sabato 15 dicembre 2018

NOTE SUL LAVORO DI DELLA ROSA

Luigi Della Rosa (ldr47@libero.it) è l'autore del lavoro Relativity of linguistic isolation: the Etrucan case, ossia "Relatività dell'isolamento linguistico: il caso dell'etrusco", che può essere consultato e scaricato al seguente link: 


Non sono riuscito a trovare alcuna notizia sull'affiliazione universitaria dell'autore, così posso presumere che sia un ricercatore indipendente. L'articolo, a dispetto del titolo, è in lingua italiana, con un abstract in inglese, che ritengo sommamente utile riportare tradotto:

   A. La lingua etrusca è geneticamente nostratica, come possiamo vedere facilmente considerando la sua grammatica;

   B. In ogni caso l'etrusco non è indoeuropeo;  

  C. Possiamo soltanto pensare a una relativa vicinanza al ramo anatolico dell'indoeuropeo; 

   D. Il lessico dell'etrusco è per la maggior parte non nostratico, a causa dell'influenza di lingue non nostratiche; 

   E. Queste lingue sono il Dené-caucasico, l'afro-asiatico e l'antico europeo (o mediterraneo, per usare una terminologia più vetusta). 

   F. La semplicità della grammatica etrusca (per quanto possiamo dire di conoscerla) e la molteplice origine del suo lessico ci permettono di dire (anche se può sembrare un po' risibile) che l'etrusco è nato come un pidgin ante litteram, sviluppandosi in seguito come creolo. 

Nel corpo dell'articolo i punti sopra riportati sono riportati in forma più estesa. Questo è l'enunciato completo del punto F., che è di estrema importanza: 

   F. l'Etrusco deve essersi dunque formato dalla commistione di lingue diverse ed appartenenti a famiglie diverse; l'apporto esterno che si è riversato su di una base nostratica è stato talmente elevato (come si deduce dalla impossibilità di ricondurre al Nostratico la maggior parte del lessico) che in tal senso possiamo considerare l'Etrusco come formatosi inizialmente come pidgin, per divenire poi una lingua creola ante litteram, benché entrambi i termini appaiano inevitabilmente risibili in quanto per noi anacronistici. 

Queste affermazioni sono interessanti e in gran parte condivisibili, anche se sono convinto che in etrusco la base lessicale riconducibile alle lingue sino-caucasiche sia più antica degli strati di vocaboli somiglianti all'indoeuropeo e ad altre lingue nostratiche. In aggiunta a questo, segnalo che numerosi elementi grammaticali presenti in etrusco possono essere sufficientemente ambigui. 

Non posso fare a meno di evidenziare un annoso quanto misconosciuto problema: come i neogrammatici brugmanniani, anche i nostratisti partono dall'idea che tutto ciò che è attestato in una lingua indoeuropea debba essere necessariamente indoeuropeo. Così commettono gravi errori nella ricostruzione del nostratico, proiettando all'indietro come connaturati elementi che sono penetrati nelle lingue in analisi per influenza di lingue di altri ceppi.

Esempi di criticità morfologiche:

1) Il genitivo etrusco in -(a)l corrisponde al genitivo anatolico in -l, documentato nei pronomi (es. hittita ammel "di me", anzel "di noi", etc.). Questo genitivo anatolico in liquida è un elemento che si trova del tutto isolato nell'indoeuropeo, mentre presenta estese corrispondenze nelle lingue nord-caucasiche. Sono dell'avviso che l'anatolico lo abbia preso da una lingua nord-caucasica, forse proprio quella che dette tanti elementi lessicali al proto-tirrenico. 
  i) Forme come latino tālis, quālis e il ben noto suffisso aggettivale -
ālis, oltre ad alcune formazioni sostantivali in -al, gen. -ālis (animal, gen. animālis, da anima, tribūnal, tribūnālis, da tribūnus, a sua volta da tribus), saranno dovute con ogni probabilità all'influenza dell'etrusco. Non sembrano elementi costitutivi, bensì prestiti avvenuti in un'epoca in cui la lingua dei Rasna era molto influente e godeva di grande popolarità nell'Urbe. Non si devono quindi ritenere queste formazioni latine come eredità indoeuropee.
  ii) Il leponzio Ualaunal, attestato in un'iscrizione trovata a Mesocco, è evidentemente un patronimico da *Ualaunos (cfr. gallico e britannico Vellauno-) e non conta proprio: il suffisso è un palese prestito dal retico, lingua geneticamente imparentata all'etrusco tanto da poter essere definita etrusco alpino. Questo con buona pace di Alessandro Morandi, che a quanto pare reputa l'elemento genuinamente celtico - anche se non credo che possa essere definito un esperto di lingue celtiche antiche e moderne: ho avuto modo di riscontrare nella sua opera inconsistenze abbastanza rilevanti su svariate lingue indoeuropee. Basti citare l'assurdo confronto tra l'antico irlandese am "io sono" (che è da *es-mi, in cui -mi è suffisso verbale di I pers. sing.), e l'etrusco am- "essere" (in cui -m- è parte della radice). Simili cose amene saranno trattate in modo approfondito in un'altra occasione. 
  iii) Il greco τηλίκος "così vecchio; così giovane; così grande" comprende con ogni probabilità una radice indoeuropea *h2el- "crescere, nutrire" (cfr. lat. alere id.). In questo caso la liquida non sarebbe un mero suffisso: farebbe parte di un verbo il cui senso si sarebbe poi oscurato. Si noterà che la posizione dell'accento nell'aggettivo ha qualcosa di anomalo, ci saremmo aspettati una forma ossitona.
  iv) Il Pali tāriṣa- "un tale" ("such a"), citato dagli autori (cfr. Giacalone Ramat, Ramat, 1994, The Indo-european Languages, pag. 102; ed. it. pag. 129), non è in grado di cambiare le cose: il suo isolamento dal materiale latino e greco rende questa forma sospetta. Infatti vediamo che una spiegazione interna chiarissima. Dalla base pronominale eta- derivano le forme etādi
a, etāria, glossate da Allan R. Bomhard come ‘such as this or that; such’. È chiarissimo che dalla base pronominale ta-, la stessa che troviamo in latino, sia derivato questo tāriṣa- (seppur non citato espressamente da Bomhard), dove la rotica -r- non viene da una più antica forma -*l-, bensì da -d-! Così la morfologia di tāriṣa- è stata associata a quella del latino tālis per motivi ideologici, forzando i dati del Pali per trovare un parallelo indoario di un suffisso latino isolato. I comparativisti devono indagare ogni forma che citano, prima di poterla usare! 

2) Il locativo etrusco in -θi corrisponde al locativo greco arcaico in -θι (omerico). Questo elemento morfologico ellenico non trova chiare corrispondenze nelle altre lingue indoeuropee.
Con buona pace di Glen Gordon, -*dhi non è un suffisso indoeuropeo valido. La sua esistenza al di fuori del greco omerico si fonda sul preteso suffisso Pali -hi, fatto risalire a sua volta a un supposto proto-indoeuropeo -
*dhi. Il problema è che un simile suffisso non esiste affatto nella lingua dei canoni buddhisti. Si tratta di un grave equivoco, in quanto questo -hi è stato scorporato in modo abusivo dall'uscita del locativo -mhi (es. dhammamhi "nella dottrina"). Peccato che questo sia soltanto una variante di un più antico -smiṁ (es. dhammasmiṁ "nella dottrina"), tra l'altro ben documentato in Pali come forma più colta. Per chi non volesse crederci, rimando alla meritoria opera di Allan R. Bomhard Introduction to Pāḷi grammar
Non si può far conto sul latino ubi, alicubi, ibi, che possono essere formate con il suffisso "strumentale" -*bhi (cfr. lat. ambi-, am-, an-; greco ἀμφι-). Né si può far molto affidamento su forme sanscrite come iha "qui, in questo luogo" (Pali idha), adhi "sopra; inoltre", etc., i cui suffissi si presentano fossilizzati: non sono formazioni chiare e risalgono a una remotissima preistoria difficilmente esplorabile con i mezzi a nostra disposizione. 
Il problema si complica ulteriormente se consideriamo che il suffisso etrusco -θi (e varianti) non funziona esattamente come l'omonimo suffisso del greco antico. Se nella lingua di Omero -θι si aggiunge al nudo tema delle parole (es. τηλό-θι "a distanza, lontano da", νειό-θι "sotto, sul fondo", ἐγγύ-θι "vicino", ὑψό-θι "in alto", Ἰλιό-θι "a Troia", ὀικό-θι "a casa"), in etrusco si hanno formazioni più complicate. Se un nome termina in consonante o in -i, il suffisso è aggiunto direttamente: śuθi-θ, śuθi-ti "nella tomba", haθr-θi repin-θi-c "nella parte anterore e nella parte posteriore", raχ-θ "nel luogo del fuoco", spel-θi "nella cavità", fals-ti "sulla torre". Se un nome termina in -a, allora -θi in genere si aggiunge al locativo in -ai (neoetr. -e), dando -ai-θi (neoetr. -eθ, etc.): spure-θi "nella città" < *spura-i-θi; spelane-θi "nello spazio della cavità"; mlesiê-θi-c "e sull'altura". Il suffisso può anche essere aggiunto al genitivo in -(a)l o in -s, come in Uni-al-θi "nel (tempio) di Giunone", Tin-s-θ "nello (spazio) di Giove". Una simile formazione è molto comune con i pronomi: da eca, ca "questo" derivano le forme ec-l-θi, c-l-θi, c-l-θ, -c-le-θ , ca-l-ti "in questo". Da mutna "sarcofago" è attestato l'anomalo mutnia-θi "nel sarcofago", che potrebbe stare per *mutnai-θi o più probablmente per *mutnial-θi. Cfr. Facchetti per maggiori dettagli.

3) La copulativa enclitica etrusca -c "e", generalmente fatta risalire all'indoeuropeo -*kwe, nonostante in alcune iscrizioni sia ben attestata la sua forma antica -ca. A mio avviso esiste anche la concreta possibilità di una connessione con la forma anatolica (luvia) -ha, che sembra incompatibile con la forma indoeuropea ricostruita, ma che potrebbe avere paralleli in alcune lingue nord-caucasiche. Si noterà che l'esito diretto dell'enclitica luvia -ha in lidio è proprio -k (ad esempio in est mrud eśś-k vãnaś "questa stele e questa tomba). Chiaramente i neogrammatici, che vogliono ricondurre l'anatolico all'indoeuropeo di Brugmann, sostengono la derivazione del lidio -k proprio dall'indoeuropeo
-*kwe, nonostante non si riescano a trovare tracce di tale enclitica nel materiale hittita e luvio. In realtà è molto probabile che le lingue anatoliche e le lingue indoeuropee propriamente dette derivino da una protolingua comune, l'indo-hittita, e che numerose caratteristiche ricostruite dai neogrammatici siano innovazioni posteriori alla separazione dei due rami derivati. Detto questo, vediamo quanto sia ben più facile e diretto far derivare il lidio -k dal luvio -ha, tramite trasformazione del suono aspirato in un'occlusiva. Uno sviluppo fonetico che potrebbe essere avvenuto anche in etrusco e che in ogni caso ci invita alla prudenza.

4) La copulativa enclitica etrusca -(u)m "e" corrisponde alla copulativa enclitica anatolica -ma, che si trova sia in hittita che in luvio. Questa particella è attribuita all'indoeuropeo comune dai neogrammatici e dai loro eredi, nonostante appaia evidente che si trova soltanto in anatolico. Estenderla al proto-indoeuropeo senza motivazione appare una procedura altamente abusiva. Sono invece presenti interessanti paralleli in alcune interessanti lingue non indoeuropee e non semitiche, in genere considerate isolate ma in realtà imparentate col ceppo nord-caucasico: l'hurritico, l'urartaico e il proto-hattico. Così, a titolo di esempio, abbiamo in proto-hattico wašhap-ma "e gli Dei"; in hurritico na-akki-ma Pur-ra-an a-az-zi-i-ri ta-am-ra e-bi-ir-na za-a-zu-lu-u-uš-te-ri "e liberate Purra (il Servo), il prigioniero, che deve dare cibo a nove re". Quindi possiamo dedurre che -ma "e" era una caratteristica di una lingua scomparsa e ignota, che è penetrata - probabilmente per ragioni culturali e religiose - in diverse lingue dell'area, molto diverse tra loro, venendo così adottata anche dagli antenati degli Ittiti e dei Luvi. 


I problemi sono di certo numerosi, tanto che spesso una risposta trovata a fatica genera un'infinità di nuove domande. Tuttavia sono convinto che valga la pena di indagare a fondo l'origine della lingua etrusca, anche a costo di addentrarci in un ginepraio inestricabile. Sono e resterò sempre dell'idea che sia necessario un lavoro di ricostruzione delle protolingue che parta dalle lingue attestate per risalire con pazienza alle forme antiche: soltanto così si potranno ricostruire in modo sufficientemente affidabile protolingue ancora più remote. Diffido invece dei confronti troppo superficiali fatti tra lingue molto lontane senza il sostegno della ricostruzione protolinguistica. Per questo motivo il lavoro di Della Rosa, notevole per aver posto il problema delle origini composite dell'etrusco, tende a sfilacciarsi quando riporta confronti concreti tra il suo lessico e quello di svariate lingue nostratiche e non nostratiche. Alcune proposte sono decisamente audaci. Ad esempio quando egli riconduce l'etrusco zal "due" alla radice globale pal "due", presupponendo una palatalizzazione *pjal- seguita da palatalizzazione. Alessandro Morandi e Massimo Pittau per contro presuppongono che zal "due" sia riconducibile all'indoeuropeo *dwo-, sempre tramite alterazione della consonante iniziale. Prima di poter decidere verso che direzione bisogna andare, occorre sapere qualcosa di più sulla protolingua da cui l'etrusco si è evoluto. Sono pronto a difendere a spada tratta l'idea di Della Rosa sull'origine delle lingue tirreniche da un pidgin sviluppatosi in creolo, biasimando l'immobilismo del mondo accademico che reputa l'etrusco scaturito dal Nulla come una sfinge incomprensibile. Questo non risolve tuttavia in modo automatico i problemi, semmai li complica a dismisura. Ogni volta che ci si impegna in un'indagine etimologica, il rischio è quello di partire da un'ipotesi errata, finendo così su percorsi che non portano da nessuna parte. Il nostro nemico è il rumore di fondo, manifestazione somma dell'entropia cognitiva che dissolve ogni testimonianza del passato. Ci vorranno decenni per avere un'idea più chiara della questione, posto che l'ostruzionismo dei settari archeologi permetta alle acque torbide di sedimentare.

mercoledì 12 dicembre 2018

UN CICLO DI TRASMISSIONI DEDICATE AL MANICHEISMO NEL 2005

Spesso ci si accorge di qualche perla di grande splendore soltanto quando del suo brillare rimane una fievole traccia. Eppure anche così ci si rende conto che il barlume luminoso può servire a indicare la Via ai Navigatori.
Nel 2005 su Radio 3 andò in onda una serie di interessantissime letture sul Manicheismo. Tale meritoria trasmissione è stata una delle rarissime occasioni in cui i media hanno parlato delle religioni appartenenti al ceppo del Dualismo Anticosmico, e tra l'altro con parole di elogio. La cosa è senza dubbio sorprendente e dimostra che, seppur molto raramente, qualche raggio di Luce riesce ad arrivare in questa Estrema Palude.
Queste letture sono state in tutto quattro, e hanno approfondito l'Insegnamento di Mani, dicendo qualcosa anche sul rapporto tra il Manicheismo e le Chiese Dualiste del Medioevo: Bogomili, Pauliciani e Catari. Molto interessanti anche le considerazioni su Zoroastrismo e Buddhismo. 


Riporto in questa sede ciò che resta nel Web a documentare le trasmissioni in questione. Della quarta ed ultima puntata rimaneva ancora nel 2012 il podcast scaricabile e ascoltabile liberamente, per poter ottenere il file bastava cliccare su questo link:  


Ora il link è rotto e purtroppo non è più possibile scaricare il file.
Queste sono le sintesi delle letture, un tempo riportate nelle pagine del sito web di Rai 3 e ora presenti in quello di Rainews: 


13-03-2005  Letture. 'Mani. L'apostolo della luce'. con Gherardo Gnoli. 1a puntata 

'Scaturito dalla terra di Babilonia'

Quante sono le parole che si sono perse nei grandi fiumi della storia? Di quanti esseri umani non vi è più traccia né memoria. E quante tradizioni sono scomparse, quante civiltà, quante religioni? Perché una sopravvive e l'altra no? Le ragioni storiche sono ricostruibili, certamente. Ma sempre qualcosa di misterioso rimane, di ingiustificato, di oscuro. Da oggi guarderemo alla storia di Mani, e al movimento che da lui è nato, di cui pare essere rimasta solo questa parola "manicheo", usata per lo più con una certa imprecisione. Mani, vissuto nell'impero persiano nel III secolo e.v., come ci spiega Gherardo Gnoli, presidente dell'Isiao, con una consapevolezza profonda del male patito dalle creature e dall'intera creazione, tenta una soluzione che in parte è debitrice di dottrina al buddhismo, allo zoroastrismo, al cristianesimo, in parte è di grandissima originalità. Inviso al potere per il suo universalismo e per lo spirito di missione, fu ucciso dopo supplizi atroci. In questa prima puntata ne ripercorriamo la vita. 

Segnalazioni: 

Gherardo Gnoli (a cura di), Il Manicheismo vol I. Mani e il manicheismo, Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori editore

Aldo Magris (a cura di), Il Manicheismo. Antologia dei testi, Morcelliana, 2000

Amin Maalouf, Giardini di luce, Bompiani

Giuseppe Vadalà, SYZYGOS. Il Doppio, da Compagno Divino a Immagine del Sé, Moretti e Vitali 

Dei libri di Mani, oggetti d'arte e di fervore, della sua fede generosa, della ricerca appassionata del suo messaggio d'armonia tra gli uomini non resta nulla.
D
ella sua religione della bellezza, della sua sottile religione del chiaroscuro, abbiamo conservato soltanto le parole "manicheo", "manicheismo" che nella nostra bocca sono diventate un insulto. Infatti, tutti gli inquisitori di Roma e della Persia si sono coalizzati per sfigurare Mani, per spegnerlo. In cosa era tanto pericoloso da rendere necessario scacciarlo persino nella nostra memoria? "Sono giunto dal paese di Babele", diceva, "per far risuonare un grido attraverso il mondo".
Il suo grido fu udito per mille anni. In Egitto lo chiamavano "l'apostolo di Gesu`",
in Cina lo soprannominavano "il Buddha di Luce"; la sua speranza fiorì sulle rive dei tre oceani. Ma ben presto si cambiò in odio e accanimento. I principi del mondo lo maledirono; per loro egli divenne "il demone mentitore", "il recipiente ricolmo di Male " e, nella loro rabbia, "il maniaco"; la sua voce "il perfido incantesimo"; il suo messaggio "ignobile superstizione", "eresia pestilenziale", Poi i roghi compirono la loro opera, consumando nello stesso fuoco tenebroso i suoi scritti, le sue icone, i suoi discepoli migliori, e quelle donne altere che rifiutarono di sputare sul suo nome.
(da Amin Malouf, Giardini di luce)  
 

20-03-2005  'Mani. L'apostolo della luce' con Gherardo Gnoli. 2a puntata 

'Lo spirito e la materia'

Tante volte, parlando delle diverse fedi, ci siamo affaticati sul problema del male, della inconciliabilità tra il Dio che ci viene incontro dalle sacre Scritture e il male che continua a sussistere nel mondo. E tante volte abbiamo detto che ammettere due principi, forse, uno del Bene e uno del Male, risolverebbe tanti problemi, almeno dottrinali. Il manicheismo, in fondo, lo si può leggere come un tentativo di trovare soluzione al bene e al male, che sulla terra e nelle vite individuali sono mischiati, ma all'origine, e nel tempo definitivo, sono ben distinti. Scopo della vita umana è quello di sconfiggere le tenebre attraverso una vita di luce, e Mani, l'"illuminatore", il "medico dell'anima", è venuto a mostrare la via. 

Con l'orientalista Gerardo Gnoli e con lo storico del Cristianesimo Alberto Camplani parleremo anche delle fonti che ci hanno permesso di ricostruire la complessa dottrina manichea. 

Segnalazioni:

Gherardo Gnoli (a cura di), Il Manicheismo vol I. Mani e il manicheismo, Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori editore 

Aldo Magris (a cura di), Il Manicheismo. Antologia dei testi, Morcelliana, 2000

Amin Maalouf, Giardini di luce, Bompiani

Epoca dopo epoca, gli inviati di Dio non hanno mai cessato di rivelare la saggezza e i comportamenti. Cosi, in una certa epoca un inviato di nome Buddha li ha portati in India, in un'altra epoca Zoroastro li ha portati in Persia e in un altra ancora Gesù li ha portati nelle terre d'Occidente; in quest'epoca ultima, quella rivelazione e quella profezia sono giunte a me, Mani, inviato del Dio di verità per la terra di Babilonia
(da G.Gnoli, Il Manicheismo vol I) 

  
27-03-2005  Letture. Mani. 'L'apostolo della luce' con Gherardo Gnoli. 3a puntata. 

'La chiesa della speranza: Eletti e Uditori'

Nel tentativo di liberare gli esseri umani dal peso della materia e dalle tenebre che offuscano la luce, Mani dà origine anche a una chiesa, chiamata anche la "chiesa della giustizia", in cui una sofisticata struttura vede gli Eletti (i religiosi) impegnati in una missione salvifica che prevede rigidissime regole di condotta, e gli Uditori (che sono i catecumeni, laici) che li accompagnano nella loro opera. Ne segue, com'è ovvio, una liturgia, un corpus di preghiere, di riti e di inni, di straordinaria ricchezza. Ma anche regole di condotta governate da cinque comandamenti fondamentali per gli eletti e da dieci per gli uditori, in una sorta di "doppia morale". 

Con Gherardo Gnoli esploriamo la struttura della vita e della liturgia manichea.
  
Segnalazioni:

H. C. Puech, "Sul manicheismo e altri saggi" Ed. Einaudi, 1995

Aldo Magris "Il manicheismo. Antologia dei testi" a cura di, Morcelliana

Ordunque, [e' un dato di fatto che] io tormento e maltratto continuamente i cinque Elementi e la Luce imprigionata che sta nella terra riarsa e nella terra umida: il corpo pesante, l'affliggente mia identità, della quale sono permanentemente rivestito, sale, scende, si muove veloce, lento, ora a piedi ora a cavallo, colpisce, fende la terra riarsa, battuta e spaccata, schiacciata e calpestata; scava, demolisce, costruisce, disfa, si immerge nelle acque , cammina nella melma, nella neve, nella pioggia o nella rugiada del sentiero; taglia, fa a pezzi, uccide, dilania le cinque specie di Esseri della flora e le cinque specie di Esseri della carne, umide o secche. Nel caso che sia stato io ad operare [in modo peccaminoso], ovvero che io abbia spinto altri a cio', nel caso che delle persone siano state percosse o incatenate, abbiano subito ingiurie e sofferenze per causa mia; nel caso che io abbia esercitato violenza su quadrupedi, nel montare e dismontare, con sferza, con sprone; nel caso che nei riguardi di animali selvatici, volatili, acquatici o di insetti striscianti per terra, io abbia malignamente pensato di togliere la vita; [...] nel caso che io abbia tratto piacere da uno scontro di eserciti, abbia goduto della morte e dell'eliminazione di peccatori e, per empietà, [abbia goduto] del danno altrui; nel caso che io [pur] avversando l'arte dello scrivere, e [non sopportando] la precisa attenzione [che quest'arte richiede] abbia preso in mano un calamo, una tavoletta [scrittoria], un pezzo di seta o carta, combinando [di conseguenza] danni e guasti in quantità, nel caso io da una caraffa d'acqua abbia versato seppure un goccio, si da mandarla persa inutilmente; per tutto questo: perdono!
(tratto da "Il manicheismo. Antologia dei testi" a cura di Aldo Magris, Morcelliana) 


31-03-2005  Letture. 'Mani. L'apostolo della luce'. con Gherardo Gnoli. 4a puntata. 

'Il destino del manicheismo'. 

Si chiude con oggi la serie di Letture dedicate ai testi manichei, unica sopravvivenza della storia di Mani e della sua chiesa. Che conobbe una diffusione vastissima - dall'Occidente, all'India, alla Cina - ma che ben presto si inabissò, sotto i colpi delle persecuzioni e della dimenticanza. Ma perché il manicheismo fu perseguitato? Che cosa disturbava, oltre al fatto che era, inevitabilmente, un movimento "antinomista" e cioè che non rispettava le leggi e l'ordine del mondo? Morto come chiesa, in quanto potente suscitatore di una lotta contro il male e la salvezza dell'umanità, il manicheismo sopravvisse però nel cristianesimo all'interno di alcune eresie (pauliciani, catari, bogomili), ma anche all'interno del buddhismo, con il quale si fuse in un singolare sincretismo.
E oggi? C'è ancora qualche elemento di questa "religione della luce" che sopravvive nel desiderio di salvezza dell'umanità? 

Ne parliamo con Gherardo Gnoli e con Aldo Magris.

[...]Il diciassettesimo giorno la fine parve imminente e le guardie lasciarono avvicinare i discepoli. Soprattutto una domanda doveva essere fatta, ma il cuore di Mani batteva sul labbro inferiore, e i suoi fedeli rinunciarono a farlo parlare per non farlo ansimare ancora di più . Quasi avesse sentito la loro angoscia inespressa, egli aprì gli occhi e mormorò, come se pronunciasse un'ovvietà: Dopo? Quello che in me era Tenebre ritornerà alle Tenebre, quello che in me era luce rimarrà Luce[...]
(da Amin Maalouf, Giardini di Luce, Bompiani)

Segnalazioni:

Gherardo Gnoli (a cura di), Il Manicheismo vol I. Mani e il manicheismo, Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori editore 

H. C. Puech, "Sul manicheismo e altri saggi" Ed. Einaudi, 1995

Aldo Magris "Il manicheismo. Antologia dei testi" a cura di, Morcelliana

Amin Maalouf, Giardini di Luce, Bompiani, Milano 2001 (vedi la nostra piccola biblioteca)  

L'ultima puntata della serie è stata segnalata anche su Adnkronos: 

http://www.adnkronos.com/
Archivio/AdnAgenzia/2005/04/09/
Spettacolo/Televisione/RADIO


Il link, non più funzionante, rimanda all'homepage del sito della famosa agenzia.

lunedì 10 dicembre 2018


I VESCOVI VAGANTI

La teoria cattolica della successione apostolica risale agli insegnamenti di Agostino d'Ippona e stabilisce che un vescovo dispone finché vive del potere di consacrare nuovi vescovi e ordinare nuovi sacerdoti. Questo anche se il vescovo in questione cessa di riconoscere l'autorità del Pontefice e interrompe ogni rapporto con la Chiesa Romana. Le sue consacrazioni e le sue ordinazioni sono definite valide, anche se illegittime. In altre parole, seppur scomunicato, il vescovo fuoriuscito dalla Chiesa Romana rimarrà pur sempre un vescovo, così come coloro che saranno da lui consacrati o ordinati - sempre che non ci siano vizi di forma nel rito - saranno vescovi o sacerdoti a tutti gli effetti. La massima parte dei teologi cattolici accetta questa dottrina. Anche se la Chiesa Romana fa di tutto per nasconderlo, evitando di dare alla cosa qualsiasi rilievo, esistono nel mondo molti vescovi fuori dalla comunione con Roma. Essi sono chiamati Vescovi Vaganti (Episcopi Vagantes) o Vescovi Indipendenti

In molti casi i Vescovi Vaganti sono idealisti, un po' una specie di Don Chisciotte moderni che si oppongono al potere autoritario del Vaticano, sognando di restaurare un Cristianesimo più puro e tollerante. In altri casi invece si tratta di veri e propri avventurieri, che nascondono il loro stato per acquisire una qualche diocesi e fanno mercimonio di titoli nobiliari posticci e di altra paccottiglia. Quelle rare volte che si sente dell'arresto di un falso vescovo, in genere si fa riferimento a illeciti collegati ad episodi di questo genere. In ogni caso, il fenomeno va distinto nettamente dallo Scisma, in quanto i Vescovi Vaganti non hanno di solito come movente un'opposizione dottrinale alla loro Chiesa d'origine. Si capisce come da un dato vescovo indipendente si origini così una linea di successione apostolica. Ne sono state catalogate diverse. Secondo il sito www.eresie.it, le principali sarebbero quelle risalenti ai seguenti capostipiti: 

Jules Ferrette, nato in una famiglia protestante, convertito al cattolicesimo e poi ordinato prete nel 1855, ricevette la consacrazione eposcopale dieci anni dopo da un vescovo della Chiesa Siro-Giacobita di Homs, Mar Bedros, ricevendo il nome di Mar Julius I. 

Joseph-René Vilatte, che fu consacrato vescovo a Colombo (Sri Lanka) nel 1892 dall'arcivescovo della Chiesa Siro-Giacobita Antonio Francisco Xavier Alvarez, il cui titolo Mar Julius I è omonimo di quello ricevuto da Jules Ferrette. A sua volta, Alvarez era stato consacrato dal Patriarca di Antiochia Mar Ignatius Petrus III. La linea è di origine Siro-Antiochena. 

Arnold Harris Mathew, che è stato consacrato vescovo nel 1908 dalla Chiesa Vetero-Cattolica di Utrecht, che lo ha in seguito scomunicato, pur mantenendosi come sopra esposto la sua consacrazione valida. La Chiesa Vetero-Cattolica si è originata da quei vescovi che non hanno accettato il Concilio Vaticano I e il dogma dell'infallibilità pontificia, imposto da Pio IX. 

Aftimios Ofiesh, che nel 1917 ha ricevuto la consacrazione come vescovo ausiliario ortodossso indipendente da Basil Evdokim Mikhailovich Meschersky, Metropolita Ortodosso russo. 

Carlos Duarte Costa, consacrato vescovo di Botucatu (Brasile) nella Chiesa di Roma, per essere poi rimosso nel 1937 e scomunicato nel 1945 da Pio XII. Ha quindi fondato una Chiesa indipendente, detta Igreja Catolica Apostolica Brasileira (Chiesa cattolica apostolica brasiliana). 

Pierre Martin Ngo Dinh Thuc, consacrato vescovo di Hué (Vietnam) nella Chiesa di Roma. Migrato in Francia per sfuggire alla guerra. Negli ultimi anni della sua vita (dal 1981 al 1984) ha consacrato un certo numero di vescovi senza il permesso del Pontefice. Questi vescovi sono confluiti nel Sedevacantismo, movimento cattolico tradizionalista che ritiene il soglio pontificio vacante dalla morte di Pio XII (1958) e considera ispirato da Satana il Concilio Vaticano II.   

Sebbene molti siano dell'avviso che le Chiese Ortodosse d'Oriente considerino le ordinazioni illegittime non valide, si danno molti casi di Vescovi Vaganti con linea apostolica Ortodossa, come il citato Aftimios Ofiesh. I teologi cattolici nutrono comunque dubbi sulla validità effettiva di molte diramazioni. Si sono infatti dati numerosi casi di consacrazioni e di ordinazioni tramite raccomandata e ultimamente addirittura via mail. Come dire, un utente di hotmail apre la sua casella di posta virtuale e si ritrova dentro una mail ad altra priorità con la consacrazione episcopale. C'è anche chi afferma che mancando testimoni attendibili, una qualsiasi consacrazione può essere messa in dubbio. 

Anche se non va nascosto che esistono anche casi di Vescovi Vaganti del tutto isolati e privi di fedeli, sono innumerevoli le cosiddette Piccole Chiese Cattoliche Indipendenti che si sono originate da questo fenomeno: è infatti naturale che ogni vescovo e ogni presbitero cerchi di crearsi una sua propria comunità di fedeli. Si deve anche notare come queste Chiese, che seguono il Credo di Nicea come la Chiesa di Roma, hanno tuttavia nella maggior parte dei casi un atteggiamento di grande apertura nei confronti dei temi della modernità, ammettendo spesso ordinazioni di donne, unioni omosessuali, divorzio, contraccezione e aborto. Il sito www.eresie.it riporta le principali comunità religiose di questo tipo, quelle dotate di una certa consistenza numerica: 

Charismatic Episcopal Church (Chiesa Carismatica Episcopale). Presenta alcune convergenze con i Pentecostali e i Carismatici a causa dell'accordata preminenza ai Doni dello Spirito Santo. Conta circa 200.000 aderenti. Risale al 1992 ed è stata formata da membri fuoriusciti dalla Chiesa Episcopale Americana.
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http://www.iccec.org/

Old Roman Catholic Church of North America (ORCCNA) (Chiesa Vetero-Cattolica Romana degli Stati Uniti). Si è originata dalla linea apostolica di Arnold H. Mathew, il cui successore, Rudolph Francis Edward Hamilton de Lorraine-Brabant Principe di Landas-Berghes, ha fondato una nuova Chiesa in America, distaccatasi dalla Chiesa Vetero-Cattolica di Utrecht (di origine Giansenista). In seguito a una serie di scismi sono nate diverse comunità, la più cospicua essendo proprio l'ORCCNA. Conta circa 65.000 aderenti.
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http://www.orccna.org/index.htm

African Orthodox Church (AOC) (Chiesa Africana Ortodossa). La sua peculiarità principale è che i fedeli sono di stirpe afroamericana e africana, la fondazione di tale Chiesa essendo avvenuta nel 1921 a causa di tensioni razziali. Il suo primo Vescovo fu George Alexander McGuire, che in precedenza era stato un sacerdote della Chiesa Episcopale. Notevole l'influenza dell'United Negro Improvement Association (Associazione unita per il miglioramento dei neri) e dal suo movimento Back to Africa (Ritorno in Africa). Questa Chiesa, radicata in Sud Africa, ha circa 40.000 aderenti ed è sprovvista di sito web. 

Liberal Catholic Church (Chiesa Cattolica Liberale), il cui primo Vescovo fu James Ingall Wedgwood, della famiglia inglese produttrice di famosi manufatti ceramici. Teosofo, ricevette l'ordinazione sacerdotale nel 1913 da Arnold H. Mathew e la consacrazione episcolale da Frederick S. Willoughby tre anni dopo. L'influenza dell'occultismo e delle filosofie orientali su questa Chiesa è sempre stato notevole. Ha subìto diversi scismi (l'ultimo nel 2003), tanto che il suo nome è oggi attribuito a un certo numero di formazioni.
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http://kingsgarden.org/English/Organizations/LCC.gb/

La Chiesa di Roma naturalmente teme i Vescovi Vaganti, perché essi erodono lentamente la sua struttura verticale. I più intransigenti affermano addirittura che il pittoresco movimento sia di ispirazione demoniaca e serva a portare discredito al Vaticano. Lo stesso Cardinale Dionigi Tettamanzi è stato criticato dagli oltranzisti per aver ricevuto una pretessa - ossia una donna ordinata da una Chiesa Cattolica dell'Unione di Utrecht. Quegli stessi oltranzisti hanno fatto notare con malizia che all'apertura di Tettamanzi verso queste realtà si contrappone la sua strenua opposizione al Motu Proprio Summorum Pontificum. Per quanto la pretessa affermasse di essere cattolica, avendo il Credo di Nicea, è stata più volte etichettata come "eretica" dagli avversari di Tettamanzi. È stata quindi sostenuta la non validità della successione apostolica dell'Unione di Utrecht, in quanto tra i suoi fondatori ci sarebbero alcuni Vaganti la cui successione non è documentabile. Spesso trovo in Rete la singolare definizione di Paraprotestanti riferita agli Episcopi Vagantes, forse in riferimento alle loro posizioni moderniste. Come sempre, non mancano ipotesi calunnionse, che i cattoteocon sono molto abili a fabbricare e a diffondere. Anche se si può provare che alcuni Vaganti si sono interessati all'occultismo, come nel già menzionato caso di Ingall Wedgwood, è assurdo attribuire loro la pratica della Magia Nera, volta addirittura ad "acquisire il favore degli Spiriti della Tenebra".

sabato 8 dicembre 2018


UNA PREGHIERA IN ETRUSCO (FINTO)

Riporto un caso di falso storico oltremodo interessante. Tempo fa, durante un periodo molto oscuro della mia vita, venni a conoscenza di una versione del Padre Nostro in lingua etrusca. Il testo era riportato in un volume rilegato di giornali del ventennio fascista, che ebbi l'occasione di sfogliare nei sotterranei della biblioteca dell'orrido luogo conosciuto come Cardano al Campo. Si specificava che il testo in questione era contenuto in un volume che conservava il Padre Nostro in tutte le lingue del mondo. Trascrissi con cura la preghiera, che qui riporto: 

epnsvalanthu
ichthismc
zfumlecac
ias epesc
cvevalanthucenverz
lvemnclimiznlaneium
slelanhvun cs
ansulilehvsan
lansenvmesa
fmirethu
ra amn 

Orbene, già su quel giornale mussoliniano, che riportava la foto del confusionario linguista Alfredo Trombetti, si avanzava l'ipotesi che questo Pater etrusco non fosse affatto genuino. Secondo il compilatore dell'articolo, la preghiera sarebbe stata un falso di epoca rinascimentale. L'autore infatti era convinto che gli Etruschi parlassero un idioma imparentato con l'ebraico, come era consuetudine a quei tempi pensare di tutte le lingue note o ignote. Ecco che qualche termine emerge nella sua chiarezza: ismc = "il tuo nome", affine all'ebraico shem-kha, e così via. 

Da quanto conosciamo della lingua, non sembra proprio che la preghiera sia genuina. A distanza di anni, mi è ritornato in mente tutto ciò, così mi sono deciso a cercare traccia del testo nella Rete. Con mia grande sorpresa, l'ho trovato etichettato come Ave Maria anziché come Padre Nostro. Ecco cosa si dice in un sito in inglese: 



"As it can be seen, the word Mary does not appear in that text, what is rather “worrying”. Moreover the script in which it is written is not coherent, sometimes written left to right, sometimes right to left, and does mix symbols from different places and times. Looks like a “speaking in tongues” delirium." 

Traduco per i non anglofoni: 

"Come si può vedere, la parola Maria non appare nel testo, cosa che è piuttosto disturbante. Inoltre la scrittura in cui il testo è redatto non è coerente, talvolta scritta da sinistra a destra, talvolta da destra a sinistra, e mischia simboli di luoghi e tempi differenti. Sembra un delirio glossolalico."

Sono rimasto molto sorpreso. Così ho trovato la fonte di questo singolare fraintendimento e l'ho trovata nella wikipedia in italiano. Essa riporta chiaramente il link d'origine(*):

Ecco spiegato almeno in parte il mistero. Se uno guarda l'immagine attentamente, scopre che in alto c'è scritto a chiare lettere "The Lord's Prayer", ma i gestori del sito hanno invece etichettato il testo con "Hail Mary!"; posso immaginare che un banner pubblicitario con la scritta "Hail Mary" sia stato scambiato per il titolo della preghiera. In seguito l'errore si sarebbe propagato non poco. La foto è tratta dal Convento dei Francescani di Washington (Franciscan Monastery in Washington). Spero che le pagine web citate saranno presto corrette. 

(Il Volto Oscuro della Storia, 10/10/2009) 

(*) Il link al sito, nel frattempo finito off-line, è stato ripristinato tramite la Wayback Machine.

Il post originale ha generato un breve thread, iniziato dall'utente NancybethZ, dietro il cui pseudonimo si nasconde una nota esoterista appassionata di Cabala e forse un po' ossessionata dai Rettiliani. Ecco gli interventi:  

NancybethZ: 
Non credo sia il Padre Nostro e tantomeno l'Ave Maria. Il testo è troppo corto. Notevole la somiglianza dei caratteri alle rune Celtiche. Non trovi? Hai notato, poi, che sulla destra compare il compasso dei Massoni? E' un falso eclatante!! Magari un testo massonico, appunto. 

Antares666:
E' sicuramente il Padre Nostro, come posso dimostrare. Solo che è falso etrusco. Sono etruschi i caratteri, ma la lingua è semitica, per quanto abbia fattezze non cananee. La preghiera deve essere stata creata prima del XIX secolo. Infatti il testo non mostra caratteristiche ben note dell'etrusco, che prima del XIX secolo non erano conosciute. L'autore non conosceva nulla della grammatica della lingua, così il falso che ha creato è per l'appunto eclatante. Ad esempio non sapeva che i locativi terminano in -th, che -c è la congiunzione enclitica 'e', etc.
Mi spingerò più in là. Personalmente sono incline a ritenere che l'autore del testo sia Annio da Viterbo, domenicano e noto falsario.
Per quanto riguarda le rune, la somiglianza è dovuta al fatto che la scrittura runica deriva storicamente dalla scrittura nord-etrusca che era usata anche dai Reti e dai Camuni.
Il compasso mi sembra piuttosto un segno Alpha-Omega. 


NancybethZ:  
Ma non ti sembra corto il testo? Di semitico ci riconosco solo le finali U, che sta per noi, a noi etc.
E quel Ra, che mi ricorda OR, cioè luce, potrebbe essere il finale dell'eterno riposo, che se non sbaglio dice dona loro la luce perpetua...A me pare piu un rito magico in qualche lingua esoterica, cioè mischioni di tutte le lingue...Ti diro che il sumero, pero, potrebbe essere. RA, infatti, ci starebbe. Anzi lo quoto.
Cosi', a naso! Potrei sbagliarmi.
salutiiiiiiiiii 


Antares666: 
Pubblicherò appena possibile un'analisi completa del testo. 

Purtroppo un attacco di accidia mi ha impedito di pubblicare l'analisi che mi ero proposto. Rimedio in questa sede alla mancanza, elencando alcune etimologie che mi saltano all'occhio. 

1) epn = Padre Nostro (ebraico avinu). Evidentemente il falsario conosceva il vocabolo etrusco apa "padre", di cui ha generato una forma pronominale con tanto di Umlaut palatale a partire dalla forma ebraica, la cui radice è assonante con l'etrusco. 
2) valanthu = nei cieli. Vocabolo plasmato a partire dalla glossa falado (var. falando) "cielo", che sta per *falathu. La consonante v- iniziale è il modo usato dal falsario per esprimere il locativo, simile all'ebraico b-. Sembra ovvio che si dia per scontata una pronuncia fricativa dell'etrusco v.
3) ichthismc = sia santificato il tuo nome. La forma verbale ichth- è stata ricavata per estrema contrazione dall'ebraico yitqadesh "sia santificato" (stessa radice di qadosh "santo"). Evidentemente la sillaba finale è stata fusa con quella iniziale di ismc "il tuo nome" in un'aplologia, per evitare *ichthis-ism-c
4) zfu "venga" (ebraico tavo). Si noti la consonante affricata z- dove l'ebraico ha un'occlusiva t-
5) mlecac "il tuo Regno". Corradicale dell'ebraico melekh "re", malkuth "regno", col possessivo di II pers. sing. -c già visto in ismc "il tuo nome" (ebraico -kha). 

6) ias "sia fatta" (ebraico ye'aseh): si noti l'estrema contrazione. Al posto dell'ebraico retsonkha "la tua volontà" troviamo epesc (ebraico khefets "desiderio"), sempre col pronome -c già visto in  ichthismc.
7) cvenvalanthu "come in cielo". Vedi al punto 2) per valanthu.
8) cenverz "così in terra". La forma v-erz "in terra" (ebraico erets "terra", ha'arets "la terra") è plasmata con lo stesso prefisso v- (ebraico b-, es. ba'arets "nella terra"). Si noti la somiglianza formale della sequenza cvenvalanthu cenverz con l'ebraico kevashamayim ken ba'arets.
9) lvemn "il nostro pane" (ebraico lekhme-nu). 
10) iznlaneium "da' a noi oggi". Per spiegare questa singolare sequenza verbale basteranno le forme ebraiche ten "dai", lanu "a noi" e ha-yom "il giorno; oggi". Si noti la regolarità della fonetica: izn "dai" ha una affricata z come zfu "venga", corrispondente all'occlusiva t in ebraico. Per la vocale protetica, vedi ismc "il tuo nome". 
11) Anche se non del tutto chiara, la sequenza slelanhvun cs ansulilehvsan lansenvmesa corrisponde all'ebraico u-selakh lanu et-ashmateinu ka'asher solkhim anakhnu la'asher ashmu lanu. Si identificano elementi comuni, come lo pseudoetrusco lan "a noi", identico all'ebraico lanu, e soprattutto sle- "perdona" (ebraico selakh), con la forma plurale an-suli- "perdoniamo" (cfr. ebraico solkhim).  Il pronome ebraico anakhnu si ritrova come un semplice prefisso an-.
12) La parola ra, che tanto ha colpito la febbrile immaginazione di NancybethZ, non ha nulla a che fare col fantasumerico o con l'errata quanto popolare pronuncia del dio del sole egiziano: è semplicemente l'ebraico raʻ "cattivo; il male".  

Come si vede, non si tratta affatto di una conlang glossolalica, bensì di una creazione ben consapevole.

mercoledì 5 dicembre 2018



LA TOMBA DI LIGEIA 

Titolo originale: The Tomb of Ligeia
Paese di produzione: Gran Bretagna
Anno: 1964
Lingua: Inglese
Durata: 79 minuti
Genere: Orrore
Regia: Roger Corman
Soggetto: Edgar Allan Poe, dai racconti Ligeia e
      Il gatto nero
Sceneggiatura:
Robert Towne
Fotografia: Arthur Grant
Montaggio: Alfred Cox
Musiche: Kenneth V. Jones
Interpreti e personaggi  

    Vincent Price: Verden Fell
    Elizabeth Shepherd: Lady Rowena / Lady Ligeia
    John Westbrook: Christopher Gough
    Derek Francis: Lord Trevanion
    Oliver Johnston: Kenrick
    Richard Vernon: dottor Vivian
    Frank Thornton: Peperel
    Ronald Adam: pastore al funerale
    Densi Gilmore: ragazzo con il cesto
    Penelope Lee: cameriera di Lady Rowena
Doppiatori italiani  

    Renato Turi: Verden Fell
    Maria Pia Di Meo: Lady Rowena Trevanion /
          Lady Ligeia
    Cesare Barbetti: Christopher Gough
    Manlio Busoni: Lord Trevanion
    Gino Baghetti: Kenrick
    Nino Pavese: Dott. Vivian
    Manlio De Angelis: Peperel
    Arturo Dominici: pastore al funerale
    Roberto Chevalier: ragazzo con il cesto
    Miranda Bonansea: cameriera di Lady Rowena

Trama: 

Il nobile Verden Fell è distrutto dalla morte di sua moglie, Ligeia. Il pastore si rifiuta di celebrare il funerale, perché la defunta non era cristiana. La donna era nativa dell'Egitto e sembrava un masso erratico piovuto dall'epoca dei Faraoni, come se le migliaia di anni trascorsi dall'epoca della regina Nitokris fossero stati soltanto un sogno. Dotata di poteri magici, la sua presenza continua ad infestare come un fantasma le spettrali rovine dell'abbazia dove Verden Fell aveva vissuto con lei e abita tuttora. L'uomo vive nel lutto e nella macerazione, veste di nero come un becchino e porta occhiali neri di forma molto particolare, che gli conferiscono un aspetto lugubre. Un giorno una dama dai capelli rossi, Lady Rowena Trevanion de Tremaine, si sinistra un piede cadendo da cavallo e viene soccorsa da Verden, che la porta nella propria dimora. La cura e le mostra la sua collezione di reperti egizi, che consiste in un gran numero di busti e di teste di antichi sovrani della Terra Nera del Nilo. La giovane donna ne rimane impressionata. Affascinata dal nobiluomo, torna a visitarlo e presto prende corpo un progetto di matrimonio. Il suo precedente fidanzato, Christopher Gough, deve rassegnarsi alla determinazione dell'amata. Contro ogni buon senno, il conte-becchino e la rossa amazzone convolano a nozze, nonostante la differenza di età. Presto si addensano sinistre ombre sulla vita della sposa. Ligeia sembra una presenza concreta, solida e reale. I sonni di Lady Rowena sono funestati dalla presenza di un diabolico gatto dal pelo nero come la pece, i cui versi strazianti le fanno accapponare la pelle e raggelare il sangue. Verden non può dirsi un marito presente e affettuoso, in lui sembra abitare il gelo dell'Abisso e non ci sono evidenze che il matrimonio sia stato consumato. Durante le notti insonni, fredde e solitarie, la donna si rende conto che il marito cammina in stato di sonnambulismo e si reca nottetempo alla tomba di Ligeia. Gli eventi precipitano: si scopre un passaggio segreto che conduce a una stanza occulta in cui Verden Fell ha conservato il corpo incorrotto della sua moglie egiziana, avendo cura di mantenere un fuoco sacro che non si spegne mai, come il Fuoco di Vesta, offrendole sacrifici e tributandole adorazione. Il corpo sepolto nella tomba era soltanto un manichino di cera! Il film raggiunge il suo apice tragico quando lo spirito di Ligeia, nella forma del gatto nero che perseguita la moglie di Verden, si scaglia contro di lui e gli strazia gli occhi, accecandolo! Ne scaturisce un incendio che consuma l'abbazia, mentre Lady Rowena riesce ad allontanarsi, tratta in salvo dall'ex fidanzato Christopher, con cui ora è libera di cominciare una nuova vita.  


Recensione: 

Il film mostra una labile somiglianza con Ligeia, il famoso racconto di Edgar Allan Poe. A parer mio è avvenuta una profonda contaminazione con un altro racconto tra i più celebri dello stesso glorioso autore: Il gatto nero (The Black Cat). Anche se a livello di trama non sussistono significative analogie, gli elementi presi a prestito da questa opera inquietante sono tuttavia altamente significativi: il gatto furioso e l'incendio che divora la casa. Sulla Wikipedia in inglese sono riportate alcune informazioni interessanti sulla genesi del film di Corman. Towne, lo sceneggiatore, si rese presto conto che il racconto Ligeia era troppo breve e che sarebbe stato difficile trarne un film articolato. Per questo motivo lesse tutta l'opera di Poe per avere le idee più chiare. Decise così di espandere la trama di Ligeia innestandovi alcuni temi caratteristici della produzione dello scrittore di Boston: il mesmerismo e la necrofilia. Così fu concepita l'idea portante del film, il cui protagonista era stato mesmerizzato dalla sua prima moglie, e spinto dal comando ipnotico che era stato inserito nell'inconscio, conservava il corpo di lei e lo concupiva, congiungendosi alle sue carni estinte. Una nozione che per l'epoca era spaventosa e terrificante (attualmente, essendo la filosofia laveyana percolata ovunque, non sembra più una cosa così folle) - eppure del tutto consistente con il sentire di Poe. Certo, non possiamo aspettarci che nel film compaiano atti di necrofilia espliciti, la cosa è soltanto suggerita dalla perfetta conservazone del corpo di Ligeia, che non mostra segno di corruzione, nemmeno un livido, che evidentemente non è stato penetrato dal gelo della tomba e indurito dal rigor mortis. Siamo di fronte a un caso di edulcorazione della necrofilia. Il cadavere non esala lezzi, è fresco, quindi desiderabile come se fosse una creatura vivente. Tanto più che a un certo punto si anima: la morte è come se fosse finta. In modo abbastanza criptico e misterioso, Towne commentò: "Ho cercato di avere la mia torta e di mangiarmela pure." Secondo la vulgata, lo sceneggiatore alludeva al risultato ottenuto, ossia una storia in cui era possibile spiegare gli eventi sia in chiave naturale (con l'ipnotismo) che in chiave soprannaturale (con la possessione diabolica). Certo, la costruzione narrativa è geniale. Completamente zombificato, Verden Fell è controllato da questa persona morta, o meglio non-morta, non-spirata, un vero e proprio Nosferatu, che probabilmente era stata davvero viva su questa Terra fin dal tempo della costruzione delle Piramidi, che aveva bevuto vino alla corte di Cheope e poi di Ramesse il Grande, che aveva visto Mosè con i propri occhi, che aveva regnato sull'Egitto con i nomi di Hatshepsut e di Nitokris, senza mai invecchiare col trascorrere dei secoli. Di fronte a un simile potere, nessuno penserebbe di essere in grado di conservare la propria volontà, nessuno si illuderebbe di avere la capacità di gestire la propria esistenza. Alla fine della Ligeia di Poe resta ben poco: da donna coltissima e sensibile è stata trasformata in un demone, in una persecutrice.

Grottesche controversie 

La cosa che più mi sorprende è l'ostinazione con cui Roger Corman si oppose alla scelta dell'ottimo Vincent Price nel ruolo del protagonista. A quanto ci è tramandato, avrebbe preferito Richard Chamberlain. Proprio lui, il prete di Uccelli Divoro, pardon, Uccelli di Rovo. Non avrebbe potuto esserci al mondo scelta peggiore. Il film ne sarebbe uscito menomato. Le perplessità di Corman, a sua detta, riguardavano l'età di Price, troppo vecchio per interpretare un personaggio che avrebbe dovuto avere una trentina d'anni, che avrebbe potuto attrarre le attenzioni di una giovane donna. Tutti pretesti. Se al giorno d'oggi un amore tra un uomo maturo e una ragazza desta scandalo, un tempo era cosa del tutto normale, matrimoni di questo tipo non erano affatto rari. Towne se ne uscì in seguito con affermazioni alquanto singolari, che lasciano basiti: "Il film era un po' noioso. Penso che sarebbe stato meglio se fosse stato con un uomo che non sembrava un necrofilo, tanto per cominciare... Amo Vincent. È molto dolce. Ma, per proseguire, sospetti che Vincent possa scoparsi gatti, galline, ragazze, cani, tutto. Senti che la necrofilia potrebbe essere una delle sue cose basilari. Avevo sentito che il ruolo richiedeva un ragazzo quasi innaturalmente bello di cui la seconda moglie potesse facilmente innamorarsi. Ci dovrebbe anche essere un senso del tabù sul legame stretto che aveva con la sua prima moglie - come se fosse qualcosa di incestuoso, due metà della stessa persona." Non c'è che dire: un bel calderone di morbosità! Alla fine la questione fu risolta allo stesso modo in cui Alessandro il Grande sciolse il Nodo di Gordio: la casa di produzione cinematografica AIP impose tra le sue condizioni proprio di assegnare a Vincent Price il ruolo di Verden Fell, così Roger Corman fu ridotto al silenzio. 


Etimologia di Rowena

Il nome Rowena è di incerta origine. Potrebbe essere derivato dall'antico inglese Hrōðwina, con la variante Hrōðwyn. Il primo membro del composto è hrōð "fama", molto produttivo nell'onomastica germanica, mentre il secondo è wine "amica". Meno probabile è che il secondo membro possa essere wynn "gioia", come taluni sostengono. C'è chi, insoddisfatto da un'origine germanica dell'antroponimo, ha proposto un'etimologia dal celtico insulare: si tratterebbe di un composto delle parole gallesi rhon "giavellotto, lancia" e gwen "bianca" (< *winda:). In gallese medievale Ron era il nome della lancia di Artù. La parola significava anche "coda". L'origine ultima dovrebbe essere nella preposizione indoeuropea *pro- "in avanti", che compare anche nel latino pro:nus "chino in avanti". Abbiamo quindi Rhonwen (< *Rono-winda:) "Lancia Bianca", che a detta di alcuni sarebbe un reale nome di donna gallese. Meno plausibile la derivazione dal gallese rhawn "crine di cavallo" (< *ra:no-). La vocale finale della forma Rowena, priva di chiara giustificazione nell'ambito del celtico insulare, non è di ostacolo. Giova notare che Rowena compare per la prima volta nell'opera di Goffredo di Monmouth, Historia Regum Britanniae (XII secolo): è una donna sassone figlia del condottiero Hengist e moglie del capo britanno Vortigern. Un personaggio molto negativo, una traditrice: è improbabile che il suo nome sia divenuto popolare. Infatti sia Rowena che Rhonwen entrano nell'uso a partire dalla letteratura romantica. Tutto ciò insegna quanto sia grande il potere del tempo, che è Ignoranza: il futuro è offuscamento e il passato è perdita di informazioni. Eppure su scala storica è passato sultanto un attimo!    

Etimologia dei cognomi Trevanion e Tremaine 

I cognomi Trevanion e Tremaine hanno entrambi la loro origine nella lingua celtica della Cornovaglia. Trevanion è attestato con le varianti Trevannion e Trevanning. Si tratta di un composto, il cui primo membro è tref "villaggio; fattoria" (varianti trev, tre). Il secondo membro è stato mal riconosciuto da molti autori. Alcuni pensano che sia guag "cavità" (prestito dal latino vacuum "spazio vuoto"), ma questo è impossibile per ragioni fonetiche. Altri interpretano il cognome come "luogo tra due fiumi", ma nemmeno questo è possibile. In cornico la parola avon "fiume" ha le forme plurali avoniow e avenow, che non spiegano il cognome. Anche in gallese afon "fiume" ha un plurale inadatto, afonydd. Così si scopre che Trevanion è formato a partire dal nome del padrone dell'antica fattoria di origine, Anian, attestato anche nella forma latinizzata Anianus, portato da due vescovi e corrispondente al gallese medievale eniawn "giusto". Tremaine è attestato come cognome con numerose varianti: Tremain, Tremayne, Treamain, Treaman, Treamann, Traemann, Traeman, Tramain, Tramaine, Traimain, Treamayne, Tramayne, Traymaine, Terman, etc. La forma Tremain compare seppur raramente persino come nome di battesimo. Chiaramente anche questo è un composto formato a partire da tref "villaggio; fattoria". Il secondo membro è però diverso: si tratta con ogni probabilità del cornico mên "pietra" (gallese maen). Il significato quindi sarebbe "Fattoria sulla Pietra". Un altro cognome cornico formato in modo simile è Trevena, con la variante Trevenna, in cui il secondo membro è il cornico menydh "montagna" (gallese menydd): "Fattoria sulla Montagna". Certamente Poe formò il cognome nobiliare Trevanion of Tremain giocando sull'assonanza tra le due parti che lo compongono. 

Etimologia di Verden 

L'origine del nome del nobile interpretato da Vincent Price è il cognome baronale Verden, anticamente Verdon o Verdun, introdotto in Inghilterra con la conquista normanna. Deriva chiaramente dal nome della cittadina francese di Verdun, tristemente nota per le ecatombi che ebbero luogo nella Grande Guerra. Il toponimo Verdun risale al celtico *Wi:ro-du:non, trascritto in latino come Virodunum o Verodunum. Il significato è "Città Forte" (da *wi:ro- "vero", ossia "saldo, forte", corradicale del latino ve:rus). In antico alto tedesco il nome appare come Wirten, forma che non ha dato discendenti nel tedesco attuale. Non c'è relazione col nome della città tedesca di Verden, il luogo dove ci fu il massacro dei Sassoni che non volevano abbandonare i culti pagani (ha una fricativa sorda /f/ iniziale)


Amnesia e reminiscenza 

Il 30 novembre 2018 scrivevo su Facebook la seguente nota: 

Un caso davvero bizzarro. La scorsa notte ho visto il film "La tomba di Ligeia" di Roger Corman, con Vincent Price (1964). Mi sono accorto di averlo senza dubbio già visto da giovane. Il fatto singolare è questo: ho compreso all’improvviso di averne rimosso completamente il ricordo a causa del trauma che mi aveva provocato. Ho riconosciuto il film come causa diretta di molti incubi atroci che mi hanno perseguitato per anni e da cui in seguito ho tratto ispirazione per il racconto "L'artiglio del Nullifico". Tali incubi, pieni di gatti inferociti, contenevano spesso ambientazioni che ricordavano quelle del film. In uno di questi ero un nobile e mi ero appena sposato: nel cuore della notte un terribile gatto nero saltava in faccia alla sposa, dilaniandole il volto e accecandola. Quello che più mi ha sorpreso è constatare che sia io che la sposa avevamo le stesse sembianze dei protagonisti del film di Corman! Lei era fulva e magra, e indossava un abito bianco simile a quello indossato da Lady Rowena, sembrava proprio lei. Attraversando un corridoio pieno di specchi, mi sono visto in volto. Ero proprio il Verden Fell del film e portavo gli stessi strani occhiali neri! Solo (ri)vedendo il film ho compreso il perché di ogni dettaglio di quel sogno spaventoso e funesto, che ha impresso un marchio indelebile nella mia memoria. In un altro incubo i gatti mi costringevano a trovare rifugio in una bara posta in un loculo sotterraneo. Quando sento i versi notturni dei gatti in calore che litigano, ancora oggi mi si gela il sangue nelle vene.