sabato 31 gennaio 2015


CONTRATTO PER UCCIDERE

TITOLO ORIGINALE: The Killers
     (Ernest Hemingway's The Killers)
REGIA: Don SIEGEL
PRODUZIONE: U.S.A.
ANNO: 1964
GENERE: Drammatico, thriller, noir, poliziesco
DURATA: 90'

INTERPRETI E PERSONAGGI:
 Lee Marvin: Charlie Strom
 Angie Dickinson: Sheila Farr 
 John Cassavetes: Johnny North 
 Clu Gulager: Lee
 Claude Akins: Earl Sylvester
 Norman Fell: Mickey Farmer
 Ronald Reagan: Jack Browning
 Virginia Christine: Miss Watson
 Don Haggerty: Postino
 Robert Phillips: George Flemming
 Kathleen O'Malley: Maggiordomo
 Ted Jacques: Assistente ginnico
 Jimmy Joyce: Commesso
 Davis Roberts: Maitre D'
 Seymour Cassel

SCENEGGIATURA: Gene L. Coon
     (da un racconto di Ernest Hemingway)
FOTOGRAFIA: Richard L. Rawlings
SCENOGRAFIA: Frank Arrigo, George B. Chan
MONTAGGIO: Richard Beling
COSTUMI: Helen Colvig 
MUSICHE: John Williams

Recensione di 7di9:

Charlie Strom e Lee sono due assassini professionisti. Il loro ultimo contratto prevede l’uccisione di un ex pilota di corse automobilistiche, Johnny North, impersonato da John Cassavettes. Tutto fila liscio. Eppure il killer interpretato da Lee Marvin non riesce a liberarsi di un dubbio che lo assilla: perché la vittima non ha tentato la fuga dinanzi alle canne da fuoco silenziate dei suoi aguzzini? 

Sono queste le premesse di Contratto per uccidere, splendido noir diretto dal regista Don Siegel e ispirato al racconto The Killers di Ernest Hemingway, nonché remake di The Killers, film diretto nel 1943 da Robert Siodmak e sempre ispirato all’opera dello scrittore statunitense. 

I due assassini sono creature spietate, fredde. La scena iniziale li relega immediatamente, senza possibilità di appello, nel girone dei criminali incalliti; Charlie Strom e Lee sono due portatori di morte immuni a qualunque morale, guidati dal solo istinto omicida e dalla prospettiva del guadagno. Fino alla loro ultima missione. 

Il film venne commissionato dalla rete televisiva NBC. Giudicato troppo violento per il piccolo schermo, fu successivamente distribuito nella sale con il titolo di Ernest Hemingway’s The Killers

Considerazioni: 

Aggiungo all'intervento di 7di9 alcune note, soprattutto di carattere antropologico.

La luce e le falene

Il microcosmo del gangsterismo è come un abisso di oscurità assoluta in cui spicca subito ogni sorgente di luce, per quanto fievole possa essere. Così la donna bellissima e fascinosa è come un lampione che attira a sé nugoli di falene, condannandole presto all'impazzimento e alla morte. Per questi insetti l'unica possibilità di salvezza sarebbe fuggire lontano dalla luce e rintanarsi negli anfratti più tenebrosi. Invece cadono nell'inganno, si ammassano attorno al lume e vengono divorati dai pipistrelli. Eppure non c'è speranza nemmeno per chi comprende la natura della trappola luminosa, se ha la disgrazia di aver a che fare con qualcuno che ne è stato attratto!   

La Mantide

Non bisogna lasciarsi ingannare dall'aspetto esile e delicato della maliarda, che è una terribile predatrice. Il pilota si ritiene forte e virile, così si avvicina a lei per avere contatto col suo corpo vellutato. Un contatto che crede salvifico. Le conseguenze di questo errore di valutazione sono fatali e non tardano a manifestarsi: l'amata non è affatto un oggetto di conquista, come il volgo stoltamente crede. Non appena ha intrappolato la sua preda, la blocca e la dilania, la squarcia, ne beve l'anima e ne causa l'annientamento.   

Un caso di sospetta censura

Nel finale vediamo che il killer più anziano, magistralmente interpretato da Lee Marvin, prima di spirare spara e abbatte la bellissima pupa piantandole un proiettile nel cranio. La pistola ha il silenziatore. Si sente solo che lei cade, ma la sua morte non viene ripresa, è fuori campo. Uno spreco assurdo, direi. Ricordo una sequenza simile in un telefilm italiano con Giuliano Gemma, in cui una pornodiva bionda veniva fulminata da un colpo in testa, sparato da un'arma col silenziatore. Si vedeva cadere a terra la donna, morta all'istante. La cosa aveva un effetto straniante, lasciava attoniti. Non c'è nulla di più assurdo e sorprendente di un passaggio improvviso e imprevedibile dalla vita all'assenza di vita. Perché dunque nel film di Don Siegel non si vede nulla? Posso supporre che sia stata la censura a tagliare quei fotogrammi, ritenuti troppo traumatizzanti e conturbanti.

Gangster, pupe e sodomia

Non ci sono dubbi. Emerge la natura sodomitica dei due killer. Ovviamente alla cosa non si poteva alludere a quei tempi, ma sembra che sia una conclusione abbastanza ovvia. Tutto il film è pervaso dall'omosessualità, anche se non viene mai menzionata in modo esplicito. Nel contesto malavitoso era una cosa che doveva essere tenuta nascosta, ma neanche il pubblico ne voleva sentir parlare. Ecco la mia analisi. Sylvester è un omosessuale passivo, che sognava di fellare il pilota, rimanendo annichilito quando il suo oggetto del desiderio si è perso dietro alla splendida pupa. L'odio di Sylvester verso le pupe è fortissimo e misto a gelosia. Non che l'avversione misogina dei due sicari sia minore.

Feticismo dei piedi nel '64

In una scena il pilota accarezza un piede alla sua amante. Strano che i censori incaricati di applicare il Codice Hays non si siano accorti di questo dettaglio pruriginoso. Sono convinto che questo contatto tra l'uomo e la donna non sia affatto qualcosa di casuale. Siegel ha studiato tutto nei minimi particolari. Voleva che lo spettatore venisse a conoscenza della natura della maliarda, che è una dominatrice. L'uomo la adora. Le tributa onori divini perché la propria essenza è stata svuotata dall'interno. Egli sopravvive come un mero simulacro. Soltanto la donna dà senso alla sua esistenza. Proprio come l'eroina dà senso all'esistenza di un tossicomane. Poi all'improvviso la droga gli viene portata via ed ecco che il nero Drago della Disperazione spalanca le proprie fauci per divorarlo!

sabato 24 gennaio 2015


IL MISTERO DELLA TOMBA DEI CARONTI

I fautori della scuola indoeuropeizzante - che attribuisce ai numerali etruschi huθ e śa il valore di "quattro" e "sei" rispettivamente - usano proporre come prova risolutiva delle loro tesi un affresco sepolcrale che mostra due porte dipinte su due pareti di una tomba, ciascuna con due figure di Caronte. Per questo la tomba, che si trova nella necropoli di Monterozzi (Tarquinia) è chiamata Tomba dei Caronti. Risale al III o al II secolo a.C., in una fase di decadenza della civiltà etrusca.

Questa è la descrizione delle figure, tratta da
http://www.futouring.com/

"Quello di destra ha i capelli a serpente ed è armato di martello, mentre l’altro ha un copricapo alato ed un grande martello. Sulla parete di fondo lo schema è analogo: ai lati di una finta porta resa accuratamente, sono raffigurati due esseri mostruosi dal corpo blu e con ali rosse: quello di destra indossa una tunica rossa ed è armato di martello e spada, mentre quello a sinistra veste una tunica blu ed è armato di ascia."

Veniamo alla parte che a noi più interessa. Sopra la figura di ognuno di questi demoni è posta un'iscrizione. Una riporta ΧARUN [P]U[F]E - secondo altri [L]U[F]E (SE 30 p290 10), un'altra ha soltanto ΧARUN (SE 30 p291 11), un'altra ancora mostra ΧARUN ΧUNΧULIS (SE 30 p291 12, aka TLE 884) e l'ultima ha ΧARUN HUΘS (SE 30 p293 13, aka TLE 885). 

Per questo motivo c'è chi si è affrettato a tradurre Χarun Huθs con "Il Quarto Caronte". A parte il fatto che le figure non sono numerate, in lingua etrusca huths non potrebbe mai significare "quarto". Se anche si attribuisse infatti a huθ il significato di "quattro" - come fa la scuola indoeuropeista - l'ordinale "quarto" sarebbe huθs-na, mentre huθ-s significherebbe piuttosto "dei quattro". Così ecco la traduzione "Caronte dei Quattro", di cui è stata proposta l'interpretazione "Caronte dei Quattro <Caronti>". Questo però è privo di logica. Non esiste nulla che lasci pensare che Χarun Huθs sia prominente rispetto ai restanti tre Caronti, né che abbia rispetto ad essi una superiorità gerarchica. Se così fosse, dovrebbe dirsi invece "Caronte dei Tre", perché tale demone non potrebbe mai essere anche Caronte di se stesso. È evidente che qualcosa non torna, e che tutte queste proposte sono superficiali.

Nel tentativo di spiegare la connessione con il numerale, si potrebbe pensare che la figura di Χarun Huθs abbia a che fare con i morbi. Ognuno dei quattro Caronti potrebbe essere connesso a un particolare tipo di morte. La morte tramite il fuoco, la morte violenta, la morte tramite l'acqua e la morte di malattia. Si potrebbe allora ipotizzare che i sapienti Rasna distinguessero sei tipi diversi di morbi, e che quindi il Caronte che presiedeva alla morte per malattia fosse chiamato "Caronte dei Sei", sottointendendo "Morbi". Anche questa ipotesi è tuttavia di una fragilità logica molto spinta, perché implicherebbe un termine sottointeso, cosa che non è molto in sintonia con la mentalità etrusca. Ridicola è la proposta di interpretare il teonimo come "Caronte Numero Sei", come se fosse il nome di un profumo.  

Arrivo dunque alla conclusione che Huθs sia una parola che niente ha a che vedere con il numerale huθ "sei". Penso che siamo di fronte a una coincidenza fortuita. Il termine in questione rimanderebbe così a una diversa forma soggiacente, con significato del tutto dissimile. L'ipotesi non è poi così peregrina: l'ortografia etrusca aveva limitate capacità di esprimere i suoni, ed è ben possibile che nascondesse qualche dettaglio importante, come ad esempio la lunghezza della vocale tonica. A dire il vero, già Georgiev aveva pensato a questa possibilità, avvicinando il termine etrusco all'ittita ḫūd- "essere rapido, pronto a colpire".

Si può dimostrare che l'etrusco non è una lingua anatolica come l'ittita, ma presenta in ogni caso numerosi prestiti da tale fonte, come avrò modo di dimostrare in seguito. Così esistono due possibilità:

1) La radice huθ- "rapido, pronto a colpire" è un prestito anatolico, così come in inglese il termine voyage è un prestito dall'antico francese;
2) La radice ḫūd- "rapido, pronto a colpire" in ittita è un affioramento di un sostrato tirrenico: si tenga conto che le lingue anatoliche hanno un'imponente quantità di lessico la cui origine è ignota e non collegabile a un'origine indoeuropea.

Potremmo ipotizzare le seguenti forme soggiacenti:

/hud-/ "sei" : huθ
/hu:d-/ "rapido, pronto a colpire" : Huθs

L'epiteto Χunχulis mostra un suffisso -is che si trova anche altrove (netśvis "aruspice", etc.) e che potrebbe ben avere un significato agentivo. La forma è stata avvicinata all'ittita ḫulḫuliya- "lottare, combattere", con dissimilazione della prima -l- in -n-. Valgono gli stessi ragionamenti fatti per l'epiteto Huθs.

Per quanto riguarda Χarun [P]u[f]e, se la lettura fosse confermata, si potrebbe fare un interessante collegamento. In latino la parola popa indicava l'officiante del sacrificio cruento: era un uomo incaricato di abbattere con un maglio la vittima sacrificale. La parola in questione non ha origine indoeuropea: invano alcuni studiosi hanno pensato di connetterlo con popina "cucina", parola di origine osca derivata dalla stessa base del latino coquere "cuocere". Tuttavia il popa non cuoceva, ma colpiva con il maglio. Si riporta un'iscrizione su ossario che ha cure laru pufa (NRIE 260): Così ricostruisco senza dubbio pufa "abbattitore". In un'epoca più antica la parola etrusca doveva essere *pupa, quindi fu data in prestito al latino come popa, con -p- conservata. In seguito l'etrusco subì un'ulteriore evoluzione e la -p- mediana divenne l'affricata -f-, come riscontrato anche in altri casi. L'epiteto Pufe sarebbe quindi un derivato di pufa

Riassumiano quindi:

1) HUΘ- "essere rapido, pronto a colpire", donde HUΘ-S "rapido, pronto a colpire"

2) PUF- "abbattere", donde PUFA, PUFE "abbattitore"

3) ΧUNΧUL- "lottare, combattere", donde ΧUNΧUL-IS "lottatore" 

Tutto parrebbe molto logico.

IL DECLINO DELLA LINGUA NAHUAT A EL SALVADOR E IL GENOCIDIO DEL 1932

Si pensa che i Pipil, che erano della stessa stirpe degli Aztechi, siano giunti nella terra attualmente conosciuta come El Salvador dal Messico intorno al 900 d.C. Erano fuggiti dal Messico, dove erano perseguitati dagli Olmechi. Viaggiarono attraverso quello che conosciamo come Guatemala, giungendo infine a El Salvador. Si pensa che ci siano state diverse ondate migratorie fino al 1300 d.C.

Anche se in origine i Pipil erano parlanti Nahuatl, la loro lingua finì col divergere ed evolvere in Nahuat, perdendosi la capacità di pronunciare il tipico suono laterale tl. All'epoca dell'invasione degli Spagnoli nel 1524, le comunità Pipil erano stanziate nella maggior parte di quello che oggi è El Salvador. Gli interpreti Nahuatl che viaggiavano assieme ai Conquistadores consideravano la lingua dei Pipil, sebbene a loro perfettamente comprensibile, come infantile - proprio per la mancanza del suono tl, sostituito da t. Per questo avrebbero coniato il nome Pipil a partire dalla parola pilli, che significa "bambino" o "ragazzo". Tuttavia in Nahuatl pilli significa anche "nobile", "principe", e l'etnonimo potrebbe essere antico. Gli studiosi oggi pensano in ogni caso che la prima interpretazione sia quella corretta.

Gli Spagnoli portarono ai Pipil un diverso modo di coltivare la terra. Prima dell'arrivo dei Conquistadores, la terra non apparteneva a nessuno in particolare: era in altre parole terra comune. Quando qualcuno si sposava e formava una famiglia, gli era permesso usare la terra per costruire una casa e per seminare i raccolti, principalmente granturco e fagioli. La terra non era recintata o suddivisa. Gli Spagnoli introdussero un'importante innovazione: l'allevamento di bestiame, che era in precedenza sconosciuto nell'America Centrale. Il bestiame, com'è ovvio, non ha idea di dove finisce la terra del suo legittimo proprietario e dove inizi quella altrui, così facilmente sconfina, mangiando ogni cosa a sua disposizione. Per evitare questo, fu deciso di recintare la terra degli allevatori. Ecco che la terra di un popolo per certi aspetti "comunista" fu presa dagli Spagnoli e dai loro discendenti, ponendo le basi per gravissimi problemi per le generazioni future. 

La lingua Nahuat continuò a essere parlata a lungo. Nel 1932 essa era in una fase di declino, ma un fatto drammatico la portò sull'orlo dell'estinzione in brevissimo tempo. Quell'anno infatti ci fu La Matanza, ossia il massacro. Non si conosce l'esatta entità di tale opera di "pulizia etnica", ma si parla di alcune decine di migliaia di vittime.

Agli inizi del XX secolo, la maggior parte dei Pipil viveva nelle regioni occidentali di El Salvador, soprattutto nell'area compresa tra Sonsonate e Santa Ana. Nel 1882 il governo di quella nazione aveva abolito le ultime terre comuni degli Indiani, in modo che nulla ostacolasse le piantagioni di caffè. Verso la fine del XIX secolo, spaventosa era la diseguaglianza nella distrubizione della ricchezza, con lo 0,01% della popolazione che controllava il 90% della ricchezza. Questo scatenava grande irrequietezza nel paese. Il Partito Comunista di El Salvador fu fondato nel 1930 ed era sostenuto dai lavoratori urbani e dai contadini. Fu progettata una rivolta il 22 gennaio 1932. Il governo, guidato dal generale Maximiliano Martínez, era giunto a conoscenza dei piani degli insorti, così arrestò alcuni leader del partito.

I contadini decisero di proseguire la rivolta e occuparono le città della parte occidentale del paese. I dimostranti erano armati solo di machete e di coltelli, mentre l'esercito aveva armi da fuoco: la battaglia era decisamente impari. Nel giro di una settimana l'esercito aveva ripreso controllo delle città, ma continuò a perseguire la vendetta in modo implacabile. La ribellione fu stroncata senza pietà e tra i 10.000 e i 40.000 indigeni furono uccisi in varie ondate di repressione a partire da gennaio 1932. La gente veniva uccisa solo perché parlava Nahuat e vestiva in modo tradizionale: queste cose erano ritenute prove sufficienti per stabilire che una persona era sovversiva. Ogni segno esteriore di appartenenza a una comunità indigena faceva rischiare la vita. Accadde così che il Nahuat fu proibito e solo la lingua spagnola poté essere parlata. Molte donne che non erano in grado di parlare castigliano erano costrette a stare in silenzio quando portavano il cibo ai loro famigliari in prigione. C'era il terrore di essere uccisi solo per il fatto di essere indigeni. Così gli abiti tradizionali furono aboliti: nulla doveva identificare un Pipil come tale.

Gli effetti del genocidio del 1932 perdurano ancora oggi. Di genocidio si deve senza dubbio parlare, perché a muovere i governanti era la volontà precisa e insindacabile di estirpare una popolazione, perseguitando e uccidendo i suoi membri in quanto tali. Ancora a distanza di tanto tempo, gli anziani superstiti dell'etnia hanno paura di parlare di quanto accadde nel 1932, e temono ripercussioni per l'uso pubblico della lingua Nahuat.

Lo stato attuale della lingua è critico, nonostante tentativi anche notevoli di rivitalizzarla. Ethnologue riporta l'esistenza di meno di 20 parlanti in tutto El Salvador (Grimes, 2000). Secondo altre stime i parlanti sarebbero appena più numerosi, intorno al centinaio di persone. Alcune stime locali parlano di meno di 200 locutori, ma quasi tutti con più di 50 anni di età. Tutti sono d'accordo nel ritenere che nessuno usa più il Nahuat come prima lingua e che nessun bambino della comunità lo apprende più. 

Per maggiori informazioni sul popolo Pipil e sulla sua lingua:


Alcuni interessanti video:


sabato 17 gennaio 2015



SLEEP CHAMBER - THE VISION & VOICE

Gruppo: Sleep Chamber
Album: Sexmagick Ritual
Anno: 1987
Genere: Electronic
Stile: Industrial, Experimental
Ispirazione: Thelemismo, BDSM
Tracce:
A1 : The Vision & Voice    
A2 : The Beast    
A3 : Flesh Trixsen    
B1 : Nessus    
B2 : Seduction    
B3 : Weapons Ov Magick    
B4 : Into The Abyss    
B5 : Twenty Three

Il gruppo americano Sleep Chamber, guidato da John Zewizz, è noto per l'ispirazione thelemita e per l'uso di immagini sadomaso, bondage e collegate alla magia rituale. A me interessa pubblicare il video della canzone The Vision & Voice (La Visione e la Voce) meramente per motivi di conoscenza: se lo si ascolta, si coglie in modo nitido la voce di un uomo intento a legge Orazio in latino con una pronuntiatio restituta non perfetta, ma di certo buona se paragonata alla grottesca pronuncia ecclesiastica in uso nelle scuole italiane. All'inizio ero convinto che si trattasse della voce dello stesso Aleister Crowley, ma potrebbe non essere così: le uniche registrazioni dell'occultista, eseguite su cilindri di cera, a quanto pare non corrispondono. Anche le caratteristiche della voce mi sembrano alquanto diverse. Nel Web si trovano svariate opinioni. C'è chi pensa che la voce sia proprio quella di Crowley, mentre per altri è sconosciuta. Confesso la mia incapacità di risolvere la questione e chiedo lumi a chi ne sa più di me. Chiunque sia il declamatore, questo è il testo dei carmi letti (due completi e uno frammentario ripetuto alla fine), che può essere seguito parola per parola servendosi del video:

Ode 2,7

O saepe mecum tempus in ultimum deducte Bruto militiae duce, quis te redonauit Quiritem dis patriis Italoque caelo, Pompei, meorum prime sodalium, cum quo morantem saepe diem mero fregi, coronatus nitentis malobathro Syrio capillos? Tecum Philippos et celerem fugam sensi relicta non bene parmula, cum fracta uirtus et minaces turpe solum tetigere mento; sed me per hostis Mercurius celer denso pauentem sustulit aere, te rursus in bellum resorbens unda fretis tulit aestuosis. Ergo obligatam redde Ioui dapem longaque fessum militia latus depone sub lauru mea, nec parce cadis tibi destinatis. Obliuioso leuia Massico ciboria exple, funde capacibus unguenta de conchis. Quis udo deproperare apio coronas curatue myrto? Quem Venus arbitrum dicet bibendi? Non ego sanius bacchabor Edonis: recepto dulce mihi furere est amico.

Ode 2,10

Rectius uiues, Licini, neque altum semper urgendo neque, dum procellas cautus horrescis, nimium premendo litus iniquum. Auream quisquis mediocritatem diligit, tutus caret obsoleti sordibus tecti, caret inuidenda sobrius aula.

Ode 2,14

Eheu fugaces, Postume, Postume, labuntur anni nec pietas moram rugis et instanti senectae adferet indomitaeque morti, non, si trecenis quotquot eunt dies, amice, places inlacrimabilem Plutona tauris, qui ter amplum Geryonen Tityonque tristi compescit unda, scilicet omnibus quicumque terrae munere uescimur enauiganda, siue reges siue inopes erimus coloni. Frustra cruento Marte carebimus fractisque rauci fluctibus Hadriae, frustra per autumnos nocentem corporibus metuemus Austrum: uisendus ater flumine languido Cocytos errans et Danai genus infame damnatusque longi Sisyphus Aeolides laboris. Linquenda tellus et domus et placens uxor, neque harum quas colis arborum te praeter inuisas cupressos ulla breuem dominum sequetur; absumet heres Caecuba dignior seruata centum clauibus et mero tinguet pauimentum superbo, pontificum potiore cenis.

Certo, non c'è identità con la pronuncia classica autentica. Solo per fare un esempio, Orazio avrebbe definito la pronuncia del video affetta da labdacismo. Inoltre ad ascoltare bene il testo, emerge l'accento del lettore, oltre a tutta una serie di peculiarità fonetiche come la tipica pronuncia delle consonanti t, d e r, la tendenza a rendere a con /æ/ in alcuni contesti, la tendenza a palatalizzare t seguita da u, e via discorrendo. Sembra che il lettore fosse in qualche modo consapevole di questi tratti e che cercasse di reprimerli durante la lettura, non sempre con successo. Tuttavia ritengo che si tratti di un esperimento di estremo interesse. Naturalmente alcuni urlerebbero alla xenoglossia, attribuendo la voce a diretta ispirazione diabolica. Così facendo costoro dovrebbero però ammettere un legame diretto tra la pronuncia reale dei tempi di Orazio e la declamazione contenuta nel video, entrando in contraddizione con pretese xenoglossie basate sulla pronuncia ecclesiastica. Se si trattasse davvero di un caso di xenoglossia, devo dire che sarebbe anche il solo a me noto e documentabile con certezza. Il condizionale non è però casuale: sono infatti certo che questo risultato sia stato prodotto tramite lo studio, e di ciò è indizio anche l'assenza di alcuni suoni. Non troviamo ad esempio la /l/ velarizzata in fine sillaba e la nasale velare nel nesso gn /ŋn/, caratteristiche dimostrabili, di cui avremo modo di parlare in altre occasioni; la -m finale è pronunciata forte, la y in parole greche viene resa con /i/, così come la -i- in septimum, e via discorrendo. In ogni caso la lettura è davvero notevole, e a volte sembra persino di poter ravvisare la quantità vocalica originale nei vocaboli.

domenica 11 gennaio 2015

IL CASO MARUSINI

Nell'introduzione di Giulio Paulis al libro La lingua sarda: storia, spirito e forma, di Max Leopold Wagner (pagg. 21-23) si leggono alcune interessanti considerazioni a proposito del bizzarro termine sardo marusini "eco", riportato da Giovanni Spano nel suo Vocabolario sardo geografico, patronimico ed etimologico (Cagliari, 1873):

Come si vede, non era né agevole né troppo sicuro recarsi all’epoca in località quali Urzulei per condurvi inchieste linguistiche. Eppure Wagner, che si definiva abenteuerlustig (desideroso di avventure), andò ovunque, controllando e integrando i dati dello Spano. Così, per esempio, proprio a proposito di Urzulei, lo studioso bavarese volle verificare, tra l’altro, se il vocabolo maruṡíni, dato per quel paese col significato di ‘eco’ nella raccolta lessicografica dello Spano, fosse confermato oppure no. La strana struttura del termine, differente da quella delle parole di tradizione latina o neolatina, e il sapere che Urzulei era uno dei centri più selvaggi di tutta l’isola, fecero smarrire per un po’ la sua fantasia «negli andirivieni dell’etimologia preistorica», insinuandogli il sospetto di avere a che fare con un prezioso relitto del sostrato paleosardo. Decise di occuparsene.

Correva l’anno 1905 quando un giorno gli accadde di trovarsi a Ulassai per compiervi dei rilevamenti sulla fonetica locale, che poi sarebbero confluiti in un libro pubblicato nel 1907, e non volle perdere l’opportunità di visitare la celebre grotta del paese. Lo accompagnava un giovane del luogo, che al ritorno, mentre attraversavano il labirinto di rocce che circonda il paese, volle fargli udire l’eco che si ode distintamente in quel sito. Wagner gli domandò come si chiamasse l’eco nel dialetto del paese e la risposta fu: «su maruṡíni». La scena che seguì fu così descritta dallo stesso Wagner in una pagina del già citato contributo su “Gli elementi del lessico sardo” (p. 409):

Io restai confuso, perché non mi ero aspettato di trovare il vocabolo qui ad Ulassai, così lontano da Urzulei, ma pensai fosse uno di quei vocaboli molto più diffusi di quel che non indichi lo Spano. Il mio compagno però, vedendo la mia sorpresa aggiunse: «Si dice così, perché questa località si chiama Mar’e Usini (mara (d)e Usini) e perché l’eco è più splendido qui che in nessun altro posto». Non potei dubitare della giustezza di quest’etimologia: avevo davanti a me il paese Usini che sta dirimpetto ad Ulassai, e più vicino ancora quel che i Sardi chiamano una mara, e l’eco non mancava nemmeno. Era dunque da vedere se veramente quest’espressione che si spiegava così bene qui colla località, si usava anche ad Urzulei. Domandavo in tanti paesi come si dicesse per ‘eco’; dappertutto mi si disse che non c’era altro vocabolo che ecu all’italiana, o non si sapeva neanche cosa fosse. Ad Urzulei poi si diceva ecu lo stesso e marusini non era noto a nessuna delle tante persone che interrogai. La sigla Urz. nello Spano sarà dunque una confusione con quella di Ulassai e non è l’unica nel Vocabolario.

Wagner trasse la conclusione che quando si tratta di attribuire a un vocabolo sardo un’origine preromana occorre grande prudenza e che è meglio pronunziare, dato il caso, un franco ignoramus piuttosto che abbandonarsi a speculazioni indimostrabili. Infatti, se è vero che la linguistica è un potente strumento d’indagine storica, e anzi talvolta costituisce l’unico mezzo di cui disponiamo per ricostruire aspetti del passato più o meno lontano, non è lecito far dire alle parole ciò che esse non possono dirci né chiedere alla linguistica più di quanto essa possa dare.

Non concordo appieno con queste conclusioni sull'impotenza della linguistica, pur essendo consapevole dei rischi che il tentativo di etimologizzare voci oscure ed isolate inevitabilmente comporta. Sono infatti convinto che se la linguistica non può dare qualcosa oggi, la potrà dare domani. In fondo, lo stesso Wagner non si è dato per vinto, è partito dall'esperienza applicando una logica ferrea, ed è così riuscito a gettare un po' di luce su una parola che altrimenti sarebbe stata priva di qualsiasi spiegazione. 

INGLESE AMERICANO MEESE 'ALCI': UNA PECULIARE FORMA PLURALE METAFONETICA

Nell'inglese degli Stati Uniti è di uso corrente il termine moose /mu:s/ "alce (americano)", che suona come mousse e provieme da una lingua algonchina: Cree mōswa, Massachusett moos, Abenaki moz, Penobscot mos, Narragansett moos, tutte da una protoforma *moo-swa, che letteralmente significa "animale che spoglia gli alberi della corteccia", con riferimento al modo in cui l'alce si nutre.

Il plurale corretto di moose in inglese americano è moose (arcaico mooses), ma è in auge anche la forma metafonetica meese, che non ha alcuna giustificazione, perché non si tratta di una formazione tipica delle lingue algonchine.

Com'è potutto accadere questo? Semplice: a partire dalla voce ereditata goose "oca" (< proto-germanico *gans(uz), cfr. anglosassone gōs, norreno gás), che ha il plurale geese (< proto-germanico *gansiz, cfr. anglosassone gēs, norreno gǽss). Il plurale meese si deve a qualcuno che senza saperlo ha trapiantato la storia di una parola ad un'altra la cui forma singolare suona e si scrive in modo simile. Lo spelling deve aver giocato un ruolo determinante: nessuno si sognerebbe mai di produrre un plurale metafonetico di mousse. La genuina forma plurale algonchina è invece moosinee, che si è cristallizzata nel toponimo Mosinee Creek, nella Contea di Gogebic. 

Queste formazioni analogiche non sono così inusuali. Il plurale corretto di shaman "sciamano" è shamans, ma si trova in uso anche shamen, come se la parola fosse un composto di man "uomo". Lo stesso Isaac Asimov da giovane era stato tentato di formare il plurale di can "lattina" in modo irregolare come cen (che si suppone pronunciasse /ken/), a partire da man "uomo", che ha plurale men. In un suo saggio si domandava stranito perché un simile plurale dovrebbe essere scorretto. Avrei voluto scrivergli:

"Carissimo Isaac, a proposito dei tuoi dubbi sul plurale di can, quanto lamenti succede perché man è dall'anglosassone mann (< proto-germanico *mannaz), il cui plurale è menn (< proto-germanico *manniz), mentre can deriva dall'anglosassone canne "recipiente", di genere femminile, con plurale cannan. Si vede chiaramente che i due paradigmi sono diversi. In ultima istanza la parola canne potrebbe discendere da un prestito dal latino canna avvenuto già nel germanico comune." 

Purtroppo il luminare ashkenazita era già morto e non ho potuto fargli pervenire questa risposta.

martedì 6 gennaio 2015


  CORPI SPENTI

Autore: Giovanni De Matteo
Editore: Mondadori (Urania n. 1607)
Pubblicazione: Giugno 2014

Trama (da MondoUrania):

Nel 2049 sono cominciate le operazioni della Sezione Investigativa Speciale di Polizia Psicografica, un gruppo di agenti che possono estrarre informazioni dai morti, recuperandone la memoria. Sono i necromanti e il loro uomo di punta, Vincenzo Briganti, ha risolto nel 2059 il caso battezzato ufficiosamente Post Mortem (ma pubblicato su "Urania" come Sezione P greco). Ora siamo nel 2061, anno del bicentenario dell'Unità Italiana, e la Bassitalia sta per secedere dal resto del paese "come una coda di lucertola" Sulla manovra gravano pesanti ipoteche, perché qualcuno pensa di trasformare il Territorio Autonomo del Mezzogiorno in una vera e propria riserva di caccia per i signori della nuova società feudale. Briganti e i suoi colleghi avranno poco meno di un mese per scoprire tutti gli intrighi ed evitare che il Territorio si trasformi in un ghetto tecnologico per schiavi del lavoro... o molto peggio.

Recensione:

Ho letto diverse recensioni online di questa splendida opera, ma un dettaglio non da poco sembra essere sfuggito ai critici: Corpi Spenti è pervaso da pura poesia connettivista, densissima. Ci sono frasi che racchiudono in sé un intero universo. Mondi collassati, compatti come stelle di neutroni, concentrati in poche parole. Non mancano le parentesi visionarie, come ad esempio il brano intitolato "Sulle ali membranose del passato", in cui il Blue-K nebulizzato fa emergere baluginanti ricordi dell'epoca degli Hittiti. Nella complessa architettura della narrazione si resta col fiato sospeso.

L'ambientazione è quella di una civiltà terminale, sempre più vicina al collasso ecofagico. Ogni cosa si disfa e tende alla rovina. L'entropia dilagante non può essere combattuta, ogni tentativo di riorganizzare il vecchio ordine ormai decaduto minaccia di risolversi in un disastro. Rispetto all'epoca dei fatti narrati in Sezione Π2, la situazione politica e sociale si è notevolmente degradata. L'autore sa comunicare molto bene questo senso di autolisi, che trasuda da ogni pagina.   

Corpi Spenti è in tutto e per tutto un romanzo profetico. È stato detto che gli orrori di cui tratta sono una denuncia dei crimini che con orrendo neologismo i mass media chiamano "femminicidi". In realtà questo è il futuro che avanza, portando con sé sviluppi raccapriccianti come ad esempio la produzione su vasta scala degli atroci filmati di torture conosciuti come "snuff". A mio avviso non è affatto necessario pensare che il romanzo intenda fornire una semplice lezione morale facendosi lineare interprete del presente e criptandolo in qualche modo tra le sue righe. Siamo invece di fronte a purissima fantascienza distopica, all'applicazione di un algoritmo ipercomplesso che proietta il presente nel futuro facendo evolvere i dati di input.

I detrattori di questo capolavoro forse non hanno capito che descrivere un futuro raggelante non significa esserne fautori e tesserne le lodi. Farebbero bene a tornare all'asilo e a imparare tutto da zero: ad esempio non bisognerà trascurare di spiegar loro che se un autore descrive un omicidio non significa affatto che ne faccia l'apologia.

SEZIONE Π2

Autore: Giovanni De Matteo
Editore: Mondadori (Urania n. 1528)
Pubblicazione: Novembre 2007
Vincitore del Premio Urania 2006
Altri titoli: Post Mortem

Trama (da MondoUrania):

"Questa è una storia raccolta dalle voci dei morti, in presa diretta dalla Singolarità..." Siamo a metà del XXI secolo, la curva dello sviluppo tecnologico è schizzata verso l'alto, come impazzita. Una cosa è certa, il mondo è sull'orlo di un abisso In una metropoli italiana che stentiamo a riconoscere, violenza e omicidi hanno raggiunto proporzioni inimmaginabili. Per questo esistono uomini come Vincenzo Briganti, investigatore hard-boiled stile classico, con più di un macigno sulla coscienza. E per questo i casi più atroci li affidano a lui, in modo che interroghi i morti. Solo alle vittime puoi strappare il segreto che le ha annientate, solo assumendo il Blue-K puoi farlo. Ma non è un gioco per tutti: per giocarlo devi essere necromante della Π2, la Sezione Investigativa Speciale di Polizia Psicografica Pi-Quadro.

Recensione:

Questo romanzo parla di biologia e di fantabiologia, di fisica e di fantafisica, di neurologia e di fantaneurologia, di medicina e di fantamedicina, di psichiatria e di fantapsichiatria, di antropologia e di fanta-antropologia, di filosofia e di fantafilosofia, esplorando scenari di estremo interesse. 

Una domanda risuona senza sosta, mettendo il lettore davanti alla consapevolezza della propria finitudine: "Qualcosa sopravvive alla morte?" Non viene data una risposta concreta, ma si capisce bene che le memorie estratte dai cervelli dei morti sono soltanto spettri di flussi sinaptici estinti e non costituiscono la sopravvivenza del loro essere. Tutto ciò aggiunge ancor più inquietudine, come se si aprissero le porte di un mondo di tenebre e di mistero.  

Concetto portante dell'opera è la Singolarità Tecnologica, intesa come punto oltre il quale Alice entra nello specchio e viene meno la capacità umana di comprendere gli sviluppi della tecnologia e del progresso scientifico in accrescimento esponenziale. Quando tale Singolarità si instaura, ogni cosa diventa irriconoscibile, non può più essere colta nella sua interezza dalle menti di chi la subisce. 

Si nota un tangibile influsso delle visioni apocalittiche di Lovecraft, che trova la sua apoteosi nella descrizione della Cattedrale di Ossa, un omphalos dell'Orrore Cosmico che io stesso ho visitato nei miei incubi e da cui ho tratto ispirazione: certi luoghi che si trovano al di là del mondo sensibile sono dotati di una propria esistenza, indipendente dall'essere di chi ha la ventura di percepirli. Sempre all'opera di Lovecraft si ispira il personaggio di Rundolph Carter, che ricorda il famoso Randolph Carter del Ciclo dei Sogni.

Il mistero del tumore al cervello del Commissario pone angoscianti interrogativi: è possibile che i meccanismi più profondi che generano il cancro possano resistere persino alle più sofisticate nanotecnologie della Singolarità e continuare ad affliggere gli umani? È evidente che la risposta è affermativa. Un naturale processo di adattamento che pochi hanno postulato nelle loro opere.

Non si hanno tuttavia soltanto meccanismi di resistenza biologica alla Singolarità: anche una parte della società tende ad opporsi a questo meccanismo che tutto travolge, divora e trasforma in modo incontrollabile. Ne è un esempio la Cabala di San Tommaso, una setta pseudognostica fondata sull'Ermetismo, che rappresenta il tentativo di combattere la Singolarità: è in tutto e per tutto l'equivalente antropologico del tumore del Commissario.

domenica 4 gennaio 2015


BABEL-17 

Autore: Samuel R. Delany
Titolo originale: Babel-17
Anno: 1966
Classici Urania, Gennaio 1988

Trama (da MondoUrania):

La guerra galattica fra l'Alleanza terrestre e gli Invasori dura ormai da molti anni, e nessuno sta vincendo. Quando però l'Alleanza si trova a dover fronteggiare un'arma terribile e sconosciuta, una lingua capace di provocare attentati e sabotaggi, l'unica via di salvezza può consistere in una contromossa inaspettata: affidare a una poetessa, Rydra Wong, il compito di risolvere l'enigma di Babel-17 e di porre fine ai suoi effetti micidiali. Sarà solo l'inizio di una incredibile avventura fra le stelle, sotto la minaccia di una lingua che può uccidere e fra i pericoli di un universo forse troppo vasto per l'uomo, in un romanzo magistrale che è valso al suo autore un prestigioso premio Nebula.

Recensione: 

Avevo grandissime aspettative su questo libro, di cui tutti mi avevano detto mirabilia. In particolare, mi entusiasmava il fatto che l'argomento del romanzo fosse una lingua immaginaria. Quando sono riuscito a procurarmene una copia ero felicissimo. Tuttavia durante la lettura si sono presentate difficoltà e sono rimasto molto deluso. Pubblico alcune mie osservazioni sull'argomento.

Sono arrivato a poco più della metà di Babel-17 di Delany, e ho potuto constatare che contiene alcuni gravissimi errori. In "antico moresco" (ossia in arabo), "Jebel" è la montagna, e Tarik (o meglio Tariq) è un antroponimo, così "Jebel Tarik" significa "montagna di Tarik" (quella che conosciamo come Gibilterra). Non vale il contrario, come invece Delany stolidamente sostiene. Non esiste una "montagna di Jebel". Forse egli non sa nulla della toponomastica di Sicilia, ove Mongibello vale alla lettera "Monte Montagna", essendo "gibello" proprio l'arabo "jebel". Sono queste cose a convincermi sempre più dell'importanza della rilettura finale e dell'editing: non esiste editore capace di scovare simili inconsistenze.

Mi è stato fatto notare che Delany è uno scrittore e non un linguista, e che quindi bisogna sorvolare sugli strafalcioni che compaiono nel suo romanzo. È anche vero che scriveva quando la rete non era ancora disponibile, ma l'errore di Jebel Tarik è talmente grossolano che ho avuto la tentazione di chiudere il libro e di non proseguire con la lettura. Mi sono detto: "D'accordo, proseguirò, se non altro per scoprire se Mollya finirà sodomizzata da Calli e da Ron". Pochi giorni dopo aver detto questo, ho avuto gravi problemi e ho smesso di leggere Babel-17, senza più riprenderlo.

A tutti i nativi digitali basterebbe una sana ricerca in Google per immunizzare dalle cazzate scritte da Delany in Babel-17. Egli parla di "dialetto basco", mentre in realtà si tratta di una lingua che con il castigliano non ha nulla a che vedere nella sua struttura e nel suo lessico di base. La lingua basca (Euskara) infatti è anteriore ai Romani e ai Celti, è anzi anteriore a qualsiasi gente indoeuropea. Così UR significa "acqua", SU significa "fuoco", ESKU significa "mano", OIN significa "piede", BIHOTZ significa "cuore", ARDO significa "vino", JAUN significa "signore", ANDRE significa "signora", ODOL significa "sangue", BEGI significa "occhio", SAGU significa "topo", OTSO significa "lupo", etc. È vero che i basco ha molti dialetti, spesso tra loro a malapena intelligibili, ma l'autore non fa riferimento a questo fatto. I casi sono due: o si basa sulla vecchia ideologia che impone di etichettare come "dialetto" ogni lingua minoritaria, oppure non conosce nulla sull'argomento.

Si trovano altre informazioni non corrette tra le pagine del romanzo. Ad esempio a pag. 103 si legge:

"Le lingue degli indiani d'America mancavano addirittura della nozione di numero. Tranne per la lingua dei Sioux, dove esisteva un plurale solo per gli oggetti animati".

Se alcune popolazioni del Sudamerica, come i Nambiquara, sanno contare solo fino a due, è altresì vero che questa non è la regola tra le genti amerindiane. Posso garantire che la lingua Sioux (o per meglio dire Lakota, Dakota, etc.) non è la sola lingua amerindiana a distinguere il plurale. Per illustrare meglio il concetto riporto pochi esempi tratti da tre lingue: la lingua algonchina dei Cree, la lingua degli Aztechi (Nahuatl) e la lingua incaica (Quechua o Runasimi).

Cree (plurali animati in -ak, inanimati in -a)

atimwa "cane"
atimwak "cani"
awāsis "bambino"
awāsisak "bambini"
manitow "spirito"
manitowak "spiriti"
maskēk "palude"
maskēkwa "paludi"
maskisin "scarpa"
maskisina "scarpe"
mistik "albero"
mistikwak "alberi"
mostoswa "bisonte"
mostoswak "bisonti"
nitēm "il mio cavallo"
nitēmak "i miei cavalli"
nitik "lontra"
nitikwak "lontre"
pwāt "sioux"
Pwātak "i Sioux"
sīsīp "anatra"
sīsīpak "anatre"
wiyās "pezzo di carne"

wiyāsa "pezzi di carne"

Nāhuatl (plurali animati in -tin, -meh, possessivi in -huān)

cihuātl "donna"
cihuah "donne"
nocihuāuh "la mia donna"
nocihuāhuān "le mie donne"
oquichtli "uomo"
oquichmeh "uomini"
oquichtin "uomini"
moquichhui "il tuo uomo"
moquichhuān "i tuoi uomini"
pilli "bambino"
pipiltin "bambini"
īpil "il suo bambino"
īpilhuān "i suoi bambini"
teōtl "dio"
tēteoh "dèi"
toteōuh "il nostro dio"

toteōhuān "i nostri dèi"

I nomi inanimati possono rimanere invariati al plurale, ma spesso hanno una duplicazione, esprimendo così il concetto di varietà:

calli "casa"; "case"
cācalli "case"
(di un singolo villaggio)
cahcalli "diverse case"
icxitl "piede"
ihicxitl "vari piedi"
tetl "pietra"

tehtetl "diverse pietre", "diversi tipi di pietra"

Quechua (plurali in -kuna)

wasi "casa"
wasiq "della casa"
wasimanta "dalla casa"
wasikuna "case"
wasikunaq "delle case"
wasikunamanta "dalle case"
wasiy "la mia casa"
wasiypa "della mia casa"
wasiymanta "dalla mia casa"
wasiykuna "le mie case"
wasiykunaq "delle mie case"
wasiykunamanta "dalle mie case"
wasiyki "la tua casa"
wasiykiq "della tua casa"
wasiykimanta "dalla tua casa"
wasiykikuna "le tue case"
wasiykikunaq "delle tue case"
wasiykikunamanta "dalle tue case"
wasin "la sua casa"
wasinpa "della sua casa"
wasinmanta "dalla sua casa"
wasinkuna "le sue case"
wasinkunaq "delle sue case"
wasinkunamanta "dalle sue case"
wasinku "la loro casa"
wasinkuq "della loro casa"
wasinkumanta "dalla loro casa"
wasinkukuna "le loro case"
wasinkukunaq "delle loro case"

wasinkukunamanta "dalle loro case"

Ecco, costringerei volentieri Delany a cozzare con questi panorami di ipercomplessità inestricabile. Detto questo, Babel-17 è ben scritto e si fonda su un concetto originale, così mi impegno a rileggerlo giungendo fino in fondo e posterò quindi una nuova recensione, spero meno corrosiva e più attinente a trama e personaggi.

sabato 3 gennaio 2015

LA REALTÀ SOSTITUITA

Già ai tempi di Splinder si era posto il problema tutt'altro che ozioso dell'occupazione blogosferica. Così scrivevo su Esilio a Mordor (01/09/2009):

Mi è balenata in mente una questione splinderologica forse un po' oziosa. Se un utente cancella un blog, l'url corrispondente è all'istante disponibile per un portale nuovo creato da un utente diverso. Per fissare le idee, se nero.splinder.com dell'utente black viene cancellato, è sempre possibile che l'utente Puffo crei un blog del tutto diverso al quale dà come url proprio nero.splinder.com. Orbene, se io avessi questo nero.splinder.com nel blogroll e non facessi una costante manutenzione, mi troverei senza saperlo con un link non voluto. Un link che dà su uno spazio del tutto differente da quello da me scelto tempo prima. Mettiamo che il primo nero.splinder.com parlasse di pessimismo cosmico, ora potrei trovarmi un blog dedicato all'allevamento di canarini. Tutto questo ha ingenerato in me un flusso impetuoso di riflessioni mortificanti. Le sequenze di parole e di numeri sono come contenitori, il cui contenuto può mutare senza che neanche ce ne rendiamo conto. La realtà circostante rivela sempre più la sua degradazione, l'impietoso disfarsi di ogni parvenza di noumeno in gretto e transeunte fenomeno. Quello che oggi affligge il mondo virtuale, un giorno si estenderà ad ogni cosa: alle città, alle case, alle persone. Uno si renderà conto, stordito dalla sorpresa, che un suo conoscente non è altro che un vuoto simulacro, improvvisamente abitato da un'ontologia altra. Grasse larve bianchicce già rodono dall'interno gli esseri, umani, e alla fine rimarranno soltanto tracce di esistenza simulata per ingannare i nostri sensi. 

Ricordo il commento stizzito di Zorrokamikaze: "cr****, nero.splinder.com è in mano a uno schifoso fascista... avrei preferito i canarini".

Avendo notato che il gestore del portale era impegnato in una serrata diffusione di idee nataliste, così ho risposto: "Ho molto riflettuto su questo bizzarro caso, tra una soffiata di naso e l'altra. In buona sostanza detesto la spudorata propaganda procreativa, e mi sembra di capire che è comune a molti marxisti; or della fine i fanatismi politici di moda si equivalgono. Ho deciso: se cancella il blog mi prendo l'url e dedico il nuovo spazio ai ramarri"