giovedì 28 ottobre 2021

 
L'ULTIMO DEI MOHICANI 
 
Titolo originale: The Last of the Mohicans
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Anno: 1992 
Lingua: Inglese, Francese, Cherokee, Mokawk, Lakota, Inupik 
Durata: 112 min
Genere: Azione, storico, drammatico
Regia: Michael Mann
Soggetto: James Fenimore Cooper (romanzo), Philip Dunne, 
   John L. Balderston, Paul Perez, Daniel Moore
   (sceneggiatura film 1936)
Sceneggiatura: Christopher Crowe, Michael Mann
Produttore: Michael Mann, Hunt Lowry
Produttore esecutivo: James G. Robinson
Casa di produzione:
Morgan Creek Productions
Distribuzione in italiano: Penta Film
Fotografia: Dante Spinotti
Montaggio: Dov Hoenig, Arthur Schmidt
Effetti speciali: Thomas L. Fisher, Jim Rygiel
Musiche: Trevor Jones, Randy Edelman
Scenografia: Wolf Kroeger, Robert Guerra, Richard Holland,
     Jim Erickson, James V. Kent
Costumi: Elsa Zamparelli
Trucco: Peter Robb-King, Vincent J. Guastini
Interpreti e personaggi: 
    Daniel Day-Lewis: Nathaniel "Occhio di Falco"
    Madeleine Stowe: Cora Munro
    Russell Means: Chingachgook
    Eric Schweig: Uncas
    Jodhi May: Alice Munro
    Steven Waddington: Maggiore Duncan Heyward
    Wes Studi: Magua
    Maurice Roëves: Colonnello Edmund Munro
    Patrice Chéreau: Generale Louis-Joseph de Montcalm
    Edward Blatchford: Jack Winthrop
    Terry Kinney: John Cameron
    Tracey Ellis: Alexandra Cameron
    Justin M. Rice: James Cameron
    Dennis Banks: Ongewasgone, Capo geli Irochesi
    Pete Postlethwaite: Capitano Beams
    Sebastian Roché: Martin 
    Colm Meaney: Maggiore Ambrose 
    Mac Andrews: Generale Webb 
    Malcolm Storry: Phelps 
    David Schofield: Sergente Major 
    Mike Philips: Il Sachem degli Uroni 
    Dylan Baker*: Capitano De Bouganville 
    Tim Hopper: Ian 
    Gregory Zaragoza: Capo degli Abenaki 
    Scott Means: Guerriero Abenaki 
    William J. Bozic Jr.: Ufficiale d'artiglieria francese 
    Patrick Fitzgerald: Aiutante del Generale Webb 
    Mark Joy: Henri 
    Steve Keator: Rappresentante coloniale
    *Accreditato come Mark Edrys
Doppiatori italiani:
    Massimo Corvo: Nathaniel "Occhio di Falco"
    Cinzia De Carolis: Cora Munro
    Gianni Musy: Chingachgook
    Oreste Baldini: Uncas
    Laura Lenghi: Alice Munro
    Angelo Maggi: Maggiore Duncan Heyward
    Paolo Buglioni: Magua
    Michele Kalamera: Colonnello Edmund Munro
    Carlo Valli: Jack Winthrop 
 
Trama: 
Anno del Signore 1757. Una famiglia un po' anomala viaggia nottetempo per i boschi del Nordamerica, cacciando cervi e cercando di fuggire alla guerra che oppone i Francesi agli Inglesi. Il bizzarro gruppetto è composto da Chingachgook, da suo figlio Uncas e da Nathan "Occhio di Falco", un inglese adottato da bambino dopo essere rimasto orfano dei suoi genitori. Questi superstiti sono tutto ciò che resta della tribù morente dei Mohicani. La loro destinazione è un luogo quasi mitologico dove pensano di trovare la pace: le Pianure Occidentali. Nel corso del tragitto, i tre si imbattono in un reclutatore (non c'era piaga peggiore nell'Impero Britannico), il cui lavoro consiste nell'arruolare "volontari" tra i nativi. Naturalmente non si trattava davvero di volontari, bensì di soggetti a una vera e propria coercizione: l'alternativa era tra l'entrata nei ranghi e l'essere impiccati. Chingachgook e i suoi, che rifiutano con fermezza la leva, riescono a fuggire col favore delle tenebre e ad andare avanti imperterriti. A un certo punto salvano una compagnia inglese da un'imboscata degli Uroni guidati dal fierissimo Magua, animato da propositi di vendetta. Lo scopo della compagnia, guidata dal perfido Maggiore Duncan Heyward, era fare da scorta alle figlie del Colonnello Edmund Munro, Cora e Alice. Proprio Edmund "Capello Grigio" Munro e la sua prole sono l'oggetto dell'odio eterno di Magua, i cui figli sono stati uccisi per opera sua. Gli aggressori finiscono sterminati, tranne Magua che riesce a fuggire. Così Chingachgook e i suoi scortano le figlie del Colonnello fino al forte, che trovano assediato dai Francesi e dagli Uroni loro alleati, riuscendo comunque a intrufolarsi. Cora, che ha rifiutato la proposta di matrimonio dell'odioso Maggiore Heyward, si invaghisce di Nathan, mentre Alice è attratta da Uncas. Questo attira sul figlio adottivo di Chingachgook l'odio del militare respinto. Il Colonnello Munro è sorpreso di vedere le sue figlie: aveva infatti inviato una lettera avvertendole di stare alla larga. La missiva non le ha mai raggiunte. Viene tentata una sortita notturna: un miliziano parte per raggiungere il Generale Webb a Fort Edward e chiedergli rinforzi. Chingachgook e i suoi, appostati sul forte, gli forniscono il fuoco di copertura. Il problema è che Munro vieta l'applicazione di un accordo fatto da Webb, che permetteva ai miliziani di raggiungere le loro fattorie per difenderle in caso di attacco. Per reazione, Nathan aiuta la fuga di alcuni di loro, finendo così arrestato per sedizione e condannato all'impiccagione. Presto il Colonnello Munro apprende che il Generale Webb non gli invierà alcun rinforzo: l'unica alternativa è la resa ai Francesi. Il Generale Louis-Joseph de Montcalm, che concede a Munro e ai suoi uomini di lasciare il forte indossando con onore le armi. Il fierissimo Magua, sentendosi tradito, guida un attacco ai soldati inglesi e ai civili che stanno lasciando il forte, facendone grande strage. Munro viene catturato e  ferito a morte: Magua gli giura che ucciderà le sue figlie con il proprio coltello, quindi gli strappa il cuore dal petto e lo divora! Nathan, Chingachgook e Uncas riescono a fuggire con le canoe portando con sé Cora, Alice e Heyward. Trovando riparo in una grotta dietro una cascata, ma Magua piomba loro addosso. Il gruppo si divide. Nathan dice a Cora e Alice di sottomettersi agli Uroni, quindi si getta nella cascata assieme ai due Mohicani, dopo aver promesso che arriverà a liberarle. Il rancido Heyward resta con le figlie di Munro e accusa Nathan di codardia. Magua porta le sue prede in un grande insediamento degli Uroni. Mentre sono tutti al cospetto del Sachem, arriva Nathan disarmato per implorare la vita dei prigionieri. L'anziano Sachem degli Uroni è colui che decide chi deve vivere e chi deve morire. Stabilisce così che il malevolo Heyward debba essere restituito agli Inglesi. Condanna le due donne a una sorte ben più crudele: Alice deve essere data a Magua come risarcimento, mentre Cora deve essere bruciata viva. Nathan viene lasciato libero, ma in preda alla disperazione si offre di essere arso aposto della sua amata Cora. Il Sachem capisce soltanto la lingua degli Uroni e il francese, quindi Heyward fa da interprete. Sbaglia però a tradurre un pronome personale e finisce lui sul rogo al posto del suo rivale. Il figlio adottivo di Chingachgook lascia il villaggio con Cora e spara a Heyward per risparmiargli un'atroce agonia tra le fiamme: ricambia la perfidia con la misericordia. Nella fuga disordinata che segue, Uncas tenta disperatamente di salvare Alice e attacca battaglia con gli Uroni, ma viene ucciso da Magua e precipita da un dirupo. Annientata dal dolore, Alice rifiuta di consegnarsi a Magua e si suicida gettandosi dallo stesso dirupo. Si scatena una battaglia, in cui Chingachgook riesce a uccidere Magua colpendolo con un Tomahawk a forma di fucile e a vendicare la morte del figlio. Rimasto solo con Nathan, Chingachgook prega il Grande Spirito di ricevere Uncas, proclamandosi "l'ultimo dei Mohicani".  

 
Recensione: 
Se devo essere franco, mi stomaca tutto il romanticume che tanto è piaciuto agli spettatori. Nathan "Occhio di Falco", Chingachgook e Uncas sono personaggi deboli, anodini, privi di carattere, quasi evanescenti. La loro inconsistenza trova una parvenza di riscatto soltanto quando Chingachgook, rimasto l'ultimo del suo popolo, pronuncia parole poetiche per il funerale del figlio Uncas. Sono queste:
 
"Grande Spirito, e Creatore della Vita, un guerriero va a te, veloce e dritto come una freccia lanciata nel sole. Da' lui benvenuto, e lascia lui prendere posto in Gran Consiglio di mio popolo. È Uncas, mio figlio. Dì lui di essere paziente, e da' a me una rapida morte, perché loro sono tutti là, meno uno, io, Chingachgook, l'Ultimo dei Mohicani." 
 
Si deve però notare che egli non riconosce Nathan "Occhio di Falco" come genuino prosecutore della stirpe dei Mohicani, proprio perché vale il Principio del Sangue. Soltanto il Sangue conta. Nathan non è nato dal seme dei Mohicani, bensì da quello degli Inglesi, quindi è e resterà sempre un inglese. Tutto il resto non ha alcun valore. Non esiste nessuno ius soli. Vale unicamente lo ius sanguinis, come è fin dai più remoti tempi della preistoria, anche se questo non piacerebbe ai fautori del politically correct woke autorazzista. 
 
La realtà è questa: l'unico personaggio autentico e possente è Magua. Lui è il fulcro dell'intera narrazione. Senza la sua figura crollerebbe tutto in un istante. Cosa ce ne faremmo di quegli stupidissimi amori di cui è piena la pellicola? Non servono a nulla: sono sdolcinati, privi di qualunque senso, messi lì apposta per compiacere il gusto degenere dei moderni e dei postmoderni. C'è più significato nel crudo atto di cannibalismo compiuto da Magua che in tutto il resto! Quando scrissi su Facebook che ammiravo Magua in modo sviscerato, qualcuno mi accusò: "Perché stai dalla parte del malvagio". Così replicai: "Sto dalla parte di chi è stato stritolato dalla vita!" So bene come decidere chi è il perdente. Lo capisco a pelle, fin da subito. Il perdente odia l'esistenza, che lo ha devastato. Il mio giudizio poi viene puntualmente confermato facendo un bilancio di tutte le vicissitudini del personaggio, dalla sua comparsa nel film fino al triste epilogo. Questo è ciò che ha detto l'Eroe degli Uroni al Marchese Joseph-Louis de Montcalm:
 
"Il villaggio di Magua è stato bruciato e i figli di Magua sono stati uccisi dall'Inglese. Magua è stato fatto schiavo dai Mohawk che combattevano per Capello Grigio. La moglie di Magua, credendo lui morto, è diventata la moglie di un altro. Capello Grigio era il padre di tutto questo. Col tempo, Magua è diventato fratello di sangue dei Mohawk, per tornare libero, ma sempre in suo cuore lui è Urone. E il suo cuore tornerà a volare il giorno che Capello Grigio e suo seme muore." 

Come non commuoversi davanti a queste vibranti parole? I vincenti, i "buoni e giusti", sono tutte persone ipocrite che hanno successo sessuale e procreativo, la cui progenie riesce a prevalere; in aggiunta a ciò, appestano il mondo con le loro boiate idealistiche. L'odio feroce che anima i perdenti non ha invece sfogo alcuno nell'architettura narrativa, per colpa del moralismo schifoso degli autori. Il fuoco degli sconfitti, che dovrebbe ardere il mondo, resta un mero spauracchio. Proprio come i sogni di Magua, che vede un futuro di immensa gloria per il suo popolo: immagina l'ascesa degli Uroni tra le nazioni del mondo, fino a farli diventare "non meno dei Bianchi, e forti come i Bianchi" ("pas moins que les Blancs, et forts comme les Blancs"). Poi finisce tutto nel Nulla. Una cosa senza senso, giusto per garantire la tranquillità allo spettatore conformista. 
 
 
Inconsistenza delle figure femminili 
 
Cora ed Alice non significano nulla. Sono soltanto ombre. Magua le vuole uccidere per annientare ogni traccia della vita del loro padre, che per lui è stato tanto calamitoso. La stupida morale del regista garantisce che il potere dell'Odio non può e non potrà mai prevalere sull'Amore. Mann e Crowe non sono tuttavia riusciti a dar vita a una sceneggiatura decente per personaggi futili come le figlie di "Capello Grigio" Munro. Hanno messo queste sensuali e vuote creature nel film soltanto perché per avere successo ci deve essere un po' di figa! Avendo un animo sanguigno, vendicativo e affine a quello di Magua, non mi lascio certo commuovere dalle infinite stronzate propinate da registi e sceneggiatori melensi!  

 
Un fulvo stranamente odioso 

Ho sempre avuto una grande simpatia per le persone con i capelli rossi, che mi paiono un attributo divino. Ebbene, Michael Mann è riuscito a portare in scena un uomo con i capelli rossi, che tuttavia non ha riscosso il mio favore. Un caso più unico che raro. Il Maggiore Duncan Heyward mi ha ispirato fin da subito un'antipatia vivissima, al punto che ho biasimato Nathan "Occhio di Falco" per avergli concesso l'eutanasia: ho pensato che avrebbe fatto meglio a negargli una rapida morte con un colpo di fucile mentre ardeva orrendamente sul rogo. In fondo, lo stesso Heyward non avrebbe concepito pietà alcuna, non avrebbe esitato per un solo istante a fare impiccare Nathan, se ne avesse avuto la possibilità! 
 
La confusione di due popoli 
 
Lo scrittore James Fenimore Cooper ha confuso due popolazioni diverse, entrambe di lingua algonchina, a causa dell'assonanza dei loro rispettivi nomi. I Mohicani (in origine Mahican), stanziati nel territorio che è attualmente parte dello Stato di New York, erano infatti ben distinti dai Mohegan stanziati nel Connecticut. Il romanzo di Fenimore Cooper ha contribuito in modo determinante a diffondere tra il grande pubblico questa confusione, che ritroviamo ovviamente tal quale nel film di Michael Mann. Il nome Mohegan deriva da Monahiganeuk, che nella lingua algonchina Narragansett significa "Popolo del Lupo": proto-algonchino *mahi·nkana "lupo". La prima attestazione risale al 1614 (Fonte: Dizionario Merriam-Webster). Il nome Mahican significa invece "Popolo dell'Estuario": proto-algonchino *menahanwi "isola". Si vede che la somiglianza con Mohegan è puramente esteriore. Il passaggio da Mahican (con -a-) a Mohican (con -o-) è stato causato proprio dall'influenza di Fenimore Cooper. Come conseguenza di questo marasma cognitivo, la forma Mohican è stata usata anche al posto di Mohegan

 
Etimologia di Chingachgook 
 
L'antroponimo Chingachgook significa "Grande Serpente". Nella lingua dei Lenape, strettamente imparentata a quella dei Mohicani, xinkw- significa "grande" e xkuk significa "serpente": ne deriva così xinkwixkuk "grande serpente". Il suono /x/ in Lenape è la fricativa velare che troviamo nel tedesco Bach /bax/ "ruscello". La sua trascrizione con il digramma ch ha portato alla pronuncia ortografica di Chingachgook con l'affricata postalveolare /tʃ/ che troviamo nell'inglese church /tʃə:(ɹ)tʃ/ "chiesa". Simili fraintendimenti non sono rari nella trascrizione delle lingue della famiglia Algonchina. Il problema è che le pronunce ortografiche, per quanto fuorvianti, hanno la bruttissima tendenza a consolidarsi, fino a diventare induscutibili. Questo è uno dei modi più insidiosi di distorsione della realtà. 
 
 
Etimologia di Uncas 
 
L'antroponimo Uncas significa "Volpe" e deriva dalla lingua dei Mohegan: nella lingua algonchina di quel popolo la volpe è chiamata wonkus /'wɔŋkəs/. In Narragansett è wonkis. Uncas era per l'appunto il nome di un capo storico dei Mohegan stanziati nel territorio del Connecticut, dei Pequot e dei Narragansett - non dei Mohicani stanziati nel territorio dell'attuale Stato di New York. Visse qualche decennio prima degli eventi narrati nel film di Mann e nel libro di Fenimore Cooper. Non ci sono dubbi sul fatto che la figura storica di questo Uncas abbia contribuito in modo sostanziale al mito dell'Ultimo dei Mohicani. 
 
 
Etimologia di Magua 
 
Qui cominciano i problemi. Non è stato agevole trovare l'etimologia dell'antroponimo Magua e nemmeno capirne il significato. Magua è anche conosciuto come Volpe Astuta (in francese Renard Subtil), ma ci sono serie ragioni di dubitare che questa sia la traduzione esatta del suo nome Urone. Nella lingua degli Uroni, che appartiene alla famiglia Irochese, il suono /m/ è molto raro e nella maggior parte dei casi è un semplice allofono dell'approssimante labiale /w/; inoltre /m/ non sembra trovarsi in posizione iniziale di parola. Questa carenza della nasale labiale /m/ è tipica delle lingue irochesi. Un aiuto ci viene dall'etnonimo dei Mohawk /ˈmoʊhɔːk/, che sono un nobile e valoroso popolo del ceppo Irochese. Ebbene, i Mohawk non si chiamano tra loro con questo nome, che non è irochese, bensì algonchino. Si tratta di un esoetnico, che deriva dalla lingua algonchina dei Narragansett: mauquàuog, mohowaúgsuck, che significa "essi mangiano esseri viventi", chiaro eufemismo per "cannibali". Ecco finalmente spiegato il glorioso antroponimo Magua: significa "Cannibale". I Mohawk, nella cui lingua manca del tutto il suono /m/, chiamano se stessi Kanienʼkehá:ka’. Per quale ragione un guerriero degli Uroni dovrebbe darsi un nome in una lingua algonchina? Probabilmente il suo nome serviva a terrorizzare i nemici, che avevano un fortissimo tabù per il cannibalismo. 
 
Etimologia di Uroni  

Il nome con cui tutti conoscono il glorioso popolo degli Uroni in realtà potrebbe essere di origine francese. Certamente si tratta di un esoetnico, ossia di un nome attribuito a una comunità da altri. L'endoetnico è invece Wyandot (Wendat): è così che gli Uroni chiamavano se stessi. Secondo l'opinione accademica più accreditata, l'esoetnico Huron deriva dal francese hure, che significa "testa di animale selvatico", specialmente "testa di cinghiale". La glossa data dal dizionario del Centre Nationale de Resources Textuelles et Lexicales (CNRTL) è "tête d'une sanglier, du porc, p.ext. de certaines bêtes fauves et de poissons à tête allongée" (ossia "testa di un cinghiale, del porco, per est. di certe bestie selvatiche e di pesci dalla testa allungata"), Esempi: une hure d'un sanglier "una testa di cinghiale"; la hure d'un lion "la testa di un leone"; la hure d'un loup "la testa di un lupo"; la hure d'un esturgeon "la testa di uno storione". Il riferimento sarebbe all'acconciatura dei guerrieri Wyandot o al loro aspetto particolarmente belluino. L'etimologia di hure è a sua volta incerta; in genere viene considerato un vocabolo di origine germanica, anche se non ho potuto reperire dati in grado di dimostrarlo. Esite però anche la possibilità che l'esoetnico Huron derivi da una parola contenente la radice Irochese ronon "nazione", presente anche nella lingua Wendat. A riprova di questa genuina derivazione amerindiana, si riporta che le Quattro Nazioni Wyandot derivavano dai resti dei Tionontati, degli Attignawantan e dei Wenrohronon (History - Wyandotte Nation). Ebbene, l'etnonimo Wenrohronon, attestato anche come Wenro, ha tutta l'aria di essere la vera origine di Huron.  
 
 
Etimologia di Sachem "Grande Capo" 

La parola sachem (inglese /'seɪtʃəm/, /'sætʃəm/; francese /sa'ʃɛm/), che indica un capotribù, è di origine Algonchina. Più precisamente, deriva dal Narragansett sâchim, la cui pronuncia è /'sa:tʃem/. In altre parole, non si ritrova l'errore della pronuncia ortografica già vista in Chingachgook, dove il suono /x/ simile a quello del tedesco Achtung è stato realizzato come il suono /tʃ/ dell'inglese much. In ogni caso, l'affricata /tʃ/ si è sviluppata da una più antica occlusiva /k/. L'origine ultima della parola è la radice proto-algonchina *sa·kima·wa "capo (maschio)". Questi sono i suoi discendenti: 
 
Algonchino Orientale: *sākimāw 
Mi'kmaq: saqamaw 
Malecite-Passamaquoddy: sakom 
Abenaki: sôgmô, sôgemô
Penobscot: sagəma, sagama, sagemo, sangemo
Wangunk: sequin
Narragansett: sâchim
Mohegan-Pequot: sôcum
Lenape: sakima

Algonchino Centrale: *okimāwa
Cree: okimahkân
  Cree delle Pianure: okimâw
  Cree Sudorientale: uchimaa
Fox: okimâwa
Ojibwe: ogimaa
  Ottawa: gimaa
Potawatomi: wgema
Miami: akimaawa, akima
 
Dalla lingua Penobscot (non dal Mi'kmaq come qualcuno sostiene) è derivato in inglese il termine sagamore (/'sæɡəmɔː/, /'sæɡəˌmɔɹ/), usato come sinonimo di sachem. In altre parole, sachem e sagamore costituiscono un fenomeno allotropo. 

 
Occhio di Falco 
 
Il soprannome o nome indiano di Nathan nella versione italiana è "Occhio di Falco". Nell'originale inglese è Hawkeye. Nel libro di Fenimore Cooper è Hawk-eye, con il trattino. Trovo interessante questo composto. Si noti l'assenza del genitivo sassone: non è Hawk's Eye. Il vero antroponimo del personaggio è in realtà Nathaniel Bumppo. I soprannomi sono numerosi: Natty, Hawk-eye, Œil de Faucon (traduzione di Hawk-eye in francese), La Longue Carabine (Long Rifle), Leatherstocking ("Calze di Cuoio"). Compare anche in altre opere dello stesso autore: ad esempio è soprannominato Pathfinder ("Esploratore") in The Pathfinder, or the Inland Sea (1840). Il cognome Bumppo mi pare impenetrabile e misteriosissimo. Nel vasto Web non sono stato finora in grado di trovare alcunché di utile a rischiararne l'etimologia.  
 
 
"Capello Grigio" Munro  
 
Il Tenente Colonnello George Monro (talvolta scritto Munro) è il personaggio storico a cui è ispirato il Colonnello Edmund Munro. Mi è sconosciuta la ragione di questo cambiamento del nome di battesimo, da George a Edmund. Era nato a Clonfin, nella Contea di Longford (Contae an Longfoirt), in Irlanda, da una famiglia militare scozzese. Apparteneva alla Libera Muratoria. Nella realtà egli non si accompagnava a donne e non aveva alcuna figlia, ma Fenimore Cooper gli ha attribuito un'indole libidinosa: in gioventù l'ufficiale avrebbe posseduto carnalmente una prosperosa mulatta, procreando Cora. A quanto ho potuto appurare, nel romanzo Munro non è mai menzionato col suo nome di battesimo. Ne deduco che Edmund debba essere un'invenzione del regista. Non capirò mai la tendenza irresistibile degli anglosassoni a cambiare i nomi delle persone. Se i suoi genitori lo hanno chiamato George, perché diamine dovrebbe diventare Edmund?
 
L'enigmatico Ongewasgone 
 
L'antroponimo Ongewasgone, menzionato di sfuggita nel corso del film, ha dato origine a una serie di grottesche distorsioni percettive, essendo stato inteso male dagli spettatori, come "Uncle Wiscone" /ʌŋkḷ wɪ'skoʊn/ o addirittura come "How Go Ascone" /hɑʊ goʊ æ'skoʊn/. Ecco il link alla pagina in cui ho trovato i thread buffoneschi: 
 
 
Questo dimostra che gli stessi parlanti anglosassoni hanno gravissimi problemi acustici, proprio come me, al punto che non sono in grado di intendere in modo corretto qualsiasi nome, di qualsiasi origine. Di fronte a qualcosa di non familiare, reagiscono cercando di ricondurlo a ciò che è loro noto.
In un sito web è stato commesso un grave errore: è stato attribuito il nome Ongewasgone al Capo degli Uroni. Mi sono accorto di questa incongruenza cercando in Google l'etimologia dell'antroponimo irochese - che non è stata trovata.  

L'importanza della Guerra dei Sette Anni 

La Guerra dei Sette Anni (1756 - 1763), di cui la Guerra Franco-Indiana è stata la manifestazione principale in Nordamerica, ha coinvolto tutte le principali potenze dell'epoca. Winston Churchill la considerò la vera Prima Guerra Mondiale, dato che aveva anticipato le caratteristiche di quella che nel XX secolo sarà definita "guerra totale". Gli schieramenti comprendevano da un lato il Regno di Gran Bretagna, il Regno di Prussia, l'Elettorato di Hannover, altri Stati minori della Germania Nordoccidentale e il Regno del Portogallo (dal 1762); dall'altro lato, la coalizione composta da Regno di Francia, Monarchia Asburgica, Sacro Romano Impero (in particolare l'Elettorato di Sassonia), Impero Russo, Svezia e Spagna (dal 1762). Non fu combattuta soltanto in Europa: Francesi e Britannici utilizzarono ampiamente come alleati popolazioni native dell'America settentrionale e dell'India.  
 

Le atrocità dell'assedio di Fort William Henry 
 
Ricordo di aver visto un documentario in cui si parlava del fatto storico su cui si basa il romanzo di Fenimore Cooper: l'assedio di Fort William Henry (provincia di New York), avvenuto nel 1757. Quando gli Uroni assaltarono gli Inglesi che stavano lasciando il forte, si abbandonarono a violenze inimmaginabili. Nel loro furore arrivarono al punto di esumare i cadaveri sepolti nel cimitero, scotennandoli e facendone scempio. Ne nacque una terribile epidemia di vaiolo, che portò sterminio tra gli Uroni. Dai resti ritrovati in loco, si è potuto appurare che le condizioni di salute dei coloni britannici erano tremende. Soffrivano di malformazioni della spina dorsale, di ernie vertebrali e di rachitismo, conseguenze di malnutrizione cronica. Mai avere nostalgia per epoche in cui non si è vissuti!  
 
Curiosità
 
Le riprese del film hanno coinvolto ben 900 nativi amerindiani, in gran parte dei casi appartenenti al popolo Cherokee. Wes Studi, che ha interpretato l'eroico Magua, è per l'appunto un Cherokee. In un'occasione ha dichiarato che quando doveva essere girata una scena in cui avveniva una conversazione tra Indiani, ogni attore parlava la propria lingua, senza badare alla sua comprensibilità da parte degli altri. Così Wes Studi parlava in Cherokee, mentre Mike Philips, che interpretava il Sachem degli Uroni, era un Mohawk e non capiva niente. Allo stesso modo, il supposto dialogo nella lingua dei Mohicani tra Chigachgook e Uncas era incoerente: Russel Means parlava in Lakota e non poteva essere capito da Eric Schweig, che parlava invece in una lingua degli Inuit del Canada occidentale. 
 
I dialoghi in francese sembrano di buona qualità. Tuttavia sono riuscito a individuare un grossolano errore commesso da Wes Studi (o più probabilmente dal suo doppiatore): a un certo punto usa la parola poison "veleno" pronunciandola /poi'zɔ̃/ anziché /pwa'zɔ̃/ o il più arcaico /pwɛ'zɔ̃/: praticamente utilizza il dittongo dell'omografa parola inglese. Potrebbero esserci altre inconsistenze di questo genere, che però mi sono sfuggite. Splendida e risonante la frase "Je n'ai pas peur de les Français!", incarna l'essenza stessa dell'eroismo! Sarebbe bello se Micron trovasse simili avversari. 

domenica 24 ottobre 2021

 
L'ACCADEMIA DELLE SCIMMIE 
 
Qual è la differenza tra Scienza e scientismo? Molto semplice. La Scienza deve procedere a partire dalle osservazioni e dalle misure, basandosi sul metodo scientifico, elaborando teorie atte a spiegare nel miglior modo possibile quanto osservato e misurato. Lo scientismo assume le vesti del metodo scientifico, ma in realtà cristallizza pregiudizi e preconcetti in proposizioni dogmatiche.  
 
Questa è un'autorevole definizione della parola scientismo

"Il particolare atteggiamento intellettuale di chi ritiene unico sapere valido quello delle scienze fisiche e sperimentali, e svaluta quindi ogni altra forma di sapere che non accetti i metodi propri di queste scienze. Il termine fu coniato in Francia nella seconda metà dell’Ottocento e si diffuse poi altrove, avendo di volta in volta significato positivo o negativo: si designarono polemicamente come scientisti (e di conseguenza come antimetafisici) i positivisti (per es., H. Taine); di contro impiegarono spregiativamente il termine coloro che, come E. Boutroux, vedevano nel determinismo positivistico e nell’affermazione dell’oggettiva necessità delle leggi naturali, estese anche al mondo umano, l’espressione di un rigido dogmatismo. Oggi il termine è usato solo nel suo significato negativo a indicare l’indebita estensione di metodi scientifici ai più diversi aspetti della realtà."
(Fonte: Enciclopedia Treccani) 
 
Questa fede assoluta per paradosso ha in tutto e per tutto un aspetto eminentemente religioso, anche se la sua essenza è materialistica. Ostacola qualsiasi progresso nel tentativo di comprendere la nostra condizione nell'Universo, in quanto proclama una verità che non può essere messa in discussione, pur non essendo dimostrata né dimostrabile. Forte della sua prosopopea, afferma che nulla sfugge alla sua capacità di spiegazione. In realtà individua eretici e li perseguita aspramente.  
 
Un atteggiamento simile posso definirlo soltanto in un modo: scimmiesco. Perché uso l'aggettivo "scimmiesco"? Il riferimento fondante è ovviamente al film Il pianeta delle scimmie (Planet of the Apes, 1968), diretto da Franklin J. Schaffner e basato sull'omonimo romanzo (Le Planète des Singes, 1963) dello scrittore francese Pierre Boulle, che a sua volta ha tratto in larga misura ispirazione dal romanzo di fantascienza Gorilla sapiens (Genus Homo, 1941) di Lyon Sprague Le Camp e Peter Schuyler Miller. Come funzionava il mondo accademico tra le Scimmie? Gli Oranghi detenevano il potere assoluto nell'Università e dettavano i confini nettissimi tra ciò che si può indagare e ciò che è tabù. Gli Scimpanzé, per loro natura più timidi, capivano che qualcosa non quadrava e cercavano di trovare le cause di questa confusione, procedendo da un indizio all'altro, incamminandosi però su un sentiero molto pericoloso. 
 
Per fissare le idee, riporto ora due esempi elementari e ben comprensibili a tutti.   
 
L'ulcera peptica e le sue cause 
 
Ricordo che quando ero un moccioso, non esistevano molte cure convincenti per l'ulcera grastrica o duodenale. Si soffriva per un'intera vita. Ricordo quanto soffrì mio padre (RIP), che ebbe anche diverse emorragie. Ricordo poi un pretino, un brav'uomo che a causa dello stesso male viveva di bistecche ai ferri e di riso in bianco scondito. Un compaesano di mio padre era riuscito a guarire, con una cura così ripugnante che quasi nessuno se la sentiva di intraprenderla: aveva ingurgitato lumaconi senza guscio, dopo averli avvolti in un'ostia. Il mondo scientifico si ostinava a dire che queste afflizioni avevano cause psicosomatiche. Queste era il ragionamento dei medici: uno si tiene tutto dentro, si arrovella, così si forma una piaga nelle mucose gastriche o duodenali. Le cose migliorarono di gran lunga con il Maalox. Poteva essere ingerito in formulazione liquida o sgranocchiato in compresse. La vera rivoluzione però fu la scoperta della vera causa della malattia in questione: un'infezione causata da un batterio, denominato Helicobacter pylori. Per fortuna la Scienza si è adattata alla scoperta e ha abbandonato le vecchie teorie sull'origine psicosomatica dell'ulcera peptica, che pure all'epoca sembravano solide come dogmi religiosi. Che sarebbe successo se la Scienza non avesse accettato la scoperta e fosse rimasta arroccata sulle sue posizioni e sui suoi pregiudizi inveterati? Semplice: sarebbe diventata scientismo.
 
La teoria della deriva dei continenti  
 
Il carissimo e fraterno amico P. mi raccontava spesso di un fatto increscioso accadutogli quando era uno scolaro delle elementari, in una scuola tetra e opprimente. Notando un mappamondo, disse che le coste dell'America del Sud e quelle dell'Africa sembravano combaciare, come se i due continenti si fossero divisi da un'unica massa di terra. Senza saperlo, aveva enunciato la stessa teoria rivoluzionaria concepita da Alfred Lothar Wegener (1880 - 1930). La maestrina, un essere afflittivo e più odioso di uno stronzo acciambellato di cane rabbioso, subito gli diede contro, assieme alla scolaresca. P. fu umiliato a morte, deriso fino all'impossibile da marmocchi di un'ignoranza cieca, brutale ed oscena. Dopo qualche giorno la maestrina porse le scuse a P., dicendo che aveva ragione e ponendo fine alla persecuzione. La donna aveva trovato la teoria di Wegener su un libro, venendo così a conoscenza di qualcosa che non avrebbe mai sospettato. Lo stesso Wegener aveva dovuto affrontare lo scherno e l'irrisione del mondo accademico, che si era scagliato contro di lui con particolare accanimento. In un'occasione, Isaac Asimov ammise di aver contribuito al linciaggio, pubblicando un contributo dissacrante il cui affermava che "La teoria della deriva dei continenti andò alla deriva" (traduzione piuttosto libera di "The theory eventually foundered on hard facts")*. Poi saltarono fuori le prove inoppugnabili: l'espansione della dorsale atlantica. Così tutti cessarono di deridere. La frase denigratoria di Asimov è attualmente difficile a reperirsi: l'autore ha cercato di togliersi la merda di dosso nelle successive edizioni della sua opera. Che sarebbe successo se la Scienza non avesse accettato la scoperta e fosse rimasta arroccata sulle sue posizioni e sui suoi pregiudizi inveterati? Semplice: sarebbe diventata scientismo.

* The Intelligent Man's Guide to Science: The Physical Sciences (1a ed. 1960). 
 
Asimov individua due tipi di eretici scientifici:
1) gli endoeretici, che sono interni alla comunità scientifica, di cui parlano il linguaggio; 
2) gli esoeretici, che sono esterni alla comunità scientifica, di cui ignorano il linguaggio. 
Secondo l'Ashkenazita, gli endoeretici sarebbero spesso all'origine del progresso e le loro idee eterodosse hanno una possibilità concreta di essere accettate dal mondo accademico. Per contro, gli esoeretici sarebbero soltanto mostri stravaganti. Le azioni di questi fricchettoni avrebbero come solo scopo la distruzione della Scienza nel suo insieme, con l'aiuto del populismo. 
Esempi di endoeretici: Galileo Galilei, Alfred Wegener. 
Esempi di esoeretici: Rudolf Steiner, David Icke. 
Resta però un fatto innegabile: soltanto quando le teorie di uno scienziato eterodosso infine trionfano, il mondo accademico riconosce che si trattava di un endoeretico, non di un esoeretico.
 
«Un'insidia perniciosa deriva dalla pretesa di alcuni scienziati, anche di rilievo, che la scienza presto possa fornire una spiegazione completa di tutti i fenomeni del mondo naturale e di tutte le nostre esperienze soggettive, non solo delle percezioni e delle esperienze di bellezza, ma anche dei nostri pensieri, fantasie, sogni, emozioni e credenze [...] È importante riconoscere che, quantunque uno scienziato possa formulare simili affermazioni, egli non agisce come uno scienziato ma come un profeta travestito da scienziato. Questo è lo scientismo, non la scienza, ma impressiona fortemente il laico, convinto che la scienza somministri la verità. Al contrario, lo scienziato non dovrebbe far finta di possedere una sicura conoscenza di tutta la verità. Il massimo che gli scienziati possono fare è di avvicinarsi quanto maggiormente possibile alla comprensione dei fenomeni naturali, eliminando gli errori nelle nostre ipotesi. È della massima importanza per gli scienziati comparire dinanzi al pubblico come sono realmente: umili ricercatori della verità.»
(John Carew Eccles in La psiche umana, 1986) 
 

mercoledì 20 ottobre 2021

ETIMOLOGIA DI AZERBAIGIAN E RETROFORMAZIONE DELL'ETNONIMO AZERI

Il nome dell'Azerbaigian (adattamento italiano di Azerbaijan) è di origine persiana e deriva da quello di un'antica provincia della Persia, che era chiamata Atropatene. Ai nostri giorni è sia il nome di una nazione indipendente, la cui capitale è Baku, che di una provincia dell'Iran, chiamata Azerbaigian iraniano o Azerbaigian persiano. Quando si formò il toponimo, la lingua parlata nella regione era iranica, non turca come nell'epoca attuale. Il nome degli Azeri è stato retroformato proprio dal toponimo Azerbaijan (azero Azərbaycan, persiano آذربایجان). L'accento è sulla seconda sillaba: Azéri /a'zeri/. La consonante -z- è una fricativa sibilante sonora. La pronuncia comunemente usata in Italia, Àzeri /'adzeri/, è da considerarsi erronea per l'accento; la consonante affricata è di origine ortografica. Come esattamente sia avvenuta questa strana retroformazione è ancora un mistero. Forse si è interpretata la seconda parte del toponimo, -baijan, come un suffisso, anche se non sembra avere alcuna funzione e alcun significato concreto, scorporando in questo modo Azeri. Questo processo, che ha dato origine all'etnonimo nella forma in cui lo conosciamo, era avvenuto già nell'antica lingua iranica della regione. In persiano si ha آذری Āzarīs. Comunque sia, non esiste nulla di simile nella lingua turca degli Azeri, che chiamano se stessi Azərbaycan türkləri, ossia "Turchi dell'Azerbaigian", oppure Azərbaycanlılar (-lar è il tipico suffisso plurale). In persiano esiste anche un altro termine per dire "azero": تُرْکی torki, ossia "turco". Dall'etnonimo retroformato si è poi avuta un'ulteriore derivazione tramite il suffisso aggettivale -i: Azerbaijani

Questa è la documentazione:
 
1) In greco il toponimo Ἀτροπατηνή (Atropatēné) è la sostantivazione del femminile dell'aggettivo Ἀτροπατηνός (Atropatēnós), a sua volta derivato dall'antroponimo persiano Ἀτροπάτης (Atropátēs). L'originale forma persiana di tale antroponimo doveva essere *Ātṛpāta, in cui significato è "Protetto dal Fuoco". Questo nome fu portato da un generale dei Medi che combattè nella battaglia di Gaugamela e che fu il primo satrapo della Media Atropatena nel 328 a.C. L'antroponimo è attestato in epoca medievale come Āturpāt
2) Sinonimo di Ἀτροπατηνή: Ἀτροπατία (Atropatía). 
3) Denominazione partica dell'Atropatene: Āturpātākān.
4) Denominazione medio persiana dell'Atropatene in epoca medievale preislamica: Ādurbādagān.
5) Attestazione in armeno: Atrpatakan.
6) Attestazione in georgiano: Adarbadagan.
 
La storia medievale dell'Atropatene è complessa e tristissima. Conquistata dagli Arabi, tale provincia persiana fu sottoposta a una terribile tirannia il cui fine era l'imposizione forzata dell'Islam e l'annientamento dell'autoctona religione di Zoroastro. Fu imposta la cosiddetta "tassa dell'anima", chiamata جزية jizya in arabo. La cosa funzionava così: chi proprio non voleva convertirsi, doveva pagare una somma consistente dei suoi introiti; se non ci riusciva e perseverava nel rifiuto di passare alla nuova fede, gli veniva confiscato ogni avere e si trovava ridotto in schiavitù. In tempi recenti, tale pratica è stata applicata nello Stato Islamico. Ricordo ancora che un giornalista chiedeva agli uomini del Califfo come calcolassero l'ammontare della jizya e questi glissavano, facevano finta di non aver sentito. A motivo dei metodi brutali con cui questo regime religioso aveva ottenuto il successo, le genti dell'Azerbaigian furono infine conosciute come "musulmani di spada": la loro resistenza secolare era stata annientata col ferro e soffocata nel sangue. Nel XI secolo i Turchi Selgiuchidi, di etnia Oghuz meridionale, giunsero nell'area che già professavano l'Islam, quando il processo di conversione della maggior parte della popolazione locale si era già completato. Iniziò quindi una profonda turchizzazione linguistica. Il più significativo elemento del sostrato iranico presente nella lingua azera è a mio avviso l'assenza dell'armonia vocalica, così tipica delle lingue altaiche. I popoli Turchi in genere portano nomi antichissimi e originali. Nel caso degli Azeri, il nome è invece proveniente dalla popolazione non turca e assimilata. 

La trafila fonetica dal partico Āturpātākān ad Azerbaijan è degna di nota per i suoi fenomeni di assibilazione e di palatalizzazione. Queste sono le radici avestiche:
 
Avestico: ātarš "fuoco", genitivo āθrō "del fuoco".
Avestico: pā-, pāiti- "proteggere":
   -pāta
"protetto";
    pātā, pātar- "protettore".
   La radice è la stessa di paitiš "signore", "marito" (deriva dalla radice indoeuropea ha dato anche il latino potis "potente", "capace", etc.).
 
Tutto ciò deve far meditare sul cambiamento linguistico, una forza ineluttabile di cui le genti del mondo non si rendono conto. Si tratta di qualcosa di lento: nessuno si accorge che la generazione presente pronuncia le parole in modo lievemente diversa dalla generazione precedente. Tramite piccolissimi cambiamenti che si accumulano nel corso dei secoli, alla fine si manifestano grandi differenze. Questa evoluzione delle lingue è irreversibile come la cottura di un uovo: una volta che albume e tuorlo si sono rassodati, nemmeno una divinità può ripristinare l'originario stato liquido. Nessuna istituzione scolastica o politica è in grado di frenare il mutamento, né tantomeno di impedirlo.   
 
Grottesche memorie universitarie
 
Un fisico azero venne in visita all'Università degli Studi di Milano. Tenne la sua lezione in uno pseudoinglese tremendo, che definire osceno sarebbe ancor poco. Era assolutamente ridicolo. Un clown ubriaco avrebbe saputo fare di meglio! Queste sono alcune "perle", giunte ai nostri esausti nervi acustici: 

i) cucucucù: si sentiva spesso questa parola onomatopeica, ma non abbiamo mai compreso cosa volesse significare. 
ii) nitrina : senza dubbio significa "neutrini" ed è un termine preso a prestito dal russo scientifico.
iii) pancini pancioni: si suppone che questo balbettamento stesse per il nome del fisico Pacini
iv) La congiunzione and suonava nitidamente ènta
v) Un compagno di sventura ha giurato di aver sentito ripetere più volte qualcosa che suonava come Abdullah
vi) zanzara: si è sentita questa parola, intercalata spesso e senza alcun significato comprensibile. Si è notato che alcuni ascoltatori sentivano Abdullah e altri zanzara, mai le due cose assieme. Sono ancora in attesa di elaborare una spiegazione plausibile di questo fenomeno acustico.

Non si riesce a spiegare l'origine della maggior parte di queste distorsioni percettive: soltanto un paio sono chiare. Questo è il rumore di fondo, potenza sempre all'opera nell'Universo. È quel disturbo permanente che alla fine non ci farà comprendere i colori, i suoni e le forme dell'esistenza. 

lunedì 18 ottobre 2021

LO STRANO CASO DEL CONTADINO SAPIENTE DI PEVERAGNO

Spesso emergono dai miei banchi di memoria stagnante scintille davvero mirabili. Ricordo ancora quando ero un adolescente foruncoloso e guardavo volentieri Portobello, la trasmissione di Enzo Tortora (RIP). I Millennials non ne sanno nulla, men che meno quelli della Generazione Z: sono persino incapaci di concepire un mondo senza gli smartphone e la connessione a Internet. Eppure un simile mondo è esistito e ne sono testimone. All'epoca Portobello aveva un enorme successo e in molti non vedevano l'ora che arrivasse la serata in cui andava in onda quel mercatino esotico, che rendeva note al grande pubblico cose stranissime, neppure immaginate nei sogni. Ricordo ancora oggi argomenti affascinanti di cui venni a conoscenza in gioventù. Fu allora che si risvegliò in me un grande interesse per le minoranze linguistiche e per le parlate criptiche. Una sera fu presentato il gergo degli ombrellai di una vallata del Piemonte, in cui le ragazze erano chiamate megèire, ossia "megere". Tutto ciò mi divertì moltissimo. Una sera fu presentata una comunità che parlava un idioma germanico, non rammento se fossero Cimbri o Walser. Mi è però rimasto impresso che si riunivano per giurare intorno a un grande albero considerato sacro, una quercia o forse un olmo. Mi sembra ancora ieri quando, un'altra sera, alcune persone di Carloforte, in Sardegna, presentarono al pubblico la loro lingua ancestrale, che era una varietà di genovese. Tortora aveva spiegato che quella lingua si chiamava Tabarkino e che derivava il suo nome dall'isola di Tabarka, in Tunisia, che era stata popolata da coloni genovesi venuti da Pegli. Ogni volta erano nuove meraviglie. Rimasi terrorizzato quando furono presentati terribili feticci di stregoneria, credo che fossero provenienti dalla Campania: masse immonde simili a pappagallini che si formavano nei materassi di piume e provocavano deperimento, bambole con spilli conficcati negli occhi, racconti di fattucchiere che scagliavano malefici facendo morire il pollame.

Accadde infine che una sera Enzo Tortora presentò un anziano contadino che abitava a Peveragno, un antico borgo in provincia di Cuneo, in Piemonte. Cosa aveva di particolare quest'uomo gracile e dall'indole vivace? La sua dote era ben rara. Parlava correntemente il latino e sapeva recitare a menadito l'Eneide. Cosa ancor più notevole, aveva appreso da autodidatta la lingua di Roma e l'opera di Virgilio, facendo affidamento soltanto sulle sue forze e sul suo ingegno. Questo mi sono detto: "Ormai quell'inconsueto latinista sarà certamente defunto, non fosse altro che per ragioni anagrafiche. Non sarà facile ormai trovare tracce della sua esistenza". Invece, incredibile dictu, sembra che egli sia tuttora in vita. Ho trovato un sito web che ne fa menzione. Me lo ricordavo un po' diverso da come appare nella fotografia che ho trovato in Rete, ma è senza dubbio lui. Ai tempi di Portobello non portava la barba e mi sembrava un po' raggrinzito, anche se la forma del cranio, così caratteristica, è senza dubbio quella e mi è rimasta impressa. Evidentemente le mie memorie sono state soggette a una processo di profonda distorsione percettiva, anche se non così radicale da impedire il riconoscimento. Si direbbe addirittura che il peveragnese sia ringiovanito! Ecco la pagina in cui si parla di lui:
 

Questa è la presentazione: 
 
ANGELO MERLATTI (Mondovì, 1937), contadino amante del latino, da lunghi anni usa questo idioma come lingua di conversazione avendola studiata da autodidatta (dice di sé: «Totam per vitam agros colui. Lucretio Vergilioque magistris, linguae nullo adiuvante studui latinae»). 
 
Tra i suoi capolavori, consultabili sul sito, si possono elencare questi: 
 
Dis aliter visum 
Casus dolens 
Meminisse iuvabit 
Linguae latinae reditus ad vitam Pamparati 
Sunt lacrimae rerum 
Habet hoc voluptas 
Vetera iuvat retractare 
Igne perenni lucet in medio focus amicus 
Patris morientis recordatio et memoria

Non è affatto comune questa dote di saper conversare in una lingua appresa dai libri. In genere i libri trasmettono una conoscenza legnosa, non duttile né malleabile, inadatta ad esprimere concetti in modo fluido. Chi ha studiato sui libri il latino (o l'inglese, non cambia molto), in genere pensa nella propria lingua e traduce mentalmente, applicando regoline, regolette, regolucce e regolacce. Si capisce invece che il contadino di Peveragno è in grado di pensare spontaneamente in latino senza dover applicare alcuna traduzione a pensieri formulati nella propria lingua nativa. Questo è certamente un fatto singolare e prodigioso che merita ulteriori studi. Per certi versi la sua figura mi ricorda quella di Vilgardo di Ravenna, che nel X secolo aveva avuto una visione di Virgilio, Orazio e Giovenale, rimanendone illuminato e proclamando che la Verità si trova negli scritti degli Autori dell'Antichità.  

Tempo fa scrissi di getto questi appunti, quando ancora facevo affidamento sui soli ricordi di Portobello, senza sapere che l'uomo fosse ancora in vita e ben operante:

"Il contadino di Peveragno era davvero un sapiente. Nel suo campo di studio senza dubbio lo era. Tale campo era il latino scolastico. Tuttavia di linguistica storica, di filologia romanza, di indoeuropeistica e simili, non sembrava sapere granché. Da quello che rammento, non applicava la metrica latina alla lettura dei versi di Virgilio: non usava le elisioni e gli accenti mobili così tipici della poesia. Pronunciava ogni singola parola come facevano i preti, come si faceva a scuola. Che significa? Del suo mondo, sapeva tutto. Il punto è che il suo mondo non era realmente l'antica Roma: era invece in qualche modo una sua costruzione mentale, un mondo fantomatico inventato dalla scuola, dalle sue secolari stratificazioni."  

Quando si proiettano immagini mentali di Roma nel passato, queste sono drammaticamente diverse dalla vera antica Roma. Mi domando cosa direbbe un latinista odierno se tornasse indietro nel tempo grazie a una mirabile macchina e sentisse l'Imperatore Augusto dire "DA MI AQUA CALDA" anziché "DA MIHI AQUAM CALIDAM". Tutti abbiamo bene in mente gli eccessi degli insegnanti del liceo, quelle -M finali potenti e assordanti come muggiti taurini, quel pronome MIHI pronunciato con due I staccate, anzi, addirittura con tre o quattro I: MIIII. Nel Medioevo invece si intercalava una consonante velare e si pronunciava MICHI. Non dobbiamo mai dimenticarcelo: Virgilio, se avesse sentito un moderno declamare i versi dell'Eneide, si sarebbe chiesto che razza di sannita o di umbro fosse mai quello che aveva davanti! Eppure, il contadino di Peveragno non resterebbe senza risorse in una situazione tanto sorprendente: se fosse proiettato all'epoca di Cicerone e di Cesare, saprebbe imparare con prontezza la pronuncia autentica degli Antichi e conversare con loro con la massima naturalezza, in breve volgere di tempo. Probabilmente all'inizio rimarrebbe esterrefatto, ma questo stupore non durerebbe a lungo: si metterebbe in opera in lui quella stessa sete di Conoscenza che lo ha portato ad apprendere la lingua scritta senza aiuto alcuno, giungendo a produrre testi che potrebbero essere stati vergati dallo stesso Virgilio.
 
Il problema della "riallocazione" del passato

Gli eternisti sostengono che se possiamo pensare agli eventi passati, è perché in qualche modo questi eventi esistono tuttora. Se gli istanti trascorsi non avessero realtà, se avessero smesso di sussistere - questo è l'argomento eternista - non sarebbero concepibili e non potremmo far riferimento a loro nella nostra mente. Così i filosofi che si occupano della natura del tempo, sono convinti che per negare che gli eventi passati esistano tuttora, sia necessaria una loro "riallocazione" nel presente. 
Lo studioso islandese Rögnvaldur Ingthorsson, che è un sobrio presentista, ritiene che sia inutile riempire il presente di entità astratte come gli eventi passati soggetti a questa "riallocazione"


Direi che non dovremmo parlare di "riallocazione", in alcun caso. Nulla viene davvero riallocato. Il passato non esiste più. Noi ne parliamo soltanto, unicamente tramite i suoi FOSSILI NEL PRESENTE. Siamo del tutto ciechi al passato. Possiamo riferirci al passato ed averne cognizione soltanto perché ne perdurano tracce analizzabili nel presente, che sono come le ammoniti visibili tuttora nelle sezioni di marmo che costituiscono il pavimento dell'ultimo piano della libreria Feltrinelli nella sede della Stazione Centrale di Milano. Un pavimento simile si trova sul pavimento del porticato di Piazza del Duomo, sempre a Milano. Quante volte ho meditato sulle conchiglie mineralizzate! Quei molluschi vissero molti milioni di anni fa, eppure qualcosa di loro è ancora coglibile dai nostri sensi, inglobato nel minerale. Da quei resti possiamo dedurre molto, ma non sarà mai come vedere davanti ai propri occhi un'ammonite viva. Il fatto che parliamo di entità come lo xenomorfo o Mickey Mouse non implica per necessità la loro reale esistenza in qualche recesso di un Multiverso forse soltanto fantomatico. Lo xenomorfo e Mickey Mouse esistono a livello iconografico nel nostro presente e non sono diversi da qualsiasi altro ente di cui abbiamo piena consapevolezza.
 
Che dire quindi della nostra capacità di raggiungere l'Episteme? Possiamo davvero conoscere una civiltà morta da secoli? Le cose stanno così: esistono tante copie dell'Antica Roma e della sua lingua quante sono le persone che la studiano e che la sognano. Sono tutte proiezioni di fossili che si trovano nel nostro presente, ma rielaborate e fabbricate da menti diverse. Ognuna di queste rappresentazioni mentali è soltanto uno scheletro della realtà, non ha in sé nulla di vero. Ancora lungo ed estenuante è il cammino verso l'effettiva capacità di cogliere il Noumeno!  

sabato 16 ottobre 2021

LE VERE CAUSE DELLA SCOMPARSA DELLA DECLINAZIONE LATINA

Nel pestilenziale ed afflittivo social network Quora, ci sono utenti che si domandano con insistenza come mai la lingua italiana non abbia le declinazioni, pur derivando dal latino. 


Joseph G. Mitterer ha dato questa risposta: 

"Ci sono varie spiegazioni. Generalmente si può dire che in tutte le lingue indoeuropee c'è la tendenza di "semplificare" la morfologia nominale. Sono pochissime le lingue che hanno conservato tutti gli otto casi del proto-indoeuropeo. Il processo di cui parliamo non è, dunque, un fenomeno propriamente romanzo o italiano, ma era già cominciato nel latino (in latino ne sono un documento le molte funzioni dell'ablativo e i resti ancora presenti del locativo) e si osserva anche oggi in altre lingue, come ad esempio nel tedesco il cui genitivo è in via d'estinzione."
 
E ancora: 
 
"Se però parliamo delle ragioni, un motivo fondamentale era lo sviluppo fonologico del latino. Nel latino classico le forme rosa, rosam, rosā erano pronunciate in modo diverso. Poi però le quantità vocaliche sono scomparse, appunto come la -m finale, cosicché le parole succitate si sono tutte frammischiate in un'unica forma rosa. Per ristabilire le informazioni grammaticali che erano andate perse così si è serviti di preposizioni e di una sintassi più regolata."

Una volta identificato in modo sicuro il processo di confusione delle terminazioni, si dovrebbe insistere sulle sue cause fisiche e sulla sua immensa portata. Invece Mitterer enuncia una teoria a mio avviso bizzarra, che inverte il nesso causa-effetto. Non riesco bene a comprendere se il motivo di questa interpretazione dei fatti sia di natura ideologica oppure se debba la sua formazione a un semplice fraintendimento. Così prosegue: 
 
"Tipicamente le spiegazioni finiscono qui. Conviene però aggiungere che ci sono anche altri motivi per questo sviluppo e che, forse, i mutamenti fonologici non erano la ragione ma (forse!) una conseguenza di altri sviluppi. Infatti, come ho detto inizialmente, c'è una tendenza di "semplificazione" nelle lingue indoeuropee. Questa "semplificazione" non si manifesta soltanto nella morfologia nominale, bensì in tanti altri campi della lingua. Per essere più precisi, il fenomeno di cui stiamo parlando non è veramente una "semplificazione", ma una tendenza verso strutture analitiche, cioè una tendenza di dividere parole nelle sue singole funzioni. Ecco cosa avviene se invece di dire uscire si dice andare fuori, se invece di scripsi si dice ho scritto, se invece di altior diciamo più alto ecc. Le ragioni di questo sviluppi hanno, probabilmente, a che fare con la psicologia dei parlanti e con la tendenza di voler fare trasparenti le funzioni degli elementi linguistici, e anche di esprimere tali funzioni con concetti nozionali, "concreti", invece di usare soltanto morfemi grammaticali ormai completamente opachi."

Queste sono le conclusioni a cui giunge: 
 
"Credo che questo aspetto sia ancora sottovalutato nella linguistica, e soprattutto lo sono le possibili conseguenze, come appunto la perdita di distinzioni fonematiche dovuta ai suddetti processi (e non viceversa)."
 
Sono convinto, pace Mitterer, della natura puramente fisica del fenomeno. I suoni emessi da gole umane giungono deboli alle orecchie di chi li ascolta. In particolare, giunge debole la parte finale di ogni pacchetto sonoro trasmesso al cervello dai nervi acustici. Per questo motivo, le code delle parole diventano naturalmente deboli col passar del tempo, finendo per scomparire completamente. Il processo è attestato già nella lingua dei Sumeri, in cui le consonanti finali diventavano mute e nuove consonanti finali si producevano dall'indebolimento di vocali - un po' come è successo in francese: 
 
bid "ano" è diventato bi
dili "singolo, unico" è diventato dil;
dug "parlare", "discorso" è diventato du;
gig "malattia" è diventato gi;
gud "bue", "toro" è diventato gu;
gun "terra", "regione" è diventato gu;
ḫada "secco", "bianco" è diventato ḫad;
itud "luna", "mese" è diventato itu e poi it;
lul "mentitore", "menzogna" è diventato lu;
nad "letto, giaciglio" è diventato na;
pab, pap "padre", "fratello" è diventato pa
siki "capelli" è diventato sig;
taka "toccare" è diventato tak, tag e poi ta
tila "vita" è diventato til e poi ti;
tumu "portare" è diventato tum;
tumu "vento", "punto cardinale" è diventato tum e poi tu;
 
Queste evoluzioni della pronuncia sono documentate dalla scrittura di quel popolo glorioso, senza possibilità di dubbio, nel corso dei secoli. Un simile processo ha dato origine a un gran numero di ambiguità e di equivoci: solo per fare un esempio, a un certo punto lul "mentitore", "menzogna" si pronunciava lu, proprio come lu "uomo". Sono convinto che ciò abbia posto le basi per il declino del sumerico come lingua parlata; come lingua scritta (rituale e scientifica) si è conservato molto più a lungo grazie all'ingegno degli scribi. 

I parlanti non si rendono conto di questo processo ineluttabile di degradazione dei fonemi, non lo comprendono perché credono eterno l'istante. Proiettano il presente all'infinito nel passato e nel futuro. Nella loro stoltezza presentacea, credono che le cose siano immutabili. Una simile usura fonetica delle code delle parole porta alla perdita delle capacità di contrasto tra forme diverse, che finiscono così col collassare. Cosa accade se dalla capacità di distinguere alcuni suoni finali di parola dipende la grammatica stessa della lingua? Semplice: accade che vengono a collassare declinazioni e coniugazioni. I paradigmi perdono la loro efficacia, alimentando una grande confusione. Per ovviare a questo problema, la lingua giocoforza si riorganizza, tenta di costruire nuovi schemi che siano funzionanti, in grado di permettere la comprensione tra i parlanti. Quando un paradigma grammaticale si indebolisce e muore, un altro sorge per rimpiazzarlo. 
 
Pestilenziali utenti di Facebook  

Su Facebook, in un gruppo sulle lingue locali e minoritarie dell'Italia, è esploso un flame a causa di M., una professoressa del liceo la cui cultura era autoreferenziale. Costei aveva appreso l'ABC del mondo e credeva fermamente che al di fuori di queste nozioncine non potesse esistere alcunché. Non considerava le declinazioni del latino una realtà di una lingua che secoli fa viveva ed era soggetta ai mutamenti: per lei erano invece schemi ieratici ed assoluti, incisi sulle tavole di pietra di una cabala in cui la lingua scritta doveva per decreto divino precedere quella parlata. Non capiva come i Romani avrebbero potuto esprimere la differenza tra il soggetto e il complemento oggetto se le desinenze della declinazione non avessero avuto proprio la pronuncia insegnata a scuola, che impone di distinguere -um da -u. Solo per fare un esempio, ignorava che già sussisteva nella lingua classica l'impossibilità di operare la distinzione tra il soggetto e il complemento oggetto in parole di genere neutro! Non capiva che i suoi paradigmi a un certo punto sono andati a farsi fottere, o l'italiano avrebbe le parole con fortissime -m finali! Forse non sapeva neppure che le lingue romanze derivano dal latino volgare. Possibile che ci sia ancora chi crede che in latino si pronunciassero delle -m finali possenti come muggiti di bovini?! Il concetto espresso da M. era questo: se qualcosa non rientra nel programma scolastico delle superiori, significa che non esiste. Filologia romanza? Un libro chiuso. Epigrafia latina? Un libro chiuso. Grammatici antichi? Un libro chiuso. Se si dovesse ragionare così con la fisica, Rovelli sarebbe considerato un perditempo. Non mi stancherò mai di stigmatizzare le mostruosità prodotte dal sistema scolastico italiano. Potrei parlare delle iscrizioni di Pompei, delle occorrenze di parole senza -m attestate già in epoca antica, di Augusto che diceva "da mi aqua calda". Piaccia o no, le cose stanno così. Il defunto professor C. si era spinto al punto da affermare che la -m finale i Romani non la pronunciavano. Bisognerebbe comprendere bene di quale epoca stiamo parlando. In ogni caso, sembra proprio che sia stato un suono assai debole fin dal principio e che si sia perso presto. Non sono mancati tentativi di restaurazione dotta. Dioscoride trascriveva la -m finale, avendola con ogni probabilità sentita pronunciare pienamente da qualcuno, ma doveva trattarsi della lingua aulica, molto artificiosa e distante da quella del volgo. A che servirebbe andare avanti? Facebook è una colossale perdita di tempo.

La lingua d'oc e la lingua d'oïl 
 
Uno schema ridotto, derivato dalla II declinazione del latino, ha continuato a vivere per secoli nelle lingue romanze parlate nel territorio un tempo conosciuto come Gallia Transalpina. Eccolo: 
 
Singolare
Nominativo: -s < *-us 
Obliquo (accusativo): - < *-u(m)
 
Plurale
Nominativo: - < *-ī
Obliquo (accusativo): -s < *-ōs 
 
Riporto un esempio dalla lingua d'oc (antico provenzale).  
Questa è la declinazione di cavals "cavallo", che deriva direttamente dal latino caballus "cavallo da fatica", "cavallo da tiro" (che nella lingua volgare ha sostituito equus "cavallo").
 
Singolare 
Nominativo: lo cavals 
   < ille caballus 
Obliquo: lo caval 
   < illu(m) caballu(m)
 
Plurale  
Nominativo: li caval 
   < illī caballī 
Obliquo: los cavals 
  < illōs caballōs 

Riporto un esempio dalla lingua d'oïl (antico francese). La pronuncia non è quella del francese moderno: le sibilanti finali -s si pronunciavano. Questa è la declinazione di veisins "vicino", che deriva direttamente dal latino vīcīnus (aggettivo sostantivato). 
 
Singolare  
Nominativo: li veisins 
   < ille vīcīnus
Obliquo: le veisin 
   < illu(m) vīcīnu(m)  

Plurale
Nominativo: li veisin 
   < illī vīcīnī 
Obliquo: les veisins
   < illōs vīcīnōs

Come potete vedere, in Francia, Provenza e Linguadoca esisteva ancora in pieno Medioevo uno schema di declinazione ben funzionante, per quanto ridotto rispetto a quello del latino classico. In francese, discendente della lingua d'oïl, la declinazione ha cominciato a non funzionare più quando le sibilanti finali -s si sono indebolite e sono cadute, a partire dalla metà del XIV secolo. Nella lingua moderna, nella maggior parte dei casi è prevalsa la forma obliqua, anche se ci sono numerose eccezioni. 
 
Il caso della Dacia 
 
Il latino volgare della Dacia, ossia l'antenato del rumeno, aveva indebolito le consonanti finali di parola, fino a perdere non soltanto -m, ma anche -s, com'è avvenuto in Italia. Nonostante ciò, l'agglutinazione dell'articolo derivato da un pronome dimostrativo, ha permesso alla declinazione di conservarsi. 
 
Per analogia con il dativo singolare cūi del pronome relativo, si sono formati i dativi *ūnūi e *illūi, da cui in rumeno si sono avuti unui (articolo indeterminativo) "a un", "di un" e il suffisso -lui (articolo determinativo) "al", "del". I genitivi plurali maschili/neutri ūnōrum e illōrum hanno dato origine a unor (articolo inteterminativo) "ad alcuni", "di alcuni" e al suffisso -lor (articolo determinativo) "ai", "dei". In altre parole, si può dire che si è costruita una nuova declinazione dalla destrutturazione di quella antica. 

Singolare
om < homō 

Nominativo/accusativo: 
   indeterminato: un om "un uomo" 
   determinato: omul "l'uomo"
     < homō ille

Genitivo/dativo
  indeterminato: unui om "di un uomo"/"a un uomo"
  determinato: omului "dell'uomo"

Vocativo: omule "o uomo"

Plurale 
oameni < hominēs

Nominativo/accusativo 
  indeterminato: nişte oameni "alcuni uomini"
  determinato: oamenii "gli uomini"
     < hominēs illī

Genitivo/dativo
  indeterminato: unor oameni "di alcuni uomini"/"ad alcuni
       uomini"
  determinato: oamenilor "degli uomini" 
    < hominum illōrum 

Vocativo: oamenilor "o uomini" 
 
Come si può vedere, si è conservato qualcosa dell'antico paradigma latino, ma è altrettanto vero che molto è stato rifatto.

La decadenza del genitivo in tedesco 

Nel tedesco odierno il genitivo è in forte decadenza, essendo sempre più spesso sostituito dalla preposizione von con il dativo. Eppure, ancora nella prima metà del XX secolo, il genitivo era in uso abbastanza rigoglioso. Ecco alcune testimonianze di questo declino, che pare inarrestabile.


"Il caso genitivo è il quarto, ultimo e meno utilizzato caso tedesco. È quasi completamente sostituito dal caso dativo nel parlato e nella scrittura di tutti i giorni." 
 
"Quindi, quello che devi sapere è che non devi imparare il caso genitivo: puoi gestire benissimo le situazioni quotidiane anche senza di esso."
 
"Il caso genitivo in tedesco è uno strano fenomeno al giorno d'oggi. Attualmente è in fase di cancellazione dalla lingua... ma nel frattempo a volte viene ancora utilizzato." 
 
"Il suo strano status di moribondo significa che il genitivo è usato raramente nel tedesco comune e quotidiano; ma è ancora appeso con le unghie nel mondo accademico e in altri registri formali." 

"A meno che tu non sia a un certo punto nei tuoi studi sul tedesco, in cui non riesci a pensare a un’altra benedetta cosa su cui lavorare oltre al caso genitivo, in realtà per ora consiglierei di continuare a ignorarlo."

"A seconda dei tuoi studi o del tuo lavoro, potresti non aver mai bisogno di usare effettivamente il genitivo stesso (a parte forse alcune frasi facili da memorizzare)."

"Ma se scegli di imparare il caso genitivo, probabilmente capirai meglio le notizie, i documenti legali e la letteratura... e c'è qualcosa (di utile) in questo!"

Questo è un caso molto singolare in cui si è sviluppato un processo di autolisi grammaticale non necessaria, avente come risultato la distruzione della lingua e dell'identità. Il genitivo funzionava benissimo, non c'era alcun indebolimento fonetico delle terminazioni caratteristiche. A mio avviso le motivazioni del disastro sono innanzitutto politiche e ideologiche: tutto ciò è stato innescato dall'autorazzismo!

Latino e lituano: un rapido confronto
 
L'usura delle code delle parole non colpisce tutte le lingue con la stessa velocità. Per questo il lituano ha conservato molto bene la declinazione ereditata dall'indoeuropeo, mentre il latino volgare l'ha consumata fino alla scomparsa completa. Riportiamo alcuni esempi significativi per illustrare meglio il concetto. 
Questa è la declinazione del sostantivo výras "uomo" in lituano, derivato dalla stessa radice indoeuropea che ha dato il latino vir "uomo": 
 
Singolare 
 
nominativo: výras
genitivo: výro 
dativo: výrui 
accusativo: výrą 
strumentale: výru 
locativo: výre 
vocativo: výre 

Plurale 

nominativo: výrai 
genitivo: výrų 
dativo: výrams
accusativo: výrus
strumentale: výrais
locativo: výruose
vocativo: výrai 

Questa è la declinazione del corrispondente vocabolo nel latino classico: 

Singolare 

nominativo: vir
genitivo: virī
dativo: virō
accusativo: virum 
vocativo: vir
ablativo: virō

Plurale

nominativo: virī
genitivo: virōrum, virum
dativo: virīs 
accusativo: virōs 
vocativo: virī
ablativo: virīs 
 
Senza entrare troppo nei dettagli, si riescono ancora oggi a individuare le forme simili, derivate da un identico prototipo indoeuropeo (IE).  
 
Dat. sing. virō = Dat. sing. výrui 
   < IE: -ōi
 
Acc. sing. virum = Acc. sing. výrą 
   < IE: -om
 
Voc. sing. vir = Voc. sing. výre 
  < IE: -e
Nota: 
In latino la terminazione -e è scomparsa nei nomi in -r della II declinazione, ma è presente in quelli che conservano -us al nominativo. 

Abl. sing. virō = Strum. sing. výru 
   < IE: -ōd 
 
Nom./voc. pl. virī =  Nom./voc. pl. výrai 
   < IE: -oi  

Gen. pl. virum = Gen. pl. výrų 
  < IE: -ōm
Note: questo genitivo latino continua la forma più antica, poi sostituita da virōrum < *wirōzōm

Acc. pl. virōs = Acc. pl. výrus
   < IE: -ons 

Dat./abl. pl. virīs = Strum. pl. výrais
   < IE: -ois 
 
Come spiegare queste discrepanze? Le genti baltiche sono rimaste in una condizione di grande isolamento dal mondo esterno in cambiamento tumultuoso. Giusto per fare un esempio, hanno adottato il Cristianesimo molto tardi, soltanto verso la fine del XIV secolo. Non ne sono ancora del tutto sicuro, ma credo che i sistemi grammaticali più complessi abbiano la tendenza a trovarsi tra i popoli più isolati. La questione merita di certo ulteriori approfondimenti. Sarò lieto di trattare molti altri casi di semplificazione, scomparsa e ristrutturazione della declinazione in numerose lingue di cui ho qualche rudimento.