lunedì 28 ottobre 2019


LO SPIONE 

Titolo originale: Le Doulos
Anno: 1962
Paese: Francia, Italia
Lingua originale: Francese
Durata: 109 min
Colore: Bianco e nero
Rapporto: 2,35 : 1
Genere: Noir, poliziesco
Regia: Jean-Pierre Melville
Soggetto: Pierre Lesou (romanzo)
Sceneggiatura: Jean-Pierre Melville
Produttore: Carlo Ponti, Georges de Beauregard
Direttore della produzione: Jean-Pierre Melville
Pubblicità della produzione: Bertrand Tavernier
Casa di produzione: Studio Canal, Rome-Paris-Films
Distribuzione in italiano: Cecchi Gori Home Video
Fotografia: Nicolas Hayer
Fotografo di scena: Raymond Voinquel
Montaggio: Monique Bonnot,
      con l'assistenza di Michèle Boëhm
Operatore: Henri Tiquet,
     con l'assistenza di André Dubreuil ed Etienne Rosenfeld
Musiche: Paul Misraki,
      con la collaborazione di Jacques Loussier (piano bar)
Direttore di orchestra: Jacques Météhen
Fonico: Julien Coutelier,
     con l'assistenza di Jean Gaudelet e Victor Revelli
Scenografia: Pierre Charron
Costumi: Daniel Guéret,
      con l'assistenza di Donald Cardwell
Gioielli: René Longuet
Interpreti e personaggi:
    Jean-Paul Belmondo: Silien
    Serge Reggiani: Maurice Faugel
    Jean Desailly: Commissario Clain
    René Lefèvre: Gilbert Varnove
    Marcel Cuvelier: Il primo ispettore
    Jacques Léonard: Il secondo ispettore
    Philippe March: Jean, l'amico di Faugel
    Monique Hennessy: Thérèse, la ragazza di Faugel
    Philippe Nahon: Rémy
    Fabienne Dali: Fabienne, la ragazza di Silien
    Christian Lude: Il medico
    Paulette Breil: La moglie di Jean
    Daniel Crohem: Ispettore Salignari
    Michel Piccoli: Lushenco, proprietario del Cotton Club
    Charles Bouillaud: Il barista del Cotton Club
    Robert Blome: Un barista
    Georges Sellier: Un barista
    Charles Bayard: Il vecchio guardiano della villetta
    Carl Studer: Kern, l'uomo conosciuto da Faugel in carcere
    Jacques De Leon: Armand, proprietario del Cotton Club
    Volker Schlöndorff: Un uomo nel bar
    Dominique Zardi: Un picciotto di Lushenco
Doppiatori italiani:
    Renato Cominetti: Silien
    Ubaldo Lay: Maurice Faugel
    Sergio Rossi: Commissario Clain
    Mirella Pace: Thérèse, la ragazza di Faugel
    Aldo Silvani: Il medico
    Marisa Fabbri: La moglie di Jean
Titoli tradotti:  
    Tedesco: Der Teufel mit der weißen Weste (lett. Il diavolo
          col gilet bianco)

    Spagnolo: El confidente
    Catalano: El confident
    Inglese: The Finger Man (titolo usato per l'uscita in sala;
         per le uscite in video e DVD fu mantenuto il titolo in 
         francese)
    Russo: Стукач
    Polacco: Szpicel
    Greco (moderno): Ο Χαφιές
Date di uscita:
    13 dicembre 1962 (Italia)
    8 febbraio 1963 (Francia)


Trama:
Siamo in una Parigi spettrale. Dopo quattro anni di carcere per rapina, Maurice Faugel torna in libertà. Si reca subito dal ricettatore Gilbert Varnove, un vecchio amico (se così si può dire) verso cui cova un odio feroce quanto segreto. Mentre Varnove sta valutando una gran quantità di gioielli, proventi di un colpo in una gioielleria, ecco che Faugel si impossessa della sua pistola e lo uccide. Aveva con lui un conto in sospeso. La cosa desta un certo sconcerto nello spettatore: non emerge mai alcun cenno di ostilità da parte di Varnove nei confronti del suo carnefice, anzi, si notano solo segni di generosità, come l'offerta di ospitalità e di un pasto a base di stufato. Nella vittima non c'è il benché minimo segno di consapevolezza di quanto sta per accadere. Faugel prende la pistola dell'esecuzione proprio dal cassetto indicatogli dall'uomo destinato a morire pochi istanti dopo, farcito di piombo. Ogni azione dell'assassino è dettata da una determinazione glaciale. Uscito dalla casa di Varnove prima che possano giungere visitatori importuni, il malvivente riesce a seppellire i gioielli e l'arma del delitto nei pressi di un lampione, quindi si allontana nella notte che sembra eterna. Giunto nella propria casa, dove convive con la bionda e sensuale Thérèse, Faugel riceve la visita di altri esponenti del microcosmo criminale. Prima giunge il suo vecchio e fidato amico Jean, poi l'ambiguo quanto elegante Silien. I tre parlano dei dettagli tecnici per una rapina in una villa isolata nel sobborgo di Neuilly, abitata soltanto da un vecchio custode e sede di un'ambita cassaforte. Appena uscito, Silien usa un telefono pubblico per contattare l'ispettore Salignari. Più tardi Faugel lascia l'appartamento per andare a compiere il colpo assieme all'amico Rémy. A questo punto Silien torna da Thérèse e la percuote selvaggiamente, la lega a un calorifero e infierisce su di lei, costringendola così a rivelargli l'indirizzo della villa ove è in atto la rapina. Mentre Faugel e Rémy sono alla villa di Neuilly, dove hanno preso in ostaggio il custode, i poliziotti piombano loro addosso: c'è stata una soffiata. Durante la precipitosa fuga Rémy viene colpito a morte da Salignari, che a sua volta è abbattuto sul colpo da Faugel con un proiettile nel cuore. Ferito a sua volta nello scontro a fuoco, Faugel riesce a far perdere le sue tracce, finendo privo di sensi in un vicolo buio. Quando si risveglia, scopre di essere in un letto: è a casa di un dottore fidato, da cui è stato portato dalla moglie di Jean in seguito a una telefonata. Il medico estrae la pallottola dalla spalla ferita e consiglia all'uomo di riposare, ma questi decide di andarsene non appena ha recuperato un po' le forze. Prima di uscire, il gangster disegna di suo pugno una mappa in cui mostra dove ha sepolto la refurtiva sottratta al defunto Varnove, quindi dà istruzioni alla donna di consegnare quella rozza opera d'arte a Jean e di non farla vedere a nessun altro. Un odio cieco e assoluto lo anima, pervadendo ogni fibra del suo essere. La sua misera e violenta esistenza ha adesso un unico fine: riuscire a trovare il traditore e ucciderlo. Naturalmente i suoi sospetti cadono su Silien. Nel frattempo il commissario Clain, succeduto a Salignari, torchia il bellimbusto, pressandolo affinché collabori nella cattura del fuggitivo Faugel, ormai sospettato di essere proprio l'assassimo di Varnove. Ciò che preme ai poliziotti è proprio recuperare la refurtiva. Data la sua astuzia, Silien trova il modo di non affondare nella melma. Subito si affanna a telefonare a un gran numero di squallidi bar dove il ricercato potrebbe trovarsi, riuscendo così a gettare fumo negli occhi ai poliziotti, che non brillano certo per acume. Fatto questo, piomba nel Cotton Club, il locale di Armand, dove incontra la sua fiamma, la bellissima Fabienne, che desidera ancora in modo lancinante. L'ostacolo che deve rimuovere non è di poco conto, dato che la donna è una puttana al servizio del gangster-pappone Lushenco, l'autore del colpo alla gioielleria il cui bottino, finito a Varnove, è stato poi sottratto e inumato da Faugel. Nel frattempo Faugel cade nelle mani degli agenti del commissario Clain e finisce rinchiuso in cella, dove conosce un energumeno di nome Kern, che gli promette aiuto contro il delatore. Silien escogita uno stratagemma degno di Odisseo. Dopo aver recuperato il tesoro sepolto accanto al lampione, si introduce nella casa di Lushenco e con la complicità di Fabienne lo attira lì. Quando il tristo figuro è giunto davanti a lui, prima gli mostra la refurtiva sul tavolo, poi lo fulmina con una pistolettata. Subito dopo arriva anche Armand, che in breve finisce stecchito allo stesso modo. Silien lascia la cassaforte aperta per far credere che i due si siano uccisi a vicenda nel corso di un regolamento di conti, ma porta con sé i gioielli. L'inganno va a buon fine, i poliziotti ci cascano e liberano Faugel, che è così stremato da essere facilmente circuibile. Silien lo incontra e gli racconta una bella fiaba. Gli fa credere che la bionda Thérèse fosse una spia infiltrata nel mondo malavitoso da Salignari e che era stata proprio lei ad informare l'ispettore della rapina alla villa a Neuilly. Stando al suo mendace resoconto, sarebbe stata lei la spia. Fatto sta che Jean ha tramortito la donna, caricandola di peso su un'auto spinta in una cava e fatta precipitare in una voragine. Con queste parole Silien convince appieno Faugel, a cui consegna l'intera refurtiva. Faugel, che ormai lo vede come un angelo, si sente in colpa e capisce che deve fermare Kern, il sicario dalle mani stritolatrici come macine, prima che sia troppo tardi. In una giornata cupa, piovosa e cenerognola, Faugel si reca nella casa lussuosa che Silien si è fatto costruire a Ponthierry. Kern, che è lì nascosto in agguato, lo scambia per lo spione e gli spara, infliggendogli una ferita mortale. Silien arriva e riesce a uccidere l'energumeno, ma viene a sua volta colpito da un proiettile nella schiena. Prima di spirare fa appena in tempo a raggiungere il telefono e ad avvisare Fabienne che non potrà raggiungerla per cena. La narrazione termina così, con l'eliminazione di tutti i protagonisti, mentre cade una pioggia battente che sembra non dovere avere mai fine.


Recensione: 
Questo film di una complessità sorprendente, capolavoro assoluto del noir, è un vero e proprio trattato di gangsterologia. Se storcete il naso di fronte al neologismo da me usato, sappiate che la gangsterologia è la scienza esatta che studia i malviventi noti come gangster, riducendo a leggi razionali e deterministiche il loro agire. Potrebbe anche essere considerata un ramo della criminologia e più in generale dell'antropologia, ma credo che una simile definizione sarebbe un po' riduttiva. Tale è l'intensità della pellicola, che quando l'ho vista per la prima volta mi è balenata l'idea di non avere davanti ai miei occhi un semplice bianco e nero. Siamo sicuri che si tratti di un'intuizione tanto folle? Si ha l'impressione nettissima che la vicenda gangsterolica intessuta da Melville, fosca e labirintica fino all'estremo, si svolga su un pianeta solo in apparenza simile alla nostra Terra, come se ne fosse un gemello infero. Il suo sole è grigio, non giallo come il nostro. Appartiene all'Erebo. L'astro mortifero irradia solo in parte fotoni luminosi, per il resto le sue emissioni sono composte da fotoni neri, particelle chiamate Feyaden nell'antica Lingua Nera di Gavalan. Come effetto di questa natura non interamente compatibile con la fisica convenzionale, il mondo melvilliano conosce una sola sorgente significativa di luce utile agli occhi umani: le lampade a incandescenza. Ne deriva un'atmosfera opprimente, fatta di disperazione assoluta e di morte ontologica. Il Nichilismo non è una semplice idea in quell'ambiente, è una vera e propria presenza materiale, densa e greve. Sotto il Cielo del Nulla le creature non sperimentano la vita come noi la conosciamo. La loro condizione può solo essere chiamata "Morte in Vita" o "Vita nella Morte". Tutto ciò che esiste è immerso nell'Etere dell'Abisso. Spira un vento occulto e demoniaco dalle sorgenti stesse del Non Essere, una corrente gelida che pervade ogni cosa e offende ogni organo di senso. Quella che il regista disegna nei minimi dettagli è una vera e propria Francia incubica. Come H. P. Lovecraft ha evocato un New England incubico infestato dalla presenza di abominazioni senza nome e dai Grandi Antichi, così Melville è il demiurgo di questa desolazione francese noir in cui la coscienza dei senzienti si disgregra, muore ogni istante in eterno. Già all'inizio della pellicola vediamo sequenze molto significative. Faugel percorre un lungo passaggio che costeggia una linea ferroviaria in una periferia degradata. Tutto è fatiscente. La ringhiera di ferro battuto del tunnel sembra infinita. Le travi bullonate del soffitto, fatte dello stesso scuro metallo, paiono resti di antiche architetture ciclopiche, messe in posa quando Cthulhu ancora si aggirava a R'lyeh. Ogni blocco di pietra che compone il muro è una tomba in cui l'anima si decompone senza poter mai raggiungere la pace dell'Estinzione. Intorno alla ferrovia si estende una sterile landa di pietrisco, in cui non cresce nemmeno un filo d'erba, dove non potrebbe allignare nemmeno una blatta. Quando Faugel scava a mani nude nel terriccio per seppellivi il tesoro e la pistola con cui ha freddato Varnove, sembra di avere davanti agli occhi la natura di ciò che è stato fatto senza il Verbo. I fiochi fotoni generati dal vicino lampione si perdono in una tenebra compatta che li divora. Non siamo di fronte a una banale assenza di luce, bensì a qualcosa di dotato di una propria essenza oscura e aggressiva. Tale è l'annichilimento nel contemplare questi paesaggi funesti che non possiamo credere all'esistenza di una sola particella di Bene e di Luce in quel deserto di orrore assoluto! Sì, siamo di fronte alla definizione stessa di Inferno.


Etimologia di doulos 

In francese gergale la parola doulos significa "cappello" (per l'esattezza indica il képi, tipico copricapo dei gendarmi), ma anche "informatore della polizia", "spione". Secondo alcuni lo slittamento semantico da "cappello" a "informatore, talpa" sarebbe derivato dal costume degli spioni di riconoscersi dall'indumento in questione. Formulata in questi termini, una simile spiegazione è fallace e abbastanza stupida: se esistesse un copricapo tipico dei delatori, questo li renderebbe riconoscibili all'istante, cosa che ovviamente tali elementi non vogliono affatto. La pronuncia del vocabolo è /du'los/: la -s finale non è muta. Si tratta di un termine dell'argot usato dai criminali e dai poliziotti, in cui le parole con un suffisso -os non sono rare.

La stessa Wikipedia in francese menziona Melville nella pagina dedicata al lemma (il grassetto è mio): 

Plus tard, ce sera un feutre, un doulos, comme on dit dans les films de Melville, et je le vois le repousser en arrière, presque sur sa nuque, quand il est à la synagogue, ou le rajuster en avant, sur ses yeux, quand il sort de la maison pour aller faire ses visites.
(Martin Winckler, Plumes d'Ange, 2003)

L'etimologia è in ultima analisi abbastanza incerta. C'è chi vuol far derivare questa parola dal greco δοῦλος (doulos), che però significa "servo, schiavo": lo slittamento semantico non sarebbe razionale e credibile, a meno che il senso di "informatore, spione" non sia quello originale. Si avrebbe pertanto un passaggio da "servo" a "individuo servile", quindi a "informatore della polizia". Il punto è che il senso originale della parola è quello di "cappello". Una simile proposta etimologica è pertanto da rigettare senza indugio, anche se in Francia gode di un certo plauso da parte degli studiosi (ad esempio, è riportata nel dizionario di Wikipedia come se fosse un dato di fatto). Sono più incline a ritenere che doulos sia un derivato di douil "piccola tinozza da vendemmia", a sua volta dal latino dōlium "giara, orcio, barile, fusto". Questa è la catena di slittamenti semantici più verosimile:

"tinozza" => "képi" => "amico di chi porta il képi" => "uomo che fraternizza con la polizia" => "informatore, spione".

Certo, sarebbe stato più semplice e naturale se dal significato di "képi" si fosse evoluto direttamente quello di "gendarme", ma non sempre la lessicologia gangsterologica segue percorsi lineari. Il colmo del paradosso è che nel mondo di Melville il képi non lo porta nessuno: i costumi, sia dei poliziotti che dei gangster, sono completamente americani, fin nel più insignificante dettaglio (solo per fare un esempio, si beve whisky anziché l'acquavite nazionale francese, il cognac).


Il diavolo dal gilet bianco

Il titolo in tedesco è davvero singolare: Der Teufel mit der weißen Weste, ossia "Il diavolo col gilet bianco". Una scelta simile secondo me non può essere casuale. Trovo anzi che sia densissima di significati. Non bisogna lasciarsi ingannare da Silien, che è un maestro dell'ipnotismo. Quando racconta a Faugel come gli eventi si sarebbero svolti, cercando di allontanare da sé ogni possibile sospetto di tradimento, in realtà mente in modo spudorato. L'ingenuo Faugel finisce incantato, intontito come una vipera satolla di latte e rallentata dai processi di digestione fino a non potersi muovere. Innanzitutto Faugel avrebbe dovuto rendersi conto, stante il rigido codice dei malviventi, che l'amicizia tra Silien e l'ispettore Salignari era qualcosa di altamente sospetto. Non si può tralasciare il fatto che Silien menziona spesso l'affetto che lo legava a Salignari, tanto da chiamarlo col vezzeggiativo Sali. Non ho ben capito se i due fossero amici d'infanzia. Non si può nemmeno scartare a priori l'idea che tra loro ci fossero rapporti carnali sodomitici. In ogni caso si capisce che Silien si è compromesso con le sue stesse parole. Già solo per questo, Faugel non avrebbe dovuto dargli ascolto. Non si tratta di un dettaglio di poco conto, visto che per le leggi che governano la gangsterologia, il solo sentimento che un malvivente può provare nei confronti di un poliziotto è l'odio. Un odio assoluto e fiero, che impedisce qualsiasi tipo di contatto. C'è anche un'altra questione che reputo importante: non dobbiamo dimenticarci che Silien tratta Thérèse con inaudita brutalità, massacrandola, e tutto questo scempio non certo per punirla in quanto spia messa lì dal carissimo amico Salignari. Assolutamente no! Silien riduce Thérèse a un cencio sanguinolento per estorcerle un'informazione cruciale e lo fa proprio perché questa informazione serve a Salignari, pronto a calare come un rapace - e con grande subitaneità - sulla villa dove stanno Faugel e il suo compare stanno iniziando ad armeggiare con la cassaforte. Il sadismo mostrato da Silien contro Thérèse è qualcosa di inaudito e di inesplicabile. E se l'avesse punita per aver osato mettersi tra lui e Salignari? Soltanto la relazione intrattenuta dall'elegantissimo gangster con Fabienne mi rende difficile pensare che a muoverlo sia un odio assoluto verso il genere femminile - a meno che non coltivasse Fabienne per mero opportunismo. Se fosse così, potremmo pensare che si trattasse di un omosessuale virile, violento e sadico nei confronti delle donne. Personalità simili un tempo dovevano essere frequenti, soprattutto in ambienti militari... e nei bassifondi, nelle carceri. Erano oggetto di odio e di paura, ma esistevano. Al giorno d'oggi non se ne può neppure parlare, perché altrimenti insorge la setta dei buonisti politically correct, con la sua ideologia che vorrebbe ridurre tutti gli uomini che compiono atti sodomitici a creature femminili in un corpo maschile. Può darsi che questa mia ipotesi sia cervellotica e vana. So che molti insorgeranno all'idea di Salignari intento a ciucciare l'uccello a Silien e ad accoglierlo tra le chiappe. Ragazzi, vi capisco. Le mie elucubrazioni potrebbero essere insensate e senza riscontri con ciò che Melville intendeva, lo ammetto. Forse nemmeno il regista aveva chiaro tutto questo. Forse si è limitato a evocare qualcosa. A questo punto non lo sapremo mai. Dubito che possa esserci di grande aiuto il romanzo che ha fornito il soggetto: di certe cose negli anni '3o non si poteva parlare, né tantomeno scrivere. Possiamo trarre soltanto una conclusione certa, al di là di ogni dubbio: il diavolo col gilet bianco è un individuo stravagante che non rivela i suoi segreti allo spettatore, è destinato a portarsi nella tomba la sua natura contraddittoria e magmatica.


La gangsterosfera: ecosistemi e gradienti

Come accennato, la gangsterologia si fonda su pochi princìpi, che tuttavia sono ferrei. Uno di questi consiste nel comminare la morte a chiunque violi il codice d'onore, feroce, tribale e non scritto. C'è un solo modo per evitare una simile spietata condanna, che si abbatte sui delatori e credo anche sui pederasti: essere tanto intelligenti da far sì che nessuno si accorga che il codice stesso è stato violato. Se un uomo compie un'azione definita infame, deve anche avere la capacità di nasconderne ogni traccia. Silien è un esperto conoscitore della natura altamente entropica dell'ambiente in cui si trova immerso e sa bene come aggirare qualsiasi minaccia alla propria incolumità. O almeno crede di saperlo: alla fine lo tradisce la sicumera. Sa bene che per trarre profitto da un'esistenza così precaria bisogna sapersi giostrare in un luogo turbolento che può comunque dare anche qualche vantaggio di non poco conto. Basta capire come sfruttare i gradenti tra microcosmi confinanti che interagiscono di continuo. Possiamo dire che Silien è un prodotto delle forze evolutive descritte da Charles Darwin: ha compreso come adattarsi e aumentare le proprie possibilità di sopravvivenza in un mondo ostile. Vediamo di spiegare tutto ciò in termini molto concreti. Nel milieu del crimine descritto dal film di Melville esiste una forma di mutua solidarietà contro il nemico comune, le forze dell'ordine. Al contempo, ogni singolo gangster è essenzialmente solo ed è soggetto a una spietata concorrenza da parte dei suoi simili. Tensioni anche insanabili possono essere provocate in ogni momento per i più disparati motivi, come un inganno, la scoperta di un tradimento, una vendetta e via discorrendo. Nell'ecosistema gangsterologico nessuno è insostituibile. Quando un malavitoso viene ucciso, subito ne sorge un altro a prenderne il posto. Non sembra esserci spazio per realtà davvero organizzate e gerarchiche, come quelle oggi tristemente famose: nella massima parte dei casi i vincoli sono labili, è come se ognuno fosse un cane sciolto. Non si trova nemmeno traccia di elementi esoterici come cerimonie d'iniziazione con cappucci neri e santini bruciati. Silien è più furbo degli altri, sa come difendere la propria nicchia ecologica. Si assicura un vantaggio evoluzionistico ed adattivo eliminando i gangster concorrenti tramite la delazione, di cui è maestro, rendendo impossibile la determinazione della verità. La sua relazione omoerotica con Salignari (Sali nell'intimità) gli rende possibile compiere quest'opera con la massima efficienza. Salignari gli para il culo (non glielo rompe di certo, essendo passivo): lo protegge dagli agenti e da altri investigatori, gli permette di accumulare refurtiva e di non incappare in controlli e ispezioni. In cambio, Silien fornisce al suo amico poliziotto informazioni in grado di risolvere casi e quindi di aumentarne la posizione e il prestigio. Senza il gradiente tra la gangsterosfera e la società poliziesca, Silien non sarebbe nulla, avrebbe meno opportunità di conservazione e di arricchimento. Il suo sogno è la fuga dai bassifondi da incubo, dagli angiporti caliginosi dove le creature camminano come morti viventi. Vorrebbe rifugiarsi nella sua villa a Ponthierry, che è in qualche modo il frutto della sua relazione con Salignari. Un'evasione che si rivela impossibile: quando uno porta su di sé il marchio di una maledizione, non riuscirà mai a riscattarsi. Melville non permette allo spettatore facili idealismi e stereotipi. Esiste soltanto il Male. Si ha l'impressione che ci sia ben poca differenza tra i gendarmi e i furfanti, visto che hanno in comune la natura brutale. Uno degli agenti del commissario Clain sembra un gorilla. Potrebbe benissimo essere lui stesso un gangster. Probabilmente non è diventato un criminale soltanto per mancanza di iniziativa, perché troppo attratto da una paga sicura, seppur modesta.

L'enigma di Nuttheccio

Quando ho visto il film, mi sono subito reso conto che uno dei gangster ha un cognome ucraino: Lushenco. Non è difficile individuare nella terminazione -enko una caratteristica di molti cognomi ucraini. Aveva un cognome di questa origine anche il famoso scrittore di noir Giorgio Scerbanenco (nato Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko). Eppure in alcune versioni di Wikipedia, e tra queste quella in francese, al posto di Lushenco si riporta un cognome (o è un soprannome?) scritto in modo del tutto diverso e neppure troppo assonante: Nuttheccio (a volte ricorre la variante Nutheccio). Francamente non so dire granché di questo Nuttheccio. Non mi è neppure chiaro come si debba pronunciare, per non parlare dell'etimologia. Ancor più difficile è comprendere per quale assurda ragione sia stato possibile rendere Nuttheccio con Lushenco nella versione del film in italiano, visto che la fonetica sembra abbastanza dissimile. Troviamo Nuttheccio non soltanto nella Wikipedia in inglese e in quella in francese, ma anche in svariati siti con recensioni. Questo è un estratto da un articolo in inglese, intitolato Belmondo and Melville, che menziona il nome del gangster:


"Piccoli has a bluff everyman demeanor; he looks older than his years, and he brilliantly shows how Nutheccio’s mask of coolness soon slips in the presence of Silien, of whom he is afraid. By contrast, even when Silien is himself endangered later on, at his lowest ebb he maintains his cool, not even breaking sweat while injured by a gun."

Come si vede, questo enigmatico Nuttheccio non è una mia invenzione e non si deve a un mio fraintendimento. Ero convinto che fosse un parto dell'ingegno di Melville, le cui motivazioni ultime sembrano destinate a sfuggire per sempre. Invece ho constatato che  Nuttheccio è già presente nel romanzo di Pierre Lesou, di cui il film è un adattamento. Il che non porta lumi sulla sua origine ultima. Il mistero si infittisce se pensiamo che tutte le menzioni del bizzarrissimo antroponimo reperibili in Google sono relative proprio al film Le Doulos. Sembra che in concreto nessuno si sia mai chiamato Nuttheccio in tutta la storia di questo pianeta. Sarò sempre grato a chiunque mi porterà informazioni in grado di far luce sulla questione, anche se ho il sospetto che non accadrà mai. Per capire un po' meglio la pronuncia ci possono venire in aiuto le trascrizioni riportate nelle varie sezioni di Wikipedia. In russo abbiamo Нуттеччо, che lascia presupporre una pronuncia italiana, quasi fosse la deformazione di un ipocoristico Nuccio, pur non potendo spiegare l'inserimento di una sillaba mediana -te-. Le trascrizioni in caratteri cirillici, ricordiamocelo, sono ammirevoli per la loro precisione fonetica. In greco abbiamo invece Νουτέτσιο, come se la pronuncia originale fosse Nuttezzio. La trascrizione della vocale -u- è un'ulteriore prova che si deve pronunciare come in italiano, non come in francese. Un rompicapo. Mi spiace, non riesco a trovare il bandolo della matassa, getto la spugna. Una domanda mi angoscia. Cosa si era fumato Lesou? 


Salignari: un cognome misterioso

Stranamente non sono riuscito a trovare nel vasto Web quasi nessuna traccia del cognome Salignari, a parte le sue numerose menzioni in testi collegati con il film di Melville. All'inizio avevo pensato che si potesse trattare di un cognome còrso. È risaputo che la Francia è stata molto generosa con le genti della Corsica, distribuendo loro un immenso numero di posti nelle gerarchie poliziesche. Non stupirebbe quindi se l'ispettore Salignari fosse originario proprio dell'isola. Eppure del suo cognome non si trova traccia alcuna. Non sono riuscito nemmeno a reperire qualche variante a cui il nostro Salignari possa essere ricondotto. Nel sito GENS (www.gens.info/italia/, un tempo noto come Gens Labo) non si trova traccia né di Salignari né di Salignaro. Non sono riuscito a trovare nulla nemmeno in siti di ricerca di cognomi della Francia. L'unica menzione è in un sito genealogico, Ancestry (www.ancestry.com), in cui ho trovato che un certo Gasper James Samuel Murphy, australiano, avrebbe avuto come moglie Seraphine Veronica Salignari.  Si deve convenire che l'etimologia del cognome non è affatto immediata. In latino esistono i due aggettivi (verosimilmente dotti) SALIGNUS e SALIGNEUS, entrambi tradicubili con "di salice, di vimini", derivati da salix "salice; verga di salice" (gen. salicis, acc. salicem, da cui l'italiano salice, salce). Immagino che proprio da SALIGNUS si sia formato SALIGNĀRIUS, che a quanto apprendo nelle mie ricerche è realmente attestato in Spagna. Nella Gallia Narbonense esisteva un luogo chiamato SALIGNARO o SALIGNANELLO (indeclin.), citato in diversi documenti. "In pago Nemausense, in suburbio de castro Mormelico, villa Salignaro seu Salignanello, in ipsas villas totam quartam partem ab integritate" (815 d.C., vedi Provost, 1999). Sembra che sia il borgo oggi chiamato Salinelles. Alla luce di quanto esposto fin qui, il significato più plausibile di Salignari dovrebbe essere pertanto "intrecciatore di vimini". Se qualche latinista mi porterà un'ipotesi migliore, sono pronto a ringraziarlo fin d'ora. Altrimenti vorrà dire che siamo di fronte a un altro mistero destinato a restare avvolto in una cappa di oscurità impenetrabile. 


Altro materiale antroponimico  

Il cognome Silien è particolarmente comune a Landenne (Provincia di Namur, Belgio), dove ci sono più di cento persone che lo portano. Stando a quanto ho potuto reperire con grande fatica nel Web, Silien è anche un nome di battesimo. Compare in un interessantissimo elenco dei nomi francesi rari:


Credo che sia dal latino SĪLIĀNUS, aggettivo formato dal nome della Gens SĪLIA e attestato nell'onomastica (es. Licinius Nerva Silianus). Foneticamente la derivazione sarebbe ineccepibile. In bretone abbiamo silien "anguilla" (pl. siliou), che mi pare poco probabile come sorgente dell'antroponimo francese. Lamento la mancanza di studi etimologici seri.

Il cognome Faugel è raro, seppur presente su un territorio abbastanza vasto: lo portano una quindicina di persone a Rocroi, nelle Ardenne, ma si trova anche a Parigi. Al momento non riesco ad avanzare alcuna ipotesi sulla sua origine. Trovo decisamente strana la terminazione -el, che nonostante l'aspetto fonetico non può provenire dal latino -ellus (il cui esito sarebbe stato -eau). A quanto ho potuto appurare, è di origine ebraica ashkenazita.

Il cognome Kern del compagno di cella di Faugel è tedesco ed è molto comune in vaste aree del mondo germanico. Deriva chiaramente dal tedesco Kern "nòcciolo". Non si può nascondere un'ipotesi alternativa. C'è qualche possibilità che l'energumeno avesse le sue radici in Bretagna, anche se non risulta molto probabile: in bretone kern significa "mucchio di pietre". E se fosse un soprannome anziché un cognome?  

Il cognome Varnove è stranissimo e non riesco a documentarlo. A prima vista si direbbe di origine celtica: la sua iniziale fa pensare al prefisso celtico ver-, di chiara origine indoeuropea e corrispondente al latino super-. Se è così, non si comprende bene la seconda parte, -nove. Esiste un toponimo simile, Vernove, che potrebbe essere germanico. Per alcuni è dall'antroponimo Berno con l'aggiunta di en hof "nella corte"; ritengo più agevole pensare che la prima parte sia bero "orso". Così Vernove "Orso nella Corte", di cui Varnove sarebbe una variante. Il ricettatore Varnove potrebbe però avere un cognome slavo, basti pensare alla parola russa ворон (voron) "corvo". Si noti che esisteva una tribù slava degli Obodriti conosciuta come Varnove.

Uno strano neologismo

Parlando della produzione di Melville, si è spesso usata la parola polar. Si tratta di un portmanteau, ossia di una parola macedonia. La derivazione è dalle parole francesi policier "poliziesco" e noir. Semplice: policier + noir => polar /po'laR/. L'ortografia è fonetica, per ovvie ragioni, non storica come quella di noir. Un ipotetico *poloir /*po'lwaR/ sarebbe senz'altro suonato male. Mi sorgono alcune perplessità. Chiaramente non tutti i polizieschi sono anche noir. Esistono innumerevoli polizieschi non noir. I gialli classici sono un esempio. Questo arrivo a capirlo. Non sono un grande esperto, tuttavia a lume di naso mi sento di dire che tutti i noir sono anche polizieschi. Quindi non si vede la necessità del termine polar, che può apparire di etimologia poco chiara ai lettori. Eppure è una parola che ha avuto uno strepitoso successo. In un sito dell'estinta piattaforma di Geocities già ne era menzionata una sintetica definizione: 


"Polar : ce mot couvre à lui seul l'entièreté de la littérature policière moderne.
Dans nos pages, nous ne retiendrons cependant que la frange noire du spectre, celle qui a remis le crime dans la rue, comme le disait si bien Raymond Chandler."

Come spesso accade, la consapevolezza dell'etimologia della parola è andata smarrita e si è addirittura ritenuto necessario dire polar noir, con osceno pleonasmo. Sarebbe infatti come dire "policier noir noir"! Ecco le meraviglie linguistiche di quest'epoca in cui le facoltà più nobili dell'essere umano sono in via di disgregazione!     

Altre recensioni e reazioni nel Web

Se si dovessero raccogliere tutte le recensioni di questo film trovate nel Web, per poi pubblicarle in un volume cartaceo, questo avrebbe proporzioni colossali e sarebbe più pesante di un blocco di basalto. Si trovano molte osservazioni interessanti, anche se purtroppo sono disperse in un oceano di banalità. Va detto che tutti sono concordi nel riconoscere la grandezza di Melville e del suo immortale capolavoro. Sono felice di non aver trovato nemmeno l'ombra di una critica, fosse anche larvata. La recensione di Davide Chiappetta, pubblicata su www.mymovies.it, è molto utile e densa di informazioni. Ne riporto alcuni estratti particolarmente significativi, a beneficio dei lettori:  


"Melville ispirandosi ai grandi registi americani, in primis John Huston, diede nuova linfa al genere gangster (di necessità virtù visto che gli ambienti francesi sono totalmente diversi da quelli americani) e in seguito i grandi registi americani (dalla New Hollywood in poi)  presero a prestito, se non copiarono, proprio il suo stile."

"Anche se 'Le Doulos' è un adattamento del romanzo di Pierre Lasou (sic) con idiomi dei classici film noir americani e toccchi esistenzialisti francesi, le sue preoccupazioni centrali, lealtà, tradimento, vendetta, paranoia e inganno, sono ugualmente portatori informativi delle sue esperienze durante la guerra (da giovane combattè nelle file della resistenza francese con il nome di battaglia di Melville in onore del poeta e scrittore americano Herman Melville), Questo film, come il successivo 'L 'Armée des Ombres' (1969), rivela la continuità tematica tra film di resistenza  (Léon Morin, prêtre) e il genere 'polar'; e il set di 'Le Doulos' ricorda molto di più la Francia occupata durante la guerra, che Parigi degli anni sessanta."

venerdì 25 ottobre 2019


NON C'È FUMO SENZA FUOCO

Titolo originale:  Il n'y a pas de fumée sans feu
Anno: 1973
Paese: Francia, Italia
Lingua: Francese
Durata: 123 min
Genere: Drammatico
Sottogenere: Politica, giornalismo, malagiustizia, corruzione
Regia: André Cayatte
Assistente alla regia: Alain Bonnot
Soggetto: André Cayatte
Sceneggiatura: André Cayatte, Pierre Dumayet, Roberto De
    Leonardis
Dialoghi: Pierre Dumayet
Casa di produzione: Audio Labrador Carlton, Euro 

Distribuzione in italiano: San Paolo Film
Distribuzione in francese: C.F.D.C.
Fotografia: Maurice Fellous
Montaggio: Françoise Javet
Musiche: Pierre Duclos
Scenografia: Robert Clavel
Costumi: Nicole Brize
Trucco: Mario Banchelli, Louis Bonnemaison, Irene Servet-
      Matagne
Interpreti e personaggi:
    Bernard Fresson: Michel Peyrac
    Annie Girardot: Sylvie Peyrac, la moglie di Michel
    Frédéric Simon: Il figlio dei Peyrac
    André Falcon: Joseph Boussard
    Michel Bouquet: Edouard Morlaix
    Mireille Darc: Olga Leroy
    Marc Michel: Jean-Paul Leroy
    Mathieu Carrière: Ulrich Berl, il fotografo tedesco
    Paul Amiot: Gustave Arnaud, il marito di Corinne
    Micheline Boudet: Corinne Arnaud
    Pascale de Boysson: Véronique
    Robert Rimbaud: George Ravier
    Georges Riquier: Il giudice
    André Penvern: Il parroco amico di Peyrac
    Marius Laurey: Un picciotto di Morlaix
    Paul Bisciglia: Un picciotto di Morlaix
    Victor Garrivier: Un poliziotto
    Nathalie Courval: Gaby
    Marc Michel: Jérome Leroy
    Jean-Paul Tribout: Il radiogiornalista
    Patrick Bouchitey: L'amico di Ulrich
    André Reybaz
    Pierre Tabard
    Jacques Ardouin
    Didier Gaudron
    Pierre Leproux
    Marius Balbinot
    Daniel Bellus

Trama:
Il sindaco Joseph Boussard è un politicante repellente e mafioso. Non ha scrupoli di sorta, il suo encefalo è puramente rettiliano: ogni sua pulsione ha come fine ultimo la predazione, il sopruso e il malaffare. Coinvolto in ogni genere di porcheria, vuole radere al suolo il sobborgo di Chavigny, satellite di Parigi, per sostituirlo con un opprimente conglomerato cementizio in cui deportare la popolazione nativa, da lui vista come una varietà subumana. Se qualcuno osa emergere dalla fogna del comune da lui governato con pugno di ferro, subito è sommerso da guai a non finire. Boussard dispone di un valido agente segreto, il bieco vicesindaco Edouard Morlaix, che fa pedinare qualunque elemento scomodo. Profondo conoscitore della natura umana, Morlaix sa bene che in ogni persona c'è sempre qualcosa che non va: si trova sempre una macchia che può essere usata per ricattare e per neutralizzare chiunque. Alle dipendenze di Morlaix lavora una squadraccia di energumeni sempre pronti a ridurre a malpartito gli avversari politici. Accade così che una notte essi commettono un omicidio. Un attacchino del campo avverso viene sorpreso mentre dipinge sui manifesti elettorali di Boussard i baffetti da Hitler (la reductio ad Hitlerum è onnipresente nel mondo moderno e postmoderno). Come conseguenza di cotanto ardire, l'attivista viene incalzato e finisce colpito a morte dall'automobile degli sgherri boussardiani. Si scatena il pandemonio. I funerali del defunto vedono una grande partecipazione da parte dei popolani di Chavigny. Emerge dal loro novero la figura del dottor Michel Peyrac, un medico integerrimo, di grande levatura morale, tutto impegnato nel suo lavoro a favore degli altri senza mai pretendere alcun vantaggio per sé e senza sguazzare in alcun brago. La sua stessa presenza è ingombrante, il suo operato è come fumo negli occhi per Boussard e per la sua cricca mascherata da giunta. Un simile campione di onestà non può essere tollerato, deve essere rimosso con qualsiasi mezzo, legale o illegale. Tanto più che Peyrac non si limita a semplici dichiarazioni di principio: accetta infatti l'invito dei suoi sostenitori a candidarsi alle elezioni comunali. Se riuscisse ad essere eletto, diverrebbe sindaco di Chavigny e il tempo di Boussard sarebbe finito. Ecco che Morlaix si mette in moto e fa pedinare il medico. Non scopre nulla di degno di nota su di lui, ma non demorde. Infatti le sue indagini sulla moglie del dottor Peyrac, Sylvie, hanno maggior fortuna. La signora - pur fedelissima al suo uomo - frequenta una donna di condizione altolocata, l'affascinante bionda Olga Leroy, che ha una vita sessuale molto disinvolta, libera come quella delle mosche. Non soltanto il marito della maliarda, Jean-Paul, è al corrente di questo e approva, ma dirige lui stesso le danze, organizzando sfrenati festini orgiastici. Ogni sera, nella dimora signorile dei Leroy, maggiorenti del paese, si svolgono baccanali sessuali - a cui la Peyrac non partecipa. Il giovane tedesco Ulrich Berl si diverte a fotografare i partecipanti a questi convegni durante le loro sfrenatezze, eccitandosi nel contemplare il piacere altrui. Nonostante abbia fama di uomo poco virile (all'epoca si faceva confusione tra il concetto di "guardone" e quello di "impotente"), Berl si mostra intraprendente con la signora Peyrac, che concupisce a tal punto da sviluppare per lei un'autentica fissazione. La corteggia, la fotografa per fare complesse e stravaganti opere d'arte simili a collage, mettendo le riproduzioni del suo volto nei contesti più grotteschi. Queste passioni giungono alle orecchie di Morlaix, che passa all'azione, ricattando il ragazzo per via di certi suoi trascorsi giudiziari (ha lasciato morire una ragazza piena di droga) e costringendolo così a produrre un fotomontaggio in cui la signora Peyrac compare nel ben mezzo di un'orgia nella casa di Olga. Una volta entrato in possesso della fotografia alterata, Morlaix la usa come arma contro il dottor Peyrac. Una mattina Sylvie trova quel materiale nella buca delle lettere, assieme all'invito a premere sul marito affinché ritiri la sua candidatura alle comunali. In caso contrario, la lettera ricattatoria afferma che tutti a Chavigny riceveranno una copia della foto compromettente. La signora Peyrac non dà troppo peso alla cosa, perché nutre la puerile convinzione che quando una persona è onesta non debba temere nulla. Fa sapere tutto al consorte, esortandolo a non cedere. Il punto è che Morlaix non è uno di quei politici sbruffoni che strepitano e tuonano minacciando i loro avversari a destra e a manca, per poi non fare nulla. Non è come Netanyahu, per intenderci. Una mattina, in tutte le caselle postali di Chavigny, nessuna esclusa, viene collocata una copia della foto con la signora Peyrac che si fa possedere carnalmente. Tutti, persino i bambini, possono vedere. La reazione di sdegno popolare è fortissima. Sui muri compaiono enormi disegni di cazzi gonfi e scritte del tipo "Le puttane votano Peyrac". Il figlio della coppia viene bullizzato e aggredito a scuola, tanto che la madre è costretta a portarlo in un ambiente più tranquillo, in un istituto gestito dalle suore. Le disgrazie sono appena all'inizio. Ulrich Berl, in preda ai sensi di colpa, ha scritto una lettera al fratello che vive in Germania, rivelandogli l'accaduto e pregandolo di rendere tutto pubblico in caso capitasse qualche "incidente". A questo punto Morlaix fa uccidere il fotografo tedesco, trovando un modo ingegnoso e diabolico per far ricadere la colpa proprio sul dottor Peyrac, che finisce in prigione. In Francia non esiste l'habeas corpus: l'imputato è considerato colpevole di default e deve provare da sé la propria innocenza. Tutti i tentativi di dimostrare la falsità del fotomontaggio porno risultano fallimentari: persino i laboratori della Marina militare, che hanno in dotazione le apparecchiature più moderne e sofisticate, non riescono a trovare alcuna traccia di manipolazione nel documento. La situazione sembra sul punto di precipitare. Sylvie supplica la sua amica Olga di trovare il modo per liberare il marito ingiustamente detenuto. La signora Leroy riesce a identificare l'amica Corinne Arnaud nella donna il cui volto è stato sostituito da quello della signora Peyrac. Mette così in atto un elaborato ricatto. Si reca dalla famiglia Arnaud, di elevatissime condizioni sociali, mostrando al cornuto Gustave la foto originale in cui compare sua moglie Corinne e minacciando di consegnare il negativo alla signora Peyrac. In questo modo ottiene quanto richiesto. Il dottor Peyrac viene scagionato da testimoni comparsi all'improvviso e rilasciato dal carcere, ma è psicologicamente annientato, così ritira la sua candidatura. Non tutti i suoi sostenitori della prima ora sono rimasti ad attenderlo, segno evidente che lo scandalo ha intaccato in modo serio la sua reputazione. Boussard stesso annuncia di non volersi ricandidare, ma al contempo passa la palla al suo fido collaboratore, il mefistofelico Morlaix!



Recensione:  
Vidi questo film per la prima volta quando frequentavo le scuole medie, a un cineforum scolastico gestito da un prete grassoccio e sadiano dai radi capelli biondicci. Somigliava un po' a una versione paffuta di Houellebecq. Quando ho rivisto la pellicola, decenni dopo, mi sono reso conto di quanto precoce è stata la mia esposizione a frammenti di pornografia. Non me ne ricordavo proprio più. Ero ancora quello che Giovanni Calvino chiamava un "piccolo fetente". Sì, ero quello che Sigmund Freud definiva un "perverso polimorfo". Ne sono sicuro, dentro di me c'era qualcosa che mi permetteva di comprendere l'intrinseca essenza di quanto vedevo, anche se una specie di censore interiore poi si metteva in moto per rimuovere tutto. "Ma sì, sono cose che fanno le francesi", questo mi dissi quando vidi la foto in bianco e nero dell'orgia, con la Girardot che veniva posseduta nella posizione viso a viso, mentre una bionda era messa alla pecora e penetrata da dietro da un amante, tra le chiappe, mettendo al contempo la faccia in mezzo alle gambe di un altro uomo, di cui accoglieva il fallo in bocca. Tutto ciò è riemerso all'improvviso nel mio cranio, come una bolla eruttata in un calderone pieno zeppo di caldo pus maleodorante, proprio mentre mi sono passate davanti agli occhi nuovamente quelle sequenze del capolavoro di Cayatte, non molto tempo fa. "Le francesi sono tutte così, specialmente quelle bionde", pensavo da piccolo - dove "sono tutte così" stava per "sono tutte puttane". Questa era stata la mia conclusione, il risultato prodotto dal mio cervello febbricitante, intossicato dai veleni sparsi dal perverso ecclesiastico. Un'altra scena che si è stampata a fuoco nella mia memoria infantile, perduta e recuperata, è stata quella in cui la bellissima Mireille Darc, conturbante e dai capelli biondissimi, quasi albini, stava straiata tutta nuda in posizione prona, a pancia in giù. Un picciotto del lubrico vicesindaco Morlaix, commentando quella visione paradisiaca, spiegava che un amante baciava la donna leggiadra dappertutto. La mia fantasia si è sfrenata, si è messa a galoppare. Non posso fare a meno di pensare a queste cose. Ora come allora. Sì, l'amante le metteva la bocca su ogni parte del corpo: sui piedi, sulle chiappe, sull'ano, su ogni lembo di pelle, la baciava e la leccava... Servono a questo gli amanti, non è vero? Sì è vero, è sacrosanto, anche quando non sono apprezzati da nessuna. In qualche modo questi pensieri morbosissimi già pulsavano nella mia mente infantile, anche se non trovavano parole adatte per esprimersi. Esistevano già, nonostante siano rimasti sopiti e indecifrabili per molto tempo. E tutto questo, signore e signori, è il mitico Non c'è fumo senza fuoco del geniale André Cayatte. Non mi è stato facile ritrovare il film, sapete? Ho dovuto cercarlo per mesi prima di poterlo finalmente vedere di nuovo. Non ne ricordavo neppure il titolo. Il Web all'inizio mi è stato di scarso aiuto, opponeva una strenua resistenza ai miei tentativi. Poi finalmente ho trovato la chiave di ricerca giusta, sono riuscito nel mio intento e ho recuperato tutte le informazioni che cercavo. Spesso sono rimasto deluso da film rivisti dopo molto tempo: talvolta mi sono parsi insipidi, altre volte inconsistenti o addirittura grotteschi. Non è questo il caso. Le sequenze cayattesche sono da vedere e da rivedere. Adoro la Darc. Avrei potuto innamorarmi di lei, e invidio Alain Delon (che pure non riscuote le mie simpatie, è troppo gangsteresco) per aver avuto contatto con la sua pelle, per averla conosciuta in senso biblico. Certo, Annie Girardot è bravissima, la sua interpretazione è intensa e particolare, ma non è lei il mio tipo ideale di donna. Spero che scuserete le mie tediose considerazioni. A questo punto non vi resta che visionare di persona quest'opera meritoria e di farmi sapere le vostre opinioni.


"Male non fare, paura non avere"

Molti in Occidente sono convinti che il Principe Siddharta Gautama, più noto come Buddha, abbia pronunciato queste parole: "Male non fare, paura non avere". In realtà non mi risulta che il detto sia a lui attribuibile. Non in modo diretto. È semplicemente un adagio popolare italiano, che affonda le sue radici nel latino "recte faciendo, neminem timeas", ossia "agendo rettamente, non devi temere nessuno", di chiara origine stoica. Del resto le frasi apocrife di Buddha sono innumerevoli, tanto che se le si raccogliesse si potrebbe comodamente ottenere un'enciclopedia voluminosa come la vecchia Treccani. Chi al giorno d'oggi ha scritto sul suo vessillo "Male non fare, paura non avere", non ha in genere la benché minima idea di chi fossero gli Stoici. Le genti intepretano queste parole così: "Male non fare e non ti capiterà nulla di male, sarai sempre al sicuro". Un singolare fraintendimento, in cui è caduta la stessa signora Peyrac. Difficile rendersi conto di quanto sia ingannevole questo sentire comune che impregna lo Zeitgeist iper-ottimista e puffesco. Per far capire cosa si intendeva in Oriente, riporto un breve aneddoto. Si racconta che un monaco buddhista incontrò un bandito, un feroce predone di strada che lo minacciò con una spada. Volendo terrorizzare il religioso, il malvivente gli disse: "Ti rendi conto che potrei infilzarti con la spada in un attimo?" Al che l'altro rispose prontamente: "E tu ti rendi conto che hai di fronte un uomo a cui non interessa proprio niente di essere infilzato con la spada?" Si dice che il brigante, sconvolto da quanto aveva udito, cadde in ginocchio convertendosi e diventando egli stesso un monaco; col tempo divenne addirittura un santo, molto venerato dal popolino. Nell'Antica Roma si riportano episodi non troppo dissimili. Il filosofo stoico Epitteto fu schiavo di Epafrodito, un effeminato e crudele liberto dell'Imperatore Nerone. Epafrodito si divertiva a percuotere con un bastone una gamba del filosofo, che senza scomporsi predisse la rottura dell'osso. Quando avvenne l'inevitabile, lo stoico disse al suo torturatore qualcosa come: "E adesso che mi hai rotto la gamba, cos'hai ottenuto?" Tutto ciò è mirabile. Per far capire come la stessa esortazione a non temere alcun male viene interpretata nell'Occidente moderno e postmoderno, riporto invece il caso di un fricchettone pieno zeppo di cannabis, fumato fin sopra i capelli, una vera e propria testa di ganja che scriveva in Facebook a ogni piè sospinto: "Male non fare, paura non avere!" Ma come? Se i poliziotti fossero piombati nella casa di questo coglione fallocefalo, immagino che sarebbe stato zitto all'istante, sudando freddo. Si sarebbe defecato in mano, rischiando una bella condanna per la sua "fioritura". Già, perché se anche egli riteneva che coltivare piantine di cannabis fosse una cosa buona e innocente, non comprendeva di vivere in una nazione in cui è in vigore una legge che lo vieta e commina pene severe a chi sia trovato colpevole. Dove hanno sbagliato i Peyrac e il fricchettone pieno di ganja? Hanno tutti misurato il concetto di Male col proprio metro, senza tenere nel benché minimo conto il contesto. Un contesto che del Male ha un'idea diversa. Hanno poi creduto nell'esistenza di una forza soprannaturale in grado di difenderli e di far trionfare le loro ragioni sulle avversità del mondo. Inutile dire che una simile forza non esiste. Ovviamente, né i Peyrac né l'adoratore della Maria hanno come fondamento della loro esistenza il raggiungimento del Nirvana o le dottrine di Marco Aurelio. Non c'è quindi detto più ingannevole di "Male non fare, paura non avere", per due motivi: in primis tu puoi pensare di  non fare nulla di male, mentre fai qualcosa che è ritenuto male da quanti ti circondano; in secundis tu puoi non aver fatto proprio nulla, ma gli altri ti possono gettare addosso una valanga di merda. Molto in concreto, in entrambi i casi c'è da avere paura. La merda non te la leverà di dosso nessuno.

La calunnia è come il plutonio 

No, la calunnia non è un venticello, come popolarmente si dice. La calunnia è un contaminante. Agisce proprio come l'elemento più tossico nell'intero Universo: il plutonio. La calunnia è come il plutonio, ne ha tutte le proprietà. Anzi, è ancora più nociva del letale metallo transuranico, perché compromette in modo irreparabile l'ontologia stessa di chi viene contaminato. Penetra nel suo essere e lo inquina. Cayatte ci mostra un duro ma necessario insegnamento: è impossibile per chi è stato calunniato ritornare integro. Per rendere l'idea, si può dire che la calunnia agisce in modo quantistico. Quando il contaminante si posa su una persona e si insinua in profondità, la realtà stessa finisce col diventare irrilevante. Agli occhi del mondo, non ha più nessuna importanza nemmeno che il calunniato sia davvero colpevole o innocente. Non interessa a nessuno conoscere la verità. Per paradosso, se anche fosse accertata l'innocenza in modo inequivocabile, rimarrebbe comunque un residuo di sospetto. L'azione di questo veleno concettuale vanifica la conoscenza, la perturba, sfoca gli stessi fatti, crea le condizioni per qualcosa di terrificante: l'Indeterminazione. La Fisica della Calunnia è illustrata in modo magistrale in Non c'è fumo senza fuoco. Quando la matassa degli eventi funesti si avvia a dipanarsi, verso il finale del film, accade qualcosa di estremamente interessante. Il ricchissimo Gustave Arnaud pone alla bionda Olga Leroy, che lo ricatta, una sola condizione: aiuterà il dottor Peyrac a patto che egli non veda mai la fotografia originale e che quindi non sappia mai se la moglie gli è stata o meno infedele. Questo ha conseguenze gnoseologiche severe. Avete presente l'esperimento concettuale di Erwin Schrödinger? Quello del gatto chiuso in una scatola d'acciaio, che è al contempo vivo e morto? La stessa cosa accade con Sylvie Peyrac, che è al contempo infedele e fedele al marito. La donna ha partecipato e al contempo non ha partecipato all'orgia a casa dell'amica Olga Leroy. Il suo stato esistenziale è una sovrapposizione di funzioni d'onda epistemologiche che descrivono l'una un particolare evento e l'altra la negazione dello stesso evento. Non esiste nessuno strumento che il dottor Peyrac possa usare per raggiungere una conoscenza certa, perché l'indeterminazione è intrinseca, ontologica, non è dovuta a limiti tecnici nei mezzi d'indagine. La foto e il suo negativo esistono e nello stesso tempo non esistono: l'esperienza stessa della loro percezione è inaccessibile all'interessato. Non è raggelante? Non è destabilizzante? Possibile che nessun filosofo si sia reso conto di tutto ciò? Questo film è ben più di quanto possa sembrare a prima vista.

Altre recensioni e reazioni nel Web

Non è un film che abbia dato origine a una girandola di thread animati e di controversie, cosa di cui mi rammarico. In fondo non c'è da stupirsi che sia stato a dir poco sottovalutato. Sarà anche una banalità, ma devo dire che il cinema francese in genere non piace molto in Italia. Si trova qualche intervento sul sito del Davinotti:

Nicola81 scrive:

"Onesto dottore si candida sindaco di una città di provincia, ma l'amministrazione in carica ricorre a qualunque mezzo pur di fermarlo... Animato dalla consueta passione civile, Cayatte dirige un film di denuncia che pur reggendosi su un presupposto che desta non poche perplessità (possibile che negli anni '70 non si fosse in grado di smascherare una foto taroccata?), si segue con interesse grazie a un bel ritmo, dialoghi ficcanti e un ottimo cast: svettano Fresson e soprattutto la Girardot, poi l'ambigua Darc, Bouquet e Falcon al solito infidi" 

Kanon scrive, con una vena polemica:

"Cayatte riadatta l'affaire Markovic alla provincia, che pur piccola che sia tiene in seno serpi da serie A. Tentazioni manicheiste se ne vanno a spasso con una processione che la fa tanto ma tanto lunga - e col passare dei minuti, sempre più inverosimile - quando invece sarebbe bastata una banalissima prova del nove (cos'è, troppo pudore o dimenticanza volontaria subordinata alla tesi?) per poter sbugiardare la carnevalata imbastita. De toute façon, di mestiere il cast indora la pillola."

Come spesso accade, sono costretto a farmi bollire il sangue leggendo parole come "tentazioni manicheiste". Possibile che un aggettivo che descrive un grande pensiero religioso e filosofico sia usato in senso abusivo da gente che in sostanza non ne conosce nulla?

La pellicola di Cayatte non è affatto piaciuta ai gestori di www.filmtv.it, nel cui sito possiamo leggere questa nota desolante: 

"André Cayatte, prima di darsi al cinema, faceva l'avvocato. Ne avrà viste di tutti i colori ma questo non giustifica un racconto così artificioso, faticoso e didascalico. Il film si lascia vedere, ma data l'ottima prova degli attori (Annie Girardot in testa), resta un'occasione sprecata."

Profondamente scettico è anche Jonas, che pure riconosce al regista qualche merito:

"Il film fa parte della parabola discendente della carriera di Cayatte, ormai lontano dai fasti degli anni ’50, ma ne conserva il piglio vigoroso e la passione civile: c’è qualcosa soprattutto di Fascicolo nero, nella denuncia delle pericolose connivenze fra politici, magistrati e poliziotti. Il problema è che i cattivi sono così goffi, le loro macchinazioni così stupide, che si fatica a credere che possano reggere quasi fino alla fine (non so quale fosse la situazione dell’epoca: con gli strumenti a disposizione oggi, smascherare un fotomontaggio, verificare tabulati telefonici o stabilire l’ora di una morte sarebbe ordinaria amministrazione); e anche la vittoria finale dei buoni arriva in modo così contorto da non lasciare pienamente soddisfatti. Comunque, pur servendosi di mezzi elementari, la vicenda sa coinvolgere."

Tra questi recensori non ne vedo uno solo che abbia davvero compreso l'opera di Cayatte. Si limitano a considerazioni di estrema superficialità, com'è consuetudine in simili siti del Web. Potessi imbattermi in qualcosa che va al di là dei pensierini delle elementari e dei temini delle medie!  

martedì 22 ottobre 2019


AMERICAN PASTORAL 
(film)

Lingua originale: Inglese
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Anno: 2016
Regia: Ewan McGregor
Lingua: Inglese

Genere:
Drammatico

Durata:
108 min
Rapporto: 2,35:1
Soggetto: dall'omonimo romanzo di Philip Roth
Sceneggiatura: John Romano
Produttore: Gary Lucchesi, Tom Rosenberg, Zane Weiner
Produttore esecutivo: Andre Lamal, Terry McKay
Casa di produzione: Lakeshore Entertainment, Lionsgate
Distribuzione in italiano: Eagle Pictures
Fotografia: Martin Ruhe
Montaggio: Melissa Kent
Musiche: Alexandre Desplat
Interpreti e personaggi 
    Ewan McGregor: Seymour Levov lo Svedese
    Jennifer Connelly: Dawn Dwyer Levov
    Dakota Fanning: Merry Levov
    Rupert Evans: Jerry Levov
    Peter Riegert: Lou Levov, il padre dello Svedese
    Valorie Curry: Rita Cohen
    David Strathairn: Nathan Zuckerman
    Uzo Aduba: Vicky
    Mark Hildreth: L'agente Dolan
    Molly Parker: Sheila Smith
    David Whalen: Bill Orcutt
    Corrie Danieley: Jessie Orcutt, la milf alcolizzata
    David Case: Russ Hamlin
    Max Ivcic: Il figlio di Hamlin
    Ocean "Nalu" James: Merry Levov a 8 anni
    Hannah Nordberg: Merry Levov a 12 anni
    Julia Silverman: Sylvia Levov
 
    Chuck Diamond: Il rabbino 

    Peter Gannon: L'ufficiale di polizia
    Leonard Anthony: La guardia nazionale
Doppiatori italiani 
    Francesco Bulckaen: Seymour Levov lo Svedese
    Giuppy Izzo: Dawn Dwyer Levov
    Rossa Caputo: Merry Levov
    Massimo De Ambrosis: Jerry Levov
    Carlo Valli: Lou Levov
    Benedetta Degli Innocenti: Rita Cohen
    Mario Cordova: Nathan Zuckerman
    Laura Romano: Vicky
    Gianfranco Miranda: agente Dolan
    Francesca Fiorentini: Sheila Smith 
Budget: 10 milioni di dollari USA
Box office: 1,7 milioni di dollari USA (fallimento completo)
Traduzioni del titolo: A quanto mi risulta, è stato sempre
    mantenuto il titolo originale.

Trama:
Siamo nel 1996, nel Liceo di Weequahic, nel quartiere ebraico di Newark, New Jersey. Si sta tenendo la quarantacinquesima riunione annuale della classe '51. In quest'occasione lo scrittore Nathan Zuckerman si aggira triste tra gente che non riesce nemmeno più a riconoscere. Si sta annoiando a morte, ma a un certo punto raggiunge un corridoio con i trofei di Seymour Levov lo Svedese, che all'epoca era un eroe sportivo. Ha così inizio un lungo flashback: vediamo il giovane Svedese alle prese con l'arcigno padre, Lou Levov, proprietario di un'importante fabbrica di guanti. Il motivo del contrasto è la reginetta di bellezza Dawn Dwyer, Miss New Jersey 1947, che lo Svedese vorrebbe sposare. L'autoritario genitore non vede di buon occhio l'unione per via della differenza di religione tra i fidanzati ed è scettico sul loro futuro insieme. Sottopone quindi la ragazza cattolica a un estenuante interrogatorio, mettendola in grande imbarazzo, ma alla fine è conquistato dalla sua onestà e dalla sua determinazione. A questo punto il patriarca ashkenazita non può lesinare la sua benedizione ai due giovani e le nozze hanno luogo. Tutto sembra andare a gonfie vele. Seymour e Dawn hanno una figlia, Meredith "Merry", e vanno ad abitare in una cittadina dal nome a dir poco bizzarro: Old Rimrock (to rim significa "praticare l'anilingus"). La coppia acquista in quella ridente località una bella fattoria antica, che dista soltanto 30 miglia dalla fabbrica di guanti di Newark. Le nebbie dei ricordi si diradano, quando Zuckerman incontra il suo vecchio amico Jerry Levov, fratello minore di Seymour. Subito i loro discorsi vanno allo Svedese, da poco scomparso (i funerali si sarebbero svolti l'indomani), per poi concentrarsi sui traumatici avvenimenti degli anni '60, epoca in cui lo scrittore si trovava all'estero. Mentre Jerry racconta, un nuovo flashback prende corpo. Merry cresce con un significativo problema di pronuncia: è balbuziente. Inciampa sulle sillabe. Dal momento che i suoi genitori irradiano bagliori di perfezione assoluta, tanto da sembrare nativi della Terra degli Dei, non sono in grado di gestire il cruccio di una figlia tanto scomoda e fastidiosa. Lo spigoloso nonno Lou dice che la nipotina tartaglia perché ha una mente che lavora troppo in fretta. Nel suo equilibrio, nella sua razionalità assoluta, lo Svedese non vorrebbe dare troppa importanza alla cosa, ma ben presto capisce che non basta non pensare a un problema perché scompaia da sé. Purtroppo tutto va sempre peggio. Il disturbo di Merry scava in profondità nella sua mente, come un piccolo baco della frutta che diventa smisurato come il Serpente di Miðgarðr, che i Vichinghi pensavano avvolgesse il mondo tra le sue spire. I Levov portano la figlia da una logopedista che cerca di scaricare su di lei la responsabilità, sostenendo una tesi stravagante: la balbuzie sarebbe una scelta volontaria della bambina per sfuggire alle difficoltà del mondo e per essere sempre al centro dell'attenzione. Nel sentire queste parole, il volto sempre disteso dello Svedese si contrae per pochi istanti in un rictus di rabbia. Quando Merry è una dodicenne, siamo nel 1963, le accade qualcosa di imprevisto e cruciale: assiste alla televisione all'immolazione del monaco buddhista vietnamita Thích Quảng Đức, che si dà fuoco per protesta. Quello che pochi sanno - che non viene spiegato dal film e neppure da Roth nel romanzo - è che la combustione del bonzo non è stata causata dalla politica aggressiva degli Stati Uniti, bensì dalla persecuzione dei buddhisti ad opera del presidente cattolico Ngô Đình Diệm. Fatto sta che Merry rimane sconvolta nel vedere le fiamme divorare quel sant'uomo del monaco. Questo innesca una reazione nella bambina, che intraprende il suo cammino di politicizzazione. Un cammino senza ritorno. Già nel 1967, mentre infuriano le proteste contro la guerra in Vietnam, lo Svedese assiste al crescere della rabbia e dell'odio nella sedicenne Merry. Cerca così di incanalare queste energie distruttive per impiegarle in qualcosa di costruttivo. Quello che l'uomo vuol far capire alla figlia è una cosa almeno in apparenza molto semplice: in una democrazia illuminata come quella della Terra dei Liberi ci si può opporre all'iniquità usando i mezzi dati dalla Costituzione. Nel corso di una discussione animata con la giovane ribelle, preso dall'esasperazione, pronuncia un invito che non sarebbe dovuto uscire dalla sua bocca: "Portiamo la guerra in casa". A insufflargli lo slogan insensato è un folletto maligno, una specie di coboldo. Al sorgere del sole, Russ Hamlin, proprietario dell'emporio del paese e gestore dell'ufficio postale, esce dalla porta dell'edificio come ogni mattina per alzare la bandiera americana sull'asta ed ecco che esplode una bomba. L'uomo muore all'istante. La guerra è stata portata a Old Rimrock! Merry, subito sospettata dall'FBI, fa perdere le sue tracce. Ovviamente i suoi genitori non possono nemmeno concepire l'idea che sia colpevole; in particolare la madre si ostina a sostenere che sia stata plagiata da qualche cattiva compagnia. Passa un po' di tempo e lo Svedese riceve l'inquietante visita di una ragazza nella fabbrica di guanti a Newark. La giovane, una brunetta tutta pepe, dice di chiamarsi Rita Cohen e di essere una stagista intenzionata ad apprendere i segreti della produzione guantaria. Si fa spiegare i fondamenti del mestiere, ma quando sta per accomiatarsi dice allo Svedese di essere stata mandata da Merry. Con l'esca di informazioni credibili sulla latitante, Rita attira l'uomo in una camera d'albergo dicendogli di portarle 10.000 dollari in contanti. Una volta che lui la raggiunge con i soldi in una valigetta, lei assume atteggiamenti provocanti, apre le gambe e lo incita a penetrarla, evocando fantasie di incesto che lo paralizzano e lo fanno fuggire in preda all'orrore. Tale è il suo sgomento da impedirgli persino di recuperare la cospicua somma di denaro, come forse avrebbe fatto una persona sensata. Impossessatasi del gruzzolo, la diabolica Cohen scompare nel nulla e non fa avere alcuna notizia. Passano gli anni. La salute mentale di Dawn mostra segni di grave deterioramento. Una notte entra nella fabbrica di Newark e viene sorpresa a ballare nuda con addosso soltanto i guanti e la sua corona da reginetta di bellezza. Il marito la fa ricoverare in un istituto psichiatrico, andandola a trovare tutti i giorni. Lei gli vomita addosso tutto il suo disprezzo, accusandolo di averle ucciso i sogni e di averla voluta sposare con la forza. Una volta dimessa, Dawn fa di tutto per cambiare la sua vita cancellanto ogni traccia del passato. Suo desiderio è rimuovere persino il ricordo dell'esistenza della figlia perduta. Si sottopone a un lifting in una clinica svizzera. Assume un architetto e artista, Bill Orcutt, perché progetti la sua nuova casa, dato che quella in cui ha vissuto gli anni d'oro del suo matrimonio ormai le sembra una prigione piena di muffa. Anche se cornuto, lo Svedese sopporta ogni stramberia della moglie con calma olimpica, finché una sera del 1970 accade qualcosa di imprevisto: in una strada di New York vede Rita Cohen e la affronta, costringendola a portarla al nascondiglio di Merry - che all'insaputa di tutti è sempre rimasta a Newark. Quando il padre finalmente incontra la figlia, si muta in sale come la moglie di Lot. La dinamitarda, che confessa di aver commesso quattro omicidi in alcuni attentati, ora espia i suoi crimini macerandosi nell'ascetismo estremo dell'austera religione Jaina. Da quando si è imposta tali spaventose condizioni di vita, la sua balbuzie è scomparsa come per miracolo. Dice al padre che non ha intenzione di tornare a casa e che se lui davvero la ama, deve lasciarla stare. A questo punto si vede una serie di fotogrammi dello Svedese in piedi tra le rovine, ogni volta più vecchio. Con questo espediente il regista ha pensato di rappresentare la successione degli anni che passano. L'ovvio epilogo è il funerale di Seymour Levov, presenziato da Nathan Zuckerman. Quando i partecipanti si allontanano, ecco una donna biondiccia di mezza età che si dirige con andatura fiera verso il feretro in attesa di essere inumato: è proprio Meredith "Merry", che per l'occasione ha dismesso il suo aspetto da eremita giainista e indossa un'elegante giacca di color carta da zucchero.

Recensione:
Non credo di essere impreciso affermando che Ewan McGregor ha diretto se stesso: è stato al contempo regista e protagonista, avendo interpretato il ruolo di Seymour Levov lo Svedese. Tutto sommato non è un brutto film, ma comunque non l'ho ritenuto un capolavoro. Avendo letto prima il romanzo di Philip Roth su cui si basa, non ho potuto fare a meno di effettuare qualche confronto e di giungere a conclusioni non troppo entusiasmanti. Forse è proprio per il fatto di aver presente la scrittura che non sono rimasto molto soddisfatto dalle immagini e dai dialoghi. A quanto ho appreso nel vasto Web, non sono stati in pochi a ritenere deludente questo adattamento cinematografico. L'unico giudizio pienamente positivo in cui mi sono imbattuto finora è da parte di un mio correligionario, il Fratello Pietro, che però ha ammesso di aver visto la pellicola senza aver letto il libro. Il punto è che McGregor ha costruito un castello a partire da pietre la cui natura gli era sconosciuta. Ha assemblato un gran numero di elementi la cui provenienza era per lui un grande mistero. Sorge quindi l'eterno problema del sincretismo. Componenti incompatibili vengono messe l'una a fianco dell'altra, e non c'è verso di capire come hanno fatto a finire proprio in quella collocazione. Proprio come nella religione degli Hare Krishna, che assembla elementi manichei anticosmici, di estrema ripugnanza verso il Cosmo, a elementi panteisti e cosmisti, di totale sottomissione alle leggi della Natura. L'architetto che esegue queste contaminazioni tra ontologie incompatibili non si rende conto di quanto aberrante sia l'ispirazione che lo muove. Non lo può capire. Non lo può intuire. Chi conosce i mattoni di provenienza dell'edificio ibrido è il solo a poterne chiarire l'essenza intrinsecamente aberrante. Non solo: egli è il solo a poterne denunciare lo sconcio. Se avrete la pazienza di leggere, cari lettori, avrete un'idea di quanto è successo.


 
Attori e ruoli 

A mio parere McGregor nel ruolo dello Svedese è un po' esangue, quasi incolore. Certo, il personaggio è per sua natura molto controllato, non perde mai le staffe, è quasi sempre impassibile di fronte alla realtà che lo circonda, ma quello che vediamo nel film è un po' eccessivo. Uno Svedese molle. Non dico che mi aspettassi un Dracula, certo, comunque mi ha quasi spiazzato la sua inerzia. L'ho trovato sottotono. A prima vista potrebbe sembrare che l'attore-regista non si sia impegnato abbastanza. Anche quando le esigenze del copione impongono una reazione forte, l'attore sembra un apatico che si sforza di recitare la parte di un uomo arrabbiato. Talmente asettico da sembrare una sfinge inquietante, l'atletico gigante rothiano ha un'espressione indecifrabile, come se indossasse una maschera di cera. Certo, il somatismo è perfetto, nordico e quasi identico a ciò che mi aspettavo di veder rappresentato; credo invece che la chioma avrebbe dovuto essere più chiara, biondiccia e non castana. Peter Riegert, l'attore che interpreta il vecchio Lou Levov, è una spanna al di sopra degli altri. Recita molto bene la parte del tiranno shylockiano. Indisponente, irritante, suscettibile, impiccione, sembra una somma delle peggiori pecche caratteriali, senza che nessuno possa porgli un freno. Non mi ha affatto convinto il grassoccio Rupert Evans nel ruolo di Jerry Levov: non ha fibra e trasuda mitezza bovina da ogni poro, mentre il personaggio plasmato da Roth è violento, collerico, scorbutico e ribelle oltre ogni misura. Quegli occhioni cerulei e sognanti non sono quelli di un campione di divorzi e di un attaccabrighe le cui parole sono sempre sopra le righe. Ci sarebbe voluto il cosiddetto "verme nell'occhio", quella guizzante peculiarità che rendeva spaventoso e insostenibile lo sguardo dei Vichinghi. Anche se non si fa menzione del precario stato di salute dello scrittore Nathan Zuckerman, credo che ben gli si adatti l'interpretazione malinconica di David Strathairn. Il sembiante dell'attore è itterico, nei suoi occhi non si trova nemmeno una pagliuzza di allegria, tutto in lui è silenziosa meditazione su un mondo che gli è estraneo. Quindi può soltanto essermi simpatico. Meredith "Merry" Levov è interpretata da ben tre attrici, a seconda dell'età. La bambina di 8 anni è Ocean "Nalu" James, la ragazzina di 12 anni è Hannah Nordberg, mentre l'adulta è Dakota Fanning. La scelta è stata azzeccata: allo spettatore non viene nemmeno l'idea di una discontinuità nel personaggio, come se il film registrasse vicende realmente avvenute. Trovo la balbuzie qualcosa di esasperante, mi trasmette una grande angoscia. Non posso farci niente, è più forte di me. Ricordo ancora S. detto "Balbinus", ai tempi dell'università: ogni volta che cercava di dire "può", evocava oceani fecali con mezz'ora di "pu-pù, pu-pù, pu-pù, pu-pù, pu-pù!" senza interruzioni - un'esperienza da incubo. A dire il vero non mi è mai capitato di udire un anglosassone tartagliare. Immagino che la natura della lingua inglese, i cui fonemi sono tanto labili, renda tale difetto di pronuncia un serio ostacolo alla comprensione delle frasi anche da parte di parlanti nativi. Jennifer Connelly nel ruolo di Mary Dawn Dwyer desta in me un grande senso di pena. Questo non perché sia inidonea a sostenere la parte o perché reciti male: a causare sofferenza morale sono piuttosto le umilianti prove che il personaggio è costretto a subire. La vediamo impegnata nell'ingenua difesa della sua fede cattolica di fronte all'inquisitorio Lou Levov. Quando si mette a parlare dell'eucarestia lo fa in un modo assurdo, descrivendola come quella cosa che fanno le persone quando si inginocchiano e mangiano Gesù, quasi fosse un atto fellatorio praticato a Dio. Poveretta, poi le capita di impazzire. La trovo una vittima che soffre ad ogni istante, come una locusta trafitta con un ago da un collezionista sadico. Quelle sopracciglia scure e pronunciate, quegli occhi insolitamente fissi e intensi, non fanno che accentuare la sensazione di disagio che si prova guardandola. Una menzione merita senz'altro Uzo Aduba, attrice statunitense nata da genitori nigeriani, che interpreta con grande forza d'animo il ruolo di Vicky, l'energica caporeparto della fabbrica di guanti, un'anima buona che durante i conflitti razziali è rimasta ferma e solida come una quercia al fianco dei Levov, senza lasciarsi plagiare dal delirio di massa. Valorie Curry è molto credibile nella parte della lasciva e subdola Rita Cohen, anche se a un caro prezzo: vedendola viene subito meno l'idea conturbante che la stagista possa essere la stessa Merry travestita, la cui balbuzie era davvero una simulazione diabolica inscenata per essere considerata il centro dell'universo. Vediamo poi un insignificante David Whalen nel ruolo del viscido Bill Orcutt. Non si riesce a caratterizzare in alcun modo la sua interpretazione, lo stesso personaggio appare come qualcosa di posticcio, di certo non ha nel film il ruolo che ha nel romanzo. Non ne viene indagata la psicologia, in pratica è poco più di una comparsa. 

Alcune considerazioni sul titolo

Faccio molta fatica a comprendere la strana scelta di non tradurre il titolo del film, che è rimasto immutato in tutte le lingue. Ovunque si ha soltanto American Pastoral, in inglese, dove invece il titolo dell'opera di Philip Roth è stato sempre tradotto, seppur in modo letterale. In qualche caso si notano traduzioni un po' meno pedisseque delle altre. Per fare un esempio, in tedesco abbiamo Amerikanisches Idyll, ossia "Idillio Americano". Non dobbiamo dimenticarci che la pastorale (da non confondersi col famoso pastorale del vescovo) è un componimento letterario, specialmente poetico, che descrive ed esalta una vita tranquilla e senza pensieri, in completa armonia con la Natura. Proprio quella illusione che la potenza del Destino si diverte a distruggere.


Problemi di adattamento

Stupisce la natura appiattita, bidimensionale del film. In fondo questo non è davvero un adattamento, è piuttosto una proiezione di una geometria solida su un piano, privata di ogni prospettiva, di ogni profondità. Come quando una sfera sospesa disegna un'ombra circolare sulla superficie di un tavolo. Si perdono informazioni. Solo per fare un esempio, l'intero passato dello Svedese viene ridotto a poche battute. Se già è angosciante il breve interrogatorio che Lou Levov impone alla sua futura nuora, sappiate che Roth ha descritto quell'orrendo episodio in un certo numero di pagine e con le parole del vecchio tutte in maiuscolo, come se urlasse nelle orecchie della povera ragazza, annichilendola. Il romanzo rothiano si divide in tre parti, tutte altrettanto importanti:

Paradiso ricordato
La Caduta
Paradiso perduto  


Il film dovrebbe ricalcare questo schema concettuale, ma non ci riesce. La trasposizione è abbastanza asimmetrica rispetto alla struttura tripartita del romanzo, oltre ad essere semplificativa. La prima parte, Paradiso ricordato, è ridotta all'osso, condensata come un omogeneizzato, tanto che sono stati omessi moltissimi particolari anche importanti: tutto si riduce in sostanza alla melanconica rievocazione iniziale di Zuckerman. La seconda parte, quella dedicata alla Caduta, fa presto la sua irruzione, confondendosi con la terza parte, Paradiso perduto. Forse il Paradiso ricordato finisce troppo presto, anche se capisco che lo spazio è poco e che far collassare un intero universo in un'ora e tre quarti di filmato è un'impresa a dir poco ardua. Siamo sicuri che alla fine lo spettatore capisca davvero che ad andare in scena è la Nemesi del Sogno Americano? Non lo darei per scontato. Così Roth descrive la deprimente parabola dei Levov nella Terra dei Coraggiosi: 

"Tre generazioni. Tutte avevano fatto dei passi avanti. Quella che aveva lavorato. Quella che aveva risparmiato. Quella che aveva sfondato. Tre generazioni innamorate dell'America. Tre generazioni che volevano integrarsi con la gente che vi avevano trovato. E ora, con la quarta, tutto era finito in niente. La completa vandalizzazione del loro mondo."

In fondo lo aveva detto anche Ugo Tognazzi in qualche suo film di cui non ricordo il titolo: "Padri padreterni, figli crocefissi." Sono parole sacrosante, che si sono impresse in me come un marchio di fuoco, anche se l'attore che le ha pronunciate non rappresenta per me un modello antropologico.

Una scheggia di antisemitismo

Il ripugnante antisemitismo di Roth, profondo e feroce odiatore della sua stessa gente, erutta in modo inatteso proprio all'inizio delle sequenze di American Pastoral. Quando Zuckerman ha di fronte a sé le foto e i trofei dello Svedese, nella squallida scuola di Weequahic, se ne esce con queste sorprendenti parole: "Dei pochi studenti ebrei di pelle chiara della nostra scuola pubblica prevalentemente ebraica, nessuno possedeva la maschera vichinga di questo eroe dagli occhi celesti." (il grassetto è mio). L'odio convulso e streicheriano contro gli Israeliti è parte integrante del tessuto stesso del romanzo del nocivo scrittore di Newark, che intende attuare una ribellione radicale contro i suoi genitori, colpevoli di averlo gettato nell'Inferno che è questo pianeta. Quello che Roth non ha mai perdonato ai suoi procreatori è di non averlo fatto cadere in un qualunque pozzo nero di cui il pianeta è tanto abbondante, ma in un ambiente particolarmente asfittico e distruttivo, quello di una soffocante famiglia ashkenazita tradizionalista che tortura senza sosta i figli con infiniti sensi di colpa e con mille altre piaghe innominabili dello spirito. Un microcosmo che non conosce grandi aperture, che tarpa le ali e ruba i sogni. La vendetta di Roth è ferale: è come se egli gassasse col Zyklon B chi l'ha messo al mondo e ne esultasse. Orbene, di tutta questa tragedia non si scorge alcuna traccia nella pellicola di McGregor. La menzione degli studenti ebrei di pelle chiara, rarissimi a detta dell'astioso ebreo antisemita Roth, nel film è del tutto gratuita, decontestualizzata, folle. Che diamine di senso può avere? Non c'è un contesto sensato. Chiunque potrebbe additare il regista e accusarlo di aver fatto proferire a un suo attore una colossale cazzata. Gli Ashkenaziti, che costituiscono la massima parte della popolazione ebraica americana, sono a tutti gli effetti indistinguibili dai caucasici non ebrei. Chi può far passare l'idea che sia tra loro la norma essere "abbronzati"? Ebrei dalla pelle scura? Certo, scura come la pelle di Paul Newman, scura come la pelle di Kirk Douglas! Mi sorprende che i dementi buonisti fanatici della politically correctness abbiano fatto passare tutto questo! 


La setta terroristica dei Weathermen

Roth ci narra che proprio lo Svedese, tre mesi dopo l'attentato all'emporio di Hamlin, saliva nella camera della figlia e strappava da una parete uno sconvolgente manifesto con questa scritta destabilizzante: "Noi siamo contro tutto ciò che di buono e di decente c'è nell'America dei padroni bianchi. Saccheggeremo, bruceremo e distruggeremo. Noi siamo l'avverarsi degli incubi di vostra madre." Parole tristemente attuali, note come "Il motto dei Weathermen". Simile veleno ancora arde ancora come una lettiera di tizzoni radioattivi. Nel film tutto ciò è minimizzato: è l'investigatore dell'FBI a dire allo Svedese di aver trovato il manifesto in questione, citandone le parole in modo sintetico quanto impreciso, senza attribuzione alcuna: "Siamo contro tutto ciò che di buono e di decente c'è in America. Saccheggeremo e bruceremo, etc., etc." Quando si fanno riassunti e rimaneggiamenti, capita che si omettano dettagli anche rilevanti e che ora della fine si arrivi a non dire più la stessa cosa che intendeva l'autore della fonte originale. Chissà poi come mai, non si riesce a trovare un singolo regista, un singolo sceneggiatore che mostri anche il minimo rispetto per l'opera da cui trae la stessa ragion d'essere del proprio lavoro. In tutti i casi si ha sempre qualche cambiamento immotivato, capriccioso, insulso, talvolta proprio in parti che si rivelano cruciali. Se leggendo un romanzo ti imbatti in qualcosa di importante, stai sicuro che non lo vedrai mai tradotto nella Settima Arte, oppure che lo vedrai alterato in modo profondo, travisato e distorto a tal punto da riuscire quasi irriconoscibile. In concreto, chi erano questi Weathermen? Erano la dimostrazione vivente di come il terrorismo e il politically correct non siano affatto cose incompatibili. Comunemente si ritiene che la setta nota come Weathermen Underground Organization (WUO) si sia estinta nel 1977, dopo nove anni di attività. Erano dinamitardi. Va detto che le uniche vittime fatte nel corso della loro attività furono tre membri della loro organizzazione saltati in aria per un errore. Altri morti, e tra questi un poliziotto di colore, sono ascrivibili a una rapina compiuta da ex Weathermen negli anni '80, quando la WUO si era già dissolta. Non hanno fatto vittime più che altro per incompetenza, visto che intenzioni distruttive c'erano eccome. Nel romanzo di Roth, i Weathermen sono descritti con queste parole: "tutti tra i venti e i trent'anni, ebrei, borghesi, educati all'università, violenti in nome della lotta contro la guerra, impegnati nella rivoluzione e decisi a rovesciare il governo degli Stati Uniti". Se queste cose le avesse scritte un goy, sarebbe successo il finimondo.


Un diverso modo di concepire lo sport

È difficile per un italiano capire cosa sia lo sport per la popolazione degli Stati Uniti d'America. Certo, da noi ci sono gli hooligans, abbondano i teppisti da stadio e i torbidi che scatenano. Il tifo è una piaga nazionale. Però in genere i tifosi non sono al contempo giocatori e sportivi attivi. Quello che caratterizza gli americani è invece lo spirito di corpo e di competizione che si forma nell'istituzione scolastica. Si direbbe che la scuola in quella nazione sia concepita per crescere soldati. Tutti, fin dalla più tenera età, lottano per conquistare trofei, per fare grande il nome della propria squadra. Un agonismo spinto all'estremo. Le ragazze sono il premio del guerriero. Non è nemmeno poi così importante che si conseguano risultati sufficienti nelle varie materie scolastiche: l'importante sembra essere soltanto l'impegno sportivo. Tempo fa mi capitò di leggere le sdegnate parole di un generale dell'Esercito, che inveiva contro chiunque lottasse per abolire l'educazione fisica e le competizioni nelle scuole statunitensi: definiva costoro come "disgustosi beatnik" e si augurava la loro eradicazione dalla società civile anche con mezzi violenti. Lo sport ha anche plasmato la natura dell'inglese d'America, creando tutto un vocabolario criptico fatto di nomi di giocatori, di squadre, di eventi ritenuti fondamentali. Il risultato è un labirinto di un'incredibile complessità, in cui un italiano non riesce assolutamente ad orientarsi - anche se traduttori e doppiatori non lo capiscono. Questa tendenza americana non è peraltro limitata soltanto allo sport, ad esempio coinvolge la politica e lo stesso cinema. Il nome di ogni personaggio, che sia un giocatore di baseball, un governatore o un attore, è visto come una parola del lessico di base, che non ha bisogno di glossa, che può essere usata come stenografia concettuale. Avremo modo di approfondire l'argomento in un'altra sede. 


Rimozione dell'incesto

Penso che sia inutile che ci giriamo intorno. Ewan McGregor non poteva dare un bacio in bocca a Hannah Nordberg senza beccarsi un'accusa di pedofilia, essendo lei una bambina di undici anni. Mostrare il bacio alla francese tra Seymour Levov e sua figlia Merry era ed è tuttora al di là di ogni possibilità di rappresentazione. Così nel film si vede lo Svedese rifiutare il bacio tabù, eliminando il problema alla radice. Però c'è un però, come diceva sempre un amico toscano. Se è proprio un contatto incestuoso a scatenare il Caos e ad innescare la trasformazione di una ragazzina in una terrorista, rimuovere tale episodio significa oscurare la narrazione stessa, renderla del tutto incomprensibile. A giungere in aiuto di McGregor è stato il monaco vietnamita combusto. Una torcia pirrica che ha permesso allo sceneggiatore e al regista di introdurre una diversa causa della metamorfosi di Merry, da bambina innocente a sanguinaria bombarola. Anche Roth menziona il bonzo avvolto dalle fiamme e l'effetto della terrificante visione sulla bambina, non attribuendo però all'accaduto la causa prima della sua futura rovina. Non sono sicuro che nel passaggio al film sia stata fatta una chiara riflessione su questo punto. Il percorso traumatizzante innescato dal rogo è più diretto e comprensibile allo spettatore rispetto a una lenta alterazione causata chissà come dal fugace contatto tra due lingue. Eliminando poi il sospetto che Rita Cohen possa essere Merry Levov sotto mentite spoglie, l'idea stessa dell'incesto non sussiste più. Sembra quasi un gioco di prestigio. Non si ravvisa più la benché minima traccia del pensiero che tra padre e figlia possa accadere un qualsiasi contatto carnale. Questo ingegnoso stratagemma cambia tuttavia la natura della storia, la fa diventare qualcosa di profondamente diverso.


Necessità di una colonna olfattiva

La Settima Arte ha in sé un grave limite: le è completamente estraneo un dato sensoriale importantissimo, quello olfattivo. Questo rende molto difficile far comprendere allo spettatore la sporcizia e la laidezza. Non ci sono trucchi cinematografici sufficienti a comunicare qualcosa di simile alle proprietà organolettiche degli escrementi umani, freschi o freddi. Non si può trasmettere il fetore dei piedi sporchi, il tanfo di beccume delle ascelle incolte, il puzzo acidissimo e insopportabile del vomito, le esalazioni dei bidoni pieni di umido che fermentano al sole. Se si vede un grosso membro virile stantuffare nel deretano di una fallofora, si fatica a credere che dal budello penetrato possano fuoriuscire gas mefitici, prodotti dalla putrefazione del contenuto intestinale. Se una fellatrice ha i denti marci e il suo alito è così schifoso da far quasi perdere l'erezione al suo partner, chi guarda il filmato dell'azione non lo potrà comprendere. Al massimo penserà che l'uomo non sia in gran forma. E se fosse la fellatrice a ritrovarsi in bocca un cazzo di formaggio? Non soltanto il porno, anche l'horror è pesantemente mutilato da questa carenza di input olfattivi. Molti si baloccano con i film sui vampiri e sugli zombie ma non hanno la benché minima idea dei lezzi esalati da un cadavere in stato avanzato di decomposizione! Con i miei occhi ho visto una celebre videoteca milanese specializzata in film horror, ove erano esposti giocattoli di gomma che imitavano teste mozzate di zombie, mani virescenti e simili. Mi sarebbe piaciuto sapere se la gente, giunta lì per una presentazione, avrebbe potuto reggere a lungo in un luogo dove vengono fatti a pezzi cadaveri autentici. Avrebbero sopportato la vista di una macelleria cannibalica? Avrebbero presenziato un'esumazione da una fossa comune? No di certo: ognuno di loro era soltanto un tediosissimo poser, null'altro che uno snob. Vorrei creare una colonna olfattiva per i film di George A. Romero sui morti viventi! Questa articolata premessa è a mio avviso della massima importanza. Torniamo quindi al film di cui ci stiamo occupando, American Pastoral. Certo, è vero, quando Seymour lo Svedese ritrova finalmente la figlia, capisce subito che le sue condizioni igieniche sono pessime. Non posso negarlo. Tuttavia chi guarda il film di McGregor avrà soltanto una frazione delle sensazioni che sorgono leggendo quanto Roth ha scritto sulla spaventosa macerazione in cui Merry si consumava dopo la conversione alla religione di Mahavira. Sempre attento agli aspetti più turpi della Creazione escogitata dal Dio degli Eserciti, lo scrittore di Newark ci ha descritto molto bene la ripugnanza provata dallo Svedese, giunta a tal punto da non riuscire a trattenere un getto di vomito. La materia rigettata, finita addosso a Merry, le rimaneva addosso e la inzuppava, non rimossa nemmeno in modo rudimentale. Una doccia romana! Quei succhi gastrici, misti a residui pastosi di cibo e di saliva, erano destinati a fermentare, aggiungendosi al fetore raccapricciante di un corpo già in sfacelo da vivo. Tutte queste sensazioni, il regista non ce le sa far provare. Guardando le sequenze, si vede che ha il volto coperto di croste e di macchie livide, ma si capisce che si tratta di un trucco. Al massimo si può pensare che Merry sia un po' rancida.

Il problema del finale

Si nota una discrepanza fortissima tra il finale del film di McGregor e quello del romanzo rothiano. La pellicola ci mostra Merry, ripulita e vestita in modo impeccabile, che compare al funerale del padre dirigendosi a passo sostenuto verso la bara per dare al defunto l'ultimo saluto. Mentre procede, incrocia prima Jerry Levov, i cui occhi inespressivi per un attimo si illuminano di stupore, poi Dawn, ormai invecchiata e piena di rughe. Così facendo, il regista tenta di ricomporre una frattura ontologica che per sua natura non è possibile superare. Sostengo senza timore di essere smentito che la natura delle due opere, quella cinematografica e quella scritta, è diversa in modo abissale: si tratta di due prodotti non assimilabili. Forse non dovremmo biasimare troppo il regista per questa scelta. Egli intendeva porre rimedio ad alcune sproporzioni evidenti del testo di Roth, in cui il narratore Nathan Zuckerman scompare troppo presto per non far più ritorno, lasciando il lettore nell'illusione di aver letto la vera biografia dello Svedese. In realtà del funerale dell'eroe-atleta nel libro se ne parla all'inizio ed è soltanto un evento riportato in modo vago. Lo stesso Zuckerman non ha potuto parteciparvi, visto che le esequie erano già avvenute quando ha saputo della morte di Seymour Levov dal fratello Jerry ("Il funerale è stato due giorni fa"). Roth ci fa anche sapere senza omissioni che Merry non ha partecipato al funerale del padre. Ci dice anche che se si fosse vista, Jerry l'avrebbe denunciata, dato che la odiava a morte. Subito dopo lo scrittore di Newark insinua il sospetto che forse Merry potesse essersi travestita per raggiungere i parenti dopo la sepoltura. Tutto questo non andava bene, ripugnava troppo al concetto di linearità narrativa, così McGregor ha preso di forza Zuckerman e lo ha messo a pensare tra sé e sé qualche triste considerazione su quanto si faccia male a giudicare le persone e su quanto si sia sbagliato egli stesso nel ritenere lo Svedese baciato dalla Fortuna. Mentre si avvicina l'epilogo, il rabbino pronuncia il Kaddish.

Curiosità

Sarà forse da imputarsi alla mia innata accidia, ma non ho trovato molto da scrivere a proposito della realizzazione di American Pastoral. Le riprese si sono svolte a Pittsburgh, in Pennsylvania. Il film è uscito negli Stati Uniti il 21 ottobre 2016 in distribuzione limitata, quindi in tutte le sale soltanto a partire dal 28 ottobre; cosa abbastanza singolare, in Italia è invece uscito il 20 ottobre dello stesso anno.

Altre recensioni e reazioni nel Web

Fermo restando che nessuno sembra capire la natura antisemita dell'opera di Philip Roth - così simile a una reazione autoimmune - si trova comunque qualche frammento interessante nel Web sul film di McGregor.


"La vita, però, è ben diversa dalle promesse inespresse dei nostri sogni adolescenziali, e la parabola dello Svedese, meravigliosa creatura dell’american dream destinata alla più comune e triste delle tragedie familiari, è li a testimoniarlo."

E ancora:

"American Pastoral deve affrontare da subito il pesante confronto con l’immane importanza del materiale originale per trovare una vita propria autonoma. Philip Roth non è l’autore più adattabile per il medium cinematografico e, infatti, la sceneggiatura di John Romano asciuga la vicenda dello Svedese e della sua famiglia a una lineare e piatta trama orizzontale, dove il dramma di Seymour è limitato alla perdita di sua figlia Merry, attratta dalle derive criminali dell’impegno politico clandestino."

Le conclusioni sono desolanti:

"Il problema è che, al di là dei paragoni con il romanzo, il film di McGregor paga questa mancanza di coraggio, trasformando American Pastoral in un piatto period drama, un affresco neanche emotivo dell’America della contestazione, della guerra del Vietnam e del Watergate."

Queste sono le parole di Stephen Holden, critico cinematografico del New York Times:

"Il film non è una profanazione, ma una grave riduzione di un complesso capolavoro letterario. Questa superficialità, basata su un libro che evoca un'immagine bruciante della disintegrazione del sogno americano negli anni Sessanta, soprattutto per quanto riguarda l'identità ebraica e l'aspirazione, ammonta a poco più di una doverosa lista di scene che non potevano non essere girate."

Di materiale simile ce n'è a bizzeffe. Abbastanza per soffocare nella retorica. Inutile lamentarsi che dalle opere di Roth i registi hanno tratto soltanto film mediocri e meritevoli di ludibrio. Non si riuscirà mai a fare un film decente da un romanzo di Roth, finché non si capirà che si ha a che fare con un autore antisemita!