giovedì 5 gennaio 2023

LA VESPA DI SMERALDO

1.

Il manager era tornato a casa febbricitante. Non riusciva quasi a reggersi in piedi, e questo non era buono, visto che aveva delle consegne da compiere e pochi giorni per elaborare i grafici. Non c’era nulla che andasse per il verso giusto. Si sedette sulla poltrona del suo monolocale, poco più di un loculo nella gigantesca struttura abitativa, e prese il termometro per misurarsi la temperatura corporea. Solo il pensiero di mangiare qualcosa gli faceva venire la nausea, mentre gli sembrava che gnomi maligni gli stessero picconando il cranio. Dolori articolari, fitte di colite, capogiri. Dopo qualche minuto estrasse il termometro e la lettura non migliorò la sua depressione: aveva un febbrone da cavallo. Si denudò davanti allo specchio e vide sul suo polso destro una specie di piccolo tumore. Non lo aveva notato fino a quel momento. Poi si ricordò che proprio lì era stato punto da uno strano insetto, un leggiadro imenottero dal morso molto doloroso. Solo adesso ci ripensava, a quasi quindici giorni di distanza. Non si sapeva spiegare quell’episodio. Finita una defatigante riunione all’ultimo piano della struttura dirigenziale, si era concesso una boccata d’aria sul terrazzo ed era stato sorpreso dall’insetto, la cui corazza metallica riluceva al sole come una sgargiante gemma verde dai riflessi azzurri. Un attimo e tutto era compiuto. Il pungiglione era penetrato nella pelle del polso dell’uomo, e l’aggressore era fuggito con grande rapidità. Lì per lì il manager non aveva dato peso alla cosa, ma adesso un senso di ansia subliminale gli martellava nelle carotidi. Sentiva sempre più freddo, così dopo essersi sciacquato si asciugò e si mise in kimono. Si distese sul letto. Cercò di distrarsi accendendo il televisore, ma il frastuono dei programmi gli irritava i timpani al punto che gli parve stessero sanguinando. In preda all’ira spense lo schermo. Non riuscì a stare disteso a lungo. Qualcosa lo spinse ad alzarsi e ad andare a bere un bicchier d’acqua. Faceva fatica persino a deglutire. Dovette sforzarsi per riuscire ad assumere un potente antipiretico, ma dopo mezz’ora di agitazione si accorse che non gli aveva affatto giovato: il termometro non voleva saperne di schiodarsi dai 40 °C. Non sarebbe andato al lavoro in tali condizioni, anche a costo di gravi conseguenze. Sentiva che l’intero universo si stava accartocciando su di lui, seppellendolo in una bara di umidi viticci che si restringeva sempre di più, fino a strozzarlo. Un’oscena camicia di forza quantistica. Non fu in grado di chiudere occhio e passò una notte infernale. Alle prime luci dell’alba era in preda a insopportabili vampate di calore, così aprì la finestra. Si guardò allo specchio. Vide allora che il suo addome era coperto di pustole. Si era trasformato in un nerd foruncoloso. Normalmente avrebbe cercato di spremere quelle formazioni cutanee per farne fuoriuscire il pus, ma sentiva che non doveva assolutamente fare una cosa del genere. Ebbe la vaga impressione che una volontà altra stesse guidando i suoi movimenti. Si mise sulla poltrona e cercò di leggere un libro, ma non poteva concentrarsi sulle parole. La cefalea divenne esplosiva e dovette metter via il volume. Sudava freddo. A questo punto si accorse che qualcosa si stava muovendo in lui. Allora vide. Pensò di essere sconvolto da allucinazioni sconosciute persino ai tossici dal sistema nervoso più degradato. Quelle cose uscivano dalla sua pelle! Larve! Vermi simili a grossi cagnotti, lunghi all’incirca come un alluce minore. Scavavano nell’adipe cauterizzando i vasi sanguigni che erano costretti a rosicchiare per farsi strada. Una volta giunti alla piena luce, dalla ferita usciva lo spurgo, simile a diarrea granulosa. Il manager fissava sconvolto la scena. Per quanto la cosa fosse irreale ed impossibile, aveva l’impressione che del sangue mestruale pieno di embrioni abortivi scivolasse via assieme al suo contenuto intestinale. In realtà quel liquame era pus prodotto dall’azione dei parassiti migranti, misto alle loro stesse deiezioni. Già una ventina di vermi marciavano sulla sua pelle, e ogni tanto alzavano il capo come per fiutare l’aria. Se il manager fosse stato in pieno possesso delle sue facoltà mentali, di certo avrebbe cercato di liberarsi da quegli obbrobriosi inquilini, gettandoli lontano da sé o schiacciandoli. Poi sarebbe corso di filato a un pronto soccorso, dove i medici lo avrebbero disinfettato e curato. Invece non fece nulla di tutto questo. Di nuovo quella sensazione di essere posseduto. Sapeva che stava morendo e che non poteva salvarsi in alcun modo, ma che c’era una cosa che doveva assolutamente fare. Depose amorevolmente i vermi sullo specchio accanto alla tazza del cesso, quindi li ricoprì di schiuma da barba. Uno dopo l’altro. E intanto quelli continuavano ad uscire. Sempre più grandi. In tutto ne contò più di centocinquanta. Li trattava tutti allo stesso modo: li nascondeva con la massima cura sotto una coltre di schiuma, senza neanche sapere perché. Uno strano moscerino rosso si avvicinò allo specchio, volteggiando con insistenza, ma non ebbe successo nel suo intento. La schiuma da barba gli riusciva talmente ripugnante che non poté in alcun modo stare nelle vicinanze. Con la stessa rapidità con cui era apparso, il buffo invasore si precipitò verso la finestra e sparì. Il manager si lasciò crollare esausto sulla tazza, e di lì a poco morì, gli organi vitali quasi svuotati dalla famelica covata della vespa di smeraldo. Aveva ormai esaurito il suo compito di incubatrice e di ostetrica. La schiuma da barba si era rivelata perfetta. Permetteva alle larve di respirare e al contempo le difendeva dai ditteri parassiti che davano loro la caccia per penetrarle con il loro ovopositore. 

2.

Dopo due settimane dalla morte del manager, il Signor Schenker si presentò alla sua porta e suonò con insistenza il campanello. Visto che non sortiva alcun effetto, si mise a bussare con tutte le sue forze, sospettando che qualcosa di molto brutto fosse successo. Il tanfo che filtrava dalla soglia recava un’inconfondibile traccia mercaptanica, mista ad afrori che non aveva mai percepito in tutta la sua vita – ma non per questo meno ributtanti. Non solo il Signor Kakui non si era più visto, ma il suo cellulare trillava da giorni in modo insopportabile e stridulo, senza che nessuno si prendesse la briga di rispondere. Stando nel suo gabinetto al piano di sotto, spesso Schenker sentiva distintamente quel fastidioso suono giungere proprio dall’appartamento del manager. Naturalmente avrebbe potuto togliersi dall’impiccio chiamando i pompieri e lasciando fare tutto a loro, ma in tal caso sarebbe stato costretto a compilare una montagna di moduli e a sottoporsi ad un’infinità di tediosi accertamenti. La burocrazia soffocante che imperversava in ogni distretto planetario non rendeva certo agevole la risoluzione di problemi pratici di questo genere. Per giorni il vecchio aveva sperato che qualcun altro si occupasse della cosa, magari un vicino di casa. Come c’era da aspettarsi, questo non era accaduto. Fece ancora un ultimo tentativo, suonando il campanello in continuo per quasi mezzo minuto primo. Esasperato e vedendo che non riceveva risposta, si decise infine ad usare le maniere forti: assestò un bel calcio al battente, facendo saltare via la fragile serratura senza troppe difficoltà. Essere stato un atleta in gioventù aveva i suoi vantaggi... Il tanfo che lo aggredì era più acuto di quello esalante da una bara scoperchiata, e non poté sopportarlo senza indietreggiare di scatto. Si fece coraggio e trattenne stoicamente il respiro, ponendosi un fazzolettino umido davanti al naso per evitare di essere ammorbato. All’inizio era talmente sconvolto da non poter mettere bene a fuoco gli oggetti. Quando la sua visione ritornò nitida, si trovò di fronte a una scena raggelante. Uno sciame di insetti che sembravano frecce di metallo verde intenso ronzava intorno allo specchio imbrattato, mentre altri loro simili erano intenti a rosicchiare quel che restava delle carni putrefatte del Signor Kakui. Grappoli di feci granulari, di color beige, uscivano dalle orbite del morto, la cui agonia sulla tazza irradiava ancora nell’aria. Quelle scorie emanavano un intenso fetore di vomito. La pelle rinsecchita delle labbra e delle guance era stata quasi del tutto erosa, e i denti erano messi in mostra come quelli di un teschio ghignante. Il ventre era stato disciolto dagli acidi ed appariva come un ammasso di sterco compatto da cui fuoriuscivano colonne di gas. I prodotti della fermentazione si facevano strada in quel che restava dei tessuti corrotti emettendo un sinistro crepitio. Naturalmente l’anziano Signor Schenker non capiva nulla di entomologia extrasolare: dato il livello dell’istruzione a cui aveva avuto accesso, non era neppure a conoscenza dell’esistenza di tale disciplina. Con più audacia che buon senso si mise in mente di cacciare quegli ospiti poco graditi servendosi di una scopa che trovò appoggiata a una parete. Come conseguenza della sua stoltezza, ricevette tre punture in pieno volto. Fuggì via barcollando e urlando di dolore, dimenticandosi persino di chiudere la porta. Alcuni dei letali imenotteri approfittarono dell’occasione per uscire sul pianerottolo, volando cauti per la rampa di scale. Presto avrebbero capito che la situazione era loro molto favorevole e sarebbero andati in cerca di nuove vittime seguendo scie feromonali. Schenker si trascinò nell’ascensore e scese fino al piano dove si trovava il suo appartamento. Il pensiero di scendere fino al piano terra e di andare allo studio medico del Dottor Brandauer fece capolino nella sua mente affaticata, solo per scivolare via come una coperta da un dormiente accaldato in preda ad agitazione notturna. Per una frazione di secondo si accorse che qualcosa non quadrava. Non colse il bandolo della matassa. Subito dopo ogni consapevolezza dell’abnormità della situazione si dissolse in un mero formicolio psichico. L’oblio cancellò ogni traccia di quel rigurgito autodifensivo delle sue subroutine cerebrali, facendogli apparire le cose in modo meno drammatico di quanto non fossero in realtà. Un programma chimico di distorsione operava in lui a pieno ritmo, ma non poteva accorgersene perché era in grado di mascherarsi abilmente, scatenando la sua guerra a livello di neurotrasmettitori e di sinapsi. Se il Signor Schenker si fosse sottoposto a una risonanza magnetica, sarebbero emerse profonde alterazioni neurologiche già a quel livello di infestazione. Il punto è che decise di non sottoporsi ad alcun esame. In fondo, questo pensò, i sistemi degli antenati erano i migliori per curare ogni male. La ripugnanza per la Scienza assunse in lui quasi un acme parossistico. Si chiuse nel conforto della propria dimora e spense il telefono cellulare. Fece bollire un po’ d’acqua calda con del sale e la usò per farsi impacchi dove era stato morsicato. Assunse poi l’antidolorifico più antico che l’umanità conoscesse, l’etanolo, attingendolo in forma di distillato quasi puro direttamente da una grossa fiasca. Dopo qualche ora il dolore e il senso di disagio erano del tutto scomparsi. Guardandosi allo specchio, si accorse che il gonfiore al viso si era molto ridotto, e decise che quella era solo un’altra giornata faticosa da dimenticare. “Che idiozia sarebbe stata andare dal medico per così poco”, pensò divertito, stranamente euforico. 

Marco "Antares666" Moretti, 
pubblicato nell'antologia Fantastic-Zen 2 (2010),
edita da EDS (Edizioni Diversa Sintonia). 

martedì 3 gennaio 2023

SKY BEASTS 

Il predatore è chiamato Netcat. Ha la forma di un aereo e sfreccia a reazione nell’atmosfera del gigante gassoso. Ha la sagoma di un nero abissale, e il rostro anteriore è aguzzo come un gigantesco canino di vipera. Si avvicina a un pascolo, dove fluttuano in gran numero i Blogster, flaccidi esseri simili a mongolfiere. Estraggono idrocarburi liquidi da un profondo pozzo convettivo, digerendoli lentamente nelle vastità dei loro stomaci. Grandi come città, questi palloni frenati non possono opporre alcuna difesa all’assalto del Netcat. Un cambiamento della chimica circostante avverte del pericolo in avvicinamento: si diffondono folate di glicoli repellenti misti a metanolo e a densi composti fenolici. L’odore della paura, a cui fa seguito quello della morte.
Il Netcat dilania, strazia, assimila le sue vittime incamerando grandi quantità di metaboliti preziosi per il suo sostentamento. Pieno di energia alcolica, dopo aver seminato lo sterminio, il nero Netcat accende i retrorazzi e fugge via emettendo una mostruosa vampata azzurra dalla cloaca. 

Alcuni Webwind, attratti dai resti della strage, accorrono per avere la loro parte di materiale organico altamente organizzato, prima che l’incombente tempesta ne disperda ogni traccia. Non dissimili dai carognari di altri mondi, non hanno la capacità di dare la caccia a prede vive e ucciderle. Il loro olfatto, sensibilissimo, ha sede in papule disseminate su tutto il corpo, che nella parte anteriore ricorda la forma di un fallo umano in erezione. La coda è simile a quella dei delfini, con una pinna biforcuta orizzontale. Un timone sporge come una barra scura dall’epidermide violetta e coriacea del ventre. I Webwind posizionano quest’appendice con guizzi fulminei degli hub del sistema nervoso, riuscendo così a impostare ogni rotta e a resistere agli improvvisi cambiamenti del vento planetario. L’area in cui le terminazioni olfattive sono più dense e sporgenti è corrispondente alla cavità orale, o meglio all’ingresso dell’apparato digerente. Gradienti anche minimi di composti organici di sintesi biologica li guidano al loro pasto collettivo.
I Webwind più grandi sono lunghi soltanto un decimo di un Netcat medio. Talvolta si avvicinano ai branchi di Blogster per assimilare flussi di escrementi, ma nella maggior parte del tempo preferiscono starsene in disparte in zone di gas più rarefatti, dove i predatori non osano avventurarsi. Le mattanze di Blogster invece li attraggono in modo irresistibile. Alle prime avanguardie seguono poi nuovi esemplari, se le condizioni meteo lo permettono.
Nei Webwind, il sistema digerente è programmato per metabolizzare enormi quantità di materiale nel minor tempo possibile, dovendo poi affrontare lunghi periodi di carestia. Così il cavo orale immette in una specie di aspiratore, atto a convogliare la massima concentrazione di resti organici nel minor tempo possibile. Quando i Webwind sono gonfi, la loro forma cambia. Il dorso, dalla cute coriacea come un carapace, non si deforma, mentre il ventre assume l’aspetto di un pallone ovale. In questo stato l’emissione di gas intestinali si fa imponente. I prodotti digestivi vengono in parte espulsi come propellenti e in parte accumulati in apposite sacche, utili in condizioni di scarsità di cibo. I resti dei Blogster sono ancora nelle sacche ventrali dei Webwind, che già si diffondono i primi effluvi anali, riconoscibili anche a miglia di distanza per la ricchezza di composti ammoniacali. Presto l’intera area sarà ammorbata.
I pochi Blogster superstiti si spostano nell’imbocco del pozzo convettivo per sottrarsi a una simile pestilenza. 

Come tutti i predatori del pianeta gioviano che stiamo studiando, il Netcat è un animale sessuato. In media ci sono soltanto due maschi su circa centocinquanta femmine. Il maschio del Netcat è più piccolo della femmina, raggiungendo a fatica la metà della sua lunghezza. L’accoppiamento avviene secondo dinamiche predatorie. Nella riproduzione di queste fiere non esiste nulla di ciò che il genere umano chiama voluttà: ogni unione è uno stupro.
Sotto una pioggia battente di miscela etano-butano-propano il maschio accelera in direzione della più intensa concentrazione di ormoni femminili, captati dai recettori situati nelle fosse di aerazione del rostro anteriore. Anche solo una piccolissima quantità delle giuste molecole è in grado di provocare tempeste neurochimiche nel sistema nervoso centrale del Netcat maschio. Quando il meccanismo aggressivo si attiva, non c’è niente che possa trattenere il cacciatore: si scaglierà come un dardo nelle vastità aeree fino a raggiungere la sua vittima.
Ecco la fiammata di gas intestinali combusti espandere sempre più la sua scia, mentre la velocità cresce a dismisura. La femmina è stata avvistata e non ha più via di fuga. Le reazioni che avvengono nel gran calderone che è la cloaca della femmina non sono capaci di generare getti paragonabili a quelli del maschio, che riesce a raggiungere facilmente l’obiettivo che si è prefisso. Precipitandosi sottovento, il Netcat maschio ha il vantaggio della sorpresa: in pochi secondi si colloca sul dorso della femmina e fa scattare tutti i rostri laterali, agganciandosi all’esoscheletro dorsale. La scena è grottesca, sembra di assistere a un video pornografico in cui due jumbo jet si danno da fare per copulare. Prima il rostro anteriore del maschio perfora il dorso della vittima per trattenerla in modo più saldo, poi scatta la più acuminata delle appendici maschili, che serve a deporre il seme.
Invano la femmina cerca di scrollarsi di dosso l’aggressore: i suoi rostri laterali, le uniche armi che può utilizzare in questa difficile situazione, sono troppo corti per colpire in modo efficace. In men che non si dica la lucida lama fallica si intrude nel corpo femminile, affondando in profondità ed iniettando nelle viscere palpitanti il liquame seminale. Una serie di getti neri come l’abisso siderale vengono pompati con violenza nelle carni dilaniate.
Completata la sua opera, il predatore sgancia tutti i suoi rostri e si allontana, portato via da una corrente aerea improvvisa. La femmina è lasciata all’atroce dolore che le pervade le interiora, mentre già il materiale genetico maschile si muove al suo interno per organizzare una nuova generazione assassina. 

Tra le specie più notevoli dell’intera fauna del gigante gassoso, il Leviathan è l’unica a mostrare segni di un’intelligenza misurabile, e in effetti paragonabile a quella di un mammifero superiore terrestre. Finora ne sono stati trovati soltanto pochi esemplari, meno di cento nell’intero emisfero settentrionale e circa cinquecento nell’altro emisfero. Non è ancora del tutto chiara la loro natura, difficile da investigare a causa delle dimensioni davvero incredibili. Secondo alcuni studiosi, i Leviathan sarebbero nati nel corso di milioni di anni locali a partire dall’aggregazione fortuita di migliaia di Blogster. Questa tesi non sembra avere molto fondamento, nonostante l’aspetto del Leviathan ricordi vagamente quello di un immenso dirigibile formato da un enorme numero di lobi e sferoidi granulari. Si è potuta dimostrare la presenza di un sistema nervoso altamente organizzato, facente capo a una massa neuronica grossa all’incirca come una megalopoli terrestre. È stata di recente avanzata la proposta di considerare il sistema nervoso del Leviathan come un essere in origine distinto e cresciuto nei tessuti di masse di Blogster agglutinati fino a perdere l’originaria indipendenza. Anche di questa ipotesi non sussistono prove, e sono molti i fatti che non riesce a spiegare.
A causa delle sue dimensioni, il Leviathan non ha nemici naturali: è al di sopra delle nicchie biologiche di pascolo e predazione caratteristiche di questo ecosistema. Per nutrirsi, questo colosso non deve fare nulla: dovunque si trovi utilizza un grande filtro che scandaglia senza sosta l’atmosfera trattenendo i nutrienti, proprio come i fanoni delle antiche balene intrappolavano il krill.
Osservando attentamente le distese incredibilmente vaste della superficie cutanea del Leviathan, è possibile scorgere delle piccole figure semoventi, non più grandi di un essere umano. A dire il vero, la loro sagoma ricorda proprio quella di una persona, dotata di quattro arti e una testa tondeggiante. Il nome dato a questi parassiti è Blogworm. Se visti da vicino, le differenze tra loro e gli umani sono notevoli. La cute dei Blogworm è nera e ha l’apparenza untuosa del petrolio. Le braccia e le gambe non hanno articolazioni e sono più simili a sgraziati tentacoli. Il sistema nervoso è molto primitivo e, a dispetto dell’aspetto vagamente antropoide, i Blogworm non sono in grado di andare oltre la mera esistenza vegetativa. Cercano senza sosta tracce della materia fecale espulsa dagli appositi tubuli situati sull’intero corpo del loro titanico ospite. A volte strisciano sui quattro arti, altre volte si alzano e agitano le loro membra spettrali nel vento eterno. 

Il Cimitero dei Blogster si trova a maggior profondità rispetto ai pascoli. Quando un Blogster muore di morte naturale e si trova in un ambiente inadatto ai carognari, i batteri decompositori ne invadono immediatamente ogni cellula. Non più sostenuta dal galleggiamento generato dai gas propulsivi della digestione, la carcassa tende ad affondare. Se cade all’interno di un pozzo convettivo, il corpo senza vita viene catturato dalle violente correnti discendenti per scomparire nelle profondità del pianeta, dove l’elevatissima temperatura ne provoca la distruzione. Tuttavia, nella maggior parte dei casi i Blogster morti raggiungono una zona ricchissima di ammoniaca, dove si completano i processi di autolisi. In breve tutto quello che rimane di un organismo un tempo imponente è un brodo brunastro che funge da nutrimento per una gran varietà di spazzini simili a vermi. Sono le larve aeree dei Webwind, dei Netcat e di altre specie affini. Una volta espulse dalla loro genitrice, a causa del loro peso queste larve sprofondano negli strati gassosi fino a raggiungere un Cimitero dei Blogster, dove possono nutrirsi e crescere. Un individuo di Webwind allo stadio larvale è grosso più o meno come un braccio umano e ha un colore bianco sporco tendente all’azzurrognolo. Non avendo ancora i propulsori, galleggia grazie alla spinta archimedea nella fogna cadaverica che costituisce il suo habitat. Le larve dei Netcat sono più piccole e hanno una cute segmentata di color blu scuro. La loro forma è simile a quella di un dardo di balestra, e sono presto in grado di dirigere il loro moto tramite propulsori laterali, che con la crescita si atrofizzano e cadono per lasciar posto alla combustione anale dei gas. La libertà di movimento delle larve dei Netcat dà loro un netto vantaggio su quelle dei Webwind, che prosperano soltanto grazie al loro maggior numero e vengono attivamente cacciate. Quando i Netcat e i Webwind immaturi sono cresciuti oltre a un certo stadio, tendono a risalire fino a raggiungere strati atmosferici più rarefatti, in cui completano la loro metamorfosi. 

La tempesta è al culmine della sua potenza, e con essa giunge un terribile strale. Fa irruzione il peggior nemico di ogni essere vivente, pascolante, carognaro o cacciatore: il fulmine. Numerosi biologi sostengono che proprio le scariche elettriche hanno generato la vita sul pianeta gigante a partire da idrogeno, metano, monossido di carbonio, vapore acqueo e ammoniaca. È un fatto che l’ecosistema è sempre stato influenzato da fenomeni elettrici imponenti, responsabili ogni giorno della morte di numerose creature.
Il Netcat sfreccia oltre il muro del suono proprio attraverso le dense nuvole del color della pece, incurante del pericolo. Nero in mezzo al nero, procede verso la sua sconosciuta meta, solo le fiamme dei suoi reattori possono essere distinte a occhio nudo. Dopo aver iniettato il suo seme in una femmina, sente una grande ebbrezza che lo rende immune dalla fastidiosa sensazione che di solito si accompagna al rischio. I razzi della cloaca bruciano al massimo. Il sibilo prodotto dal moto del predatore è assordante, tanto da nascondergli il boato incessante dei tuoni. Le ali spiegate tagliano l’aria come lame di acciaio. Nulla sembra poter resistere a questo mortale distruttore, quando un fulmine si abbatte su di lui. Entra proprio sopra il rostro anteriore, perforando ogni difesa e seguendo una traiettoria contorta nelle carni.
Bruciati i catalizzatori della sintesi degli zuccheri, la scarica elettrica scava una galleria nel sistema digerente, trovando alla fine la sua strada proprio in prossimità dello spermodepositore. Uscito da un foro preternaturale poco al di sopra della regione anale, ecco che la candida folgore riprende la sua strada tra le nubi nere. Fiammate arancioni scaturiscono dal corpo ardente del Netcat, che morto all’istante precipita in picchiata, i razzi ancora funzionanti. Un pennacchio di fumo grigio si alza dalla sommità del muso, confondendosi presto nel cuore dell’uragano.  

Marco "Antares666" Moretti,
pubblicato sul sito connettivista Next-Station.org (2014). 


In seguito il racconto è stato pubblicato col titolo Brani scelti dal “Catalogo delle Specie Extrasolari”, ii edizione nell'antologia connettivista Nuove eterotopie (2017), a cura di Sandro Battisti e Giovanni De Matteo, edita da Delos Digital.

domenica 1 gennaio 2023

STORMI IN PICCHIATA 

Inghilterra. La costiera del luogo un tempo conosciuto come Diacono di Sale. Saltdean. Davanti a me, circospetto e pieno di paure, una villa romana.
I pavimenti della grande sala erano a scacchiera, un motivo davvero insolito. Lo spazio era delimitato da un colonnato arioso. Sentivo su di me l’aria gelida: gli antichi Romani non conoscevano le finestre di vetro: ogni spazio di quell’antica dimora era aperto. Gruppi di statue ornavano i vari aditi. Riconobbi motivi che neanche la mente umana più delirante aveva osato ritrarre prima. Il Cesare Caligola, scolpito nel marmo, sembrava vivo. Alcune sculture lo mostravano nell’atto di ingerire le scorie delle sue molte amanti, mentre in un pezzo davvero unico era impegnato a discorrere con un mostro marino.
Ogni passo mi sembrava una mossa cruciale su una scacchiera ontologica; se avessi indugiato oltre, sarei rimasto paralizzato come l’asino di Buridano. Panni violacei ornavano un grande letto disfatto, la cui fattura era indubbiamente moderna. Non capivo il significato di quel luogo, che non avevo mai visto in vita mia. Forse era il prodotto allucinatorio di qualche mio dimenticato furore bacchico, il residuo di un cattivo viaggio che non voleva saperne di estinguersi, riverberando all’infinito sul pelo della mia autocoscienza martoriata.
Mi sembrava che il tempo fosse congelato. Stavo vivendo, anzi vegetando tra le quinte del Tempo. Non potendone più, uscii da quell’ambiente malsano, tornando sulla via del lungomare che pareva abbracciare l’Infinito, tra massi erratici eiettati da un vulcano in epoca preistorica.
Alzai gli occhi verso la volta celeste. Un ammasso di nubi impenetrabili la rendeva assolutamente grigia, una massa di cervella infette estratte dal cranio del gigante Ymir, viranti al nero in uno scenario di decadenza apocalittica. Strali sulfurei si coglievano all’orizzonte, proprio dove il mare plumbeo moriva, risucchiato dal denso orizzonte degli eventi di un buco nero.
Camminando lungo il viottolo, contemplai per qualche ora i cavalloni del mare ruggente. Masse di acqua grigia come palta, mostruosità eruttanti che parevano sfidare lo stesso principio della mia creazione. Più il cielo si contaminava nel nero petrolifero delle sue sfumature, più le masse bianche di calcare si stagliavano nitide. Il vento spirava talmente forte da darmi fastidio. Sibilava contro i miei timpani, portando cristalli di ghiaccio meteorico sul mio volto antico e petrigno.
Mi rapì un’improvvisa ondata di stanchezza. Bagliori remoti iniziavano ad accendere le nuvole. Fuochi fatui infiammavano le chiome del Dio della Tempesta, ne coglievo l’ultimo balenare giallastro proprio dove la tenebra diurna tendeva ad accumularsi. Tale era il muro d’ombra davanti a me, che decisi di tornare sui miei passi.
Giunto di nuovo nei pressi della villa romana, tutto mi sembrava differente. Non riuscivo a raccapezzarmi: ogni muro, ogni colonna dava al contempo impressione di familiarità e di stranezza. Voltando lo sguardo verso la grande sala dove ero già stato, rimasi abbacinato dal riflesso spettrale di una ragazza bionda che guardava intenta un lungo abito bianco appeso alla parete, ritorto in molteplici pieghe come spire di serpente. Potevo guardare attraverso quella sagoma, tanto era trasparente. In breve tempo la figura scomparve, disperdendosi nel Nulla da cui si era chissà come generata.
All’improvviso mi scosse un rumore assordante proveniente dall’etere cupissimo. Alzai di colpo lo sguardo chiedendomi cosa stesse mai accadendo. Quando compresi, rimasi paralizzato dall’orrore.
Una massa di uccelli gravava su ogni cosa, facendo brulicare di ali l’alto dei cieli. Turbini rimescolavano quella marea compatta di piume brune, e io ebbi l’impressione di trovarmi sull’orlo di un ciclone di proporzioni immani. I versi disperati che provenivano da milioni di gole mi facevano gelare il sangue nelle vene. Stava accadendo qualcosa di mostruoso, portento della Natura turbata, segno della Fine dei Tempi, annientamento di ogni utopia e di ogni umano ideale. Non ebbi nemmeno il tempo di muovermi, di fuggire via, di cercare riparo nella villa romana. Le prime formazioni di uccelli impazziti cominciarono a gettarsi giù a picco. Stridendo in modo atroce, si immersero nelle acque grigie e lutulente del mare.
Una volta inghiottiti dalle onde furenti, non cercavano in alcun modo di ribellarsi, non sbattevano le ali come l’istinto di conservazione avrebbe loro imposto. Simili a missili, conservavano la loro rigidità sprofondando fin nell’abisso.
Mi colpì un mortifero vento di empatia, e sentivo dentro di me, nel midollo, le sensazioni provate da quegli infiniti suicidi. Gli animali non facevano nulla per evitare il loro fato. Accoglievano il soffocamento, facendo entrare l’acqua caustica nei polmoni e negli stomaci, fino a morire in una lenta agonia. Alcuni arrivavano ancora moribondi sul fondo, cercando follemente di scavare col becco, fino a spirare in quella liquida oscurità inospitale.
Non era finita. Avevo gli occhi fissi sulla nemesi dei volatili, cristallizzati nella contemplazione dell’epifania tanatogena. Nuove moltitudini si mossero, un nugolo dopo l’altro, imitando i loro antesignani nella brama di annichilirsi. La catastrofe sembrava ripetersi infinite volte.
Ero sicuro che sarei presto bruciato nel delirio, tanto era la mia partecipazione viscerale a quello sconfinato massacro di esseri consegnati all’asfissia. La Natura doveva essere adirata, nella sua inumana potenza, per spingere a comportamenti così perversi. Ogni morte formava un microscopico tassello di un mosaico nero che si andava componendo nel mio cranio, un tassello rovente che si conficcava nella mia materia grigia, facendo sfrigolare la rete sinaptica. Emisi un urlo che, in quell’istante ne ero certo, nessun essere umano aveva mai emesso in tutta la storia di questo infelice pianeta, mentre le ultime orde alate sciamavano verso la distruzione del respiro nell’inferno subacqueo. 

Marco "Antares666" Moretti,
pubblicato sul sito connettivista Next-Station.org (2010). 

giovedì 29 dicembre 2022

ETIMOLOGIA CELTICA DEL TOPONIMO LIPOMO

Lipomo (in dialetto comasco Lipòmm /li'pɔm/) è un comune italiano della provincia di Como in Lombardia, con circa 5.900 abitanti (anno 2022), situato all'altitudine di 384 metri sul livello del mare.

Converrete anche voi che come toponimo è a dir poco singolare. Il suo aspetto fonologico, con quella sua terminazione in -omo, non è cosa in cui ci si possa facilmente imbattere. Quale sarà la sua origine? Ebbene, mi sono occupato dell'etimologia di Lipomo fin dal primo momento in cui ne ho avuto notizia, tanto mi è parso esotico il suo nome. 

Riporto alcune suggestioni etimologiche, o meglio paretimologiche, reperite nel Web (i grassetti sono miei). La fonte delle parti tra virgolette è il sito del Comune di Lipomo. Le riporto nel testo per spirito di chiarezza, anche perché la pagina web sembra piuttosto fragile.


1) Etimologia grecizzante 
"Sul toponimo sono state formulate tre ipotesi: la prima ne ricerca l’origine nelle parole greche «lipo» (da «leipo», mancare) e «omoios», «simile»: quindi diseguale, non uniforme, in relazione al terreno irregolare e a balze caratteristico della zona."
Nota: 
A parte il fatto che il greco ὅμοιος va traslitterato hómoios (la vocale iniziale ha lo spirito aspro), una simile formazione è quanto di più implausibile esista. La semantica ipotizzata è insensata. Tuttavia, il verbo greco λείπω (léipō) "mancare" è realmente imparentato con la radice celtica da cui deriva il toponimo (vedi nel seguito).

2) Etimologia francesizzante
"Meno attendibile, un seconda ipotesi sostiene invece una derivazione dal francese: «lieu-pommes», ossia luogo delle mele, con riferimento alla coltivazione di questi frutti, oppure luogo delle patate («pommes de terre»)." 
Nota:
La natura grossolana di questa falsa etimologia lascia di ghiaccio. 

3) Etimologia mitologica 
"Una terza e più convincente ipotesi fa invece riferimento al poema del cosiddetto «Anonimo Cumano», che canta la decennale guerra fra Como e Milano. Nel testo curato dal padre somasco Giuseppe Maria Stampa si fa riferimento a Lepomum e Leppomum, anche se probabilmente è un errore di scrittura nel riportare l’originale Leponium. Quest’ultimo sembrerebbe derivare da Laeponius, il nome del comandante della postazione militare negli avamposti di Como. Al valoroso militare sarebbe stata assegnata una villa o un fondo nella zona dell’attuale Comune di Lipomo." 
Nota: 
Lepomum e Leppomum non sono errori per *Leponium, semmai il contrario. Tuttavia il nome Laeponius esiste realmente e ha la stessa radice celtica da cui deriva il toponimo (vedi nel seguito). 
4) Etimologia romanistica 
"Può essere interpretato come una forma equivalente di "i pomi", alludendo alla presenza di tali piante in loco." 
Nota: 
Questa proposta etimologica è per così dire la versione ufficiale del mondo accademico. Sembra collegarsi con l'etimologia 2), ma in realtà non è identica. 

La vera etimologia celtica 

Latino: *Lippomagus < protoceltico *Lēpomagos,
      *Lippomagos
  significato: Campo dell'Abbandonato 
  tardo celtico: *LEPPOMO, *LIPPOMO
  forma latinizzata: LEPOMUM, LEPPOMUM  
  evoluzione romanza: LIPOMM, LIPOMO 
Nota: 
Per l'evoluzione dell'elemento *magos in -mo nei composti toponomastici, si confrontino i numerosi esempi della Gallia Transalpina: 

*Rotomagos (Rotomagus) => Rothomao =>
=> Rothomo => Rouen 

Questo mutamento è avvenuto a causa della lenizione della consonante -g-, che è scomparsa. 

1) Primo membro del composto: 

Protoceltico: *lēpos, *lippos < *leikwos 
Significato: abbandonato 
Note: 
Dalla stessa radice deriva il nome dei Leponzi (Lēpontiī). 

Protoindoeuropeo: *leikw- 
Significato: lasciare, abbandonare 
Note: 
Ha dato origine al latino linquō e al greco antico λείπω.


Xavier Delamarre è l'autore dell'ottimo articolo Enfants abandonnés gaulois et la souche LĒP-, LIP-, LIPPO-, LĒP-ONT-  (2019), consultabile su Academia.edu: 


Abstract: 

"There is a recurring root of the Gaulish onomastics which forms the stems Lipo-, Lipuco-, lepont-, and, with the spelling <ae > rendering ē, Laepo-, Laepico-, Laeponio-, that has been linked to the I.-E. root *leikw- 'to leave, to quit'. Two funerary inscriptions of proconsular Africa contain the names of two children : Maculipus in Mactar and Maportulip (us) in Dougga. These are two Gaulish names which must be read *Magu-lipo-s 'abandoned child' and *Mapo-ritu-lipo-s ' son abandoned on a passway', given by Gaulish groups, probably demobilized soldiers settled localy."  

Traduzione: 

"C'è una radice ricorrente dell'onomastica Gallica che forma i temi Lipo-, Lipuco-, Lepont-, e, con l'ortografia <ae> che rende ē, Laepo-, Laepico-, Laeponio-, che è stato collegato alla radice indoeuropea *leikw- 'lasciare, abbandonare'. Due iscrizioni funerarie dell'Africa Proconsolare contengono i nomi di due bambini: Maculipus a Mactar e Maportulip(us) a Dougga. Questi sono due nomi Gallici che devono essere letti *Magu-lipo-s 'bambino abbandonato' e *Mapo-ritu-lipo-s 'figlio abbandonato su una via di passaggio', dati da gruppi Gallici, probabilmente soldati smobilitati stanziati localmente."

2) Secondo membro del composto: 

Protoceltico: *magos 
Genere: neutro 
Significato: campo, pianura 

Declinazione: 

Singolare: 
nominativo: *magos 
vocativo: *magos 
accusativo: *magos 
genitivo: *magesos 
dativo: *magesī 
strumentale: *magesī 
locativo: *mages 

Plurale: 
nominativo: *magesā 
vocativo: *magesā 
accusativo: *magesā 
genitivo: *mageson 
dativo: *magesbo(s)  
strumentale: *magesbi(s)  

Duale: 
nominativo: *magese 
vocativo: *magese 
accusativo: *magese 
genitivo: *magesous 
dativo: *magesbon 
strumentale: *magesbin 

In gallico la sibilante intervocalica -s- è caduta: 
gen. sing. *magesos > *magios
nom./voc./acc. plurale *magesā > *magiā
etc. 

L'adattamento in latino, diffusissimo nei toponimi, è -magus, che è passato al genere maschile, II declinazione:
genitivo: -magī 
dativo: -magō
accusativo: -magum.

Dal protoceltico *magos deriva direttamente antico irlandese maġ "campo; pianura" (irlandese moderno mamagh). 

Declinazione: 

Singolare: 
nominativo: maġ n-
vocativo: maġ n-
accusativo: maġ n-
genitivo: maiġe 
dativo: maiġ, muiġ 

Plurale:
nominativo: maiġe 
vocativo: maiġe 
accusativo: maiġe 
genitivo: maiġe n-
dativo: maiġiḃ 

Duale: 
nominativo: maġ n-
vocativo: maġ n-
accusativo: maġ n-
genitivo: maiġe 
dativo: maiġiḃ 
Una nota scatologica

Ho appreso che gli abitanti di Lipomo sono tradizionalmente denominati Merdée, epiteto poco eulogistico che ha a che fare con le feci. Soltanto gli abitanti di un paese hanno un epiteto più infamante: sono le genti di Longone al Segrino, dette Süscia bügnun, ossia "succhiatori di foruncoli". Il sego e il pus sono peggio della merda! Riporto il link a un documento in formato che contiene una lista di nomignoli attribuiti agli abitanti di molti comuni. 


Il nome Merdee proviene direttamente da un aggettivo del latino volgare: merdārius "stercorario, fecale".

Si può cercare di ricostruire l'origine di questa designazione non proprio piacevole. Gli abitanti di Lipomo conservavano una lingua neoceltica e i culti pagani in un'epoca in cui Como era stata pienamente romanizzata e cristianizzata. Così venivano considerati paria e denigrati in modo atroce. Anche quando la lingua neoceltica è sparita e la cristianizzazione è stata completa, la discriminazione è continuata e si è tramandata per secoli. Sono cose poco piacevoli, me ne rendo conto, ma nasconderle non giova a nessuno. 

Conclusioni 

Stabilita la genuina etimologia celtica di Lipomo, notiamo che il toponimo ha qualcosa di eccezionale: a quanto mi risulta, in Lombardia sarebbe l'unico esito moderno di un composto derivato dal protoceltico *magos. A quanto mi consta, nella toponomastica dell'Insubria di epoca romana sono attestati soltanto due composti formati allo stesso modo: Bardomagus (non lungi da Milano) e Cameliomagus o Comillomagus (nei pressi dell'attuale Broni, provincia di Pavia). Mi piace pensare che se questi toponimi fossero sopravvissuti, oggi avremmo i comuni di Bardomo e di Camillomo. Per contro, in Gallia Transalpina simili formazioni sono numerosissime. 

martedì 27 dicembre 2022

ETIMOLOGIA CELTICA DEL TOPONIMO MISINTO

Misinto (in dialetto brianzolo Misent /mi'zent/) è un comune italiano con circa 5.700 abitanti (anno 2022), situato nella parte occidentale della provincia di Monza e Brianza, all'altitudine di 252 metri sul livello del mare. Se devo esprimere un'opinione personale, mi sembra un paesino piuttosto squallido. Eppure dal punto di vista etimologico è sicuramente molto interessante. 

Attestazioni storiche 

Mediosente (
Codex Langobardorumanno 926 "de Mediosen[te]", anno 974 "de loco Mediosente"esiste poi menzione di un presbitero Gottefredus de Mediosentecfr. Frisi, 1794)
Misente, Misentum (documenti ecclesiastici, XII sec.) 
Misentis (Liber Notitiae, XIII sec.) 
Mixintum (XV-XVI sec., solo in documenti di altri comuni; la lettera -x- trascrive la sibilante sonora /z/
Misinto (unica forma usata a partire dal XVIII sec.) 



La tradizionale etimologia dei romanisti 

Il mondo accademico, in modo abbastanza compatto, presuppone per il toponimo Misinto una derivazione dal latino LOCUS MEDIŌ CINCTUS "luogo cinto a metà", donde *MEDIOCINCTUS
Si segnalano varianti riportate nel Web: 

  - Locus Medius Cinctus 
  - Locus medium cinctus 
  - Medio-Cinctus 
  - Medium-Cinctus 

Ne esistono senza dubbio altre. Nessuna è attestata in documenti storici e alcune sono palesemente erronee. 

Un'etimologia alternativa e implausibile

Dante Olivieri nel suo Dizionario di toponomastica lombarda (1931) riporta quanto segue (il grassetto è mio): 

Se non è illusione, par di vedervi un nome composto di IN] MEDIO SENTE "in mezzo allo spineto". 

Latino sentis "spina; spineto" è imparentato con sentus "spinoso; ruvido", di etimologia abbastanza incerta (si suppone da un proto-indoeuropeo *ksen- "cardare"). In ogni caso non è voce volgare e ha dato pochissimi esiti toponomastici nella Romània (mi vengono in mente soltanto Santigueiro e Santigoso, in Galizia). 
 



La vera etimologia celtica

Il nome di Misinto viene dal celtico *MEDIJOSINTUS (adattato in latino come *Mediosintus), che significa "Sentiero del Mezzo". Non deriva affatto dall'improbabile latino *MEDIOCINCTUS "cinto a metà", come postulano i romanisti, sempre ansiosi di annichilire ogni minima traccia dell'antica lingua celtica, parlata in Insubria e altrove prima del completamento della romanizzazione. 

Se l'etimologia proposta dai romanisti fosse corretta, anziché Misent /mi'zent/ avremmo *Messenc' /me'sentʃ/. Lo sviluppo del gruppo consonantico -nct- è in genere /ntʃ/ tranne che in sanctus "santo" > sant (per influenza della lingua alta). Così in milanese esisteva il vocabolo tenc' /tentʃ/ "nero corvino" < tinctus. Mi fu riferito di milanese che chiamava la moglie Tencia per il nero lucido dei suoi capelli; allo stesso modo vunc' /vuntʃ/ "sporco" deriva da unctus e corrisponde all'italiano unto (veneto onto). Allo stesso modo, il latino cinctus (con vocale tonica breve) avrebbe dato *senc' /sentʃ/. In italiano, dove questa palatalizzazione non si è prodotta, cīnctus (con vocale tonica lunga) ha dato cinto

Prendiamo ad esempio il toponimo Morsenchio (in provincia di Milano), italianizzato in modo ipercorretto del milanese Mursenc' /mur'sentʃ/, che proviene regolarmente dal latino LOCUS MŪRŌ CINCTUS "luogo cinto da un muro", ossia *MUROCINCTUS (Borghi, 2004). Ebbene, salta subito agli occhi il contrasto tra MorsenchioMisinto. In buona sostanza, il professor Guido Borghi riconobbe che avevo dimostrato l'origine celtica di Misinto a partire da mere considerazioni fonetiche. 

*Mediosintus < celtico *Medijosintus 
   significato: nel mezzo del sentiero, a metà del sentiero  
   tardo celtico: *MEDIOSINTO, *MEIOSINTO 
   attestazione: MEDIOSENTE 
   evoluzione romanza: MISENTE, MISENT, etc. 
Nota:
La vocale /e/ chiusa proviene dalla più antica /i/ breve. 

1) Primo membro del composto: 

Protoceltico: *medijos
    Forma femminile: *medijā 
    Primo membro di composti: *medijo- 
Significato: mezzo 
Uso: aggettivo 

Questo è un notissimo esempio di evoluzione storica di questa radice in un toponimo preromano:

Latino: Mediolānum < celtico *Medijolānon 
   significato: nel mezzo della pianura 
   tardo celtico: MEIOLANO (1)
   evoluzione romanza: MILANOMILÀN  

(1) Iscrizione su resti delle mura romane. 


Si noterà che la parola latina imparentata con quella celtica ha avuto una trafila ben diversa (es. Mezzovico, etc.). 

2) Secondo membro del composto: 

Protoceltico: *sintus < *sentus  
Genere: maschile 
Significato: sentiero 
N.B. 
Il passaggio dall'antica -e- tonica a -i- davanti al gruppo consonantico -nt- si trova anche in *kintus "primo", da un più antico *kentus

Declinazione:

Singolare:
nominativo: *sintus
vocativo: *sintu 
accusativo: *sintun 
genitivo: *sintous 
dativo: *sintou 
strumentale: *sintū 

Plurale:
nominativo: *sintowes
vocativo: *sintowes
accusativo: *sintūs 
genitivo: *sintowon 
dativo: *sintowobo(s), *sintubo(s)  
strumentale: *sintowobi(s), *suntubi(s)  

Duale:
nominativo: *sintū 
vocativo: *sintū 
accusativo: *sintū 
genitivo: *sintous 
dativo: *sintowobon, *sintubon 
Dal protoceltico *sintus deriva direttamente l'antico irlandese sét "sentiero" (irlandese moderno séad). 

Declinazione: 

Singolare: 
nominativo: sét 
vocativo: sét 
accusativo: sét n- 
genitivo: séto, séta 
dativo: séit 

Plurale:
nominativo: sétae 
vocativo: séotu
accusativo: séotu 
genitivo: sétae n-
dativo: sétaiḃ 

Duale: 
nominativo: sét 
vocativo: sét 
accusativo: sét 
genitivo: séto, séta 
dativo: sétaiḃ 

Protoindoeuropeo: *sent- 
Significato: andare 

Questa radice dà esiti notevoli in protogermanico:

Protogermanico: *sandjanan 
Significato: inviare, mandare  
   Esito tedesco moderno: senden 
   Esito inglese moderno: to send 

Protogermanico: *sinþaz 
Significato: cammino; viaggio 
   Esito gotico: sinþs 



Conclusioni 

Evidentemente Misinto prese il suo nome celtico dal fatto che si trovava all'incirca a metà strada di un sentiero che dal capoluogo degli Insubri portava al capoluogo dei Comensi. In epoca preromana un sentiero ben tracciato e battuto doveva già essere una comodità utilissima. 

domenica 25 dicembre 2022

GLI ANTROPONIMI LONGOBARDI IBRIDI

Mi viene spesso in mente un aneddoto raccontatomi da P., che riguarda il bigottissimo paesino di C., di cui è pietoso omettere il nome esteso. Quando i genitori dovevano scegliere come chiamare il loro pargolo, le preferenze andavano spessissimo al nome Matteo, seguito a distanza da Tommaso e Luca. A scuola si dava il caso che troppi bambini si chiamassero Matteo C., essendo C. il cognome più diffuso di quel borgo oltremodo infelice. La maestrina era imbarazzata dalla difficoltà di distinguere i suoi alunni. A un certo punto il parroco dovette intervenire perché i genitori si decidessero a dare ai nuovi nati nomi più originali. 
Ebbene, questo problema tra i Longobardi non esisteva! La varietà degli antroponimi era infatti immensa

Tra i numerosissimi nomi attestati, se ne trovano alcuni che combinano elementi latini e germanici. Queste formazioni così peculiari erano diffuse soprattutto tra i Longobardi, ma se ne trovavano esempi anche tra altre popolazioni germaniche, come Franchi e Alemanni. 

Questo riporta l'ungherese István Vig nella sua opera Nomi propri di persona e attitudine linguistica. Ricostruzione dell’attitudine linguistica delle persone di nome longobardo nell’Italia longobarda (2020): 

"I nomi ibridi sono antroponimi sorti in seguito alla mutuazione reciproca di costituenti di nomi di persona di due lingue. Nel dominio linguistico germanico-romanzo8 sono caratteristici due tipi di formazione degli antroponimi, la composizione e la suffissazione. Nel primo caso un elemento latino/romanzo ed uno germanico vengono messi insieme, secondo le regole di composizione delle lingue germaniche. Nel secondo vengono aggiunti suffissi latini/romanzi ad elementi germanici o, viceversa, suffissi germanici ad elementi romanzi."
(Haubrichs 2004: 181‒183, 196) 

8 Così Haubrichs, ma nell’Italia longobarda del secolo VIII non è da escludersi neanche il termine latino parlato tardo di seconda fase.  
(la presente nota di Vig mi pare poco condivisibile

Questo invece afferma Romano Colizzi nella sua opera Evoluzione fonetica del longobardo (2022), consultabile su Academia.edu: 
"In tutto 15 persone, in relazione alle carte pervenuteci, hanno nomi ibridi. I nomi ibridi indicano un ulteriore avvicinamento delle due etnie, un processo di longobardizzazione della società, ma nello stesso tempo il latino si afferma come lingua comune e la lingua longobarda si affievolisce si disperde."

Riporto una serie di antroponimi longobardi ibridi attestati nelle iscrizioni, spesso in forma latinizzata nella morfologia (maschili: nominativo in -us; accusativo in -um
nominativo / accusativo volgare in -u; genitivo in -i; dativo in -o). Sono composti a partire da una radice latina come primo membro del composto e da una radice longobarda come secondo membro. Spesso si trova un suffisso diminutivo latino (maschile -ulus, femminile -ula), che del resto si trova anche in nomi formati da sole radici germaniche. Le attestazioni sono tratte da Bruckner, Meyer, Francovich Onesti, Colizzi, Vig.  

1) Angel- < lat. angelus "angelo" 

maschili: 

   Angelperti (gen.) 

2) Bone-, Boni < lat. bonus "buono" 
   (corrispondente longobardo: gode-)

maschili: 

   Bonecausus 
   Bonerissi 
   Bonichis 
   Bonifrit, Bonifrid, Bomfrid  
   Bonipert 
   Bonipertus 
   Boniprand 
   Boniprandus 
   Bonuald 
   Bonualdus 

femminili: 

   Bonecunda 
   Bonetruda 

È noto un calciatore che di cognome fa Boniperti. All'origine della sua stirpe deve esserci stato un longobardo di nome Bonipert
Lo stesso nome, Bonipert, fu portato dal primo vescovo di Pécs, in Ungheria (XI sec.). 

3) Castel- < lat. castellum "castello" 

maschili: 

   Castelchisi 
   Castelmannus 

4) Crist- < lat. Christus "Cristo" 

maschili:

   Cristelmo (dat.) 

A San Gallo, in area alemannica, troviamo attestato l'antroponimo Cristulfus, formato in modo simile.

5) Domne-, Domni- < lat. Dominus "Signore" 

maschili: 

   Domnarius 
   DomnerisiDomnerissi 
   Domnichi 
   Domnipertus 

6) Dulce-Dulci- < lat. dulcis "dolce" 

maschili: 

   Dulceramus 
   Dulcipert 
   Dulciperto (dat.) 

7) Firmi- < lat. firmus "fermo" 

maschili: 

   Firmiteu 

8) Flori-, Fluri- < lat. flōs (acc. flōrem) "fiore" 

maschili: 

   Floripert 
   Fluriprandus 

9) Iohanne-, Iohanni-, Ianni- < lat. Iōhannēs
      "Giovanni" (Apostolo; Battista)

maschili: 

   Iohannemari 
   Iohanniperto (dat.) 
   Ianniperti (gen.) 

10) Iuste- < lat. iūstus "giusto"  

maschili:

   Iustemari 
   Iustulphus 

11) Leo(n)-, Leoni- < lat. leō (acc. leōnem) "leone"

maschili: 

   Leonipertus, Leonpertus, Leompertus  
   Leonprandus 

12) Luci- < lat. lūx (acc. lūcem) "luce" 

maschili: 

   Lucepertus, Lucipertus  
   Luceradus 
   LucifriLucifre 
   Lucifridus 
   Luciprand 

femminili: 

   Luciperga 
   Lucipergula 

13) Lupe-, Lupi-, Lope- < lat. lupus "lupo" 
   (corrispondente longobardo: ulfe-, vulfe-, gulf-)

maschili: 

   Lopari 
   Lopenandus 
   Lupardus 
   Lupari 
   Luparius 
   Luperissi 
   Lupigis, Lopechis 
   Lupipertus 
   Lupiprandi (gen.) 
   Lupoald 
   Lupualdus, Lopoaldus 
   Lupuini (nom.) 

femminili: 

    Lupara 

Lopari corrisponde al nativo Ulfari, Gulfarius.

14) Magne-, Magni- < lat. magnus "grande" 

maschili: 

   Magnipert
   Magnipertus, Magnepertus 
   Magnipertuli (gen.) 
   Magnolfus 
   Magnualdus
 

femminili:

   Magnerada 
   Magniperga 

15) Michel- < lat. Michael "Michele" (Arcangelo) 

maschili: 

   Michelpert 

Cfr. Colizzi. 

16) Pauli- < lat. Paulus "Paolo" (Apostolo)

maschili: 

   Paulipertu 

femminili: 

   Pauliperta 

17) Petre-Pedre- < lat. Petrus "Pietro" (Apostolo)

maschili: 

Pedremundus 
Petrepertus, Petribertus 

18) Placi- < lat. placēre "piacere" 

maschili: 

   Placimundus 
   Placiprandus 

19) Urse-, Ursi-, Urs-Orse- < lat. ursus "orso" 
   (corrispondente longobardo: pere-, peri-, pero-)

maschili: 

   Ursemarius 
   Ursengardo (dat.) 
   Urseramus 
   Ursipertus, Ursepertus, Urspertus   
   Ursoaldus 
   Orseprandu

Si noterà che il Bruckner faceva i salti mortali per cercare di spiegare questi elementi come puramente germanici, rifiutando l'origine latina. Tuttavia le sue interpretazioni non sono affatto convincenti.

Alcune note semantiche 

Molti di questi antroponimi presuppongono la conoscenza del significato e quindi la persistenza della lingua longobarda come viva e vitale. Ecco alcuni esempi: 

Angelperti (gen.) "Angelo Splendente" 
Bonecausus "Buon Goto" 
Bonichis "Buon Ostaggio" 
Bonifrit "Buona Pace"
Bonipert "Buono Splendente" 
Boniprand "Buona Spada", "Buon Tizzone" 
Bonuald "Principe Buono" 
Castelchisi "Ostaggio del Castello" 
Castelmannus "Castellano", "Uomo del Castello"
Cristelmo (dat.) "Protezione di Cristo", "Elmo di Cristo"  
Domnarius "Esercito del Signore" 
Domnerissi "Principe del Signore" 
Iohannemari "Famoso come San Giovanni" 
Iohanniperto (dat.) "Splendente come San Giovanni"
Iustulphus "Lupo Giusto" 
Leonipertus "Leone Splendente" 
Lopenandus "Audace come un lupo" 
Luceradus "Consiglio della Luce" 
Lucifri, Lucifridus "Pace della Luce" 
Lupari, Luparius "Esercito del Lupo" 
Luperissi "Principe dei Lupi", "Principe Lupo" 
Lupigis "Ostaggio del Lupo" 
Lupipertus "Lupo Splendente" 
Lupualdus, Lopoaldus "Principe Lupo" 
Lupuini "Amico del Lupo" 
Magnerada "Grande Consiglio" 
Magnipert "Grande Splendente" 
Magnolfus "Grande Lupo" 
Magnualdus "Grande Principe" 
Michelpert "Splendente come San Michele" 
Pedremundus "Autorità di San Pietro" 
Petrepertus "Splendente come San Pietro" 
Ursemarius "Orso Famoso" 
Ursipertus "Orso Splendente" 
Ursoaldus "Principe Orso" 

Si possono scorgere persino alcune kenningar. Solo per fare un esempio, il Lupo doveva essere un riferimento a Godan, ossia a Odino. Elementi pagani persistettero a lungo in un contesto cristiano.

Alcuni nomi suonano in apparenza strani o addirittura incongruenti, ma possono comunque essere spiegati facilmente. Ad esempio questo:  

Dulceramus "Dolce Corvo" 

Possiamo ricostruire una narrazione. Un uomo aveva un figlio magrissimo dai capelli corvini, che nella figura ricordava un corvo. Fu trovato che uno sciame d'api lo aveva avvolto senza arrecargli alcun nocumento. Così fu chiamato "Dolce Corvo". Non è impossibile che sia andata proprio così. 

Sovrapposizioni parziali 

In alcuni casi si è verificata una parziale confusione tra l'elemento nativo e l'elemento importato. Ne diamo alcuni esempi. 

1) Longobardo "forza" / Latino "grande" 

i) Radice germanica genuina:  
Magen-, Magin-, Machin-, Main-
    < protogermanico *maγinan "forza"

maschili: 

   Magenarius 
   Maginardus, Mainardus 
   Maginfredus, Machimfredus 
   Maienolfus 
   Mainoaldus 

femminili: 

   Mainsinda 

ii) Radice latina:  
Magne-, Magni-
    < latino magnus "grande" 

   Magnifredus 
   Magnolfus 
   Magnualdus 

2) Longobardo "caro" / Latino "lupo" 

i) Radice germanica genuina: 
Leupi-, Leup-, Leopi-, Liupe- 
   < protogermanico *leuβaz "caro" 

   Leupichis 
   Leupchis 
   Leopegisus 
   Liupechisus 

ii) Radice latina: 
Lupe-, Lupi-, Lope- 
   < latino lupus "lupo" 

   Lupigis 
   Lopechis 

3) Longobardo "lode" / Latino "lupo" 

i) Radice germanica genuina: 
   Lube-, Lubon- 
  < protogermanico *luβan "lode" 

   Lubedeus, Lubedeo 
   Lubonpertus 

ii) Radice latina: 
Lupe-, Lube- 
   < latino lupus 
   
   Lupecino (dat.) 
   Lubechenus, Lubecinus  

4) Longobardo "caro coraggioso" / Latino "leopardo" 

i) Radice germanica genuina: 
Leopard-
     < protogermanico *leuβaχarduz "caro coraggioso"

Leopard, Leobard, Lepard  
Leopardus 

ii) Radice latina: 
Leopard- 
   < latino leopardus 

Leopardus 

Nota:
Sono attestate numerose varianti in Germania e altrove (Förstermann, Ferguson): Liubhart, Liubhard, Leobhart, Leopart, Leupard, etc. Dal composto protogermanico deve essersi formato il nome longobardo che ha dato origine al cognome di Giacomo Leopardi. 
In tedesco moderno l'antroponimo ha lasciato come eredi numerosi cognomi: Liebert, Liebhardt, Liphard, Liphardt, Lipparth, Lippert, Lübbert

5) Longobardo "fama" / Latino "Roma" 

i) Radice germanica genuina: 
Rome-, Rom- 
   < protogermanico *χrōmiz "fama", "gloria" 

Rometruda 

ii) Radice latina: 
Rome-, Rom- 
   < latino Rōma 

Romuald, Romoald 

Nota:
È ben possibile che questo antroponimo fosse compreso come "Principe Famoso", ma anche come "Principe di Roma". Si noterò che in anglosassone il nome di Romolo (lat. Rōmulus) è attestato come Romwalus

La bella e prosperosa Leonilde 

Anni fa mi trovavo in stazione ad attendere il treno della mattina, quando notai una donna biondiccia e molto affascinante. Era davvero una bella milf. Parlava con alcune sue amiche di molti argomenti. Ascoltando le conversazioni, mi resi conto che aveva un nome assai inconsueto per quest'epoca: Leonilde. Non ci sono dubbi: il padre glielo aveva dato perché era un appassionato dei Longobardi. Mi sembra di buon auspicio. 

Conclusioni 

Nonostante siano stati fatti numerosi studi sui nomi ibridi longobardi, possiamo dire che non sia un argomento molto conosciuto. Mi auguro che questo mio trattatello possa ispirare ulteriori approfondimenti.