam facile in publicum processit neque quicquam sibi nuntiari passus est nisi quod Perennis ante tractasset. Perennis autem Commodi persciens invenit, quemadmodum ipse potens esset. Nam persuasit Commodo, ut ipse deliciis vacaret, idem vero Perennis curis incumberet; quod Commodus laetanter accepit. Hac igitur lege vivens ipse cum trecentis concubinis, quas ex matronarum meretricumque dilectu ad formae speciem concivit, trecentisque aliis puberibus exoletis, quos aeque ex plebe ac nobilitate vi pretiisque forma disceptatrice collegerat, in palatio per convivia et balneas bacchabatur. Inter haec habitu victimarii victimas immolavit. In harena rudibus, inter cubicularios gladiatores pugnavit lucentibus aliquando mucronibus. Tunc tamen Perennis cuncta sibimet vindicavit; quos voluit, interemit, spoliavit plurimos, omnia iura subvertit, praedam omnem in sinum contulit. Ipse autem Commodus Lucillam sororem, cum Capreas misisset, occidit. Sororibus dein suis ceteris, ut dicitur, constupratis, consobrina patris complexibus suis iniuncta uni etiam ex concubinis matris nomen inposuit. Vxorem, quam depraehensam in adulterio exegit, exactam relegavit et postea occidit. Ipsas concubinas suas sub oculis suis stuprari iubebat. Nec inruentium in se iuvenum carebat infamia, omni parte corporis atque ore in sexum utrumque pollutus. Occisus est eo tempore etiam Claudius quasi a latronibus, cuius filius cum pugione quondam ad Commodum ingressus est, multique alii senatores sine iudicio interempti, feminae quoque divites. Et nonnulli per provincias a Perrennio ob divitias insimulati spoliati sunt vel etiam interempti. His autem, quibus deerat ficti criminis adpositio, obiciebatur, quod scribere noluissent Commodum heredem.

Traduzione (da latinovivo.com): 
"Dopo quanto avvenuto Commodo si mostrava difficilmente in pubblico, e non voleva che gli venissero portati messaggi senza che prima se ne fosse occupato Perenne. Perenne, poi, che sapeva tutto del carattere di Commodo, trovò il modo di diventare lui stesso potente. Persuase infatti Commodo a dedicarsi completamente ai suoi divertimenti, mentre lui, Perenne, si assumeva le cure del governo; ciò che Commodo accettò con entusiasmo. Vivendo dunque secondo questo accordo, se la spassava nel Palazzo gozzovigliando tra banchetti e bagni in compagnia di trecento concubine, che aveva radunato scegliendole fra le matrone e le meretrici per la loro bellezza, e di giovanetti pervertiti, anch'essi in numero di trecento, che aveva raccolto a viva forza o comprandoli, tanto fra il popolo quanto di mezzo alla nobiltà, e avendo quale criterio di scelta l'avvenenza. Di tanto in tanto, in veste di sacerdote, immolava vittime. Si cimentava in duelli in qualità di gladiatore, usando nell'arena dei bastoni, mentre, quando combatteva con gli inservienti di corte, con armi talvolta affilate. Intanto comunque Perenne aveva avocato a sé ogni potere; metteva a morte chi voleva, spogliava dei beni moltissime persone, sovvertiva tutte le leggi, si accaparrava tutto ciò che poteva arraffare. Dal canto suo Commodo fece uccidere la sorella Lucilla dopo averla confinata a Capri. Poi, dopo aver violentato, a quanto si dice, tutte le altre sorelle, e aver anche avuto rapporti con una cugina del padre, arrivò a dare il nome della madre a una delle sue concubine. Sua moglie, che aveva sorpreso in adulterio, la cacciò di casa, poi la fece deportare, e infine la fece uccidere. Ordinava che le stesse sue concubine venissero violentate sotto i suoi occhi. Né era esente dall'ignominia di essere stato oggetto di rapporti omosessuali con giovani, e non c'era parte del suo corpo, compresa la bocca, che non fosse stata contaminata da aberrazioni sessuali in rapporto ad entrambi i sessi. In quel periodo venne anche ucciso, apparentemente in un'aggressione di briganti, quel Claudio il cui figlio una volta era entrato alla presenza di Commodo armato di pugnale, e furono uccisi senza processo molti altri senatori, e anche donne di ricca famiglia. E numerose persone che abitavano nelle varie province furono messe sotto accusa da Perenne a motivo delle loro ricchezze, e spogliate dei loro beni quando non anche uccise. Quelli poi contro i quali non era possibile l'imputazione di un'accusa inventata, venivano incriminati per non aver voluto nominare Commodo loro erede."
 

Devo ammettere che fa una certa impressione costruirsi mentalmente sequenze in cui la Loren è circondata da falli eretti e li fella uno dopo l'altro, per poi essere sburrata da un mefistofelico Christofer Plummer. Inutile aspettarsi tanto dal cinema americano, i cui codici rigidissimi vietavano anche il minimo riferimento a qualsiasi atto sessuale ritenuto "contro natura", e in particolar modo all'incesto. Certo, non posso pretendere un film pornografico, sarebbe una cosa folle. Nonostante ciò la questione resta. Appurato che di tutte le turpitudini commodiane non si fa la minima menzione nel kolossal di Anthony Mann, sorge infatti una domanda. È possibile rappresentare un personaggio storico tacendo completamente dei suoi vizi e delle sue depravazioni, rimuovendole dalla narazione come se non fossero dettagli pertinenti al reame dell'esistenza? Noi sappiamo benissimo che per Commodo tali passioni dovevano essere di primaria importanza e assorbire ogni sua fibra di essere. Come si può quindi far finta che Commodo ne fosse immune? Come si può presentare come casta proprio la dissoluta e incestuosa Lucilla?

Marco Aurelio, Commodo e i Cristiani   

Pochi sanno al giorno d'oggi che Marco Aurelio fu un metodico sterminatore di cristiani, che fece uccidere in gran numero. Gli storici tendono a minimizzare questa persecuzione, tradizionalmente computata come la quarta. Eppure la conoscenza dei fatti era già andata perduta nel Medioevo: l'ideale stoico di giustizia e di umanità contribuì a far prevalere l'immagine di Marco Aurelio come uomo di pace contrario in ogni caso alla violenza. Per contro, il suo abominevole figlio fu molto tollerante in materia di religione, tanto che non fece mettere mai a morte un seguace di Cristo. I soli martiri che ci furono all'inizio del suo regno morirono a causa delle disposizioni del precedente sovrano, che non furono bloccate in tempo. Le ragioni di questa sorprendente tolleranza sono presto spiegate. Una concubina cristiana di Commodo, Marzia, che fungeva da fellatrice spermatofaga con buona pace della sua fede, ottenne l'immunità per i suoi correligionari, che non furono perseguitati. Queste sono le parole di Edward Gibbon sull'argomento: 

Durante l'intero corso del suo regno, Marco [Aurelio] disprezzò i Cristiani come filosofo, e li punì come sovrano. Per una singolare fatalità, le avversità che essi avevano sopportato sotto il governo di un principe virtuoso cessarono immediatamente all'ascesa di un tiranno e, come nessuno tranne loro aveva sperimentato l'ingiustizia di Marco, così essi soltanto furono protetti dalla clemenza di Commodo. La rinomata Marzia, la più favorita delle sue concubine, che alla lunga escogitò l'omicidio del suo amante imperiale, intrattenne un singolare affetto per la chiesa oppressa; e, sebbene fosse impossibile per lei conciliare la pratica del vizio con i precetti del Vangelo, potrebbe aver sperato di redimersi dalle debolezze del suo sesso e della sua professione dichiarandosi patrona dei Cristiani. Sotto la graziosa protezione di Marzia, essi trascorsero al sicuro i tredici anni di un crudele tiranno; e, quando l'impero fu stabilito nella casa di Severo, formarono una connessione domestica ma più onorevole con la nuova corte.  (The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, vol. 3, cap. XVI)

Nel film di Mann queste tematiche non sono trattate, al punto che vi è un'unica allusione al Cristianesimo: quando l'ex-schiavo Timonide stramazza a terra, morto stecchito, si vede che portava al collo il monogramma di Cristo (Chi - Rho o Chrismon). Si riesce comunque a capire l'appartenenza religiosa di Timonide da un fatto significativo: quando il marcomanno Ballomar lo sottopone all'Ordalia intimandogli di adorare una statua di Wotan, il greco rifiuta anche a costo di bruciarsi una mano senza lamentarsi. Come conseguenza, Ballomar incendia l'idolo, convinto della superiore potenza della divinità adorata da Timonide. Un pagano, forte dell'interpretatio romana (o dell'interpretatio graeca), avrebbe ritenuto il manufatto una statua di Mercurio e l'avrebbe adorata. Questo non è un film interamente pagano: è piuttosto un film in cui è stato scelto di non mostrare molto del Cristianesimo. 

Invenzioni, errori e morti sbagliate 

Il generale Gaio Metello Livio è un personaggio inventato di sana pianta, senza alcun fondamento storico. Questa pellicola ha inaugurato una costumanza che da allora ha dato qualche discutibile frutto: quella di far morire Commodo in un combattimento nell'arena. Un'altra opera mostra gli sviluppi di quello che ormai è diventato un vero e proprio meme: Il gladiatore, di Ridley Scott (2000). Che l'uccisore di Commodo si chiami Livio o che si chiami Massimo l'Ispanico, tutto sommato cambia poco. Resta il fatto che nessuno può essere ucciso da qualcuno che non esiste. I falsi storici e le violenze imposte ai fatti realmente accaduti non finiscono qui. Sappiamo che Lucilla non sopravvisse al perverso fratello, ma fu da questi uccisa dopo essere stata rimossa da Roma e condannata all'esilio a Capri. Non coronò alcun sogno d'amore, come si vede nel kolossal. Allo stesso modo si descrive in modo non corretto la morte del grande Marco Aurelio, che in realtà fu contagiato dalla peste, soccombendo alle febbri e ai miasmi dei bubboni purulenti. Stoico fino all'ultimo respiro, si comportò in modo esemplare, dicendo a coloro che lo assistevano che si limitava a precederli. Nel film di Scott si va anche oltre a quanto escogitato da Mann: nella sua pellicola l'Imperatore Filosofo viene strangolato dal suo stesso figlio Commodo, spinto da un ferocissimo, incontenibile odio verso la Conoscenza. Per inciso, nella realtà storica il successore scelto da Marco Aurelio... fu proprio Commodo! 

Un capo germanico dal bizzarro nome

Il nome Ballomar significa... Famoso per i Testicoli. Non si tratta dell'inconsapevole invenzione di uno sceneggiatore esuberante. L'antroponimo è reale ed è stato portato da un fiero principe dei Marcomanni che combatté realmente contro l'Impero all'epoca di Marco Aurelio, dando origine alle Guerre Marcomanniche. Guidando una coalizione di numerosi popoli, tra i quali anche i Longobardi, nell'anno 170 si spinse a devastare il territorio attualmente noto come Friuli, assediando Aquileia e distruggendo Opitergium (Oderzo). Si possono dedurre diverse cose di un certo interesse dal nome Ballomar, riportato tal quale da fonti storiche. La protoforma germanica è *ballumæ:riz. La lingua parlata dai Marcomanni e dai Quadi era quindi germanico occidentale, con alcune caratteristiche salienti già ben definite in un'epoca tanto precoce. La trasformazione della vocale lunga -æ:- in -a:- si era completata nel II secolo d.C.; i suffissi del nominativo singolare maschile forte come -az e -iz erano già caduti a quei tempi. L'idea tradizionale secondo cui i Marcomanni e i Quadi formarono in seguito il popolo dei Baiuvari, conosciuti in seguito come Bavari, alla luce di questi fatti risulta abbastanza plausibile.

Alcuni commenti su interpreti e personaggi  

Spicca innanzitutto l'interpretazione di Alec Guinness nel ruolo di Marco Aurelio. Tale è la somiglianza tra il personaggio storico e l'attore che una mente suggestionabile potrebbe pensare a un episodio di reincarnazione. Sophia Loren nel ruolo di Lucilla è a parer mio abbastanza convincente, per come il personaggio è stato disegnato - anche se la critica nel Web ha più volte stroncato la sua interpretazione, ritenendo addirittura l'attrice a disagio e lamentando la scarsa esibizione delle sue forme. Il generale Livio è un gran paradosso. Stephen Boyd aveva già interpretato nel 1959 il personaggio di Messala nel film Ben-Hur di William Wyler, che per l'occasione gli aveva fatto tingere i capelli e indossare lenti a contatto scure. L'assurdo è che il tipo fisico dell'attore incarna l'idea che il popolino anglosassone ha degli antichi Romani, come già abbiamo avuto occasione di far notare nella recensione de I giganti di Roma di Antonio Margheriti (1964). Non si può nemmeno invocare quella che con orrido vocabolo è chiamata "barbarizzazione" dell'esercito romano: oltre a essere troppo presto per parlare di esercito "barbarizzato", si vede subito che Gaio Livio Metello non è affatto un nome germanico.

I funerali di  un mondo

Spettacolari le sequenze del funerale di Marco Aurelio, in cui la pira viene fatta ardere mentre cade la neve e i soldati intonano un coro che fa venire la pelle d'oca. Il regista riesce a comunicare qualcosa di immenso, ossia la consapevolezza che a morire sia stato un mondo e non un semplice uomo. Il freddo e la neve sembrano quasi un simbolo dei tempi duri che sarebbero giunti. A mio avviso già soltanto questa scena sublime è in grado di consegnare La caduta dell'Impero romano all'immortalità.

Il finale

Mi è restata impressa la reazione di Lucilla nell'assistere alla demenza collettiva della popolazione intera, rapita da una volgare tarantella. La sorella di Commodo, sconvolta, cerca di trattenere la folla posseduta dall'insensatezza e dall'insania, ma non ci riesce: la disgregazione della Città Eterna procederà comunque senza che nessuno possa fare alcunché anche soltanto per rallentarla. Il simbolismo della scena è tanto efficace da far quasi dimenticare difetti quali la riscrittura del passato nell'ottica della politica contemporanea.   

Un documentario di Alberto Angela

Ricordo di aver visto un documentario di Alberto Angela sull'antica Roma in cui era utilizzato uno spezzone del film di Anthony Mann doppiato in latino. Commodo parlava con Lucilla e sguazzava in una piscina. In queste sequenze la pronuncia attribuita all'Imperatore e alla sorella era quella ecclesiastica seguita nelle scuole, piena zeppa di suoni postalveolari. Il figlio di Piero Angela non trovava nulla di strano in tutto questo e non si poneva il problema nemmeno per un secondo, dando per buone le stronzate insegnate dal sistema scolastico italiano e credendole rappresentative della realtà della Roma Imperiale di Marco Aurelio. La Scienza è più settoriale e schizoide di quanto si possa pensare: è possibile sapere tutto sulle palle del triceratopo e ignorare che la gestazione di una femmina umana dura nove mesi. Si assiste alla proiezione dell'apprendimento scolastico acritico, non vagliato dalla Scienza e proiettato all'infinito nel passato. Non che Mann se la passasse meglio: in un lungo brano non doppiato si assiste a un lungo discorso in cui i nominativi dei personaggi sono pronunciati in modo ben più assurdo di quanto possa fare un prelato della Chiesa di Roma: si tratta della pronuncia accademica anglosassone, di cui avremo modo di parlare in altra sede. Finora non sono riuscito a capire se lo spezzone in latino ecclesiastico utilizzato da Alberto Angela sia stato realizzato a bella posta per il documentario o se esista davvero una versione completa del film in tale lingua. 

Reazioni nel Web

In genere il kolossal di Anthony Mann è stigmatizzato e ritenuto paccottiglia da una buona parte degli internauti che sono a conoscenza della sua esistenza. Non sono rare le stroncature. Segnalo questa recensione in controtendenza, più che entusiastica, scritta da Giuseppe Lippi e comparsa su Filmtv.it

mercoledì 8 marzo 2017


L'ISOLA DI PASCALI

Titolo originale: Pascali's Island
Paese di produzione:
Gran Bretagna, Italia
Lingua: Inglese
Anno:
1988
Durata:
96 min
Colore: Colore
Audio: Sonoro
Genere: Drammatico, spionaggio
Regia: James Dearden
Soggetto: Barry Unsworth
Sceneggiatura: James Dearden
Fotografia: Roger Deakins
Musiche:
Loek Dikker
Interpreti e personaggi:
    Ben Kingsley: Basil Pascali
    Charles Dance: Anthony Bowles
    Helen Mirren: Lydia Neumann
    Kevork Malikyan: Mardosian
    George Murcell: Herr Gesing
    Nadim Sawalha: Pasha
    Stefan Gryff - Izzet Effendi
    Vernon Dobtcheff - Pariente
    Sheila Allen - Mrs. Marchant
    T. P. McKenna - Dr. Hogan
    Danielle Allen - Mrs. Hogan
    Nick Burnell - Chaudan
    Giorgos Oikonomou - Ribelle greco
    Alistair Campbell - Capitano
    Ali Abatsis - Ragazzo nel bagno
    Brook Williams - Ufficiale turco
    Joshua "Josh" Losey - Soldato turco 
    Nick Karagiannis - Ragazzo in chiesa
Doppiatori italiani:
    Riccardo Cucciolla: Basil Pascali
    Gino La Monica: Anthony Bowles
    Serena Spaziani: Lydia Neumann

Trama:

La vicenda si svolge nel 1908, nella piccola isola egea di Nisi. Il territorio è un avamposto dell'Impero Ottomano, che ormai è un colosso dai piedi d'argilla destinato a un ineluttabile tramonto. L'ambiente è a dir poco turbolento. I ribelli greci preparano l'insurrezione, mentre rappresentanti di potenze europee tramano per spartirsi i resti dell'Impero in sfacelo. Basil Pascali è un bizzarro individuo che abita in quell'avamposto da vent'anni, facendo da guida ai turisti e svolgendo incarichi come interprete. La sua vera attività consiste tuttavia nello spiare i locali, inviando poi al Sultano resoconti che non hanno mai avuto un singolo riscontro. Lo stipendio dell'informatore arriva regolarmente, ma immutato dall'inizio, senza il benché minimo aumento, cosa che desta in lui grande frustrazione. A un certo punto arriva sull'isola l'inglese Anthony Bowles, che afferma di essere un archeologo e di avere intenzione di effettuare importanti scavi. Pascali, che lo reputa un agente dei ribelli greci, gli offre i suoi servizi di interprete e di mediatore con il Pascià - vedendosi appioppata ogni responsabilità in caso di insolvenza dell'inglese. Bowles è un galletto che non perde tempo in preamboli: riesce a sedurre con facilità la bella pittrice austriaca Lydia Neumann, da tempo amata da Pascali, destando il lui bramosia di vendetta. Così l'informatore riesce a intrufolarsi nella stanza del sedicente archeologo, scoprendo alcuni reperti falsi. Folle di gelosia, rivela le sue scoperte al Pascià. Come conseguenza soldati, i soldati colgono in un'imboscata notturna Bowles e la Neumann e li uccidono senza esitare. A questo punto gli eventi precipitano, la rivolta dei Greci divampa, l'Impero Ottomano crolla e il futuro di Pascali si fa istante dopo istante più incerto. Mentre tutto gli sta crollando addosso, mentre il suo minuscolo universo è in procinto di implodere, l'unica cosa che il protagonista può fare è scrivere quasi per un automatismo da zombie il suo ultimo rapporto.      

Recensione:

Il film è stato tratto dall'omonimo romanzo dello scrittore inglese Barry Unsworth (1980), pubblicato negli States col titolo The Idol Hunter. Non ho letto il romanzo, ma da quanto si trova nel Web sulla sua trama, pare che sia stato trasposto accuratamente nell'opera di James Dearden. Il flusso della narrazione è introspettivo e inquietante in ogni dettaglio, ai confini del solipsismo. Sepsi dell'anima, come scrutare all'interno del cranio di un soggetto vivisezionato ed elucubrare sulle caverne scavate nella materia grigia dai fantasmi.  

Le origini di Pascali

C'è una cosa molto importante che va puntualizzata. Il protagonista, Pascali, porta un cognome di origine cristiana. Infatti proviene di certo da un precedente latino Paschalis, come il nome italiano Pasquale. Anche il suo nome, Basil, altro non è che il greco Basilios. Egli stesso chiarisce di essere figlio di una sfortunata ballerina inglese che si è persa nei perigliosi meandri dell'Impero Ottomano, il che spiega la stranezza del suo nome. Il personaggio è sicuramente il discendente di un cristiano convertito all'Islam. Se la sua famiglia paterna fosse stata islamica da molto tempo, l'informatore avrebbe avuto un nome ben diverso, caratteristico dei musulmani, come ad esempio Mehmet.

Una vita priva di senso

Pascali si ritrova imprigionato in un microcosmo asfittico che sembra non avere alcuna apertura verso l'esterno, nonostante sia visitato da non pochi europei - ma se anche fossero extraterrestri cambierebbe ben poco. Tutto è immobile e angosciante, come lo sarebbe essere imprigionati in un sogno che non è il proprio e da cui quindi non ci si può svegliare. Nella sostanza, l'informatore ottomano è l'Uomo Invisibile. Ad ogni sua azione non pare corrispondere alcuna reazione, come se fosse contenuto in una cella manicomiale dalle pareti di gomma, dove anche urlare con voce stentorea sarebbe inutile. Il Sultano che pensa di servire è inavvicinabile, come il Motore Immobile di Aristotele. Per la macchina burocratica che lo paga, Pascali è una nullità, una pedina talmente insignificante da essere considerata come un oggetto inanimato, dei cui sentimenti e delle cui aspettative non ci si può e non ci si deve preoccupare. Quello che l'uomo non sa, è che i suoi rapporti finiscono ogni volta al macero senza che nessuno li legga, in quanto ritenuti irrilevanti. Il suo stesso stipendio è dovuto alla pigrizia estrema dell'apparato burocratico: nessuno ha pensato di attivarsi per far cessare l'erogazione. 

Un Impero Ottomano ad alta gradazione alcolica

Quanto è sobria la Scandinavia odierna, tanto era ebbro l'Impero Ottomano, in cui gli uomini sfoggiavano il fez del color del sangue rappreso e trangugiavano damigiane di rakı, la tipica acquavite aromatizzata all'anice e alla menta, ottenuta distillando una varietà di ingredienti, tra i quali l'uva, le prugne, i datteri e le patate. Lo stesso Kemal Atatürk amava a tal punto quel liquore e tanto ne tracannò che il suo fegato finì cirrotizato. Tutto questo perché l'Islam dei Turchi era molto diverso dal radicalismo tanto di moda ai nostri giorni. L'anisetta e l'idromele erano utilizzati come surrogati del vino in non poche aree di fede maomettana. Sappiamo che il mercato degli alcolici era fiorente sotto la Sublime Porta, tanto che persino i religiosi bevevano di nascosto. Ogni tanto il Sultano si destava dal suo sonno e minacciava provvedimenti draconiani, ma il suo proibizionismo durava al massimo tre giorni. Tutto ciò è lontano anni luce dal rigore dei fanatici wahabiti che imperversano al giorno d'oggi. Così vediamo il protagonista Basil Pascali ordinare l'acquavite all'inserviente dell'hotel, con fare imperioso, battendo le mani: accorgendoci che è cosa normale e quotidiana anche tra genti tanto diverse, siamo tutti più sollevati.

Cose turche! 

Una volta alla settimana, Pascali si reca ai bagni e incontra un ragazzo. Forse qualche spettatore non l'ha capito, ma quel ragazzo è un eunuco che dietro compenso masturba e fa pompini. La cosa non deve stupire più di tanto. L'uso degli enunuchi come sfogo sessuale in quel contesto era la norma, mentre era molto difficile l'accesso al sesso femminile. Il mio sospetto, più che fondato, è che il protagonista del film abbia conosciuto soltanto le carezze dei castrati e che non abbia mai conosciuto nemmeno una volta le delizie femminili. Immaginate, se ci riuscite, una vita passata a sognare qualcosa di irraggiungibile, trovando ben vili e bassi surrogati in una realtà di uno squallore infinito. Nell'Impero Ottomano esistevano modi diversi per castrare un uomo. Era possibile rimuovere i testicoli ma non il pene, ottenendo gli eunuchi bianchi. Si poteva anche rimuovere il pene e lasciare i testicoli. In questo caso si ottenevano i cosiddetti eunuchi bruni, di una ferocia inaudita, che venivano usati come strumento di repressione. C'erano poi eunuchi privi sia del pene che dei testicoli: avevano soltanto il buco dell'uretra e per orinare dovevano servirsi di una cannuccia, con i connessi rischi di infezioni. Erano chiamati eunuchi neri. Altri sistemi, altamente rischiosi, consistevano nell'atrofizzare i genitali, spappolando i testicoli oppure torcendo i dotti seminali. Come ci si può attendere, nell'attuale contesto si tende a nascondere questi orrori e a censurarli, ma ancora agli inizi del XX secolo erano una realtà viva e vitale.

Amore non corrisposto

Non penso che esista un tormento più crudele dello spasimare per una donna che non vuole saperne. Parafrasando Cioran, possiamo dire che amare una donna significa proiettare infiniti su una creatura di una sconcertante finitudine. Deve essere una cosa terribile amare una donna alla follia, senza destare in lei alcuna emozione, per vedersela poi soffiare da un finto archeologo, un bellimbusto biondiccio che somiglia vagamente a Rocco Siffredi. Gli orrori dell'amore non corrisposto sono spinti all'estremo limite in questo film. Per la pittrice Lydia Neumann, Basil Pascali è soltanto un mucchietto di nulla, del tutto impossibile da considerarsi come un uomo. Talvolta finge di provare per lui un certo affetto, simile a quello che può essere provato per un canarino. Qualcosa di ancor più umiliante di un aperto rifiuto. L'informatore ottomano non capisce se la sua musa lo voglia intenzionalmente mortificare. Fatto sta che talvolta le parole di una donna possono ledere un uomo anche quando in apparenza sembrano inoffensive. Solo per fare un esempio, sentirsi chiamare "amico" da una donna è a parer mio cosa molto peggiore che essere insolentiti, perché "amico" è una parola che si traduce così: "per me tu non conti niente, in quanto non ti vedo come un uomo e non potrò mai vederti come un uomo". Anzi, possiamo stenografare il concetto traducendo "amico" con "non sei un uomo" o addirittura con "eunuco".


Le convulsioni del genetico

La spaventosa tensione provata dall'informatore ottomano sfocia infine in un terribile fatto di sangue e di morte. Egli spia la donna amata insieme col suo amante. Entrambi sono nudi e fanno l'amore. Questo fa emergere in Pascali un sentimento che non è semplicemente invidia, come le fatue genti potrebbero pensare, ma disperazione. È così: tutto inizia dalla constatazione della nullità della propria vita sessuale. Il genoma maschile spinge, perché il suo solo fine è l'accoppiamento con una femmina. Se questo non avviene, ne nasce una serie infinita di orrori. Per il genoma, chi non riesce ad accoppiarsi e a trasmettere la vita è un indegno di esistere. A niente servono le lubriche manipolazioni di un eunuco. Dalla constatazione della propria nullità, Pascali passa alla tenebra assoluta. In questo marasma ecco accendersi una fibra d'odio. Coloro che rinfacciano, pur senza saperlo, al fallito genetico la consapevolezza della sua nullità essenziale, diventano oggetti di questo odio funesto, che divampa fino a diventare assoluto, duro come il diamante e nero come l'Abisso. L'uccisione della pittrice e del finto archeologo inglese si consuma così, in un'atmosfera plumbea e annichilente. Un punto di non ritorno, che segna l'annientamento dell'intera esistenza.

Reazioni nel Web

A quanto pare, il film non ha entusiasmato il pubblico italiano. Ha avuto invece un certo successo nel mondo anglosassone. Non ho trovato nel Web significativi interventi in lingua italiana, anche se forse questo si deve al fatto che non ho cercato abbastanza. Consiglio una pagina che riporta alcune recensioni in inglese: 

lunedì 6 marzo 2017


MONTENEGRO TANGO - PERLE E PORCI

AKA: Montenegro Tango - Le perle ai porci
Titolo originale: Montenegro or Pigs and Pearls
Titolo svedese: Montenegro eller Pärlor och Svin
Anno: 1981
Genere: Drammatico, grottesco, erotico  
Paese: Gran Bretagna, Svezia
Lingua: Inglese, Svedese, Romani balcanico
Sottotitoli: Svedese, Danese, Finlandese
Formato: Panoramico Colore
Durata: 103 min (secondo altri 93 min)
Regia: Dušan Makavejev
Produttore: Bo Jonsson
Produttori associati:
Christer Abrahamsen, Djordje
    Zecevic 
Produzione: AB Europa Film, Viking Film, Mart
    Egg Pictures
Sceneggiatura: Dusan Makavejev, Donald Arthur,
    Branko Vucicevic
Fotografia: Tomislav Pinter
Musiche: Kornell (Kornelije) Kovach
Distribuzione: Academy (Martino) - Domovideo
Progetto di produzione: Radu Boruzescu
Costumi: Inger Pehrsson
Trucco: 
   Kjell Gustavsson
   Sven Lndén
   Hilda Silvast
Gestione della produzione: Rune Hjelm
Assistente direttore: Bojana Marijan
Reparto artistico:
   Eric L. Johnson
   Jerry Pihlblad
Reparto sonoro:
   Ulf Darin,
   Sven Fahlén,
   Anders Ingermarsson,
   Lars Klettner,
   Jan-Erik Lundberg
Reparto fotocamera ed elettrico:
   Dan Myhrman,
   Tiuu Serenander
Costumi e guardaroba: 
  
Ingabritt Adrianson-Ejenstam
Gestore degli esterni:
  
Sven-Gösta Holst
Resto della squadra: Kerstin Eriksdotter, Susanne Falck,
   Anita Tesler

Interpreti e personaggi:   
   Lasse Aberg: L'ispettore delle dogane
   Susan Anspach: Marilyn Jordan
   Svetozar Cvetkovic: Montenegro
   Patricia Gélin: Tirke (ragazza rom)
   Nikola Janic: Mustapha
   Erland Josephson: Martin Jordan 
   Per Oscarsson: Dottor Aram Pazardjian
   Bora Todorovic: Alex Rossignol (capo rom)
   John Zacharias: Nonno Bill
   Lisbeth Zachrisson: Rita Rossignol (moglie del
       capo rom)
   Paul Smith: Il tassista
   Dragan Ilic: Assan 
   Marianne "Marianna" Jacobi: Cookie Jordan
   Marina Lindahl: Segretaria
   Milo Petrovic: Un rom bizzarro, cliente dello
       Zanzi Bar 
   John Parkinson: Pianista
   Jamie Marsh: Jimmy Jordan
   Kaarina Harvistola: La prima poliziotta
   Ewa Gisslen: La seconda poliziotta
   Bo Ivan Peterson: Se stesso
   Jan Nygre: Ufficiale di polizia

Titoli alternativi: 
  Belgio (fiammingo): Montenegro of Parels en zwijnen
  Finlandia: Montenegro eli helmhä ja herjoja
  Francia: Les fantasmes de Madame Jordan
 
Germaina Ovest: Die Ballade von Lucy Jordan
 
Grecia: Montenegro i gourounia kai margaritaria
  Perù: Montenegro: Cerdos y perlas
  Polonia: Czarnogóra, czyli perly i wieprze
  Portogallo: Montenegro ou Pérolas e Porcos
  Turchia: Karadag  



Trama:  

Marilyn è la bella moglie di Martin Jordan, un ricco uomo d'affari di Stoccolma. La donna, di origine americana, è inquieta e insoddisfatta. Le pesa in particolare l'assoluta inerzia sessuale del marito, che potrebbe essere definito "frigido". L'uomo pensa soltanto al lavoro e ad accumulare soldi: è completamente privo di reazioni erettili. Marilyn cerca invano di stuzzicarlo ghermendo una collana di perle con un piede nudo e mettendo in bella mostra le gambe perfette. Niente da fare, anche se gliela sbattesse in faccia non cambierebbe nulla. Constatato che sarebbe più facile produrre eccitazione in un robot, Marilyn comincia a dare segni di instabilità mentale. Divora tutte le cotolette alla viennese che aveva preparato per la famiglia, prendendole con le mani. Martin Jordan non si scompone per la cena saltata. Non avrebbe battuto ciglio neanche se si fosse trovato davanti un piatto di feci. La villa lussuosa in cui Marilyn abita col marito, con i due figli e con l'anziano suocero demente, le sembra ogni giorno di più una prigione. Per cercare di curare questo malessere della moglie, Martin non pensa nemmeno per un istante a provocarsi un'erezione, magari procurandosi un po' di materiale porno. Tutto si metterebbe a posto se la donna riuscisse ad avere un po' di sperma, ma lui non lo riesce a comprendere. Così le paga le visite da uno psichiatra di origine armena, il dottor Aram Pasardjian. La situazione precipita in occasione di un viaggio di Martin in Brasile. Un viaggio d'affari, è ovvio. Marilyn decide all'ultimo di partire col marito ma perde l'aereo a causa delle perquisizioni subite all'aeroporto, di una lungaggine e di una pedanteria esasperanti, in grado di trasformare Giobbe in Carl Panzram. Perde l'aereo e incontra una giovane zingara jugoslava di nome Tirke, che la presenta al suo capo, Alex Rossignol, il "rrom baró" della tribù. Alex porta la donna allo Zanzi Bar, un antro di turpitudini in cui i pagani si ritrovano per darsi alla crapula e all'orgia. Mentre Tirke si esibisce nuda in danze lubriche e gioca con un carro armato fallico radiocomandato, gli uomini della tribù esultano in preda all'eccitazione più belluina. Marilyn, ubriaca, si concede a Montenegro, un giovane rom che lavora allo zoo e che lei già conosceva di vista. Smaltita la sbornia, la donna ritorna nella villa-prigione, ma non si rassegna alla sua condizione squallida, così somministra alla sua famiglia il cianuro. Marito, figli e suocero cadono fulminati come la famiglia di Goebbels.

Recensione: 

Un film assurdo quanto divertente, che merita senz'altro di essere visto. A tratti è surreale: non vedo come altro definire una scena in cui un uomo resta vivo e vegeto con un coltello piantato nel cranio. Certo, si possono razionalizzare le sequenze di un sogno (o di un incubo), riducendole a categorie comprensibili al sentire comune. Resta però il fatto che la sostanza soggiacente alle vicende narrate ha qualcosa di compatto da cui irradia un'ontologia indecifrabile. Per questo ci colpisce: parla un linguaggio geroglifico che non può essere spiegato a parole. Il risultato è senza dubbio molto al di là delle intenzioni del regista serbo, tanto che sono indotto a crederlo un prodotto di forze ctonie cresciuto per autoaggregazione. Se si approfondisce il pensiero di Makavejev, si può constatare che consisteva in discorsi abbastanza banali sulla repressione sessuale: ogni sua proposizione era fondata sulla dicotomia insanabile tra popoli razionali asessuati e popoli istintivi, selvaggi, dionisiaci, pervasi da una sessualità panica. Non è da questi schemi che nasce un capolavoro.

Ricordi distorti

Il film andò in onda su Rai 3 quando ero ancora un liceale imberbe, un pivello che a malapena sapeva qualcosa della sessualità dalla fruizione di riviste pornografiche (sorvoliamo sul patetico corso di "educazione sessuale", che con grandissima pruderie tentava di ridurre gli esseri umani a celenterati). Così accadde che mentre i miei genitori erano impegnati in una discussione in cucina, cominciai a scanalare e vidi apparire sullo schermo un gigantesco cazzone di gomma. Presto risultò chiaro che il fallo era infisso su un carro armato radiocomandato, al posto del cannone. Si muoveva rapidamente e una ragazza nuda cercava di schivarlo, mentre i Rom si abbandonavano alla manustuprazione collettiva. Cambiai canale, arrossendo per la vergogna. Dopo qualche minuto girai di nuovo su Rai 3, ed ecco che un uomo stava montando la protagonista bionda, possedendola da tergo o, come dice il volgo, alla pecora. A scuola, il giorno dopo, potei constatare che anche alcuni compagni avevano visto parti del film in condizioni di clandestinità. Si parlò a lungo del "carro armato col cazzone". In realtà, quando rividi il film anni dopo, ormai saturo di tonnellate di materiale pornografico, potei constatare che il carro armato era piccolissimo, che l'itifallo plastico era un ben esiguo falletto e che i Rom non davano segni di masturbarsi. Giunsi alla conclusione che del film esistevano due versioni: una tagliata, edulcorata, e una più potente, piena zeppa di scene esplicite. In realtà era stata soltanto la mia immaginazione adolescenziale a ingigantire certe immagini erotiche, deformandole e rendendole ancor più grottesche.

Una ricerca a lungo infruttuosa 

Ricordo che con un amico scrissi addirittura una lettera a Rai 3 per ricevere informazioni sul film e per conoscerne almeno il titolo, che ignoravamo. Ci decidemmo a farlo dopo una serie di vane ricerche che nel corso degli anni ci avevano portato a noleggiare inutilmente alcuni film aventi come protagonisti i Rom, come ad esempio Gadjo dilo - lo straniero pazzo, nella speranza di ritrovare le sequenze assurde viste al liceo. La lettera inviata alla direzione di Rai 3 venne cestinata impietosamente, è ovvio, e non ebbe mai risposta alcuna. Solo quando avevamo ormai perso ogni speranza, mi emerse chissà come dalla memoria il nome "Montenegro", che collegai al film, così potemmo per insperata fortuna identificare con sicurezza e recuperare il film, che da allora è diventato un cult. 

I morti viventi

Nella lingua Romaní il morto vivente è chiamato muló (pl. mulé). È immaginato come un cadavere deambulante, a metà strada tra lo zombie e il vampiro. Attratto dalle feste, è avidissimo di vino e non perde occasione di nutrirsi anche di sangue. È possibile che l'avidità di vino derivi da una falsa etimologia: il vino in Romaní è chiamato mul (in alcuni dialetti mol). Così muló potrebbe essere stato interpretato come "avvinazzato". In realtà l'origine della parola è chiaramente la forma verbale muló "egli morì", dalla stessa radice di merel "egli muore", di chiara origine indoeuropea (la radice alla lunga è la stessa dell'italiano morire). Devo ammettere che le mie conoscenze di lingua Romaní non sono abbastanza buone per poter approfondire meglio la questione. Secondo le credenze di tali genti, per cacciare i morti viventi il sistema più efficace è l'aglio. Ecco perché alla festa allo Zanzi Bar pendono corone d'aglio dappertutto. 

Il nettare degli Dei

Il capo dei Rom, Alex Rossignol, invita Marilyn a partecipare a una bevuta collettiva. Lo slivovitz viene reso rosso col sangue di un agnello ucciso, e questa mistura viene definita dallo stesso Rossignol "il nettare degli Dei", con inatteso dottismo. Non mi aspetterei infatti di ritrovare una simile locuzione tra i Gitani, dato che persino tra le genti stanziali viene usata in modo scherzoso come reminiscenza scolastica. La donna bionda si unisce alle libagioni, tracannando il liquore misto a sangue - cosa che ai nostri giorni non potrebbe più essere mostrata in un film, a meno che non si voglia scatenare l'insurrezione dei fanatici animalisti e vegani. A questo punto gli uomini di Rossignol intonano una canto antico nella loro lingua, che è davvero suggestivo. Come l'americana chiede al capo tribù il significato delle parole in Romaní, quello le risponde sbrigativamente che il loro contenuto è sessuale e che gli uomini vorrebbero copulare con lei. Così a orecchio mi pare che si tratti di una bugia e che il significato dei canti sia del tutto dissimile: sarebbe interessante analizzare il testo, trascriverlo foneticamente e tradurlo per verificare la cosa.

Proibizionismo scandinavo 

Quando fui in Svezia e in Norvegia, era l'inizio degli anni '90, mi resi subito conto che non era affatto facile procurarsi dell'alcol decente. Si trovava soltanto una squallidissima birra mercantile, acquosa, che al massimo avrà avuto 3 gradi alcolici. Ricordo un orrido luogo chiamato Värnamo, che sorge vicino a un antico cimitero in cui al tempo degli antichi culti venivano sepolti gli aborti e i bambini deformi. Dopo il tramonto i giovani si radunavano e cercavano di intossicarsi ingollando galloni di quella birra quasi analcolica, finendo col vomitare. Ricordo ancora un pavimento tutto coperto di vomito: si camminava nel pastone. Forse qualcuno riusciva a procurarsi del liquore clandestino, ma non sono riuscito a vederne nemmeno una goccia. Un tale pensò di portarsi in camera una ragazza un po' alticcia, rischiando una doccia romana. Anche se pochi ne sono a conoscenza, a Stoccolma vige il proibizionismo, quasi come negli States ai tempi di Al Capone. I politicanti della triste nazione scandinava sono convinti che bere alcol sia un atto rivoluzionario e che appartenga al reame oscuro dell'eversione. Non potendo imporre un divieto assoluto, ricorrono ad ogni mezzo di dissuasione, come ad esempio una tassazione da capogiro e l'imposizione di un vero e proprio pizzo alle pochissime rivendite autorizzate. Queste premesse sono a mio avviso necessarie per comprendere il contesto di Montenegro Tango. In una scena si vede un rom che getta legna in una grande caldaia per alimentare un distillatore. La protagonista ne rimane turbata e fa notare che la produzione di alcolici è illegale. Lo zigano le risponde che lo Stato è cattivo perché non vuole dare alla gente ciò di cui ha bisogno. Folgorante come il responso di un monaco zen.

Reazioni nel Web 

Le recensioni che ho trovato nel corso delle mie navigazioni mi sembrano piuttosto banali. Tutta critica radical shit che in un film nota soltanto stronzate socio-culturali e si lascia sfuggire dettagli antropologici di estremo interesse. Mi limito a riportare due interventi, comparsi sul sito davinotti.com.

Cotola:
"La liberazione sessuale (con omicidio) come antidoto alla noia ed all'ipocrisia della vita borghese. Certo, non molto originale (visti i tempi in cui fu girato) ma il tema è caro al regista che non manca di condire il film con un umorismo al vetriolo e con almeno una trovata da antologia. Non tutto fila liscio, qua e là la noia non manca, ma alla fine il risultato non è malvagio. Il finale è un discreto sberleffo alla comune morale familista. Buona la confezione." 

Giacomovie: 
"Interessante produzione svedese i cui titoli di coda precisano che si tratta di un film basato su una storia vera, quella di una donna annoiata dal matrimonio che si concede un'avventura alla "Thelma senza Louise" per superare la noia di vivere. L'avvio è incerto ma poi matura con efficacia il contesto liberatorio della trama, con la presenza di elementi grotteschi, episodi passionali e qualche sorpresina nel finale."

sabato 4 marzo 2017

XENOGLOSSIA? NO. CRIPTOMNESIA.


Riporto in questa sede un brano di Samuel Taylor Coleridge comparso sul blog di Romolo Capuano: 

Un caso del genere accadde in una città tedesca di confessione cattolica romana uno o due anni prima del mio arrivo a Gottinga e da allora continua a essere argomento frequente di conversazione. Una giovane di ventiquattro o venticinque anni, che non sapeva né leggere né scrivere, contrasse una febbre nervosa, durante la quale, secondo quanto testimoniato da tutti i sacerdoti e i monaci del vicinato, fu posseduta, a quanto pare, da un diavolo coltissimo. La donna non smetteva mai di parlare in latino, greco ed ebraico, affettando toni assai solenni e pronunciando le parole in maniera molto chiara. Che fosse posseduta appariva probabile in virtù del fatto, a tutti noto, che era o era stata un’eretica.
Voltaire consiglia spiritosamente al diavolo di stare alla larga dagli uomini di medicina; un consiglio che avrebbe giovato alla sua reputazione, se lo avesse seguito in questa occasione. Il caso aveva attirato l’attenzione di un giovane medico e, stando alle sue dichiarazioni, molti eminenti fisiologi e psicologi visitarono la città e indagarono la vicenda sui due piedi. Pagine su pagine furono riempite delle farneticazioni della giovane, e fu scoperto che esse consistevano di frasi coerenti e intellegibili
(sic), se prese a una a una, ma scarsamente o per nulla connesse tra loro. A proposito delle parole in ebraico, solo una piccola parte di esse poté essere rinvenuta nella Bibbia; il resto sembrava un dialetto rabbinico. Fu esclusa ogni possibilità di trucco o complotto. Era evidente che la giovane era una persona semplice e innocua e che soffriva per una febbre nervosa. In città, dove viveva da molti anni come domestica di varie famiglie, nessuno seppe spiegare il fenomeno. Il giovane medico, tuttavia, decise di indagare meticolosamente la sua esistenza passata; la paziente, invero, non era in grado di rispondere in maniera razionale alle domande che le si facevano. Il medico, riuscì, infine, a trovare il luogo dove vivevano i genitori della ragazza: vi si recò e scoprì che non erano più in vita, ma che lo era uno zio; da lui apprese che la paziente era stata caritatevolmente accolta da un vecchio pastore protestante all’età di nove anni, e aveva vissuto con lui per diversi anni, fino alla morte del vecchio. Lo zio non sapeva nulla del pastore, tranne che era una brava persona. Con grande difficoltà, e dopo molte ricerche, il nostro giovane medico filosofo trovò una nipote del pastore, che aveva vissuto con lui come sua governante, e che ne aveva ereditato i beni. Ricordava la ragazza; raccontò che  il venerando zio era stato troppo buono con lei, che non riusciva a rimproverarle niente; aggiunse che avrebbe voluto tenere la ragazza con sé, ma che, dopo la morte del suo mentore, la giovane non aveva voluto più rimanere. A questo punto, il medico condusse un’indagine serrata sulle usanze del pastore; e infine trovò la spiegazione del fenomeno. Sembra che, per anni, il vecchio avesse avuto l’abitudine di percorrere avanti e indietro un corridoio della sua abitazione che conduceva alla porta della cucina, leggendo ad alta voce i suoi libri preferiti. La nipote ne possedeva ancora molti. Aggiunse che era un uomo assai colto e un grande ebraista. Tra i suoi libri fu trovata una raccolta di scritti rabbinici e di libri dei padri latini e greci. Il medico riuscì a identificare molti brani simili a quelli annotati al capezzale della giovane, e nessun uomo dotato di ragione ebbe alcun dubbio sulla vera origine delle impressioni che avevano colpito il sistema nervoso della paziente. Traduzione di Romolo Capuano (?)*

*Immagino che il gestore del blog abbia eseguito la traduzione inedita del testo di Coleridge, dato che non sono stato in grado di trovare altra traccia della versione italiana in Google. Un'altra possibilità è che lo stesso blogger l'abbia reperita in un libro e l'abbia digitata parola per parola. Tuttavia l'uso della parola "intellegibile" al posto del corretto "intelligibile" mi fa propendere per la prima ipotesi: il refuso in un libro avrebbe avuto maggiori probabilità di essere eliminato in fase di correzione delle bozze.

Questo è il brano originale di Coleridge, in inglese:

A case of this kind occurred in a Catholic town in Germany, a year or two before my arrival at Göttingen, and had not then ceased to be a frequent subject of conversation. A young woman of four or five and twenty, who could neither read nor write, was seized with a nervous fever; during which, according to the asseverations of all the priests and monks of the neighbourhood, she became possessed, and, as it appeared, by a very learned devil. She continued incessantly talking Latin, Greek, and Hebrew, in very pompous tones and with most distinct enunciation. This possession was rendered more probable by the known fact, that she was or had been a heretic. Voltaire humorously advises the devil to declme all acquaintance with medical men; and it would have been more to his reputation, if he had taken this advice in the present instance. The case had attracted the particular attention of a young physician, and by his statement many eminent physiologists and psychologists visited the town, and cross-exammed the case on the spot. Sheets full of her ravings were taken down from her own mouth, and were found to consist of sentences, coherent and intelligible each for itself, but with little or no connection with each other. Of the Hebrew, a small portion only could be traced to the Bible; the remainder seemed to be in the rabinical dialect. All trick or conspiracy was out of the question. Not only had the young woman ever been a harmless, simple creature; but she was evidently labouring under a nervous fever. In the town, in which she had been resident for many years as a servant in different families, no solution presented itself. The young physician, however, determined to trace her past life step by step; for the patient herself was incapable of returning a rational answer. He at length succeeded in discovering the place where her parents had lived: travelled thither, found them dead, but an uncle surviving; and from him learnt that the patient had been charitably taken by an old protestant pastor at nine years old, and had remained with him some years, even till the old man's death. Of this pastor the uncle knew nothing, but that he was a very good man. With great difficulty, and after much search, our young medical philosopher discovered a niece of the pastor's, who had lived with him as his house-keeper, and had inherited his effects. She remembered the girl; related that her venerable uncle had been too indulgent, ana could not bear to hear the girl scolded; that she was willing to have kept her, but that after her patron's death, the girl herself refused to stay. Anxious inquiries were then, of course, made concerning the pastor's habits; and the solution of the phenomenon was soon obtained. For it appeared that it had been the old man's custom, for years, to walk up and down a passage of his house into which the kitchen door opened, and to read to himself with a loud voice, out of his favourite books. A considerable number of these were still in the niece's possession. She added, that he was a very learned man and a great Hebraist. Among the books were found a collection of rabinical writings, together with several of the Greek and Latin fathers; and the physician succeeded in identifying 80 many passages with those taken down at the young woman's bedside, that no doubt could remain in any rational mind concerning the true origin of the impressions made on her nervous system.

Tratto dalla Biographia Literaria,
riportato nel Blackwood's Edinburgh Magazine, Volume 3

https://books.google.it/books

Davvero un diavoletto dottissimo, non c'è che dire! Tuttavia non si è dimostrato abbastanza dotto: l'uso attento e minuzioso del metodo scientifico e della logica riesce a dipanare anche le matasse più ingarbugliate. A dire il vero il medico indagatore citato da Coleridge si è mosso come uno Sherlock Holmes ante litteram, ma non si è avvalso fino in fondo del mezzo più potente: la filologia. Poche constatazioni sulla pronuncia usata dalla ragazza già porterebbero a conclusioni certe i moderni latinisti, grecisti e semitisti. Più raccolgo evidenze sul fenomeno della xenoglossia, più mi convinco della bontà delle mie idee e della fondatezza del mio profondo scetticismo.

Nel frattempo attendo ancora con pazienza che mi sia riportato un caso di xenoglossia autentico, non riconducibile a ricordi nascosti o a mistificazioni di vario genere. Attendo qualcosa di assolutamente eclatante, in grado di ampliare l'orizzonte delle nostre conoscenze. Armandomi della stessa pazienda del famoso cinese che in riva al fiume è sicuro di veder prima o poi la testa del suo nemico trascinata dalla corrente, attendo di leggere la notizia di uno xenoglosso in grado di parlare in genuino etrusco o nell'autentica lingua egiziana del Medio Regno. Attendo qualcuno che possa illuminarci sulle antiche lingue dell'Europa Neolitica, sulle lingue preagricole del Paleolitico, su come parlavano gli uomini di Neanderthal, sulla remota preistoria espressiva dei primi abitatori del pianeta. Inutile dire che difficilmente avrò questa soddisfazione. Eppure non sarebbe così difficile produrre interessanti risultati se alla base della xenoglossia ci fosse davvero qualcosa di concreto e di soprannaturale.

Nessuno è mai riuscito a riprodurre anche soltanto frasi etrusche semplicissime come queste, da me ricostruite a partire da elementi noti della lingua:

ca θi mlaχ ame "quest'acqua è buona"
mi une alce vinum mlaχ "ti ho dato del vino buono"
ei mur θui "non restare qui"
ein al cn śpanza clenśi enas "non dare questo piattino a nostro figlio"  

Nessuno è mai riuscito a riprodurre anche soltanto poche parole di egiziano del Medio Regno con il vocalismo ricostruito secondo i più accurati studi moderni, come quelli di Loprieno: 

/'Ɂu:sa/ "Iside" e non l'egittologico /ist/ 
/'Ɂu:rǝp/ "vino" e non l'egittologico /irp/

/'na:fa/ "bello" e non l'egittologico /'nɛfer/
/'nafra/ "bella" e non l'egittologico /'nɛfert/ 
/'na:ta/ "dio" e non l'egittologico /'nɛtʃer/, /'nɛter/
/na'tu:ru/, /na'turw/ "dèi" e non l'egittologico
    /'nɛtʃru/, /'nɛtru/