lunedì 9 novembre 2015

LA LINGUA AQUITANA E LA SUA RICOSTRUZIONE

Famosissime sono le parole di Cesare sugli abitanti della Gallia Transalpina, che sono insegnate in numerose scuole - o almeno lo erano fino a poco fa, prima che prendesse corpo l'uso di fissare l'Inizio della Storia del genere umano nel 1945 d.C.
Il condottiero romano scrisse quanto segue:

Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua institutis legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garunna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. (De Bello Gallico)

Pur non conoscendo le lingue dei popoli contro cui ha combattuto, Cesare nota che gli Aquitani parlavano una lingua diversa da quella degli altri popoli della Gallia. Anche Strabone ci ha tramandato informazioni molto utili sulle genti dell'Aquitania. Così scrive nella sezione II del Libro IV della sua Geografia:

"Dobbiamo ora parlare degli Aquitani e delle quattordici nazioni galliche che li riguardano, situate tra la Garonna e la Loira, alcune delle quali si estendono fino al fiume Rodano e alle pianure della Narbonese. Generalmente parlando, bisogna dire che gli Aquitani differiscono dalla stirpe gallica, sia nella forma del corpo che nella lingua, somigliando più da vicino agli Iberi."   

Per molto tempo la lingua degli Aquitani è stata un mistero, ma si è scoperto che era una forma antica di Euskara. La stessa lingua era parlata dai Vascones, sull'altro versante dei Pirenei. In numerose iscrizioni funerarie dell'Aquitania romana, redatte in latino, compaiono nomi propri di persona e di divinità, maschili e femminili, che ci mostrano conservata la lingua indigena, con un'ortografia abbastanza accurata e diversa da quella latina, a causa della presenza di suoni estranei a quest'ultima. Ebbene, questi nomi sono formati a partire da radici che non hanno solo una vaga assonanza con parole basche, ma che sono praticamente identici alle protoforme basche ricostruite indipendentemente da Koldo Michelena. Riporto una lista di radici di antroponimi e di teonimi degli Aquitani e dei Vascones classificandole per area semantica e fornendo il corrispondente in basco moderno. Tratto anche diverse radici non più presenti nella lingua attuale, ma il cui significato è comunque in qualche misura deducibile da quanto conosciamo. Infine aggiungo alcuni prestiti dal celtico. 

1) Nomi di animali:

AHER- "caprone"
   basco
aker 'caprone'
ASTO- "asino"

   basco asto 'asino', arc. arsto
BELHEIO- "cornacchia"  

  basco bele, bela 'cornacchia'
ERGE- "manzo"
   basco ergi 'manzo'
HARS- "orso" 

   basco hartz 'orso'
HERAUS- "cinghiale" 

   basco herauts 'cinghiale'
IDI- "bue"
 

   basco idi 'bue'
OXSON-, OSSON- "lupo"  

   basco otso 'lupo'
SESENCO "torello"  

   basco zezen 'toro'
SOSONN- "toro"   

   basco zezen 'toro'
URDE "maiale"  

   basco urde 'maiale'

2) Nomi di piante:

ARIX- "quercia" 
   basco haritz, hareitz 'quercia'
ARTEHE "leccio"  

   basco arte 'leccio'
ELE, ELHE "albero, quercia"
 

  Questa radice sopravvive nell'antico composto
   basco eltzun 'pioppo'

HALS-, TALS- "ontano" 
 HALSCO-, TALSCO- "uomo-ontano"
 
TALSEIA "donna-ontano"  

   basco haltz 'ontano'
LEHER- "pino" 

   basco leher 'pino'
-SUNHAR "olmo" 

   basco zumar, zun(h)ar 'olmo'

3) Nomi di elementi della natura:

BAESER- "bosco; selvaggio"  
   basco baso 'bosco', basa 'bosco; selvaggio' 
   iberico baise-, baiser 'bosco; selvaggo' 
   Si trova anche bes- 'bosco' in toponimi baschi. 
BAI- "fiume, flusso"  

   basco ibai 'fiume'
GARR- "fiamma" 

   basco gar, kar 'fiamma'   

   Attestato come DEO GARRI 
HARBELEX(S)-, HARBELS- "ardesia" 

   basco harbel 'ardesia'
ITSA- "acque, mare"  

   basco itze (arc.), itsaso 'mare' 
LARRAHE "pascolo" 

   basco larre 'pascolo'
SELATSE, STELA(I)TSE "pianure" 
 

   basco zel(h)ai "pianura" 

4) Nomi di esseri umani:

ANDERE- "signora"  
   basco and(e)re 'signora'   
ANDOS(S)-, ANDOX- "signore"  
   Formato dalla stessa radice di ANDERE- 
   "signora"
, ne costituisce il corrispondente
   maschile.
 

ATTA- "padre" 
   basco aita 'padre'
CIS(S)ON-, GISON- "uomo" 

   basco gizon 'uomo'  
ERHE-, ERE- "femmina"  
   Ha la stessa radice di ANDERE-, basco and(e)re
   'signora'

HANNA- "fratello"  
   basco anai, anei 'fratello'
HAR-, -AR "maschio"  

   basco ar 'maschio'
   iberico taŕ 'maschio'

HAHAN(N)- "sorella"
 

   Ha la stessa radice di HANNA-, basco anai
   'fratello'
.
HAUTEN- "donna eletta, principessa" 
 

   In iberico si trova l'elemento tautin 'principe'
   in nomi maschili.

HOXS-, -HOX(S)-, -DOX- "maschio"
 

   Si trova un suffisso -ots, -dots in basco orots
   'vitello'
, ordots 'verro', bildots 'agnello'.
LELHUNN- "guerriero" 
 

   Attestato come epiteto di Marte.
NARHON-, NAR(H)UN- "lignaggio, nobiltà"
 
NARHONS- "nobiluomo"
 
NARHUNGES- "nobiluomo"
 
NARUNSE- "nobildonna"  
   basco narea < *narhena 'lignaggio'
NESCATO "ragazzina" 

   basco neska 'ragazza', neskato 'ragazzina'
OMBE-, UMME "bambino"  

   basco ume 'bambino; giovane animale' 
SEMBE- "figlio"  

   basco seme 'figlio'
SENI- "bambino"  

   basco sein, sehi 'bambino'

5) Nomi del corpo e di sue parti:

AHOISS- "bocca grande; chiacchierone"
  
basco aho 'bocca', ahotsu 'ciarlatano'
BAMBIX "midollo; caro"
 
   basco mami 'midollo'
BIHOX-, BIHOS- "cuore"
  BIHOSCINN- "facitore di coraggio, istigatore"
 

   basco bihotz 'cuore'
HON- "piede; base" 
 

   basco oin 'piede'
LOHI- "corpo" 

   basco (arc.) lohi 'corpo' 

6) Aggettivi:

AGIR- "appariscente"  
   basco ageri 'apparire'
   iberico aker, AGER- 'appariscente'
AND-, -ANDI- "grande"
 ANDE- "la Grande" 
 

    basco handi, haundi 'grande'
BELEX(S)-, BELS- "nero"
 BELEXCO- "il Nero"
 BELEXEIA "la Nera"  

    basco beltz 'nero'
BERHAX(S)- "benigno"  

   basco beratz 'soave, tenero, blando'  
BERRI- "nuovo" 

   basco berri 'nuovo'
BON-, -BONN-, -PONN- "buono" 

   basco on 'buono'
CORRI-, GORRI-, CURRI- "rosso" 

   basco gorri 'rosso' 
EDE- "bello"
   basco eder 'bello' 

EDUNN- "immacolata, bianca come la neve"  
   Ha la stessa radice di basco edur 'neve'.
ILUN(N)- "scuro"
 

   basco ilun 'scuro'
SAHAR "vecchio"  

  basco zahar 'vecchio'  
SILEX(S)- "chiara, legittima"   
   Ha la stessa radice di basco zil(h)egi 'lecito,
   legittimo'
. Si veda anche la semantica dello
   spagnolo limpio, limpieza, lindo


7) Altri nomi: 

ADEHIO-, ADEI- "rispetto"  
   basco adei 'rispetto, deferenza'
ADINN- "coetaneo, compagno"  
    basco adin 'età'; 'giudizio'
    iberico atin 'coetaneo, compagno'

ASTER- "studio" 
 

  basco azterren 'studio' 
-BOX "allegria"
 

   ENNEBOX "mia allegria"  
   basco poz, botz 'allegria' < *botz
ERDE- "straniero"

   basco erdera 'lingua straniera'  

ERTITSE "centro" 
 
   basco erdi 'metà', erditsu 'centro'
ESTEN- "lesina; dardo" 

   basco ezten, izten 'lesina, pungiglione'
ILI- "città" 
 

   basco iri 'città'
ILUR- "città"
 

   basco irun 'città' (arc.)
SORI "sorte, fortuna"
   basco zori 'fortuna'

8) Numerali:

BORS- "cinque" 
   basco bortz, bost 'cinque'
LAUR- "quattro"  

   LAURCO "quarto nato" 
   LAUREIA "quarta nata" 
   basco lau(r) 'quattro'

9) Pronomi:

ENNE- "mio"
 ENNEGES "uomo di me stesso"
 
  basco ene 'mio'
NEURE- "di me stesso"
 
NEURESE- "di me stessa"
   basco neure 'me stesso'

10) Verbi:

ERREN- "bruciare"  
   basco erre 'bruciare'

11) Suffissi:

-C(C)O : diminutivo  
   basco -ko
-T(T)O : diminutivo 
   basco -to
-X(S)O : diminutivo  

   basco -txo

-ENN- : genitivo  
   basco -en
-ENN- : superlativo (con aggettivi)  

   basco -en
-TEN, -TENN- : aumentativo (con sostantivi)  
   basco -
-DON- : marca del possessore   
 
  basco -dun 'che possiede' 

-E : femminile
   basco -
-EIA : femminile 
   basco -
-SE : femminile onorifico 
   basco -

-T(H)ARR- : marcatore di provenienza o
   di appartenenza (es. a un clan)

   basco -ar, -tar

-TSEHE : collettivo 
   basco -tze, -tza

12) prestiti dal celtico:

DUNO- "città" 
   gallico
du:no-  
DUNOHO- "mondo" 

   gallico dumno-, dubno-
-RIG-, -RIX "re"
   gallico -ri:x, -ri:go-

Alcune radici che non ho incluso nella trattazione sono ancora misteriose, ma avremo modo di parlarne in seguito. A partire da questo materiale e da quanto sappiamo della storia dell'Euskara, possiamo azzardarci a ricostruire qualche frase nella lingua degli Aquitani. Chiameremo questa lingua ricostruita con ottime basi conlang neoaquitana, affinché nessuno ci accusi di inventare dati.  

CISONHAR BON DA "questo uomo è buono" 
ENNE BIHOX GOGOR DA "il mio cuore è duro"
ARDANO BELEX EDANI DADUDA "ho bevuto vino rosso"*

*In basco il vino rosso è chiamato ardo beltz 'vino nero', mentre il rosato è detto ardo gorri 'vino rosso': è ben possibile che si un uso antico.

mercoledì 4 novembre 2015

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: DISPLICINA PER DISCIPLINA

Ci è attestata un'interessante forma metatetica displicina per disciplina (Consenzio, V secolo d.C.). Questa è la trafila dei mutamenti che si sono verificati: /diski'pli:na/ > /displi'ki:na/. Ovviamente la cosa sarebbe stata impossibile se il nesso /sk/ in disciplina avesse già avuto in epoca antica una pronuncia palatale /ʃ/, come i nostri avversari sostengono. L'origine della parola disciplina è chiaramente da discipulus, a sua volta dal vero discere "apprendere", che viene da un'antica forma reduplicativa (< *di-dek-sk-) imparentata con decet "conviene" e con doce:re "insegnare", tutti dalla radice indoeuropea *dek- "acquisire; rispettare". Nonostante l'assonanza, questa radice non è all'origine del greco διδάσκω "io istruisco", dal cui tramite sono giunte in italiano parole dotte come didattica, didattico: deriva da un'antica forma reduplicativa *di-dns-k-, a sua volta dalla radice indoeuropea *dens-, *dṇs- "apprendere; insegnare"

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: ASCILLA PER AXILLA, ITALIANO ASCELLA

L'italiano ascella deriva da una variante metatetica ascilla (attestato nelle etimologie di Isidoro da Siviglia) dell'originario axilla. Questa è la trafila dei mutamenti: /ak'silla/ > /a'skilla/ > /a'ʃilla/ > it. /a'ʃɛlla/. Se la forma latina originaria fosse sopravvissuta, l'italiano avrebbe invece *assella.

Il corrispondente germanico comune di questa parola è *axslo: "ascella", da cui norreno ǫxl "ascella", antico inglese eaxel "spalla", antico sassone ahsla "ascella", antico alto tedesco ahsla "ascella", tedesco moderno Achsel. Queste voci sono a riprova, se ce ne fosse bisogno, che la forma latina axilla è proprio quella originale. Dalla stessa radice indoeuropea deriva chiaramente anche il latino ala /'a:la/, che è da *axla /'aksla/, con regolare sviluppo fonetico.

La nullità degli argomenti dei nostri avversari traspare dalla loro totale ignoranza dell'origine delle parole latine e delle loro parentele in altre lingue. Detta ignoranza non consiste nel non conoscere le cose (il che sarebbe di per sé perdonabile), ma nel non voler conoscere. 

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: UNA FALSA ETIMOLOGIA DI GRACCHUS

Varrone fa derivare il cognomen Gracchus (da lui scritto Graccus) dal lemma tecnico gero, spiegato come "quod mater ejus duodecim mensibus utero eum gestaverit" (Lindsay, 1894). È del tutto evidente che all'autore non sarebbe nemmeno passata per l'anticamera del cervello l'idea di proporre una simile paretimologia se nella parola gero la consonante g- avesse avuto un suono palatale.

Ho trovato il brano a cui Lindsay fa riferimento in una raccolta di frammenti di grammatici romani. Lo riporto senza indugio: 

"Graccus et ortus sine aspiratione dici debere Varro ait; et ortum quidem, quod in eo omnia oriantur, Graccum autem a gerendo, quod mater eius duodecim mensibus utero eum gestaverit, vel a gracilitate."

Fornisco anche il link al file pdf in cui è contenuto il frammento: siccome la modalità di ricerca è disabilitata, aggiungerò che per trovarlo bisogna andare alle pagine 299 e 300. 


L'etimologia vera del cognomen Gracchus è probabilmente da una voce antica che indicava un tipo di corvo, da confrontarsi con gra:culus, gracculus "taccola", che ne sarebbe un diminutivo. Ancora oggi si usa comunemente gracula "merlo indiano", ma è soltanto un termine dotto, che in latino significava "taccola femmina" e che non è passato attraverso la genuina usura popolare. La corrispondente forma volgare è invece gracchio, che indica un altro tipo di uccello montano simile al corvo, con becco rosso e piumaggio nero dai riflessi metallici. Il verbo derivato *gra:cula:re, *graccula:re, ha dato *gra:cla:re, *graccla:re e quindi si è evoluto regolarmente l'italiano gracchiare, con il tipico sviluppo del nesso -cl-. L'antenato di queste voci sarà l'etrusco, come proposto dal Pittau, che riporta come possibile attestazione di tale radice il gentilizio Craca, (DETR 116). Una variante aspirata *craχa deve essere pure esistita. La natura ultima della radice è onomatopeica, così come accade con numerose forme indoeuropee per indicare uccelli della famiglia dei corvidi. 

Per quanto riguarda la parola gero, la proposta più ovvia è quella di derivarlo dal verbo gerere "portare con sé; produrre", come suggerisce anche la ripetuta occorrenza dello stesso verbo nella spiegazione fornita da Varrone: a gerendo, gestaverit. In questo genere di cose la soluzione più ovvia non è tuttavia sempre quella giusta. Non mi è chiaro per quali ragioni Varrone si sia ricostruito una forma alquanto cervellotica *Geraccus per spiegare Gracc(h)us, in ogni caso ci è stato di grande utilità nel testimoniare la pronuncia della sua epoca e nel formare un nodo che i sostenitori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno non possono in alcun modo sciogliere. 

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: OCCORRENZE DI AE PER AU

In alcune iscrizioni romane si trova il dittongo ae per au: così abbiamo maeso(leum) per mausoleum; Paelinus per Paulinus (Lindsay, 1894). Non è affatto plausibile che simili grafie si debbano a errori dei lapicidi, data la grande diversità delle lettere V e E, così bisognerà ammettere che esse abbiano il loro fondamento in una qualche pronuncia volgare in cui il dittongo /au/ era giunto a suonare /ae/, con ogni probabilità passando attraverso una pronuncia intermedia /ao/, il cui secondo elemento si è indebolito. Se il dittongo /ae/ originario fosse già stato pronunciato come un monottongo /e:/, il digramma ae non sarebbe stato ritenuto idoneo ad esprimere il prodotto dell'evoluzione del dittongo /au/ nella particolare parlata degli artefici delle iscrizioni.

sabato 31 ottobre 2015

UNA FALSA INTERPRETAZIONE DELLA SHIBBOLETH DEI VESPRI SICILIANI: IL POTERE DELL'ANACRONISMO

Riflettendo sui ceci e navigando nel Web mi sono imbattuto in un interessante documento, di cui riporto in particolare un brano:


"Secondo quella che è ritenuta una leggenda, durante i Vespri siciliani gli abitanti dell'isola avrebbero ucciso i francesi che, interpellati, non erano in grado di pronunciare correttamente la  parola siciliana ciciri, 'ceci' (il fonema  [tʃ]  manca  in  francese,  dove  viene  adattata con [ʃ]; il fonema /r/ in francese è pronunciato in modo diverso dall'italiano)."

Il punto è che all'epoca dei Vespri Siciliani (1282) la lingua francese non era quella parlata al giorno d'oggi. Si trovava nella sua fase antica, denominata lingua d'oïl: non soltanto aveva il fonema /tʃ/, ma la rotica era trillata esattamente come in italiano. Così la parola chevaus, chevax "cavallo" si pronunciava /tʃe'vaos/ (-x era un monogramma usato per scrivere -us, -os). Il rotacismo francese, più noto come "erre moscia", è un costume molto più tardo: comparve dapprima tra i nobili come segno di distinzione, e si propagò all'intera popolazione soltanto nel tardo XVIII secolo. Nella sua opera Il borghese gentiluono, Molière (XVII secolo) descrive il suono della rotica come alveolare trillato (vibratile), non come una uvulare. Il Maestro di filosofia, volendo insegnare l'ortografia al borghese Jourdain, descrive in modo sorprendentemente preciso come formare i suoni corrispondenti alle singole lettere. Prima inizia dalle cinque vocali, poi continua con le consonanti. Quando arriva alla R, si esprime con queste parole: 

"Et l'R, en portant le bout de la langue jusqu'au haut du palais; de sorte qu'étant frôlée par l'air qui sort avec force, elle lui cède, et revient toujours au même endroit, faisant une manière de tremblement, RRA". 

"E la R, portando la punta della lingua fino al palato, in modo che la lingua, spinta dall'aria che esce con forza, ceda e ritorni sempre allo stesso punto, producendo una specie di tremolia: R, RA."

Tale suono, che un odierno parigino non saprebbe pronunciare, è ancora la norma tra i francofoni del Québec, rimasti a lungo isolati dalla Francia.

Le genti gnosimache queste cose non soltanto non le sanno, ma non le vogliono sapere: a moltissimi è naturale credere che il francese abbia sempre avuto la "erre moscia", ab aeterno, così proiettano l'attuale pronuncia fino ai tempi della Torre di Babele, senza nemmeno sapere che il francese all'epoca di Giulio Cesare era semplicemente... latino volgare.

Possiamo così concludere questo trattatello affermando che di certo i rivoltosi siciliani del XIII secolo giugulavano senza pietà chiunque anziché dire "cìciri" dicesse "cicirì", "cicìri"... o "cicìrri".

GALLETTI REALI E FANTOMATICI CECI

La pietra dello scandalo questa volta è un brano delle Satire di Orazio, in cui è descritto il personaggio di Cicirrus, un antenato di Pulcinella. A dare il nome alla macchietta è la parola cicirrus, che significa "galletto" e che doveva essere in uso nel paese degli Osci. Questo vocabolo corrisponde alla perfezione alla glossa greca κίκιρρος, riportata da Esichio e tradotta con ἀλεκτρυών, ossia "galletto da combattimento". Non ci vuole l'intelligenza di un Einstein per dedurre che questo lemma cicirrus, κίκιρρος è in ultima analisi di origine onomatopeica, e corrisponde grossomodo al nostro chicchirichì. Non si ha motivo di pensare che l'onomatopea sia un vizio esclusivamente moderno solo perché nelle scuole si insegna una lingua latina non colloquiale.


Perché Orazio ha dato questo nome a un suo personaggio guittesco? Secondo alcuni perché era litigioso come un galletto. Così è infatti descritto: 

Nunc mihi paucis
Sarmenti scurrae pugnam Messique Cicirri,
Musa, velim memores et quo patre natus uterque
contulerit litis.

"Ora Musa vorrei
che tu ci ricordassi in poche parole la guerra del buffone Sarmento
e di Messo Cicirro e da quale padre nati l'uno e l'altro
vennero alla zuffa.

Quale che possa essere il motivo di un simile antroponimo, la sua identità con la glossa di Esichio è il punto di partenza di ogni ulteriore speculazione. 

Eppure un nostro avversario, un archeologo, pur di screditare le conoscenze scientifiche e far prosperare la pseudoscienza, si ostina a negare una realtà dei fatti tanto evidente (e se vogliamo persin banale), sostendo assurdamente che il termine cicirrus significherebbe invece "cece", e che Messo Cicirro avrebbe tratto il suo nome da un grosso neo piriforme che aveva in faccia: sarebbe quindi stato, incredibile dictu, una sorta di Bruno Vespa dell'epoca. Questo è quanto ha da dire sull'argomento:

«Il tutto appare completamente logico, se non fosse che i cicirri sono i ceci, termine italico e non greco, tuttora chiamati così nel sud (http://ilquotidianodellabasilicata.ilsole24ore.com/it/ e Vespertine Vignettes a review of Sicilian Vespers by Cedric Hampson in PDF) e non i galli e che Esichio, che scrive in greco, non sapendolo ha preso una cantonata. Quasi solo su questo è stata costruita l'ipotesi della restituta.
Il brano di Orazio (satira 1,5) è questo:
"L’illustre stirpe di Messio sono gli Osci; vive ancora la Signora di Sarmento: i nati da questi due antenati vennero allo scontro. Per primo Sarmento: “Dico che sei simile ad un cavallo selvaggio.” Ridiamo e lo stesso Messio: “Va bene” e muove la testa: “o se la tua fronte non avesse il corno tagliato”, disse, “cosa faresti quando minacci così con le corna tagliate ?” Una ignobile cicatrice gli deturpava la fronte pelosa dalla parte sinistra della faccia. Dopo aver lanciato molti motti in faccia e sulla malattia campana chiedeva se ballasse la danza del pastore Ciclope: diceva che non aveva bisogno della maschera e dei tragici coturni. Cicirro all’indirizzo di questi motteggi diceva molte cose: chiedeva se aveva già donato al Lari la catena per grazia ricevuta; per il fatto che era scrivano, per nulla minore era su di lui il diritto della sua padrona; chiedeva infine perché qualche volta era fuggito lui, al quale sarebbe bastata una libbra di farro dato che era così piccolo e gracile. Insomma la cena si prolungava piacevolmente."»

A sentir lui, Cicirro avrebbe la stessa origine di Cicerone. La spiegazione sarebbe la cosiddetta malattia campana, che "faceva verrucosi e come cornuti nel volto" e che Orazio cita esplicitamente. Questo però non è una prova a favore della teoria del cece. Infatti a leggerne le descrizioni, questa malattia non consisteva in un semplice neo o in una singola verruca, ma in qualcosa di ben più deturpante. Vengono in mente i condilomi giganti acuminati, che in alcuni casi possono portare alla formazione di strutture simili a corna e che sono chiamati popolarmente "creste di gallo". Così, ammettendo la malattia campana come origine dell'antroponimo, Messo Cicirro sarebbe letteralmente Messo il Galletto, a motivo delle sue creste di gallo.

Questo però non basta. Veniamo infatti ad apprendere che secondo l'archeologo - che sarà anche un buon archeologo ma che quando pretende di occuparsi di linguistica proferisce soltanto assurdità - nei dialetti dell'Italia Meridionale, la parola "cicìrri", con l'accento sulla seconda sillaba, significherebbe "ceci".

Vediamo invece come stanno le cose. Prendiamo un sito nel Web, e riportiamo senza modifiche i dati che riporta, limitandoci ad aggiungere un paio di note: 

Dialetto

Voce

Basilicata

cic’r

Calabria

ciciaru

Campania

cìcero

Liguria

çeìxo (sing.), çeìxi (pl.)*

Piemonte

cisi

Puglia

cìcere

Sardegna

cixiri (pronuncia: cijiri), basolu pittudu o tundu

Sicilia

cìciru



*In realtà è çeixo /'seiʒu/, pl. çeixi /'seiʒi/: l'autore della lista ha collocato male l'accento, che cade sulla e. Così fainâ de çeixi "farinata di ceci".

E ancora:

ceci

aiolu pizzutu

Sardegna

siniscola

ceci

cic’r

Puglia

Bari

ceci

ciceri

Calabria

locride

ceci

ciceri

Puglia

Soleto (Lecce)

ceci

ciciari

Calabria

Reggio Calabria

ceci

ciciri

Calabria

Casabona

ceci

ciciri

Calabria

Delianova
(Reggio Calabria)

ceci

cìciri

Puglia

nardò

ceci

ciciri

Puglia

Salento Sud

Ceci abrustoliti

càlia

Calabria

Reggio Calabria

cecio

cic’

Lazio

Pastena (FR)

cecio

ciciru

Puglia

Salento Sud

cecio o ceci

ciciru o ciciri

Sicilia

Avola SR



**Il lemma càlia è l'unico nella lista a non continuare la parola latina per "cece": è infatti dal verbo caliari "seccare al sole", di chiara origine araba (< qala "arrostire"). 

Anche se non sempre riportato nelle liste di vocaboli di cui sopra, l'accento è sistematicamente sulla prima sillaba: si dice cìciri, non *cicìrri. Anche se qualcuno scrive impropriamente cicirri, come nel documento pdf in inglese allegato dal sostenitore delle pronuncia ecclesiastica, questo è soltanto un espediente grafico per trascrivere il siciliano cìciri /'tʃitʃiri/ o il lucano cic'r /'tʃitʃərə/. Il motivo è anche piuttosto chiaro a chi abbia una minima nozione di lingua latina scolastica e di filologia romanza: in latino è cicer, genitivo ciceris, con -e- breve, e quindi con accento sulla prima sillaba. Non esiste la benché minima giustificazione per una forma con accento sulla seconda sillaba.

Tutto è molto semplice: dire che nei dialetti meridionali la parola *cicìrri significa "ceci", anziché il corretto cìciri, è una falsificazione. Bisognerà poi capire se siamo di fronte a una falsificazione inconsapevole o consapevole.

Vediamo di riassumere il procedimento del nostro avversario, che si ostina a definire "non scientifica" la conoscenza contenuta nelle opere dell'intero mondo accademico sulla lingua latina. Vediamo invece quanto sia "scientifico" il suo modo di ragionare.

1) Egli prende una parola dagli odierni dialetti dell'Italia Meridionale;
2) Ne altera l'accento e la pronuncia, foggiando un falso per poterlo usare per i propri scopi;
3) Proietta questa parola all'indietro nei secoli:
4) Prende una parola attestata in Orazio e la identifica con la parola da lui fabbricata e illecitamente proiettata nel passato romano. 

Non c'è che dire: Galileo si starà rigirando nella tomba come una trottola.