domenica 28 ottobre 2018


L'ENIGMATICA SESSUALITÀ
DI PHILIP K. DICK

Ogni grande ingegno di questo mondo ha i suoi lati oscuri, i suoi segreti inconfessabili, che in ogni caso nulla tolgono al valore delle sue opere. In questi tempi di molestiadi imperversa il movimento MeToo, con torme di Erinni furiose che urlano, sbraitano e accusano ogni uomo sulla Terra di spaventose nefandezze. Per questo motivo ho molto riflettuto prima di pubblicare queste mie note su Philip K. Dick e sul suo modo di vedere la sessualità: il mio timore era che il materiale raccolto potesse nuocere alla reputazione del grande scrittore californiano (d'adozione, in realtà nacque a Chicago), attirandogli contro le ire delle femministe. Infine mi sono convinto della necessità di vincere ogni remora, e questo per merito dei carissimi amici Pietro, Sergio, Samuele e Daniele, che ringrazio per il loro prezioso sostegno. Ho messo ordine in ciò che avevo scritto e lo ho integrato con nuove osservazioni. 

Philip K. Dick era tutto fuorché liberale in materia di sessualità. Per lui la sessualità era pura penetrazione: disprezzava profondamente ogni preliminare e in particolare odiava la fellatio, che riteneva una cosa abominevole. Associava inoltre l'atto sessuale alla procreazione con il massimo coinvolgimento emotivo, arrivando al punto di essere un fiero antiabortista. Al giorno d'oggi le sue posizioni sarebbero viste come arretrate persino dalla media dei membri del Ku Klux Klan. Dei membri superstiti, occorre precisare, visto che la setta non gode di buona salute, con buona pace dei buonisti isterici che vedono un incappucciato sotto ogni sasso e che scambiano un cerino acceso per una croce in fiamme. Come non mi stanco mai di ripetere, bisogna resistere sempre alla tentazione di dare giudizi al di fuori del contesto, altrimenti si rischiano grotteschi anacronismi. Gli Stati Uniti in cui Dick crebbe e si formò non furono certo un ambiente favorevole all'esaltazione edonistica della sessualità e del suo libero esercizio al di fuori del matrimonio. 

Facciamo una panoramica, enucleando e discutendo brevemente le attestazioni più scabrose trovate nelle opere dickiane, quelle che più hanno colpito la mia immaginazione.

Un cadavere nell'armadio?  

Nel romanzo mainstream Voci dalla strada (Voices from the Street), scritto nel 1952 circa e pubblicato soltanto nel 2007, si descrive in modo molto crudo uno stupro. Il protagonista è Stuart Hadley, soprannominato "Mezza Sega", un giovane uomo biondiccio e segaligno (mi si perdoni il gioco di parole) che fa il commesso in un negozio. Questi viene stuzzicato da Marsha Frazier, una donna fulva col doppio dei suoi anni, ma ancora dotata di libidine e di potere seduttivo - in un'epoca in cui una quarantenne era ritenuta vecchia e vicina alla pace dei sensi. Lui è sposato, ma si lascia incantare dalle moine della maliarda. I due noleggiano un cottage per trascorrervi la notte. Solo che al momento della resa dei conti, lei si nega: è soltanto un'allumeuse, non una vera fornicatrice. Ormai il giovane è arrapato come un mandrillo, così le punta il glande sulla vulva e senza tante cerimonie le caccia dentro l'asta turgida, non badando al fatto che lei non vuole saperne. La immobilizza e sfoga la propria libidine dentro di lei, riempiendola di sperma. Non contento, ripete l'operazione una seconda volta, tal quale, per niente intenerito dal trauma inflitto alla donna. La casetta è isolata, nessuno può sentire la donna urlare. Dopo gli atti violenti, lei si calma, lui lascia la casa al mattino e nessuno viene a sapere nulla. Sorge in me un dubbio atroce. Questa descrizione potrebbe benissimo essere autobiografica. La lettura mi ha lasciato con l'amaro in bocca: da allora nulla ha potuto togliermi il sospetto che si tratti di uno scheletro nell'armadio di Philip K. Dick. Anche se non è facile a questo punto identificare la donna e accertare se l'episodio narrato sia reale o se sia mera finzione, sono convinto che la mia ipotesi potrebbe non essere poi così peregrina. Per quanto la cosa possa apparire scabrosa, esiste la concreta possibilità che Dick, veemente  penetratore, abbia fatto così il suo ingresso nel giardino della sessualità, "un mondo pieno di magia e di misteri". (cit.).

Riporto qui l'estratto dal romanzo giovanile dickiano: 

Hadley la ignorò, si sfilò la cravatta, poi la camicia. Le appoggiò sul bracciolo della poltrona e si mise a sedere per slacciarsi le scarpe. Accanto al letto Marsha si fece passare lentamente la maglietta sopra la testa. Se ne liberò dimenandosi e la gettò sulla cassettiera, poi cominciò a slacciarsi la gonna. Un pezzo dopo l'altro, i due si tolsero tutti i vestiti. Nessuno disse nulla, nessuno guardò l'altro; quando Hadley ebbe finito di spogliarsi vide Marsha in piedi accanto al letto, nuda e con un'aria patetica: il suo corpo magro era una pallida macchia bianca nella penombra della stanza.
«Posso... fumare una sigaretta prima?» chiese lei.
«No.» Hadley la prese e la tirò verso il letto; lei incespicò e venne giù, cercando qualcosa a cui aggrapparsi.
«Andiamo, non perdiamo tempo.»
Marsha scostò le coperte con il corpo e scivolò verso il lato più lontano, quello addossato al muro; lui la seguì e per un attimo la squadrò con aria impassibile. Sotto
quell'esame freddo la donna si ritrasse impaurita, con le gambe ben strette, le spalle incurvate, le braccia rigidamente conserte. Alla fine, visto che Hadley non diceva
niente, non riuscì a trattenersi. «Stuart, per l'amor del cielo, piantala, ti prego. Per favore, lasciami in pace!»
Metodicamente, lui si abbassò e cominciò ad accarezzarla. Sotto la sua mano la carne di Marsha fremette e si increspò; sul ventre e sui fianchi si formò la pelle d'oca. Lei emise un piccolo gemito e si allontanò, schiacciandosi contro la parete, finché Hadley non la prese e non la riportò a sé con decisione.
«È troppo tardi per tirarsi indietro» disse. «Hai fatto il letto tu; adesso vedi di sdraiarti.»
Lei emise un grido stridulo quando Hadley le allargò le gambe e la penetrò; le sue unghie si appoggiarono tremanti sulla schiena di lui e vi affondarono. Con una spinta brutale del ginocchio Hadley le sollevò la schiena, la costrinse a piegare il corpo e inarcare le cosce, comprimendole le natiche fino a farla ansimare di terrore. Proprio sotto di lui, con la faccia deformata e stravolta, gli occhi chiusi, le labbra contratte fino a mostrare il bianco delle gengive, Marsha rantolava e boccheggiava, voltando la testa di qua e di là; il sudore le scorreva lungo il collo in grosse gocce gelate. Hadley drizzò il petto quanto più possibile: fissandola impassibile da quell'altezza cominciò a mettere in atto con puntualità gli intricati spasimi muscolari del sesso, con intensità crescente, fino a quando le dita che gli artigliavano la schiena lo costrinsero a ritrarsi da lei.
Si mise a fumare e attese, guardandola. Marsha respirava pesantemente, con gli occhi sempre chiusi e le lenzuola tirate su. Spossata, spaventata, si girò di fianco e si portò le ginocchia allo stomaco assumendo una strana, impressionante posizione fetale che gli diede da pensare mentre attendeva. Dopo un po' accese una seconda sigaretta e gliela porse. Lei la prese con le dita intorpidite e riuscì a mettersela fra le labbra. Quindi si tirò su un poco, debole e svuotata, fissandolo in silenzio e sollevando pateticamente il lenzuolo a coprire i seni piccoli e appuntiti.
Senza capire lo vide spegnere la sigaretta, prendere la sua e spegnere anche quella. Solo quando la sospinse di nuovo giù e le tolse di dosso il lenzuolo Marsha capì che stava ricominciando. Lottò con tutta la forza che aveva, lo colpì al petto, gli graffiò la faccia, lo morse, urlò e imprecò e gemette, nel tentativo vano di allontanarlo da sé. Senza emozione, con la mente distaccata e remota, Hadley le allargò le gambe e per la seconda volta fece entrare il suo ego smisurato in quel corpo che protestava disperatamente. Nella sua cavità palpitante riversò tutto l'odio, l'infelicità, il risentimento che alloggiavano dentro di lui come una pozza di acqua stagnante.

I dettagli bizzarri sono numerosi. Marsha Frazier aveva idee precorritrici della New Age e mostrava dichiarate simpatie neonaziste - cosa che non le impediva di gustare il gigantesco fallo del profeta mandingo Beckheim (è chiamato "the huge Negro"). Per quanto la cosa possa sembrare scabrosa, Dick frequentò anche neonazisti e nazisti veri e propri: non dimentichiamo che l'epoca in analisi distava nel tempo pochi anni soltanto dalla caduta del Reich Millenario. La sua biografia include un fatto ben strano, che molti considereranno indigesto. Egli aveva un amico che non si limitava a professarsi nazionalsocialista: lo era. Era tedesco e aveva fatto parte della NSDAP. Una sera fu portato con sé da Dick per una serata a casa di un ebreo. Quando venne a conoscenza del cognome dell'ospite, ebbe paura e scappò via a gambe levate. La cosa lasciò lo scrittore basito. Queste sono le sue parole, riportate nel saggio Il nazismo e The Man in the High Castle (1964)

"A un mio amico nazista, che vive negli Stati Uniti da quando è finita la guerra, mentre stavano entrando in casa di una persona, dissi: "Sai, questo mio amico si chiama Bob Goldstein". È sbiancato in volto (e se n'è andato): aveva letteralmente paura di mettere piede in quell'appartamento e, per giunta, provava un'orribile repulsione fisica. Perché? Chiedetelo a Hannah Arendt, che io considero la "massima critica moderna della Germania", anche lei ebrea. Ho la sensazione che neppure lei lo sappia, pur essendo cresciuta tra loro."

Forse la Arendt non avrebbe saputo trovare una risposta all'interrogativo dickiano, ma io so per certo spiegare come stanno le cose. In realtà è tutto perfettamente chiaro a chi abbia qualche nozione della mentalità hitleriana: per un autentico nazionalsocialista gli Israeliti sono "Ein Volk von Dämonen", ossia "un popolo di demoni". Persino gli Einsatzgruppen, che li massacrarono a decine e decine di migliaia, li consideravano "pericolosi": ritenevano che fossero patogeni esiziali da neutralizzare con ogni mezzo. Stanti gli antefatti esposti, ci sono sufficienti motivi per pensare che il passato di Dick fosse alquanto torbido. Poi, anni dopo, in seguito a un uso smodato di anfetamine e di allucinogeni, si rivoltò contro i suoi vecchi amici. Quando nel 1971 il suo archivio fu distrutto da ignoti, reagì attribuendo lo scempio a un gran numero di gruppi settari, e tra questi i neonazisti. All'improvviso etichettò un amico dalle idee destrorse come infiltrato e "pericoloso parassita". Le responsabilità non sono mai state chiarite, ma in realtà fu proprio l'estroso autore a distruggere di suo pugno l'archivio per sviare da qualche punto dolente. Lascia perplessi anche la patetica sceneggiata del suo sostegno a Martin Luther King come Presidente degli States. Intanto la domanda rimbomba nel mio cranio, cupa: "E se Marsha fosse ispirata a una donna in carne ed ossa?" Una donna reale, di idee antisemite, che con le sue riflessioni avrebbe ispirato a Dick l'idea portante del famoso romanzo ucronico La svastica sul sole (The Man in the High Castle). Ma anche una donna fragile, il cui destino non è certo stato roseo.

Un oscuro scrutare

Dal celebre romanzo fantascientifico Un oscuro scrutare (A Scanner Darkly), pubblicato nel 1977, emerge con la massima nitidezza l'idea che l'autore aveva della fellatio. Ho subito notato il dettaglio scabroso in un dialogo allucinato tra due personaggi, Charles Frack e Barris, che sparlano del loro amico Bob Arctor e commentano le abitudini voluttuarie di una ragazza da lui concupita, Donna. A un certo punto il perfido Barris fa un gesto per mimare l'ingestione di pasticche di ecstasy, che la decerebrata ingurgita a quattro palmenti fino a friggersi le sinapsi. Charles Freck capisce tutt'altro. Crede che l'amico voglia affermare che la ragazza vada in giro a succhiare falli e a ingoiare avidamente lo sperma che le è stato scaricato in bocca. Così sbotta, indignato, chiedendosi che razza di sesso sia mai quello. Quando capisce che la ragazza i pompini non li fa a nessuno e che è semplicemente una tossica terminale e una spacciatrice, subito si rasserena. Ecco la conversazione:

"Oh, la ragazza di Bob."
"Già, la sua ganza" disse Charles Freck, annuendo.
"La sua ganza no. Non le è mai finito fra le cosce. Ci tenta però."
"È una di cui ci si può fidare?"
"In che senso? A cosce aperte o..." Barris fece un gesto: portò la mano alla bocca e prese a deglutire.
"Ma che tipo di sesso è questo?" Poi comprese, illuminandosi. "Oh, certo. Nel secondo."
"Abbastanza affidabile. Un po' sventata, a volte. Com'è lecito attendersi da una pollastrella, specialmente dalle more. Ha il cervello fra le cosce, come molte di loro. Probabilmente lì tiene anche il nascondiglio per la roba." Ridacchiò. "Il nascondiglio per tutta la roba da spacciare."
Charles Freck si sporse verso di lui. "Quindi Arctor non se l'è mai fatta, Donna? Parla di lei come se glielo avesse già..."
Barris rispose: "Così è fatto Bob Arctor. Parla di molte cose come se le avesse già fatte. Ma non è così, per niente."
"Be', com'è che non se l'è mai trombata? Non gli si rizza?"
Barris rifletté con aria esperta, continuando a giocherellare col suo pasticcio; l'aveva ormai ridotto in piccoli pezzi. "Donna ha qualche problema. Probabilmente si fa con roba pesante. La sua avversione per il contatto fisico in generale... Quelli strafatti perdono interesse per il sesso, per il fatto che i loro organi si dilatano per vasocostrizione. E Donna, l'ho potuto osservare, mostra un'incapacità eccessiva a reagire agli stimoli sessuali, a un livello assolutamente innaturale. Non solo nei confronti di Arctor ma anche..." Fece una pausa stizzita. "Degli altri maschi in generale."
"Merda, vuoi semplicemente dire che non vuole aprirle."
"Le aprirebbe," disse Barris "se fosse maneggiata nel modo giusto. Per esempio..." Levò lo sguardo al cielo con fare misterioso. "Io posso mostrarti come metterla a gambe all'aria per novantotto centesimi"
"Io non voglio metterla a gambe all'aria. Da lei voglio soltanto comprare."
  

A Dick il sesso orale faceva schifo, soprattutto se praticato dalla donna all'uomo. Lo riteneva un'aberrazione contro natura, un'invenzione diabolica alla cui diffusione sempre più capillare assisteva sgomento, un contatto ripugnante che avrebbe volentieri estirpato ricorrendo a misure draconiane. Interpretava la natura di quell'atto in modo non dissimile da Daniel Balint, l'ebreo nazista del film The Believer (Henry Bean, 2001): il pompino è uno strumento con cui la donna manipola l'uomo e ne annienta la volontà, spingendolo a fare tutto ciò che lei vuole e facendolo poi sentire in colpa, atteggiandosi a "vittima di un porco". Per il nostro californiano preferito, l'atto sessuale doveva essere la pura e semplice affermazione del maschio sulla femmina, uno strumento di dominio in cui era la volontà della donna a dover essere annullata. Il dialogo tra Charles Freck e Barris lo dimostra in modo lampante. Per consumare l'atto con una ragazza desiderata, secondo Dick era sufficiente che il cazzo si rizzasse. All'erezione conseguiva la penetrazione, come al giorno segue la notte. C'è un piccolo particolare: perché tutto ciò si compia, basta la fisiologia, visto che l'opinione della ragazza concupita è irrilevante. Che lei ci stia o meno, se il maschio è infoiato, per l'esuberante scrittore ha il diritto di consumare l'atto. Se la consumazione non avviene, è perché la donna serra le gambe in modo talmente stretto che l'uomo non riesce ad aprirle, o perché i suoi genitali, congestionati dalla droga, oppongono all'asta turgida una formidabile resistenza. Sono convinto che la massima parte dei lettori e delle lettrici riterrebbe tutto questo vomitevole. Ci rendiamo conto che per molto meno al giorno d'oggi si è accusati di "femminicidio"?

Un racconto antiabortista

Non piacerebbe affatto agli umanitari e ai liberali il racconto fantascientifico Le pre-persone (The Pre-persons), pubblicato per la prima volta nell'ottobre del 1974 sulla rivista Fantasy and Science Fiction. A dire il vero non piace nemmeno a me, che non sono né umanitario né liberale, essendo un notorio estimatore di Ezzelino III da Romano, di Hulagu Khan e dei Tokugawa. Lo scritto dickiano in questione è fondato su un surreale ma efficace presupposto. In una futuribile società statunitense in declino, per un cavillo legale i bambini possono essere messi a morte anche dopo la nascita, anche quando ormai camminano e parlano, e l'atto viene assimilato a un semplice aborto. Infatti la legge stabilisce che l'anima entri nel corpo quando un bambino ha la facoltà di eseguire semplici operazioni algebriche, quindi all'età di dodici anni circa - questa è la linea di demarcazione che separa un umano da un non umano. Prima di allora, può essere soppresso e la sua uccisione non è tecnicamente considerata omicidio. Il metodo di esecuzione è a dir poco raccapricciante: viene infilato un tubicino metallico nei polmoni della vittima e tramite una pompa pneumatica viene aspirata tutta l'aria, fino ad indurre il soffocamento tra atroci convulsioni. Ogni bambino deve essere provvisto di un "documento di desiderabilità": non appena diventa indesiderabile viene chiamato l'apposito camion degli aborti, che si occupa dell'eliminaizone dei bambini scomodi e dello smaltimento dei loro corpi. L'ipocrisia burocratica impone di sostituire in questo contesto il verbo "uccidere" con "mettere a dormire". Non per niente, Philip Dick è molto amato dai movimenti cosiddetti "Pro Life". Lo stomachevole racconto è stato preso come un vessillo dagli embriolatri anche in Italia. Abilissimi nel presentarsi come vittime, questi farisei ingannatori descrivono la Chiesa Romana come un esercito di "difensori della vita" che mette i bastoni tra le ruote al potere, alle istituzioni che vogliono eliminare esseri umani indifesi come gli embrioni. Sfugge a questi malfattori un fatto molto semplice. La Chiesa Romana, pur essendo teologicamente morta e lontana dal sentire delle masse, fa parte del potere ed è un'istituzione a tutti gli effetti. I suoi ministri non sono e non potranno mai essere annoverati tra gli oppressi - non in Occidente. Essi vogliono che siano prodotte sempre nuove vite per poterle abusare a loro piacimento: non provengono da Cristo, ma dal paese di Sodoma e Gomorra! Detto questo, Dick non era affatto cattolico. In America i "Pro Life" non sono affatto necessariamente cattolici: i lettori italiani si dimenticano che esistono numerosissime Chiese protestanti ben più attive e motivate di quella di Roma. Cosa ha spinto lo scrittore a sostenere con tanto radicalismo posizioni "Pro Life"? Elementare: la sua rivendicazione del diritto del maschio a penetrare la femmina indipendentemente dall'assenso di lei, di iniettarle lo sperma nel ventre e di far sì che tale iniezione desse origine a una nuova esistenza destinata ad essere stritolata dal mondo. Probabilmente il suo sentire era più affine a quello di uno xenomorfo che a quello di un cattolico, proprio perché aveva le sue salde radici nel genoma e nei suoi sommovimenti. C'è poi un dettaglio che gli italici "difensori della vita" non considerano: la tirannia che emerge dalla narrazione è matriarcale. Il racconto è anche e soprattutto un atto di guerra nei confronti del movimento femminista, colpevole di reificare il maschio, ossia di ridurlo a una cosa, a un oggetto puramente materiale e manipolabile, ora della fine a una nullità insignificante su cui infierire. Donne snaturate, che mettono a nudo il cervello dei loro schiavi per spegnere sigarette nella materia grigia o per bucarla con i tacchi a stiletto!  

Un grave problema col mestruo 

Nel romanzo mainstream Confessioni di un artista di merda (Confessions of a Crap Artist), scritto nel 1959 e pubblicato solo nel 1976, è descritto un episodio bizzarro quanto notevole. Il protagonista è Jack Isidore, in sostanza uno sballato con l'ossessione dell'ufologia. Suo cognato Charley Hume viene costretto dalla moglie ad andare in farmacia e a comprarle gli assorbenti intimi. L'incarico è vissuto dall'uomo come qualcosa di sommamente degradante. Così quando rincasa viene colto da un raptus e massacra di botte la moglie. A causa del parossismo di furia, Charley ha un infarto e viene ricoverato in ospedale. Alla fine la sua dignità è talmente compromessa dall'atteggiamento della moglie, che non gli resta altra alternativa che il suicidio. La sua autolisi mentale è stata scatenata dal contatto con una scatola di assorbenti, dall'umiliazione di chiedere al farmacista quel genere di prodotto, apparendo così ai suoi occhi come svirilizzato. Nell'Africa subsahariana sono diffuse idee molto simili, così un uomo non può neppure avvicinarsi a una toilette femminile: se questo tabù viene violato, ne consegue l'impotenza! Ecco la scena, di una brutalità inaudita:

"Guarda che cosa ti ho portato," le disse, tirando fuori il vassoio di ostriche affumicate.
Fay disse "Oh…" E prese il vassoio, accettandolo in modo da dimostrargli che capiva che lui lo aveva fatto per uno scopo molto serio, per il desiderio di esprimerle i propri sentimenti. Sapeva accettare i regali come nessun altro. Sapeva comprendere che cosa provava lui, o le bambine o i vicini di casa o chiunque altro. Non diceva mai più del necessario, non esagerava mai con le manifestazioni di entusiasmo, e sapeva sempre mettere in rilievo gli aspetti significativi del dono, far capire perché fosse importante per lei. Lo guardò, e la sua bocca si atteggiò ad un fugace sorriso simile ad una smorfia… poi piegò la testa da un lato e continuò a fissarlo.
"E questi," aggiunse lui, tirando fuori i Tampax.
"Grazie," disse lei, prendendo il pacco. In quel mentre lui si ritrasse e, sentendosi emettere un rantolo, la colpì in pieno petto. Fay barcollò all'indietro, allontanandosi da lui, e lasciando cadere il vassoio di ostriche affumicate; allora le corse appresso - lei stava scivolando lungo il fianco del tavolo e mentre cercava di aggrapparsi a qualcosa per non cadere fece cadere a terra la lampada - e la colpì di nuovo, e stavolta le fece volare via gli occhiali dal viso. Lei si crollò di schianto, tirandosi addosso tutto quello che c'era sopra il tavolo. 

La seconda moglie di Philip K. Dick, Anne, aveva la consuetudine di mandarlo in farmacia a comprare gli assorbenti intimi. Lui riteneva questo compito umiliante e incompatibile con il proprio orgoglio di maschio. Così, dopo aver sopportato la cosa per un po' di volte, una sera è tornato a casa e ha cominciato a picchiare selvaggiamente la moglie, assestandole pugni nel ventre, al petto e in faccia, rischiando di procurarle seri danni. Questo episodio è menzionato nella biografia dickiana Divine invasioni: La vita di Philip K. Dick (Divine Invasions. A Life of Philip K. Dick), di Lawrence Sutin, che è stato anche biografo del Perdurabo: 

"Nel capitolo 3, Charley aggredisce Fay, perché lei lo ha umiliato, mandandolo a comprare - e chiedendoglielo in pubblico - dei Tampax all'emporio del posto. Nella vita "reale" Phil andava a comprare i Tampax per Anne senza fare alcun commento. Quando lesse il romanzo, Anne domandò a Phil perché non le avesse detto che gli dava fastidio andarli a comprare. Negli anni Settanta, Phil avrebbe poi parlato ai suoi amici del giorno in cui saltà addosso ad Anne e la picchiò, dopo averle dovuto comprare i Tampax. Nel 1963, quattro anni dopo che era stato scritto Artista di merda, si verificarono sporadici atti di violenza fisica sia da parte di Phil che di Anne. Artista di merda annunciava già che ci sarebbero stati. Precognizione: sempre negli anni Settante, Phil sostenne di averne avuta, in alcuni dei suoi romanzi. Ascoltiamo Nat: Mi chiedo se prima o poi le metterò le mani addosso, si disse. In vita sua non aveva mai picchiato una donna eppure già sentiva che Fay era il tipo di donna che portava un uomo a picchiarla. Certamente lei non se ne rendeva conto, non aveva nessuna convenienza a farlo... "

Ma quale precognizione? A mio avviso egli era un marito manesco che nel corso degli anni ha assestato alle sue consorti innumerevoli raffiche di sganassoni. Picchiare una donna fuori dal matrimonio è peccato, avrà pensato di certo, ma nel matrimonio cambia tutto. La moglie Anne, santa donna, lo difese per parargli il culo e impedire che questi fatti scabrosi compromettessero in modo irreparabile la sua reputazione. 

Dialoghi con un sockpuppet

Nel romanzo mainstream In questo piccolo mondo (Puttering About in a Small Land), scritto intorno al 1957 e pubblicato postumo nel 1985, sono contenute alcune conversazioni sconcertanti. Sembra che l'autore lotti contro se stesso, dando origine a stringhe verbali convulse, ben oltre i confini della schizofrenia. Riporto qualche brano in questa sede: 

Olsen domandò con la sua voce aspra, "Da quant'è che non si fa una scopata?"
"Dipende da che cosa intendi."
"Sa benissimo cosa intendo." Olsen infilò il pollice nella birra poi lo estrasse per esaminarlo. "Non sto certo parlando del salotto buono."
"Due anni" disse Roger. Nel 1950, l'ultimo dell'anno, ero andato a letto con una ragazza incontrata durante una traballante festa etilica. Virginia se ne era andata presto, offesa per qualcosa, e l'aveva lasciato solo.
"Forse è questo che non va."
"Al diavolo."
Olsen scrollò le spalle. "È così per un sacco di gente. Senza, stanno male. Quello che passa la casa non conta."
"Non sono d'accordo. Bisognerebbe starsene a casa propria, e basta."
Il sorriso rotto ricomparve. "Dice così perché non sa dove trovare qualcuna su cui mettere le mani?"
"No" negò con forza. "Perché ne sono convinto."
"Non è stato felice di quel che ha avuto due anni fa?"
"Avrei preferito non averlo." disse lui. Dopo si era pentito e non aveva più neanche tentato di ripetere l'esperienza. "Che senso ha sposarsi? E tua moglie? Approveresti se anche lei si desse da fare?"
"È diverso"
"Certo. Due pesi, due misure."
"Perché no? Per un uomo è naturale correre la cavallina. Ed è altrettanto naturale per una donna non farlo. Se mia moglie mi tradisse, l'ammazzerei. Lei lo sa." 
"E tu la tradisci?"
"Ogni volta che posso. Ogni volta."
 

In sintesi, la donna era ritenuta da Dick un essere inferiore e privo di qualsiasi autosufficienza incapace di esistere senza la protezione del marito, suo padrone assoluto. Si noterà che le sue idee in materia non sembrano poi così diverse da quelle professate dai Wahabiti e dai miliziani dello Stato Islamico.

"Le donne non ricavano niente dal sesso. Per lo più lo odiano. Si sottomettono per compiacere noi uomini."
"Che cazzate. Alle donne piace quanto a noi."
"Solo a quelle da poco" ritorse violentemente Olsen. "Senta cosa le dico: una vera signora da amare, di cui essere fieri al punto di volerla sposare, non si divertirebbe e non dovrebbe permetterti di toccarla. Mi trovi una donna che venga a letto con lei e io le mostrerò che è una puttana."
"Anche dopo il matrimonio?" Olsen si torturò una vescica sul pollice. "Lì è diverso. Bisogna fare i figli. Ma il sesso fuori dal matrimonio è peccato. Noi non siamo
stati creati per avere rapporti matrimoniali che non servano per far nascere i bambini."
"Mi pareva avessi detto che non perdi occasione." Olsen lo guardò in cagnesco.

"Non sono affari suoi."

La conversazione oscilla tra due posizioni contrapposte e inconciliabili. Quella dell'uomo liberale moderno, per cui "non c'è niente di degradante nel sesso", è enunciata soltanto per dare maggior risalto a quella radicale, che da una parte idealizza la donna e dall'altra la annienta. Così l'autore ci fa sapere quello che fa il sesso alle donne: "Le deruba della verginità. Il bene più prezioso che possiedono." Abbiamo un paradossale miscuglio in cui una misoginia febbrile e violenta quanto l'antisemitismo di Streicher si unisce a una sorta di senso cavalleresco. Sono opinioni che aprono squarci sull'universo interiore dickiano, ma che ai nostri giorni sarebbero considerate pertinenti alla psicopatologia. "Lei farebbe una cosa del genere a una donna che ama? Scommetto che ammazzerebbe chiunque stuprasse la donna che ama; lo castrerebbe. Penso che se davvero ami una donna, devi proteggerla.", afferma Olsen con autentico zelo puritano. Lo stesso identico Olsen che poi non esita a reclamare il diritto di fare ad altre ciò che non vorrebbe facessero a sua moglie! La sostanza è questa: impedire che la donna amata conosca un altro uomo, arrivando a ucciderla assieme all'amante in caso di trasgressione, secondo il più genuino diritto degli antichi Germani, ma al contempo avere rapporti anche violenti con donne altrui ogni volta che è possibile farlo. Certo, c'era un bel calderone di sofferenza e di rabbia nel cranio dell'uomo che fu invaso dalla Luce Rosa di Valis! Concludo qui il mio trattatello, invitando alla riflessione chi ha avuto la pazienza di leggere fino alla fine. 

mercoledì 24 ottobre 2018

LA CHICHA: STORIA, CULTURA ED ETIMOLOGIA


Il nome chicha è attribuito a una tipologia di bevande lievemente alcoliche prodotte dalla fermentazione del mais o di altri ingredienti, tipiche dell'America Latina e di origini precolombiane. Talvolta come sinonimo di chicha si usa birra di mais, anche se le somiglianze con la birra a noi ben nota sono scarse. In pratica stiamo trattando di un caso singolare di uso culinario della saliva. La più antica ricetta per la produzione della tradizionale bevanda degli Indios dell'America meridionale e centrale prevedeva una lunga masticazione del mais: il pastone ottenuto veniva sputato in un vaso che veniva sotterrato, per far sì che le forze vive della fermentazione alcolica agissero decomponendo gli amidi in zuccheri semplici, dando origine a molecole di etanolo e producendo un liquido torbido e denso. Questo veniva cotto, filtrato e lasciato riposare al buio per un certo periodo prima di essere pronto per il consumo. Non oso immaginare i retrogusti, ma è chiaro che nel contesto il pur blando effetto inebriante era molto più importante delle proprietà organolettiche. Dato il basso tenore alcolico (dall'1 al 3% in volume), l'unico modo per ottenere una bella sbronza consisteva nel bere quantità immani di questo intruglio. Si vede chiaramente che numerose ricette che si trovano nel Web sono in gran parte recenti e fantasiose, prevedendo l'utilizzo di ingredienti - come ad esempio lo zucchero di canna - che in tempi precolombiani non si potevano trovare su suolo americano. Approfondendo le nostre conoscenze sull'argomento, apprendiamo che nel corso dei secoli coloniali la masticazione è stata in gran parte sostituita da un processo più compatibile con i gusti degli Spagnoli: la germinazione, che trasforma il cereale in malto, seguita dalla bollitura. Esistono anche varianti non fermentate, come la chicha morada. Tuttavia si trova anche la prova inconfutabile che la ricetta antica non è del tutto caduta in disusso. Anzi, nelle regioni andine questa produzione casereccia è ancora abbastanza fiorente, pur essendo vietata dalla legge per motivi igienici. Esistono anche denominazioni specifiche per indicarla: chicha de muco, dove muco indica la farina di mais masticata (dal Quechua muku), oppure taqui (parola nativa ma non Quechua). Il procedimento tradizionale è descritto in una pagina del sito Soundsandcolours.com, in cui si vede una ragazza nell'atto di masticare la farina di mais per poi sputarla: si spiega che il prodotto di questa discutibile operazione acquista un sapore simile a quello dello yogurt, anche se trovo difficile credere che la questione sia così anodina. 


Altre immagini esplicite si trovano in una sezione del sito ecuadoregno Planv.com, il cui titolo è Museo de la corrupción. Ne riporto una abbastanza significativa: 


I Diaghiti, fierissimo popolo del Nordovest dell'Argentina, offrivano al dio uranico Kakanchig grandi quantità di liquori che i cronisti spagnoli definivano nauseabondi (asquerosos) per via del loro procedimento di lavorazione, che comportava masticazione della materia prima da parte di donne, che secondo la tradizione dovevano essere anziane. Con ogni probabilità era temuto il potere magico e maligno del mestruo, per questo il poco piacevole incarico non era dato a donne in età fertile. 


En Santiago del Estero (1586) en el tiempo de la recolección de los frutos se reunían para adorar a Cacanchic- “á quien /.../veneraban, y ofrecían en sacrificio sus asquerosos licores y gran cantidad de aves muertas: llevabanle sus enfermos, para que los curasse y dedicaban a su servicio algunas doncellas de catorce, ó quince años, de quienes se aprovechaban para abominables torpezas los Hechiceros sus Ministros, por cuya boca sus oráculos, con palabras tan amphibologicas, que pudiessen rara vez convencerlos de engañosos. Apareciaseles á estos, en forma visible /.../”
(Hist.Comp., t.primero, lib.primero, cap.IV, p.16).

Lo storico Pedro Lozano riporta che Viltipoco, valoroso capo degli Omaguaca, popolo imparentato con le genti di Atacama e con i Diaghiti, donò a un prete un gran vaso di chicha, e l'ecclesiastico non ne voleva bere, perché riteneva tale bevanda impura (sucia). Questo non per astrusi pregiudizi religiosi, ma per un dato di fatto incontrovertibile, ossia perché era stata fermentata per mezzo della saliva. Come il prete vide che il collerico Viltipoco si offendeva, fu costretto a fare buon viso a cattivo gioco e a trangugiare il poco attraente beverone. 


Viltipoco y los suyos llegaron a dominar gran parte del Tucumán, aislándolo del resto del virreynato del Perú. El padre Gaspar Monroy hizo esfuerzos para incorporarlo a la fe cristiana. Pedro Lozano, en su "Descripción Corográfica" narra un episodio entre el Padre Monroy y Viltipoco: "El cacique le ofrece un vaso de chicha al sacerdote y éste intenta rechazarlo por la (suciedad) que implicaba su fabricación, pero luego al ver que el indígena se ofendería, tomó el brebaje. Fue tal la alegría que sintió Viltipoco que a partir de aquí trocóse en otro hombre y se mostró más benigno".

Le bevande "sporche" sono ben note anche in Amazzonia, dove vengono preparate dalla masticazione della manioca o della frutta. In un caso se ne è visto il consumo in un film di grande popolarità. Sean Connery nel film Mato Grosso (Medicine Man) di John McTiernan (1992) - un autentico capolavoro - è uno studioso talmente alcolizzato da non potersi rassegnare alla sobrietà nemmeno per pochi giorni, finendo così con l'ubriacarsi alla festa della bevanda di palma, fermentata dalla frutta grazie alla ptialina contenuta nello sputo delle donne. Una cosa talmente disgustosa che renderebbe astemio più di un bevitore. Per ulteriori informazioni, si rimanda al sito di Giorgio Samorini, che è oltremodo interessante: 


Note etimologiche

Oscurissima è l'etimologia della parola chicha. Si tratta di una parola della lingua dei Taino, di ceppo Arawak, la prima popolazione con cui Cristoforo Colombo è entrato in contatto. Insoddisfatti di una spiegazione tanto semplice, gli accademici continuano a brancolare nel buio, delirando senza sosta. Per la Real Academia Española (RAE) deriverebbe invece da un supposto vocabolo della lingua Kuna (Guna) di Panama, chichab "granturco" (non è in ogni caso Maya, come ho letto in un'occasione). La glossa è comunque poco attendibile, dalle risorse reperite risulta oba glossato "maíz" e sisa glossato "licor". Secondo Luis Cabrera chicha proverrebbe dal Nahuatl chichia (chichiya) "essere acido, aspro o amaro" e da atl "acqua". Questo Cabrera è definito studioso di cultura azteca e dovrebbe essere un esperto, anche se le informazioni non si trovano. Eppure dalle mie conoscenze della lingua Nahuatl, che ho appreso in gioventù, non risulta affatto che sia possibile un composto *chichiatl o *chichiyatl "acqua acida" a partire da un verbo e da un sostantivo. Stando a un gran numero di siti nel Web, anche un certo Don Luis G. Iza avrebbe approvato questa proposta etimologica. Non va però nascosto che di tale autore non si riesce a trovare notizia: i siti che riportano l'informazione copiano le stesse parole da un'unica fonte non recuperabile e sospetta di essere un fake. Anche di Luis Cabrera ce ne sono parecchi, si sospetta trattarsi di un pacchetto memetico. Altrettanto inattendibile è la derivazione da un supposto verbo *chichiani "sputare" riportato da Gonçalves da Lima (1990). Una parola chichiani in realtà esiste, ma indica una sorta reggiseno ("apollador de teta"). Nel senso di "sputare" è una fabbricazione a partire dal corretto verbo Nahuatl chicha, chihcha "sputare", che ha un'occlusiva glottidale, quasi un piccolo colpo di tosse, prima della seconda -ch-. Il sostantivo derivato da questo verbo è chichitl, chihchitl "sputo". Non solo fonetica inadatta, ma anche semantica inadatta: gli Indiani ritenevano sacra la bevanda, non l'avrebbero chiamata da un dettaglio della sua produzione. Questa è la caratteristica di quasi tutte le paretimologie: i loro fabbricatori ignorano la struttura delle lingue a cui si appellano per spiegare qualcosa. Tra l'altro la chicha non era (e non è tuttora) la bevanda tipica delle genti di lingua Nahuatl, che usavano un fermentato di succo d'agave chiamato octli /ukλi/: la locuzione octli poliuhqui /'ukλi pu'liʍki/ (dal verbo polihui "essere rovinato") indicava una bevanda troppo fermentata, donde ne derivò il ben noto pulque /'pulke/ (con accento retratto), tuttora molto diffuso in Messico. Esistevano ed esistono ancor oggi in Messico anche bevande a base di mais, ma a quanto pare erano già nell'antichità fermentate tramite i lieviti selvatici e non tramite la saliva. In Nahuatl si chiamava teooctli /teu:'ukλi/ "pulque divino" una forte bevanda prodotta dal mais e data alle vittime destinate ad essere immolate a Huitzilopochtli, allo scopo di intorpidirle. G. Edward Nicholson (ONU) ha scritto un articolo, Chicha Maize Types, and Chicha Manufacture in Peru, le cui prime due pagine sono consultabili al seguente sito: 


Nell'opera in questione sono contenute diverse inconsistenze. Questo è un estratto:

«The origin of the word chicha is not clear, but it appears to be of Caribbean (Arawak) origin, as a derivation of chichal or chichiatl. In the latter case, the two voices, chichilia and atl mean "to ferment" and "water" respectively; while in the former case chi means "with" and chal means "saliva." and, together, "to spit" or "spit".»

Innanzitutto Nicholson confonde la lingua Nahuatl con le lingue Caribe e con quelle Arawak, cosa già di per sé assurda quanto deprecabile. Il verbo citato, chichilia, è in realtà transitivo: tlachichilia "inacidire qualcosa, renderla aspra o amara". Così si può dire: nicchichilia in atl "rendo aspra l'acqua". Quello che non si può fare con questo verbo è formare composti da cui la parola chicha sia derivata. Per quanto riguarda la forma chichal che lo studioso riporta, è un'alterazione del verbo Nahuatl chihcha (vedi sopra), ma la sua analisi è farneticante e incompatibile con la lingua degli Aztechi. Ancora più stravaganti sono le altre proposte etimologiche reperibili, fatte a partire dalla lingua Maya (quale delle tante derivate dal Maya classico?): autori sudamericani citano forme non verificate (es. chiboca "masticare", chichaá "riempire d'acqua", zicha "acqua fresca"), non attribuite con precisione e prive di una semantica attendibile. In pratica si tratta di fantalinguistica amerindiana. Emerge un fatto di per sé stupefacente: una lingua importante come il Nahuatl non è conosciuta nemmeno da persone che dovrebbero esserne specialiste. Anziché studiosi seri, troviamo labili menzioni di personaggi fantomatici come Luis Cabrera e Don Luis G. Iza. Manca il costume di cercare informazioni corrette, anche in questi tempi in cui il Web dovrebbe rendere le cose più facili rispetto al passato pre-Internet.

Il nome Quechua della chicha

La forma più antica documentata del nome Quechua della chicha è aswa. Era così che gli Incas pronunciavano la parola: /'aswa/, ovviamente con la sibilante /s/ sorda come in sale. Nelle varietà locali di Quechua si sono tuttavia prodotte alcune importanti evoluzioni: la sibilante /s/ a contatto con l'approssimante /w/ ha prodotto un suono aspirato /qh/, /x/ o /h/. Così vediamo che nella stessa lingua della città di Cuzco, que è ritenuta la più nobile e tradizionale varietà di Quechua, la chicha è attualmente chiamata aha o aqha. Questa è stata l'evoluzione fonetica: 

aswa > aqha > aha

Alcuni autori di epoca coloniale usano ortografie singolari come aka e acca per trascrivere /aqha/, /aha/, ma occorre fare estrema attenzione, perché in Quechua esiste la parola aka /'aka/, che significa "merda, escremento umano" e che non deve dare origine a confusioni. La forma antiquata aswa non è del tutto estinta, probabilmente è stata reintrodotta come dottismo ed è la sola usata nel Quechua di Ancash (Perù settentrionale) e in quello di Imbabura (Ecuador). Nel Quechua di Huánuco è accaduta una cosa assai singolare: la radice nativa per indicare la chicha è scomparsa, rimpiazzata da chiicha, prestito dallo spagnolo, mentre la parola aswa significa "pus". Non sappiamo se si tratti di uno slittamento semantico o se sia un lemma di sostrato, omofono per puro caso. Propendo per la seconda ipotesi. Faccio poi notare che nel Quechua di Santiago del Estero (Argentina), noto come Quichua, ogni traccia della radice aswa / aqha è scomparsa.

In epoca incaica si chiamava yamur, o meglio yamur aswa, una chicha speciale che l'Inca offriva al Sole nel corso di una speciale cerimonia. A quanto mi risulta, questo vocabolo si è completamente estinto in tutte le varietà di Quechua attualmente parlate e non sono riuscito a risalire al suo significato originario.     

Il composto aqhawasi "chicheria" (< aqha + wasi "casa") indica un locale dove si produce e si serve la chicha. Abbiamo poi aqhallanthu "indicatore di una chicheria" (< aqha + llanthu "ombra"): si tratta di un'insegna, di una bandierina o altro contrassegno posto in cima a un'asta che sporge dalla parete di una chicheria per permettere ai nativi di capire dove poter ingurgitare ettolitri di bevanda fermentata. Lo slittamento semantico deve essere stato "ombra" => "che fa ombra" => "tendina" => "insegna", cfr. llanthuna "parasole". Gli interessanti composti aqhawiksa e aqharapi significano entrambi "ubriaco", "ubriacone". All'epoca dell'Impero esisteva un ufficiale incaico chiamato aqhapaq kuraka, letteralmente "signore della chicha". Il nome strumentale aswana significa "pentola di chicha" nel Quechua di Imbabura. Nel Quechua di Huanca aswap ñawin è la prima chicha estratta dall'anfora in cui è fermentata. Infine abbiamo il verbo aqhay "produrre la chicha", con la variante asway. Tramite un comune suffisso si forma poi nella lingua di Huanca il verbo aswakuy "produrre la chicha". Non mi risultano formazioni simili dalla variante aqha diffusa in altre varianti della lingua.

La lingua Aymará non mostra alcuna concordanza col Quechua sul nome della chicha: la bevanda è chiamata k'usa (scritto anche kusa). Questo vocabolo, si noterà, è riportato erroneamente da G. Edward Nicholson come *kufa per un fraintendimento ortografico: una -s- allungata è stata da lui letta come -f-, errore non da poco. Si noti che in Aymará non esiste il suono /f/. Nella lingua dei Mochica, purtroppo ormai spenta, la bevanda era chiamata kuiċho (trascrizione di Ernst Wilhelm Middendorf, 1892). Così abbiamo attestate le seguenti frasi: tiñ mān kuiċho "io bevo la chicha"; ako eiš funo, mananchi llollek villōs kuiċho "dopo il pasto bevono un vaso di chicha". Forse l'idea che la forma Aymará e quella Mochica discendano da una protoforma comune non è poi così peregrina, o forse si tratta di un antichissimo prestito culturale.

Una citazione nell'opera di Houellebecq

La chicha è citata da Michel Houellebecq nel romanzo Sottomissione, con riferimento a un tè alla menta servito nel bar di una moschea di Parigi. Questa bevanda aromatizzata è ritenuta abominevole dall'autore, che considera la parola chicha, pronunciata a denti alti, come se fosse un'onomatopea per indicare lo sputo. Una schifiltosità alquanto strana da parte di un autore che nello stesso volume descrive un atto di sodomia su una prostituta magrebina, senza protezione alcuna, seguito dalla fellatio del membro sporco di residui fecali.

sabato 20 ottobre 2018

UN RACCONTO GROTTESCO DI EDGAR ALLAN POE E LA GRANDE BEFFA DELLA LUNA


Un racconto grottesco e protofantascientifico di Edgar Allan Poe, poco noto ai lettori italiani, è senza dubbio L'incomparabile avventura di un certo Hans Pfaall (The Unparalleled Adventure of One Hans Pfaall), pubblicato per la prima volta nel 1835. La città di Rotterdam venne sorvolata da un grande pallone aerostatico, che destò lo stupore generale. Nella Piazza della Borsa si radunò una densa folla per osservare il prodigio. A un certo punto, emerse dall'aeronave un bizzarro omino che lanciò una missiva alla gente sotto di lui. Il manoscritto narrava le gesta di Hans Pfaall, un riparatore di soffietti, oberato dai debiti e scomparso cinque anni prima senza lasciare tracce. La cittadinanza apprese così che l'uomo, ormai dato per morto, aveva preso a prestito somme consistenti, da lui utilizzate per fabbricarsi l'aeronave. Quindi, con un'astuzia degna di Olaf Tryggvason, radunò tutti i suoi creditori e li fece saltare in aria per mezzo di polvere da sparo e di una miccia, uccidendoli sul colpo. L'unica via che gli rimaneva per evitare la punizione del Leviatano legale era la fuga. Abbandonò la terraferma a bordo della navicella attaccata al suo pallone, ascendendo fino a quote inimmaginabili, raggiungendo la Luna in diciannove giorni di viaggio. La sua permanenza sul satellite durò cinque anni. In quell'ambiente inesplorato scoprì i Seleniti, che erano una specie razionale come gli esseri umani. Alla fine del manoscritto, le genti di Rotterdam lessero che l'omino stranissimo da loro avvistato sulla navicella era proprio un abitante della luna. Le condizioni che Hans Pfaall dettava per il proprio ritorno erano semplici: prima di atterrare avrebbe dovuto ottenere la grazia per l'uccisione dei creditori. Tuttavia nel frattempo l'omino lunare era scomparso nella navicella e nessuno era capace di comunicare con lui. Il pallone aerostatico risalì nell'atmosfera, tornando verso il satellite. L'accaduto destò molto clamore, ma cominciava già a circolare tra i presenti l'idea che tutto l'accaduto fosse soltanto il frutto di una colossale burla.


La Grande Beffa della Luna

Sentii parlare della Grande Beffa della Luna (Great Moon Hoax) per la prima volta molti anni fa, quando lessi il saggio di Isaac Asimov Civiltà extraterrestri (Extraterrestrial Civilizations, 1979). Rimasi stupito dalla narrazione dell'accaduto. Il figlio del patriarca ashkenazita Judah sosteneva una tesi che mi parve assai singolare e in contrasto con la mia pur limitata esperienza: il genere umano avrebbe avuto uno straordinario desiderio di credere all'esistenza di intelligenze aliene. Mi domandai come questo fosse possibile, dato che le persone che mi circondavano non credevano all'esistenza degli extraterrestri e tendevano a ritenere pazzo chi prestava fede a ogni fantasia sull'argomento. Non avevo ben compreso le affermazioni asimoviane. Le intelligenze in cui l'umanità ha sempre prestato fede non devono per necessità essere antropoidi generati su altri pianeti: può benissimo trattarsi di angeli e di demoni. Ogni comunità umana giudica pazzia le credenze delle altre comunità, ma afferma come sacrosante le proprie. Proseguendo nella lettura, la descrizione della Grande Beffa della Luna mi ha lasciato il segno. Riporto in breve i fatti. Il 25 agosto dell'Anno del Signore 1935, accadde qualcosa che avrebbe dovuto segnare un punto di rottura col passato. Il quotidiano di New York The Sun riportò una notizia sensazionale: nel suo osservatorio al Capo di Buona Speranza, il celebre astronomo inglese John Herschel aveva puntato il suo telescopio sulla luna, riuscendo a osservarne la superficie con una precisione fino ad allora inconcepibile. In una serie di sei articoli firmati dall'assistente fantomatico di Herschel, Andrew Grant, veniva descritto con sconcertanti dettagli un mondo lussureggiante e abitato da una specie intelligente affine all'Uomo. Valli fertili, sconfinate foreste di abeti in cui correvano enormi bisonti e unicorni azzurri, mari interni di acqua blu, grandi fiumi pieni di pesci, di creature anfibie e di uccelli acquatici. Asimov rimase molto colpito dalla descrizione dei bisonti lunari, da lui definita "un pezzo di bravura" per via dell'ingegnosa trovata di un'aletta carnosa e mobile sulla fronte dei grossi mammiferi, che permetteva loro di ripararsi gli occhi dagli sbalzi di luce. I Seleniti avevano l'aspetto di esseri umani dal pelo rossiccio, dotati di ali simili a quelle dei pipistrelli. Si riunivano e gesticolavano, dimostrando di possedere un linguaggio articolato. Costruivano piramidi di quarzo lilla e si radunavano in un grande tempio d'oro, dove adoravano chissà quali divinità. La specie appena scoperta fu addirittura battezzata con un nome scientifico: Vespertilio homo. Esisteva anche un'altra specie senziente, una tribù primitiva di castori bipedi che vivevano in capanne e conoscevano l'uso del fuoco. La narrazione si concluse con un brillante escamotage: il telescopio di Herschel era andato a fuoco per via di un malfunzionamento che lo aveva trasformato in uno specchio ustorio. Gli articoli di Grant conobbero un successo strepitoso, tanto che furono tradotti in molte lingue. Nel 1836 a Napoli fu pubblicato un opuscolo intitolato Delle scoperte fatte nella luna del dottor Giovanni Herschel, che conteneva estratti di questo materiale. Il mondo fremeva e persino nel mondo scientifico molti davano credito alle fantasie seleniche. Già gli ecclesiastici bramavano di raggiungere la luna per evangelizzare gli uomini-pipistrello! Se il loro tempio d'oro fosse stato dedicato a un Dio invisibile e astratto, lo avrebbero identificato col Dio cristiano, limitandosi a imporre la croce e i sacramenti. Se invece vi fossero stati adorati degli idoli, li avrebbero abbattuti, combattendo per debellare il paganesimo. Gli speculatori bramavano di raggiungere la luna per sfruttarne le immense ricchezze. Questi sogni di gloria furono ben presto interrotti quando accadde l'inevitabile: Sir John Herschel, di ritorno da un viaggio in Sudafrica, venne a sapere delle mirabolanti favole che gli venivano attribuite dai quotidiani! All'inizio trovò la cosa divertente e commentò che le sue vere osservazioni non potevano certo essere così eccitanti come gli articoli dell'inesistente Andrew Grant. Non tardò tuttavia ad accorgersi che la gente credeva davvero alla burla, cosa che lo mise in grande imbarazzo. Rimando al sito Hoaxes.org per approfondimenti: 



Poe e l'Imbroglio Lunare 

L'autore del Great Moon Hoax risultò essere proprio un reporter del quotidiano The Sun, Richard Adams Locke (1800-1871), diretto discendente del filosofo John Locke (1632-1704), che era stato il padre del liberalismo classico e dell'empirismo moderno. Il giornale newyorkese, anche noto come New York Sun, era stato fondato da Moses Yale Beach nel 1833 e fu uno dei primi a cercare di incrementare le vendite facendo pagare un penny per copia. Era un azzardo: se non si riusciva ad attirare l'attenzione dei lettori, si rischiava di finire in una spirale il cui unico esito era il fallimento. Altri avevano tentato l'ardito esperimento, fallendo miseramente. Occorreva per forza di cose mettere le mani su una trovata sensazionale, in grado di far crescere in modo esponenziale le vendite. Ecco quindi che entra in scena Edgar Allan Poe, che col suo racconto sul viaggio lunare di Hans Pfaall fornì a Locke l'ispirazione cercata! Lo scrittore di Boston, non appena venne a sapere delle descrizioni della flora e dalla fauna selenica firmate da Andrew Grant, comprese subito l'origine della truffa e reagì accusando Locke si essere un plagiario. Il primo articolo truffaldino comparve in agosto, ma soltanto tre settimane prima il racconto di Poe avente per protagonista Hans Pfaall era stato pubblicato su un nuovo giornale, The Southern Literary Messenger, dove si assicurava ai lettori che quello era il resoconto di una storia realmente accaduta. Poe non poteva sopportate tutto questo. Quello che gli faceva digrignare i denti dallo sdegno era che un fatto molto semplice: in pratica la sua opera era passata inosservata, ma l'idea gli era stata rubata da Locke, che con grande abilità l'aveva portata al successo. A quanto pare gli sfuggiva un particolare non irrilevante: The Southern Literary Messenger era una pubblicazione con pochi lettori, oggi diremmo "di nicchia", mentre The Sun di lettori ne aveva moltissimi, anche complice il suo basso prezzo e l'efficiente rete di strilloni. Così le peripezie di Hans Pfaall non destarono alcuna attenzione, mentre le meraviglie lunari dello pseudo-Herschel raggiunsero in una sola settimana 100.000 persone nella sola New York, che all'epoca aveva 300.000 abitanti.  Nel suo scritto polemico del 1846 I literati di New York City (The Literati of New York City), Poe dà prova di grande acume e lucidità, purtroppo ex post facto. Le considerazioni sull'opera di Locke sono riportate in questa pagina del sito Eapoe.org:   


Questo è un estratto significativo, da me tradotto:

«Capiti correttamente i singolari svarioni cui ho fatto riferimento, avremo il miglior motivo di meravigliarsi del prodigioso successo della beffa. Non una persona su dieci la screditò, e (punto più strano di tutti!) i dubbiosi erano soprattutto quelli che dubitavano senza essere in grado di dire perché - gli ignoranti, quelli non informati in astronomia, persone che non avrebbero creduto perché la cosa era così nuova, così completamente "fuori dal solito modo". Un austero professore di matematica in un college virginiano mi ha detto seriamente che non aveva dubbi sulla verità dell'intera faccenda! Il grande effetto operato sull'opinione pubblica è riconducibile, in primo luogo, alla novità dell'idea; in secondo luogo, al carattere eccitante e razionale delle presunte scoperte; in terzo luogo, al perfetto tatto con cui l'inganno è stato condotto; in quarto luogo, alla raffinata eleganza della narrazione. La mistificazione è stata diffusa in misura immensa, è stata tradotta in varie lingue - è stata persino oggetto di discussioni (quizziche) nelle società astronomiche; ha attirato su di sé la grave denuncia di Dick, ed è stata, nel complesso, decisamente il più grande successo nella sensazione - di una semplice sensazione popolare - mai fatto da una finzione simile né in America né in Europa.» 


Intenti denigratori 

A quanto pare, la motivazione che spinse Locke a sfruttare l'idea di Poe non fu soltanto economica: era anche animato dal desiderio di mettere in satira le dottrine del Reverendo Thomas Dick (1774-1857), conosciuto come "il filosofo cristiano", convinto sostenitore della pluralità dei mondi abitati e della loro estrema abbondanza nel Cosmo. Costui in un suo stravagante contributo si era addirittura spinto a stimare il numero di abitanti del sistema solare, che a sua detta avrebbero superato i 21 trilioni. Poe lo cita ne I literati di New York City, accennando al fatto che la sua reazione alla Grande Beffa della Luna è stata a dir poco scomposta. Forse l'ecclesiastico era ben consapevole del fatto che le proprie elucubrazioni erano indifendibili e buffe, così non ha retto alla loro diffusione. Altro studioso preso di mira da Locke era il medico e astronomo bavarese Franz von Paula Gruithuisen (1774-1852), che aveva creduto di osservare tracce di civiltà sulla superficie lunare, attribuendo le variazioni di colorazione delle rocce alla presenza di vegetazione. Certo, a quei tempi il mondo accademico era ben vario e strano! C'è quasi da provarne nostalgia.   

Confusione on line

Girando per il Web, si ha l'impressione che il passato non sia mai un quadro perfettamente nitido, che molte informazioni siano perdute e che non ci sia totale accordo sulle fonti. C'è chi sostiene che Richard Adams Locke nel 1935 fosse il nuovo direttore del The Sun. Ecco un link a un articolo del blog indipendente L'Angolo di Jane, che contiene l'informazione errata:


A quanto ho infine potuto reperire, Locke era invece un reporter, come dimostrato dal sito Hoaxes.org; ho trovato la stessa informazione sulla pagina in italiano dedicata al Great Moon Hoax. Ho faticato non poco prima per trovare una biografia dettagliata del discendente di John Locke. Mentre scrivo questo articolo, noto che esiste una rudimentale pagina a lui dedicata sulla Wikipedia in italiano ma non su quella in inglese, cosa senz'altro curiosa e non facile a spiegarsi.   


Una singolare ucronia

A quanto pare Poe confondeva in qualche misura l'olandese con il tedesco, complice l'antico significato della parola dutch che indicava entrambe le lingue. Così riteneva che la seconda rotazione consonantica arrivasse fino in Olanda. Va detto che all'inizio egli pubblicò il racconto come Hans Phaall, A Tale: lo ribattezzò soltanto nel 1842 col titolo definitivo. Comparve quindi sette anni dopo la prima edizione il bizzarro cognome Pfaall con la sua consonante affricata iniziale, una cosa decisamente insolita per i Paesi Bassi. Questo è una caratteristica che risulta chiaramente incompatibile con la fonotassi dell'olandese, una varietà di francone le cui occlusive sorde sono rimaste indenni. Potremmo supporre che lo scrittore abbia disegnato una specie di linea temporale ucronica - o più probabilmente onirostorica - in cui la seconda rotazione è avvenuta persino a Rotterdam. Data però la stranezza delle leggi della fisica esposte nel racconto, direi che è più verosimile pensare che Poe abbia descritto scientemente una burla a tutti gli effetti. Inutile proseguire a cavillare. 

Considerazioni finali

Se devo essere franco, ho trovato molto pesante la lettura de L'incomparabile avventura di un certo Hans Pfaall. Tra le opere di Poe che ho letto, questa è tra quelle che mi sono piaciute meno. Senz'altro mi ha dato più piacere analizzarla e scrivere questo contributo.  

mercoledì 17 ottobre 2018

I RACCONTI SATIRICI DI EDGAR ALLAN POE

Se si facesse un'intervista fermando gente per strada e si chiedesse a ciascuno di nominare le opere di Edgar Allan Poe (1809-1849) di cui ricorda almeno il titolo, è assai pobabile che quasi tutti menzionerebbero alcuni famosissimi racconti dell'incubo e del terrore, come ad esempio Una discesa nel Maelström, La maschera della morte rossa, Il pozzo e il pendolo, La sepoltura prematura e Il gatto nero. La cosa non deve stupire: questi scritti hanno accompagnato molti di noi dall'adolescenza e hanno formato il nostro immaginario, trasmettendoci una straordinaria sensibilità all'orrore, insinuando nel più profondo del nostro essere un'inquietudine capace di togliere il sonno. Altri racconti invece sono meno noti, al punto che ben poche persone ne sanno anche soltanto menzionare il titolo. Se mi recassi in un'università e chiedessi agli studenti se conoscono racconti come Una storia delle Ragged Mountains, Mellonta Tauta oppure Rivelazione mesmerica, secondo voi che accadrebbe? A parer mio pochissimi saprebbero di cosa si sta parlando. Magari sanno tutto sui pompini e sulle spagnole, ma se dicessi che i capolavori menzionati sono stati composti da un esule klingoniano, potrebbero anche credermi! Purtroppo miete le sue vittime il pregiudizio comune che classifica Poe come autore esclusivo di horror, senza sapere che compose anche un certo numero di opere di vari generi: alcune potrebbero essere definite proto-fantascientifiche, altre sono invece grottesche e satiriche. Tutte sono pervase da una vena di umorismo geniale. Passiamo qui in rassegna alcune trovate alquanto divertenti contenute nei racconti satirici, che hanno un notevole valore anche se spesso non sono più pienamente godibili per i moderni, essendo il mondo molto cambiato dall'epoca in cui l'autore li ha composti.

Il genio della truffa

Il racconto La truffa considerata come scienza esatta (Diggling) ci mostra un Poe davvero inedito e originale, che descrive alcuni trucchi per ingannare il prossimo e ottenerne gratis piccoli vantaggi. All'epoca era possibile praticare piccoli baratti in molti luoghi pubblici, anche nei bar. Un uomo poteva ad esempio cedere una stecca di tabacco e averne in cambio un bicchiere di liquore. Siccome non esistevano scontrini e imperversava una gran confusione ai banconi dei saloon, era abbastanza facile farsi dare una stecca da un inserviente e rifilarla al mescitore di liquori all'altro capo del banco per averne un cicchetto. Oggi non funzionerebbe più: si acquista alla cassa pagando in moneta sonante e ricevendo lo scontrino, che poi si mostra al banco. Nessuno accetta baratti e sono in vigore regole molto severe sulla merce che può essere venduta: non è che un avventore può portare una bottiglia di whisky al barman e pensare che questi ne serva il contenuto. Anche se le cose sono cambiate, esistono ancora eredi della tradizione truffaldina descritta dall'ingegnoso scrittore di Boston. Ho visto coi miei occhi un muratore bergamasco entrare in mensa con una bottiglietta vuota di plastica verde, di quelle da mezzo litro tipiche dell'acqua minerale. Tra un porcus e l'altro la riempiva alla spina di vino bianco, quindi si riempiva anche un boccale da mezzo litro. Giunto alla cassa, pagava il boccale di vino. Il mezzo litro di vino bianco nella bottiglietta lo pagava come acqua!

Una fucina satirica 

Poe ironizza in modo feroce sul mondo del giornalismo e dell'editoria, in cui giocava un importante ruolo l'arte di scopiazzare da articoli già pubblicati in altre testate. Il racconto Vita letteraria di Thingum Bob (The Literary Life of Thingum Bob, Esq.) narra di una guerra senza esclusione di colpi tra diverse testate giornalistiche. Il testo, fittissimo, pullula di quotidiani dai nomi stravaganti e di suggestivi pseudonimi di personaggi implausibili. Eccone alcuni: 

Crab "Granchio"
Slyass
"Asino Scaltro"

Toad
"Rospo" 

Mole "Talpa"
Mumblethumb "Biascicapollice"
Fatquack "Grassocialtrone"
Daddy-Long-Legs "Papà Gambalunga"
Mademoiselle Cribalittle "Signorina Copiaunpoco"
Mrs. Fibalittle "Signora Menteunpoco"
Mrs. Squibalittle "Signora Beffaunpoco"
Snapping Turtle "Tartaruga che morde" 


Il racconto X-atura di un paragrafo aka Come icsare un paragrabo (sic) (X-ing a Paragrab) è ambientato nell'immaginaria città di Alessandromagnopoli (Alexander-The-Great-o-nopolis)
Indispettito dalle accuse di usare troppo la parola oh, il direttore del Tè bollente compone un testo in cui tutte le parole hanno soltanto la vocale o. Il garzone della tipografia sostituisce tutte le lettere o, che sono state trafugate dalla cassetta dei caratteri, con altrettante x, quindi il bizzarro testo viene pubblicato. La popolazione inferocita crede di avere a che fare con demoniache formule di magia nera, così insorge e cerca il direttore per linciarlo - constatandone la fuga.

Le prodezze linguistiche della Succhiatrice Snob

Riporto il link a un'interessante pagina in cui si parla diffusamente delle rime comiche utilizzate da Edgar Allan Poe:


I racconti Come scrivere un articolo alla Blackwood (How to Write a Blackwood Article) e Una situazione imbarazzante (A Predicament) sono una vera miniera da cui emergono pure gemme di genio. L'ineffabile Suky Snobbs, la Succhiatrice Snob, non è capace di ricordarsi le citazioni apprese dal Signor Blackwood e le deforma in un modo esilarante. Già abbiamo trattato il caso della frase di Demostene 'Ανὴρ ὁ φεὺγων καὶ πὰλιν μαχήσεται, per via delle implicazioni della sua imitazione sulla pronuncia della lingua greca in auge in America. La giornalista rigurgita quanto ha mal digerito, creano il personaggio enigmatico di Andrew O'Phlegethon, che in italiano suonerebbe Andrea de' Flegetontis:  

«Io gli lanciai dietro le veementi parole di Demostene: Andrew O'Phlegethon, you really make haste to fly,
e mi rivolsi dalla parte della mia prediletta, la mia irsuta e monocola Diana.»


Qualcuno dirà che la lingua greca antica è alquanto difficile e che non si può pretendere una sua pronta assimilazione. Il punto è che la fervida mente della Snobbs distorce qualsiasi lingua.  

Ecco una canción riportata Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616) nel Don Chisciotte (II, XXXVIII): 

Ven muerte tan escondida,
  Que no te sienta venir; 
  Porque el plazer del morir
No me torne à dar la vida.

Ecco come riduce questi sublimi versi la nostra cara Snobby Sucker:

Vanny Buren tan escondida
Query no te senty venny
Pork and pleasure delly morry
Nommy torny, darry widdy! 

A quanto pare i critici non hanno dato la dovuta importanza a quel pork and pleasure "carne di porco e piacere". Secondo alcuni, i demenziali versi della Snobbs scimmiotterebbero quelli della poesia To Sir John Lade, On His Coming of Age, di Samuel Johnson (1709-1784): Pride and pleasure, pomp and plenty "orgoglio e piacere, sfarzo e abbondanza". Nel sito Eapoe.org si cita il componimento con il titolo erroneo A Lady Coming of Age. A questo punto si potrebbe trovare un riferimento criptico alla giornalista fellatrice, interpretando in modo furbesco il vocabolo pomp "sfarzo, magnificenza" come derivato dall'italiano pompa, pompino "fellatio". La sezione etimologica di Google riporta che pompino è attestato per la prima volta nel 1917, ma è ben possibile che la voce fosse molto più antica nel gergo postribolare. Callari glossa pumpinara come "prostituta che pratica il coito orale" nel suo lavoro Prostituzione e prostitute in Sicilia (1903). Non ho la prova diretta che il vocabolo fosse già usato un secolo prima e che fosse conosciuto negli ambienti frequentati da Poe. Non posso citare documenti in sostegno della mia ipotesi: per ora la si prenda come una mera congettura. Se fosse valida, si avrebbe un'ottima spiegazione di come dal verso del Dr. Johnson e dal pompino sia stato fabbricato Pork and pleasure. Questo sarebbe dunque il processo: 

Pride and pleasure + pompa, pompino =>
Pork and pleasure

Questo in un tempo in cui la fellatio era illegale in tutti gli Stati americani e considerata "innaturale" persino se praticata all'interno del matrimonio.

Blackwood attribuisce ad Ariosto i seguenti versi:

Il pover'huomo che non se'n era accorto,
Andava combattendo, e era morto.

In realtà sono tratti, alterati, dall'Orlando Innamorato di Francesco Berni (1497-1535). Questi sono i versi corretti (LIII, 60): 

Così colui, del colpo non accorto,
Andava combattendo, ed era morto.

Suky Snobbs compie una metamorfosi: 

Il pover hommy the non sera corty
And have a combat tenty erry morty.

Anche l'alterazione del tedesco è esilarante:

«Duk she! Duk she! Essa apre bocca, parla, e parla, cielo! nel tedesco di Schiller:
Unt stubby duk, so stubby dun
Duk she! Duk she!» 


Questo è l'originale, attribuito da Blackwood a Friedrich Schiller (1759-1805):

Und sterb'ich doch, so sterb'ich denn
Durch sie - durch sie!


In realtà le parole sono di Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), e per giunta riportate male. Questi sono i versi della poesia Das Veilchen (La Violetta): 

Es sank und starb, und freut' sich noch:
und sterb' ich denn, so sterb' ich doch
durch sie, durch sie,
zu ihren Füßen doch! 

"Lui cadde e morì, ma si rallegrò:
e se io muoio, tuttavia muoio,
per lei, per lei,
ai suoi piedi, almeno!"

Si noti che in varie edizioni delle opere di Poe si riscontrano distorsioni nei versi già alterati: dock per doch e no per so. Per lenire la misoginia evitando di offendere troppo le carampane e le Erinni, Poe ha usato l'ortografia duk she anziché il più immediato e logico duck she, o sarebbe subito apparsa come un'allusione alle tante anatre starnazzanti che affollavano i salotti! L'ortografia eufemistica è la stessa incontrata in Suky Snobbs, che doveva mascherare un meno anodino Sucky Snobs, ossia Snobby Sucker, il cui nome formato da to suck "succhiare" non poteva essere evocato in modo esplicito.

Pompeo! 

Secondo una certa letteratura non proprio favorevole alla cultura degli Stati del Sud, Pompeo (Pompey) incarna lo stereotipo dello schiavo nero dotato di immenso Priapo e utilizzato come sollazzo dalle signore dell'aristocrazia. Queste dame, annoiate dai mariti e schifate dal loro "cockcheese" troppo rancido, non avrebbero esitato a manipolare i membri giganteschi dei mandingo di loro proprietà. Chiaro è a mio avviso il riferimento che sta dietro al nome usato da Poe per descrivere il servo della Signora Psyche Zenobia. Anche se non ne viene fatta parola, non è poi così difficile immaginare che la giornalista si servisse del colossale Pompeo come di uno strumento di piacere: gli praticava il sesso orale. Così si rivolge a lui la fellatrice: "Pompey, my negro! - sweet Pompey!" È ben possibile che Poe conoscesse ben più di qualche rudimento di italiano: così come Suky Snobbs = Sucky Snobs = Snobby Sucker, allo stesso modo vediamo l'associazione Pompeo = Pompini. Si noti come il termine colloquiale per indicare la fellatio, di origine siciliana (vedi Callari, 1903), è incline a cambiamenti e traslati: pompino => pompelmo => chinotto (nome di agrume e di bevanda; per questa voce esistono anche altre proposte etimologiche). Potremmo essere di fronte alle prime attestazioni, seppur indirette, di queste forme gergali. Notevole il fatto che il termine snob nel senso di "person who vulgarly apes his social superiors" è documentato per la prima volta nel 1843, e il racconto è stato pubblicato per la prima volta soltanto un anno prima, nel 1842. Poe è perfettamente consapevole del significato attribuito alla parola, che appare già diffuso. Come spiega la stessa Signora Psyche Zenobia: "In quanto a Snobbs - basta guardarmi per rendersi subito conto che non mi chiamo Snobbs. La signorina Tabitha Turnip ha sparso la voce per pura e semplice invidia." Non sono un sostenitore della fallacia logica post hoc ergo propter hoc, ed è ben probabile che la coincidenza nelle attestazioni del vocabolo snob sia casuale. Tuttavia potrebbe anche non esserlo e si pone la possibilità che il primo ad usare snob in questa accezione sia stato proprio Edgar Allan Poe. Questo è il link alla voce snob del dizionario etimologico Etymonline.com:


Si noterà che uno pseudonimo Snob si trova anche nel racconto Vita letteraria di Thingum Bob, in cui il significato attuale della parola sembra già essere dato per scontato e conosciuto su larga scala:

«L'attuale composizione poetica su "La Lozione di Bob" ha suscitato l'interesse e la curiosità generale circa l'identità di colui che si cela dietro l'ovvio pseudonimo di "Snob" - curiosità che, fortunatamente, siamo in grado di soddisfare. Snob è il nom de plume del signor Thingum Bob, nostro concittadino - congiunto del grande signor Bob (da cui prende il nome) e imparentato con le più illustri famiglie dello Stato. Suo padre, Thomas Bob, Esq., è un prospero mercante di Smug.»  

E ancora: 

«Al numero che abbiamo sotto gli occhi hanno collaborato il signor CRAB (l'esimio direttore), SNOB, Mumblethumb, Fatquack, e altri; ma, dopo le inimitabili composizioni dello stesso direttore, quella che maggiormente ci piace è lo sfavillante parto letterario di un poeta nascente, il quale scrive con la firma "Snob", un nom de guerre che ci spinge a predire che egli offuscherà, in futuro, il fulgore di "Boz".»

Questo smentisce la tesi degli autori di Etymonline.com, che fanno risalire la vasta diffusione del vocabolo al 1848, anno in cui fu pubblicato il Book of Snobs di William Makepeace Thackeray (1811-1863). 

Un babbuino alcolizzato

All'epoca di Poe l'oppio si vendeva nelle farmacie ed era consentito a chiunque di abusarne, anche ai bambini e alle vergini. Se era ritenuto sconveniente per una vergine intossicarsi usando bevande alcoliche, le era permesso abusare del laudano, che teneva a freno la sua isteria. Il Signor Blackwood cerca di fare impressione sulla Snobby Suker, sperando di ricavarne qualche leccata intima. Così le spiega: 

«Poi abbiamo avuto le "confessioni di un mangiatore d'oppio" - bello, bellissimo! - magnifica immaginazione - profonda filosofia - acuta speculazione - pieno d'ira e di furia, riccamente condito con quanto c'è di decisamente incomprensibile. Un bel cumulo di fandonie che la gente ha mandato giù con entusiasmo. C'è chi sosteneva che fosse opera di Coleridge - ma non era così. Fu scritto dal mio babbuino addomesticato, Juniper, davanti a un bicchierone di gin tonic, "caldo, senza zucchero".» 

La Succhiatrice Snob sembra non bersela, e di certo il suo interlocutore non ottiene da lei ciò che desidera. Questo è l'inciso della maliarda a commento della grottesca sparata del babbuino scrittore: "[Questo non lo avrei mai creduto se a dirmelo non fosse stato il signor Blackwood, che me lo garantì.]"

Vediamo subito quanto fosse arguto Poe. Troviamo a colpo d'occhio un riferimento al Macbeth: "pieno d'ira e di furia" riecheggia la famosissima definizione della vita come una favola raccontata da un idiota, piena di suono e di furia (full of sound and fury), che non significa nulla. Gli interessi filologici dell'autore emergono nel nome del babbuino addomesticato Juniper, che è da iuniperus, la parola latina per indicare il ginepro - ritroviamo ancora la stessa radice nel gin tonic di cui l'estrosa scimmia volentieri abusa. Infine, il beverone del primate ingegnoso è descritto come l'oppio ingerito da Thomas Penson De Quincey (1785-1859) nella sua autobiografia Confessions of an English Opium-Eater (1821): "caldo e senza zucchero". Gli scritti del De Quincey - che può essere definito un precursore di William Seward Burroughs e l'antesignano della letteratura tossica - avevano senza dubbio destato un certo scalpore in America. Poe era un sensibile termometro sociale e un membro attivissimo della cultura della sua epoca: raccoglieva ogni suggestione e la usava per creare autentici gioielli letterari, splendidi ma poco adatti a chi non ama la fatica del pensiero. Il quoziente intellettivo medio e il grado di attenzione a quei tempi e in quel contesto dovevano essere nettamente superiori rispetto alla media dei nostri giorni. 

venerdì 12 ottobre 2018

EDGAR ALLAN POE GRECISTA: ANDREW O'PHLEGETHON E LA PRONUNCIA ERASMIANA DI UNA FRASE DI DEMOSTENE

Nel suo racconto satirico e bizzarro Come scrivere un articolo alla Blackwood (How to write a Blackwood article), Edgar Allan Poe riporta la frase di Demostene 'Ανὴρ ὁ φεὺγων καὶ πὰλιν μαχήσεται "L'uomo che fugge combatterà un'altra volta" traslitterata come Aner o pheugon kai palin makesetai (sic). Si noti che la traslitterazione dell'ultima parola è errata, presentando una consonante occlusiva semplice -k- anziché la corretta aspirata -kh- (rappresentata dalla lettera chi). Va detto che sulle consonanti aspirate della lingua ellenica cadono in molti, ma in difesa dell'autore posso avanzare l'ipotesi che all'origine ci sia stato un semplice refuso tipografico, poi propagato da un'edizione all'altra. Notiamo che l'articolo è traslitterato male senza aspirazione: dovrebbe essere ho anziché o. Forse l'omissione dell'aspirazione negli articoli era una costumanza diffusa, ma va detto che in un'edizione online ho trovato addirittura un improbabile Anerh o pheugoen (sic) anziché il corretto Aner ho pheugon. Anche in questo caso dobbiamo sospettare un refuso. 

Il contesto della citazione è di per sé surreale. Il Signor Blackwood riceve la Signora Psyche Zenobia, detta anche Suky Snobbs - l'ineffabile Succhiatrice Snob - che ha scarsa o nulla dimestichezza con la lingua di Atene, e non solo con quella. Il motivo della visita è presto spiegato: la stravagante giornalista ha l'impellente necessità di apprendere qualche trucco scenico che possa servirle per scrivere articoli in grado di far aumentare la tiratura del giornale per cui lavora. Tra gli espedienti escogitati dal Signor Blackwood per far colpo sui lettori c'è proprio la frase di Demostene in lingua originale.

La struttura di Come scrivere un articolo alla Blackwood è molto singolare, dato che il testo contiene un secondo racconto intitolato La falce del tempo, aka Una situazione imbarazzante (The Scythe of Time, noto anche come A Predicament), dove Suky Snobbs trova l'occasione di riportare la frase apprenditiccia alterandola in modo sommamente grottesco. Ecco che dalla metamorfosi delle parole greche scaturisce un esilarante Andrew O'Phlegethon, you make haste to fly, ossia "Andrea De' Flegetontis, tu ti affretti a volare". Si noterà l'assonanza tra makhesetai e make haste to fly /meɪk heɪst tʊ flaɪ/. Ciò dimostra in modo incontrovertibile che il dittongo finale ai del verbo greco era realizzato da Poe come tale, /aɪ/, dal momento che rimava con il verbo inglese to fly. La consonante g in Andrew O'Phlegethon deve essere senz'altro un'occlusiva velare /g/, visto che Phlegethon è stato creato fraintendendo pheugon "fuggitivo": non può avere per nessuna ragione un suono palatale. Il segmento kai palin non è stato semplicemente omesso, deve aver contribuito ad alterare pheugon fino a trasformarlo in Phlegethon, causando l'inserimento di una liquida dopo l'aspirata ph. Si noterà che accanto alla pronuncia comune di Phlegethon con consonante g velare (dura), esiste anche una più rara variante con consonante postalveolare (molle) /dʒ/. La prima proviene dalla pronuncia restituta o erasmiana del greco, la seconda dalla pronuncia accademica inglese del latino, applicata anche a parole greche.

Cos'altro salta fuori da make haste to fly? Semplice: la consonante aspirata -kh- che a causa di un refuso era stata omessa nella trascrizione erronea makesetai, salta fuori in un modo del tutto inatteso nella sequenza make haste. Questo dimostra che nella pronuncia usata da Poe il suono soggiaciente a -kh- era realizzato come un'occlusiva aspirata e non come una fricativa. Così era ben rappresentato dallo scontro tra la /k/ finale di make e la /h/ iniziale di haste, non come la consonante finale di loch. Questo uso si opporrebbe in modo singolare alla pronuncia di ph, che era invece puramente fricativa. Come si vede, emerge una grande incoerenza. Purtroppo a questo punto non è più possibile ricostruire la genesi del probabile refuso che avrebbe portato a makesetai, dovuto senza dubbio al primo editore di Poe: è passato troppo tempo e riuscire a reperire uno scritto originale con una corretta trascrizione della consonante aspirata greca ci appare come un'impresa disperata, proprio come la classica ricerca dell'ago in un pagliaio.