LA PROMESSA DELL'ASSASSINO
Titolo originale: Eastern Promises
Paese di produzione: USA, UK, Canada
Anno: 2007
Durata: 100 min
Colore: colore
Audio: sonoro
Genere: thriller
Regia: David Cronenberg
Sceneggiatura: Steven Knight
Distribuzione (Italia): Eagle Pictures
Fotografia: Peter Suschitzky
Montaggio: Ronald Sanders
Musiche: Howard Shore
Scenografia: Carol Spier
Costumi: Denise Cronenberg
Trucco: Stephan Dupuis
Interpreti e personaggi
Viggo Mortensen: Nikolai Luzhin
Naomi Watts: Anna Khitrova
Vincent Cassel: Kirill
Armin Mueller-Stahl: Semyon
Sinéad Cusack: Helen
Donald Sumpter: Yuri
Jerzy Skolimowski: Stepan
Josef Altin: Ekrem
Mina E. Mina: Azim
Aleksandar Mikic: Soyka
Sarah-Jeanne Labrosse: Tatiana
Lalita Ahmed: Cliente
Badi Uzzaman: Farmacista
Raza Jaffrey: Dottor Aziz
Doppiatori italiani
Pino Insegno: Nikolai Luzhin
Barbara De Bortoli: Anna Khitrova
Riccardo Rossi: Kirill
Franco Zucca: Seymon
Aurora Cancian: Helen
Sandro Iovino: Yuri
Dario Penne: Stepan
Flavio Aquilone: Ekrem
Carlo Reali: Azim
Michele D'Anca: Soyka
Giulia Tarquini: Tatiana
Riporto una magistrale recensione di 7di9, pubblicata all'epoca su Real Dark Dream e a fatica sottratta all'Oblio:
Dopo il convincente A History of Violence, La Promessa dell’Assassino segna il ritorno del regista canadese David Cronenberg al genere noir.
Ambientato in una Londra piovosa e grigia, l’ultimo parto del padre della “nuova carne” è un thriller dalla trama piuttosto semplice, lineare, ma che riesce ad imporsi con tensione visiva e grande eleganza registica grazie a diversi fattori, primo tra tutti la notevole interpretazione del cast attoriale, dal quale emerge con possanza il camaleontico Viggo Mortensen, già protagonista del precedente lavoro di Cronenberg, A History of Violence, e che come in quest’ultimo veste i panni di una personaggio ambiguo, dai contorni morali indefiniti e difficilmente codificabili. Tra gli altri interpreti, è d’obbligo evidenziare Vincent Cassel, perfettamente a suo agio nel ruolo di un mafioso un po’ toccato e dalle scelte avventate; Naomi Watts, la cui sensualità traspare da ogni fotogramma, anche nei momenti di maggiore statica; e il bravissimo Armin Mueller-Stahl, veterano della settima arte capace di dare vita ad un boss della mala tra i più convincenti visti al cinema negli ultimi anni.
David Cronenberg, sin dalle sue prime opere, ha segnato il mondo del cinema con i suoi horror per nulla convenzionali, giocati sul rapporto tra normalità ed infezione, nel senso di contaminazione del vivere quotidiano, di decostruzione della realtà così come convenzionalmente percepita. La sua poetica è spesso attraversata dal concetto del doppio: a cominciare dal dittico Il demone sotto la pelle / Rabid - Sete di sangue, che analizza gli effetti causati dall’introduzione di una variabile virulenta nel tessuto della quotidianità, capace di toccare le corde più basse – e primitive – della natura umana; il duo filmico Scanners / La Zona Morta, strumento di analisi della sete di potere dell’uomo, quando amplificata e deformata da forze di origine sovrumana; Inseparabili (probabilmente il suo capolavoro), storia di due gemelli legati dalla carne e dalla psiche, condannati a condividere gioie, scelte e sofferenza in un inestricabile sistema vitale di alimentazione biunivoca; eXistenZ, film di fantascienza intessuto sulla contrapposizione tra ciò che è ritenuto reale e ciò che invece è considerato virtuale, e sull’ambiguità del concetto di verità ; e infine proprio l’opera gemellare “illegittima” costituita da A History of Violence e da La Promessa dell’Assassino.
Storia sulla disintegrazione del sogno americano il primo, con il suo messaggio anti-mediatico e per nulla rassicurante, La Promessa dell’Assassino è invece un noir puro, la storia di un mistero metropolitano.
Anna, levatrice in un ospedale di Londra, dopo aver assistito alla morte post-parto di una giovane quattordicenne, ritrova tra gli effetti personali della stessa un diario, scritto in russo. Con l’aiuto di un suo zio originario della Russia – ed ex membro del KGB, il servizio segreto sovietico – ne tradurrà le pagine, scoprendo un intrico di relazioni torbide ed inquietanti tra gli ambienti della mafia russa e il mondo della prostituzione.
Lo script è di buona fattura, anche se pecca sul versante psicologico, lasciando in ombra la personalità e il background di molti personaggi, primo tra tutti del “becchino” Nikolai. Un altro difetto della sceneggiatura, questa volta relativo alla costruzione dell’intreccio, riguarda la risoluzione dei principali snodi narrativi della trama, la quale in alcuni tratti appare piuttosto forzata, quasi un’applicazione frettolosa e sbrigativa della tecnica del deus ex machina. È evidente, sin dalle prime fasi del film, come il regista non abbia voluto porre l’accento sulla complessità del plot o sul suo intreccio, quanto invece sullo scorrere inesorabile e oscuro della staticità del quotidiano verso mondi nascosti dietro anche il più insignificante e insospettabile degli eventi. Nonostante questo però, Steven Knight, dopo la pregevole prova offerta con la sceneggiatura di Piccoli affari sporchi – per la regia di Stephen Frears – si dimostra comunque ancora una volta perfettamente a suo agio tra i sentieri sotterranei e fumosi di una Londra che nasconde più di quanto mostra, regalando al pubblico una narrazione efficace e sostenuta da un cast in stato di grazia.
Il nero, il grigio e il rosso sono i colori predominanti della pellicola. Il rosso del sangue – che scorre, ma che non eccede in quantità , e che per questo si fa strumento, evitando l’esagerazione, l’ipertrofia – il nero degli abiti, e infine il grigio, dell’ambiente londinese così come dei tatuaggi, i quali si pongono come veicolo metacinematografico di narrazione, ponte comunicativo atipico che lega – ma spesso allontana – i personaggi della storia.
Altro elemento visivo che caratterizza e che definisce La Promessa dell’Assassino è costituito dalla fisicità. A tal proposito, risulta perfetta ed emblematica la scena di nudo integrale di Viggo Mortensen, nei panni di un faccendiere della mafia, costretto ad affrontare due sicari della criminalità russa mentre si trova all’interno di un bagno turco. La scena, girata senza alcun accompagnamento musicale, è la sublime dimostrazione di due elementi: la bravura indiscussa di un attore, Viggo Mortensen, in grado di “parlare” con la sola mimica del viso, con il movimento del corpo, con il sangue, e di un regista, che in pochi minuti riesce a regalare un climax narrativo che coinvolge la mente, per l’eleganza registica; le viscere, per la truculenza del combattimento e i rumori naturali prodotti dall’impatto dei corpi; e i sensi, per la sensualità perversa e trascinante capaci di imporsi con un movimento di macchina che in apparenza indugia esclusivamente su Viggo Mortensen, ma che in realtà è pura e semplice adorazione dell’estetica cinematografica e del “vero” rivelato attraverso lo scontro delle carni. Quello di Cronenberg è l’atto d’amore di un cultore della contaminazione – dei corpi, dei mondi – che diviene mezzo di trasmissione che trascende il limite comunicativo dell’arte fine a se stessa, e che si pone come unico punto di contatto tra la percezione addomesticata dello spettatore medio e il nucleo stesso dell’umano.
La Promessa dell’Assassino è un capolavoro del cinema moderno, la conferma della grandezza artistica di un regista in continua evoluzione – come i protagonisti delle sue storie – perfettamente a suo agio con la cinematografia mainstream, ma sempre fedele alle coordinate della propria poetica. Un regista capace di dirigere ottimamente un cast multietnico, di far convivere un numero enorme di sensibilità e stili recitativi, e a un tempo di sostenere con mestiere il fardello della coerenza artistica, della rappresentazione della propria visione del cinema, senza compromessi di alcun tipo: solo espressione, immagine, nuda e cruda.
Considerazioni:
Aggiungo all'intervento di 7di9 alcune note, soprattutto di carattere antropologico, su questa cupissima pellicola, il cui effetto è quello di un pugno nel plesso solare.
La mafia russa e la sodomia
L'intero film è pervaso dall'odio mafioso verso i sodomiti passivi. Sarebbe troppo banale parlare di "omofobia", come si fa in quest'epoca. Non si tratta infatti di una fobia, ossia di una paura. Si tratta invece di volontà di torturare e annientare una vittima, definita in base a feroci tabù tribali. In un simile ecosistema criminale l'omosessuale che subisce penetrazione nel retto non ha diritto di esistere: se viene trovato non ha pace nemmeno da morto, il suo cadavere viene mutilato e lasciato senza sepoltura. Viene cosparso di sputi e ingiuriato. Eppure lo stupro sodomitico è una forma ritualizzata di punizione nei confronti di chi ha infranto la legge. John Carpenter ha dato la più acuta definizione di demone: "un essere che esiste al solo scopo di infliggere dolore e morte a qualcuno". Queste cose sono troppo orribili per la futile società odierna, che cerca di rimuoverle blaterando di "paura".
Le origini della mafia russa
Pochi sanno che la mafia russa ha le sue radici nella camorra napoletana. Nel corso della guerra di Crimea (1853 - 1856) accadde che alcuni prigionieri russi vennero in contatto con camorristi campani che li iniziarono ai propri riti e trasmisero tra le altre cose la costumanza dei tatuaggi, destinata a subire un'evoluzione propria nel corso dei decenni. La conoscenza di questa origine camorrista viene in qualche modo ostacolata dal Web: sono numerosi i siti che attribuiscono ai tatuaggi criminali russi una genesi diversa, ad opera dei marinai inglesi nel primo dopoguerra. I sostenitori dell'origine inglese non sono tuttavia in grado di spiegare la natura esoterica dei simboli. Nel film di Cronenberg è mostrata l'iniziazione del killer russo al rango di Padrino: gli vengono tatuate sul corpo alcune stelle nere, simbolo del suo potere demoniaco. Queste opere d'arte corporea gli sono praticate con un'apposita penna, mentre ai carcerati va molto peggio, essendo i loro corpi decorati con una mistura di orina, cenere e gomma bruciata, in condizioni non precisamente asettiche. A qualcuno va male e si becca una cancrena.
Il linguaggio dei tatuaggi
Nella mafia russa gli elaborati tatuaggi degli affiliati esprimono concetti anche molto complessi. Costituiscono un vera e propria selva di simbolismi, una forma di codice comunicativo non verbale. Si potrebbe dire che riassumano per sommi capi l'intera storia del soggetto che li porta. Quando un uomo viene incarcerato in Russia, subito i suoi compagni di cella, che sono lì da più tempo, gli chiedono di mostrare i propri tatuaggi. Se ne possiede, esaminano ogni dettaglio, quindi gli domandano: "I tatuaggi dicono il vero su di te?" Si informano con cura sul suo curriculum criminale. Se dovesse emergere che il carcerato in questione è solo uno sbruffone che si è fatto tatuare senza averne il diritto, gli abradono ogni lembo di pelle tatuata servendosi di cocci di vetro, di carta vetrata o di coltelli. Colui che copia i tatuaggi altrui viene punito con la morte.
Razzismo sovietico
La protagonista ha un'accesa discussione col padre, un vecchio russo tutto d'un pezzo ed estremamente testardo, che millanta l'appartenenza al KGB. La donna, avendo avuto un aborto dal suo precedente compagno, si sente rivolgere dal genitore una sanguinosa accusa: la gravidanza non è andata a buon fine perché il seme di un uomo non russo non sarebbe mai potuto attecchire nell'utero di una donna russa. Come se russi e non russi fossero due specie diverse, separate da un abisso di differenze genetiche incolmabili. Come se l'unione tra una donna russa e un uomo non russo fosse un atto di bestialità, simile al sesso con un animale. E non è forse questa una forma di feroce razzismo?
Sequenze memorabili
La ragazza incinta che perde sangue in una farmacia, irritando il gerente che la crede una tossicomane; il momento in cui si scopre che il vecchio boss ha un bordello privato in cui le prostitute sono ragazzine, e lo frequenta assiduamente; il killer costretto dal figlio del boss a possedere carnalmente da tergo una giovane prostituta ucraina, per dimostrare di non essere un sodomita; il cadavere di un gangster rivale, sputato dal figlio del boss e apostrofato come "pederast!", prima di essere gettato in un canale.