venerdì 4 marzo 2016

IL VIAGGIO TRANSOCEANICO DELL'INCA TOPA YUPANQUI: UN'UTOPIA ONIROSTORICA

Una storia mirabolante che ha per protagonista l'Inca Tupac Yupanqui (1430 - circa 1475) ci è stata tramandata nelle cronache incaiche da Pedro Sarmiento de Gamboa, Martín de Murúa e Miguel Cabello de Balboa. In sintesi, si racconta che il sovrano abbia intrapreso la via del mare su grandi zattere con ben 20.000 uomini, facendo ritorno dopo nove mesi e portando con sé un bottino alquanto strano: uomini dalla pelle nera, una sedia di ottone e la mandibola di un grande quadrupede, che gli Spagnoli hanno in seguito identificato con un cavallo.

Questo è il testo originale in lingua spagnola di Pedro Sarmiento de Gamboa:

“Andando Topa Inga Yupanqui conquistando la costa de Manta y la isla de la Puná y Túmbez, aportaron allí unos mercaderes que habían venido por la mar de hacia el poniente en balsas, navegando a la vela. De los cuales se informó de la tierra de donde venían, que eran unas islas, llamadas una Auachumbi y otra Niñachumbi, adonde había mucha gente y oro. Y como Topa Inga era de ánimos y pensamientos altos y no se contentaba con lo que en tierra había conquistado, determinó tentar la feliz ventura que le ayudaba por la mar… y… se determinó ir allá. Y para esto hizo una numerosísima cantidad de balsas, en que embarcó más de veinte mil soldados escogidos”. Y concluye la crónica: “Navegó Topa Inga y fue y descubrió las islas Auachumbi y Niñachumbi, y volvió de allá, de donde trajo gente negra y mucho oro y una silla de latón y un pellejo y quijadas de caballo…”.

El hecho es tan inusitado que Sarmiento se ve obligado a explicar: “Hago instancia en esto, porque a los que supieren algo de Indias les parecerá una caso extraño y dificultoso de creer”. 

Questa invece è la versione di Miguel Cabello de Balboa: 

“De este viaje, [Topa Inga Yupangui] se alejó de tierra más [de lo] que se puede fácilmente creer, mas cierto afirman los que sus cosas de este valeroso Inga cuentan, que de este camino se detuvo por la mar duración y espacio de un año y dicen más que descubrió ciertas islas a quien llamaron Hagua Chumbi y Nina Chumbi. Qué islas estas sean   en   el   Mar   del   Sur   (en   cuya   costa   el   Inga   se   embarcó),   no   lo   osaré determinadamente afirmar, ni qué tierra sea la que pueda presumirse ser hallada en esta navegación”.

Come interpretare queste portentose narrazioni? Ogni tentativo che si possa concepire per collocarle in un contesto reale appare votato al fallimento.

La cosa più logica che possiamo pensare è che l'Inca abbia raggiunto le isole conosciute ai nostri giorni come Galápagos o Encantadas. La descrizione geografica è a prima vista compatibile: l'isola di Niñachumbi (Nina Chumbi), alla lettera "Cintura di Fuoco", può ben essere La Isabela, che ha forma allungata e su cui si trovano ben cinque vulcani. Non va però nascosto che l'isola di Auachumbi (Hagua Chumbi), alla lettera "Cintura Esterna", non trova a parer mio alcuna reale corrispondenza nelle caratteristiche morfologiche dell'arcipelago. Occorre precisare che le isole Galápagos erano disabitate prima della loro scoperta casuale ad opera di Tomás de Berlanga nel 1535. Thor Heyerdahl, che godette negli anni '70 dello scorso secolo di una grande fama per via dei suoi viaggi transoceanici compiuti con la zattera Kon-Tiki e delle sue singolari teorie, riteneva che l'isola fosse già visitata e abitata regolarmente prima dell'arrivo degli Spagnoli. A riprova di questo indicò una certa quantità di vasellame peruviano. Tuttavia non è stato possibile datare i frammenti con sicurezza, e potrebbe anche darsi che il vasellame sia stato portato nell'arcipelago da navigatori spagnoli che se ne servivano per i loro quotidiani usi potori. Thor Heyerdahl non sarebbe mai stato in grado di fornire prove irrefutabili di stanziamenti preispanici. Esiste poi un altro dettaglio non trascurabile. Lo scopritore delle Galápagos ci testimonia che gli animali delle isole erano mansueti e non temevano l'uomo - cosa che non sarebbe stata possibile se la presenza umana fosse stata sufficientemente antica. Inoltre non si può per nessuna ragione trovare in tale arcipelago alcun manufatto di ottone, e neppure animali simili a cavalli. Una pelle di mammifero marino avrebbe potuto anche essere scambiata per il resto di un cavallo dai narratori spagnoli, ma per i restanti trofei non ci sono spiegazioni possibili. Quindi la destinazione di Tupac Yupanqui deve essere stata un'altra, oppure egli ha compiuto davvero il viaggio arrivando alle Galápagos, ma tutto il resto (le genti dalla pelle nera, la sedia d'ottone, etc.) è mera invenzione.

Numerose sono state le ipotesi fatte nel tentativo di razionalizzare la storia dei viaggi di Tupac Yupanqui. Si è pensato all'Isola di Pasqua, anch'essa al centro delle fantasie di Thor Heyerdahl. I nativi non sono più scuri di pelle degli antichi peruviani, semmai più chiari, inoltre non conoscevano la metallurgia né gli animali da traino. Tutti i loro manufatti erano ricavati dal legno, dalle conchiglie, dai gusci di tartarughe marine, dalla pietra. Siamo daccapo: incongruenze simili a quelle già viste nel caso delle Galápagos emergono e vanificano l'identificazione. Sul problema dei contatti precolombiani tra le genti di Rapa Nui e quelle dell'America Meridionale si è scritto molto. Sembra che nel corredo genetico di alcuni Pascuensi si sia trovata una certa percentuale di materiale attribuibile a contatti con Amerindiani (circa l'8%), ma i connubi potrebbero benissimo essere avvenuti in un'epoca successiva ai primi contatti con gli Europei - anche considerando la storia di deportazione e schiavitù degli isolani, che potrebbe aver portato a connubi con meticci sul continente. Alcuni pensano che siano stati i Polinesiani a raggiungere l'America, portando con sé alcune donne della terraferma. In ogni caso, non sembra che il viaggio di Tupac Yupanqui ci azzecchi molto. Suggerisco la lettura di questo interessante articolo: 


Mangareva apparirebbe a prima vista promettente, visto che tra i suoi sovrani annovera un certo Tupa, per giunta ricordato come uno straniero arrivato su zattera. Nonostante l'assonanza affascinante, non siamo affatto sicuri che si tratti del sovrano incaico. Un'assonanza di questo genere è molto facile a prodursi in una lingua polinesiana, la cui fonotattica ammette soltanto sillabe aperte. Come risaputo, gli stessi spagnoli hanno adattato il nome originale dell'Inca, Tupaq, trascrivendolo come Topa. È anche possibile che un polinesiano avrebbe trascurato la consonante postvelare finale -q, di suono molto aspro, ma questo non è affatto detto. Concreta è la possibilità che un indigeno di Mangareva avrebbe piuttosto adattato Tupaq come *Tupaka.  

In un blog, Articulos Cortos sobre el Peru antiguo, si parla di Tahiti e si identificano le isole descritte dai cronisti spagnoli con Huahine Nui e Huahine Iti, che l'autore interpreta dolosamente come "Cintura Grande" e "Cintura Piccola". Questo blogger non ha alcuna familiarità con le lingue austronesiane, o più in generale con qualsiasi lingua non sia quella ispanica. Il vocabolo tahitiano huahine non è affatto privo di traduzione, come egli sostiene. Significa pudendum muliebre, ossia vulva. In altre parole, è quel buco che le genti di questo paese idolatrano e a cui danno il nome di fica. Non dunque "Cintura Grande" e "Cintura Piccola", ma "Grande Fica" e "Piccola Fica". I toponimi non corrispondono affatto a quelli riportati da Sarmiento de Gamboa e dagli altri cronisti: il riferimento a un ipotetico termine per "cintura" è una pia illusione, al suo posto c'è la fica, non si fa menzione né del fuoco né dell'esterno. Per il resto, l'autore del blog riporta numerose inconsistenze. Ad esempio afferma il seguente sproposito: 

"Auachumbi y Niñachumbi son nombres que muy probablemente se fueron transformando al quechua, aunque “aua” y “niña” no tengan ningún significado reconocible (o sí, no lo sé)."  

I due toponimi sono certamente Quechua, anche se la trascrizione lascia a desiderare. I vocaboli hawa "fuori" (Ayakuchu hawa, Qhochapampa jawa /'xawa/, Qosqo hawa, Qasamarka sawa, Tucumán aa, etc.) e nina "fuoco" (comune a tutte le varietà) appartengono al lessico di base della lingua incaica. Ovviamente una persona può ignorare queste parole e nessuno può fargliene una colpa. È invece colpevole avere la possibilità di fare ricerche per appurare la verità su un argomento e non farlo, per poi asserire il falso a bella posta e diffondere disinformazione. Questo sembra proprio essere il caso.  

Se anche la spedizione incaica si fosse spinta fino in Melanesia, dove avrebbe scoperto genti dalla pelle nera, non avrebbe potuto trovarvi manufatti in leghe metalliche e neppure bestiame.

A questo punto, se volessimo salvare la storicità del racconto, resterebbero altre due possibilità: le Filippine e il Giappone. Entrambe le destinazioni sono a mio avviso troppo remote per essere prese in considerazione. Nelle Filippine sono tuttora stanziate popolazioni antichissime che gli Spagnoli chiamarono Negritos, stupiti dalla somigianza con i neri d'Africa, a parte la bassa statura. Si tratta degli Aeta e degli Ati, i discendenti di uno dei più antichi popolamenenti umani, di cui restano come testimonianza le popolazioni native della Papua Nuova Guinea, della Melanesia e delle Andamane. In Giappone simili pigmoidi dalla pelle scura dovevano essere presenti in epoca preistorica. Le difficoltà poste dall'ipotesi di un viaggio fino nelle Filippine o in Giappone sono insormontabili. Si capisce come l'arrivo di zattere dall'Oceano sarebbe stato un evento eccezionale anche in un paese come il Giappone, che aveva una civiltà molto progredita e la capacità di registrare gli eventi tramite la scrittura: sicuramente se ne troverebbe menzione nelle cronache locali. Allo stesso modo le Filippine non erano così isolate e tagliate fuori da influenze esterne come si potrebbe credere. È riportato che l'Islam cominciò a diffondersi nelle isole di Sulu e di Mindanao a partire dal XIII secolo, arrivando nei dintorni di Manila nella seconda metà del XVI secolo. La stessa venuta di esploratori europei si colloca in un tempo non troppo lontano da quello del fantomatico viaggio di Tupac Yupanqui, che avrebbe lasciato qualche traccia nella memoria degli isolani. Nel 1521 il navigatore portoghese Magellano a capo di una spedizione spagnola sbarcava nell'arcipelago, finendo ucciso in una rivolta dei nativi; nel 1565 veniva stabilita la prima colonia spagnola.

Analizzando bene tutta questa considerevole mole di informazioni, pensiamo alle difficoltà incredibili che l'impresa avrebbe comportato. Cosa avrebbero fatto l'Inca e il suo seguito in Polinesia? Anche se fossero giunti davvero fino a Rapa Nui, a Mangareva, a Tahiti o nelle Filippine, come avrebbero potuto ritrovare facilmente la rotta per fare ritorno a casa? Avrebbero condotto con sé genti negroidi, ma non gli ottimi navigatori polinesiani? Non avrebbero abbandonato le zattere utilizzando le migliori imbarcazioni della Polinesia? Le cronache ci parlano infatti di un viaggio transoceanico con ritorno. Eppure le possibilità di perdersi e di finire col morire di inedia nel bel mezzo dell'Oceano sarebbero state soverchianti. Per queste fondate ragioni sono incline a pensare che l'impresa marittima dell'Inca non sia un genuino fatto storico e che riguardi piuttosto il concetto di onirostoria.

domenica 28 febbraio 2016


IL MIRACOLO DELLA VITA
Terzo capitolo della Trilogia Fecale

Autore: Vinicio Motta
Anno: 2016
Genere: Scat Science Fiction (Fantascienza
      scatologica)
Pubblicazione: VERDE
    (mensile elettrocartaceo, autoprodotto e
    gratuito di protolettere, interpunzioni
    grafiche e belle speranze, fondato a Roma
    nell’aprile 2012 da Pierluca D’Antuono)

Link: https://verderivista.wordpress.com/
2016/02/08/il-miracolo-della-vita/

Illustrazione: Silvia Priska Benedetti (Dodici)

La Trilogia Fecale del grande Vinicio Motta giunge al suo compimento con questa gemma della letteratura scatologica, fulgido genere rivoluzionario che sta assumendo sempre più consistenza e che spero possa presto rivaleggiare con la fantascienza classica. Dopo il viaggio mistico in un condotto fognario, descritto nel precedente racconto Dallo scarico all'alba, il protagonista si ritrova su un pianeta desertico, dotato di un nuovo corpo il cui motore è un cuore fatto di escrementi umani. Anticiperò soltanto un breve accenno al tema centrale del racconto: la demiurgia che plasma umanoidi dal corpo composto interamente da sterco. A questo punto riporto l'incipit:

Sono un uomocacca, sono nato trentanove giorni fa su questo pianeta di sabbia e sono fatto perlopiù di carne: nel mio petto batte un cuore di merda arido e rovente come il deserto sotto i miei piedi. Ho fatto il giro del mondo centouno volte, ma di altri miei simili, finora, ahimè, neanche l’ombra. Il privilegio di battezzare il pianeta, quindi, immagino spetti a me. Lettiera?
Mmmh… suona bene. Sì, mi piace!
È deciso, allora: questo mondo, la mia casa, d’ora in avanti si chiamerà così:
Lettiera

Con una pisciata, spiano una duna. Osservo il risultato del getto poderoso del mio pene e mi sento un dio.
Interessante: il rilievo appena eliminato nascondeva qualcosa… Dalla sabbia impregnata di urina, spunta il vertice marrone di un oggetto a prima vista squadrato, che subito recupero con entrambe le mani.
Un cubo marrone.
Inutile. Ma tutto sommato affascinante.
Decido di tenerlo: mi terrà compagnia nel prossimo giro del mondo.

La miglior descrizione della vera natura dell'esistenza biologica a cui siamo condannati è contenuta nelle righe di questo capolavoro. Ogni nascita è una vera e propria immersione. Non ci sono speranze. Come recita un detto che spesso si incontra nel Web, l'anagramma di dream è merdaCi sono ottime possibilità che la meritoria opera continui con un prequel di Mercuriale sulfureo-scatologico, come si accenna sulla rivista VERDE. Mi spingo più in là ancora. Mi  auspico che verrà alla luce un romanzo di Scat Science Fiction e che vincerà il Premio Urania! Ovviamente sono sempre benvenuti feedback dell'autore, persona geniale di cui ho la massima stima e che colgo l'occasione per salutare.

venerdì 26 febbraio 2016

UNA SEMPLICE SPIEGAZIONE DEL PARADOSSO DI FERMI

Il paradosso di Fermi costituisce un problema che toglie il sonno a non poche persone, al punto che pur di risolverlo sono proposte a getto continuo nuove teorie che vanno al di là delle peggiori elucubrazioni complottiste. Mi sono persino imbattuto in questa spiegazione: l'Universo in cui viviamo sarebbe una simulazione computerizzata tipo Matrix, in cui siamo tenuti imprigionati da una specie aliena o da un'umanità futuribile. A causa della limitata potenza di calcolo delle sue macchine (riecco il solito risibile concetto kurzweiliano), solo la Terra sarebbe simulata in ogni dettaglio, mentre le regioni cosmiche ad essa vicine sarebbero simulate in modo semplificato, e le più lontane sarebbero soltanto sfondi senza spessore alcuno, in tutto simili ai villaggi Potëmkin. Non so quale teoria godrebbe di maggior plauso nell'Accademia di Lagado. L'Universo di Matrix o la farneticante idea cospirazionista della Terra Piatta?

In realtà le cose potrebbero essere ben più semplici di come le si immagina.

Le civiltà extraterrestri che non si autodistruggono prima di poter lasciare il proprio pianeta d'origine e iniziare a viaggiare nello spazio, utilizzano le comunicazioni tramite onde radio solo per un periodo molto limitato di tempo, prima di passare a forme di comunicazione più sofisticate e finora a noi non rilevabili. È ben possibile che in uno stesso tempo coesistano pochissime civiltà che usano onde radio, e talmente distanti tra loro da non essere rilevabili. I segnali radio infatti tendono a perdere coerenza a una certa distanza dalla sorgente che li emette, così con i mezzi a nostra disposizione potremmo rilevare soltanto civilltà che usano onde radio e che sono a noi sufficientemente vicine.

L'idea che una civiltà extraterrestre debba necessariamente inviare segnali nello spazio allo scopo di contattare altre forme di vita è dovuta a un ingenuo antropocentrismo. Soltanto il buonismo melenso che infesta l'Occidente dalla fine dell'ultima guerra mondiale ha potuto portare a una trovata tanto idiota come questa. Ha giocato molto quel ricettacolo di imbecillità che è il film di Spielberg, E.T., un film uterino, umorale e studiato per far secernere agli spettatori flussi di prolattina. Lo stesso Carl Sagan, già sconvolto dalle avances subite da un delfino maschio in una piscina, ne fu stregato. Detto questo, è tuttavia ben possibile che non ci siano in un raggio di molte migliaia di anni luce civiltà tanto idiote come quella americana. 

Abbiamo tuttavia ragione di essere molto pessimisti sulla possibilità che una civiltà extraterrestre possa arrivare a liberare il potere dell'atomo e a governarlo tanto bene da poter lasciare il proprio pianeta ed espandersi nello spazio esterno. In altre parole, tutte le civiltà tecnologiche sarebbero effimere e arriverebbero al collasso nel giro di pochi secoli a causa delle immense criticità provocate dal loro stesso sviluppo. Le stime dell'equazione di Drake, che valutano la durata media di una civiltà tecnologica nell'ordine di 10.000 anni, sono completamente assurde. Anche se non disponiamo di dati sperimentali, possiamo comunque fare qualche considerazione e giungere a conclusioni che non lasciano un grande spazio a futili speranze. Nell'epoca del Positivismo era diffusa la credenza secondo cui l'etica debba per necessità andare di pari passo col progresso tecnologico, tanto che si pensava che una civiltà progredita non potesse compiere atti mostruosi. Basta dare un'occhiata alla storia del XX secolo e agli eventi dei nostri giorni per rendersi conto di come una simile idea sia di una stupidità davvero incredibile. Di certo mi sentirei più a mio agio su un pianeta abitato da tribù paleolitiche simili ai Tasmaniani o agli Alakaluf che in un regime teocratico capace di costruire centrali termonucleari.  

Così come le leggi della fisica sono le stesse ovunque in questo universo, si può immaginare che la biologia, dovunque abbia la possibilità di allignare, si presenti con caratteristiche del tutto simili a quelle che ben conosciamo, essendo dovunque lo stesso il materiale su cui si fonda la replicazione di codici atti a contenere informazioni. In sostanza non esistono migliaia di alternative, ma una sola strada percorribile. Così possiamo immaginare che ovunque vi siano organismi pluricellulari, la riproduzione sia sessuata e fondata sull'accoppiamento. Ciò genera ovunque competizione e aggressività. Così il gene economo o un suo equivalente sarà pure presente ovunque, perché in ogni luogo la vita dovrà combattere contro mille avversità per garantirsi il sostentamento. Da questa istruzione nascono l'avidità, la bramosia, la smania di possedere risorse, la tenzenza all'espansione a detrimento di altri. Così si pongono le basi per la devastazione su scala planetaria. Qualsiasi forma di vita aliena sarà del tutto simile alle forme di vita terrestre: stesse pulsioni, stessi comportamenti. Di più, qualsiasi forma di vita aliena intelligente sarà ontologicamente affine al bipede implume e ovunque si comporterà nello stesso identico modo, esaurendo le risorse, riproducendosi a dismisura. Non appena si manifesta l'intelletto, là si manifestano schiavitù, guerra e distruzione su vasta scala. L'esito scontato di tutte le civiltà su tutti i mondi in cui sono comparse dall'alba dei tempi, sarà uno solo: l'annientamento.

In sintesi: 

1) Non tutti i pianeti terrestri sviluppano la vita
2) Non tutti i pianeti terrestri che sviluppano la vita arrivano a organismi pluricellulari
3) Non tutti i pianeti terrestri che sviluppano organismi pluricellulari arrivano a produrre vita animale
4) Non tutti i pianeti terrestri che sviluppano vita animale arrivano a produrre intelligenza
5) Non tutti i pianeti terrestri che producono intelligenza arrivano a produrre una civiltà tecnologica
6) La vita delle civiltà tecnologiche è incredibilmente breve.

Quanti pianeti terrestri sviluppano davvero la vita? Non è certo incoraggiante un recente studio di Erik Zackrisson di Uppsala pubblicato su The Astrophysical Journal, che basandosi su un modello è arrivato a una conclusione che ha dell'incredibile: su 700 milioni di trilioni di pianeti di tipo terrestre che si stimano presenti nell'Universo conosciuto, non ce ne sarebbe nessuno davvero simile alla Terra.

Questi sono i link a due articoli divulgativi sull'argomenti, che invito tutti a leggere: 



Questo è il link che permette la consultazione e lo scaricamento in formato .pdf del documento originale di Zackrisson, completo di formulazione matematica:


L'articolo si presta a non poche critiche. Innanzitutto quanto dedotto non viola in alcun modo il Principio Copernicano: se la Via Lattea è una galassia abbastanza anomala, dal punto di vista geografico continua a non esserci nulla di speciale nel nostro sistema solare all'interno di tale struttura cosmica. Certo, è una galassia relativamente tranquilla e priva di un nucleo attivo, di spaventosi flussi di raggi cosmici in grado di sterilizzare milioni di mondi, tuttavia è soltanto pulviscolo nel pulviscolo. Già qualche gonzo grida al miracolismo e cerca di riproporre la favola dell'Uomo metro e misura di tutte le cose, del Principio Antropico come fine ultimo dell'Esistenza. Non ci potrebbero essere sentenze più stolte. Se le conclusioni dello studio venissero confermate, salterebbe subito all'occhio la stridente irrilevanza della vita sulla Terra, la nullità sostanziale di questo fenomeno assolutamente microscopico, con ogni probabilità accidentale, che non può in nessun modo essere ritenuto lo scopo di un Universo sterile e di una vastità atroce. Max Tegmark del Massachusets sostiene che la supposta violazione del Principio Copernicano sarebbe dovuta più che altro alla giovane età della Terra. A suo dire, il nostro pianeta sarebbe tra i primi mondi abitabili nell'Universo. La sua teoria mi lascia perplesso. Se i sistemi plantetari più antichi si sono formati in un'epoca in cui gli unici elementi abbondanti erano l'idrogeno e l'elio, col passare del tempo si è giunti a mondi ricchi di elementi più pesanti, tra cui quelli indispensabili alla vita. Immagino che col passar dei miliardi di anni, questa abbondanza di elementi pesanti crescerà ancora, finché avremo pianeti molto diversi da quelli che si sono formati finora. Come sarebbero pianeti sovrabbondanti di elementi pesanti, ricchissimi di metalli e poveri di materiali leggeri? Siamo proprio sicuri che potrebbero essere una valida culla per la biologia? Se noi abbiamo ragione di credere che si stia esaurendo l'età dell'oro della produzione di mondi atti a ospitare la vita, vediamo la sua conseguenza più ovvia: siamo tra le ultime civiltà a perdurare in un cosmo sempre più simile a un immenso cimitero, a un luogo benedetto dove finalmente regnerà la Pace Eterna.

Esiste tuttavia un'altra possibilità. Il nostro sistema solare: una collezione di oggetti del tutto incongrua nell'Universo. Un po' come un orologio in un immenso deserto. La conclusione possibile è una sola: si tratta di un sistema planetario artificiale. Un'altra civiltà deve esistere, ma deve aver avuto origine in una qualche orrenda superterra e ha ottimi motivi per non comunicare con le proprie creature, non diverse da cavie in un laboratorio di vivisezione. In altre parole non è Matrix il film che meglio descrive la realtà delle cose, ma Prometheus.

sabato 20 febbraio 2016

L'ARGOMENTO DELL'ALTERNANZA TRA VOCALE SEMPLICE E DITTONGO: UNA CONFUTAZIONE

Mi sento in dovere di fare alcune considerazioni sui dittonghi in latino e su interessanti paralleli tra la pronuncia rustica che sostituisce una e chiusa al dittongo ae, di cui abbiamo già avuto occasione di parlare. Varianti ortografiche come ceterus, caeterus, coeterus son prese come prove dai soliti sostenitori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno: per loro esiste una sola spiegazione possibile, ossia l'inesistenza dei dittonghi ae ed oe.

I nostri avversari tuttavia non considerano minimamente alternanze del tutto analoghe a quelle di cui sopra, in cui una forma con dittongo au alterna con una forma con o, come ad esempio codex rispetto a caudex; plotus rispetto a plautus; Clodius rispetto a Claudius; foces rispetto a faucesplodere rispetto a plaudere, etc.

Perché dunque i sostenitori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno non usano un argomento simile a quello dell'alternanza tra ae, oe, e per affermare che au si pronunciasse o e che fosse un mero dittongo grafico? Essi usano due pesi e due misure: le varianti ceterus, caeterus, coeterus bastano a far dire loro che ae e oe non esistevano, e che solo e era reale, mentre plotus : plautus e Clodius : Claudius non fanno dir loro che au non esisteva e che la pronuncia era o. Essi si guardano bene dall'affermare una simile enormità, perché hanno per guida la pronuncia ecclesiastica, che riproduce au come dittongo indipendentemente da ogni sua alternanza con o, mentre realizza ae e oe come un monottongo e. Non salta loro all'occhio questa incoerenza interna dell'argomento dell'alternanza tra vocali semplici e dittonghi.

In alcuni di questi casi siamo di fronte a ipercorrettismo: non si ha cioè un dittongo au originale. Così ausculum per osculum /'o:skulum/ "bacio", un chiaro diminutivo di os /o:s/ "bocca". In realtà è ben possibile che forme anche come caeterus e coeterus fossero semplici ipercorrettismi: non è affatto detto che la loro pronuncia fosse la stessa in epoca classica, ma è ben possibile che corrispondessero a tre pronunce ben distinte come ben distinti erano au e o; quindi il valore probante di queste varianti è esattamente pari a zero.

La vocale o per au era rustica e di possibile origine umbra, e il suo suono era chiuso. Non aveva a che fare con gli sviluppi romanzi di au, che hanno invece generato una /ɔ/ aperta. L'occorrenza di questo suono, ritenuto volgare, poteva contagiare anche l'Urbe: sappiamo che vi erano Claudii che chiamavano se stessi Clodii per dimostrare simpatia verso la plebe.

venerdì 19 febbraio 2016

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LO SCAMBIO TRA H E F INIZIALI

Così in Grandgent, Introduzione allo studio del latino volgare, a proposito della consonante aspirata (pagg. 139-140): 

   249. H nel latino fu debole ed incerto in tutti i tempi, essendo senza dubbio poco più o non più che un soffio respiratorio: S., 255-256. I grammatici dicono che h non è una lettera ma un segno di aspirazione: S., 262-263. Nelle lingue romanze non vie è traccia dell'h latino. Cfr. G. Paris in Rom., XI, 399.
  250. Esso probabilmente scomparve prima in posizione mediana: S., 266. Quintiliano raccomanda la grafia deprendere: S., 266. Gellio dice che ahenum, vehemens, incohare sono arcaici; Terenziano Scauro chiama scorretti reprehensus e vehemens, e tanto lui quanto Velio Longo dichiarano che in prendo non vi è h: S., 266. Probo afferma che traho è pronunciato trao: Lindsay, 57. Cfr. App. Pr. «adhuc non aduc». Nelle iscrizioni troviamo forme come aduc, comprendit, cortis, mi, nil, vemens: S., 267-268.
  251. H iniziale fu senza dubbio fievolissimo e spesso muto durante la repubblica. Al tempo di Cicerone e nei primi tempi dell'impero s'ebbe un tentativo di rimetterlo in uso nella società colta, che condusse a frequenti abusi tra gli indotti, proprio come accade oggi nel volgo londinese: per le sedicenti eleganze chommoda, hinsidias, ecc., di «Arrio», vedi S., 264.
   Quintiliano dice che gli antichi usarono poco l'h e dà per esempio «ædos ircosque»: S., 263. Gellio cita P. Nigidio Figulo per provare che «rusticus fit sermo si aspires perperam»; ma parla delle passate generazioni - cioè contemporanee a Cicerone - come quelle che usavano moltissimo l'h, in parole come sepulchrum, honera: S., 263-264. Pompeo nota che h talvolta fa posizione, come in terga fatigamus hasta (Aen. IX, 610), talvolta no, come in quisquis honos tumuli (Aen., IX, 610): Keil, V, 117. I grammatici si trovarono costretti a discutere minutamente la grafia delle parole con o senza h: S., 264-265. 
   H manca in alcune iscrizioni verso la fine della repubblica: arrespex (per haruspex), ecc., S., 264. In Roma si sono trovati: E[REDES], C. I. L., I, 819. A Pompei l'h è liberamente omesso; e dopo il terzo secolo esso è dovunue, poco più poco meno, usato senza far differenza tra vocaboli: abeo, abitat, anc, eres, ic, oc, omo, ora, ecc, haram, hegit, hossa, ecc., S., 265-266. Cfr. ospitium, ymnus, ecc., heremum, hiens, hostium, ecc., Bechtel, 77-78; ortus, ecc., hodio, ecc., R., 462-463.
   252. Dopo che h ebbe cessato di suonare, venne fuori una pronuncia scolastica dell'h mediano come k, che è perdurata nella pronunzia italiana del latino e ha intaccato alcune parole in altre lingue: michi, nichil, Bechtel, 78; R., 455 Cfr. E. S. Sheldon, Harvard Studies and Notes in Philology and Literature, I (1982), 82-87.

Così in Grandgent, a proposito dell'alternanza tra la consonante f e l'aspirata (pag. 176): 

(I) I grammatici parlano di un'alternanza di h e ffædushædus, fasena > harena, fircum > hircum, habamfabam, ecc. S., 300. L'f e l'h appartennero senza dubbio, a differenti dialetti del latino arcaico; secondo Varrone, Ling. Lat. 5, § 97, l'f per h era sabino. Questo fenomeno non ha nulla a che fare col cambiamento di f iniziale in h nello spagnuolo e nel guascone. 

Così in Lindsay, The Latin Language, sempre sullo stesso argomento (pag. 294-295): 

121. Dialectal f for h. In Spanish, Latin f has become h, e.g. hablar, 'to speak' (Lat. fābulari, O. Lat. fabulare), and an interchange of h and f shows traces of itself in the dialects of Italy. We find the form fasena for hăsēna ascribed to the Sabine dialect by the grammarians (Vel. Long. 69. 8 K.), along with fircus (cf. the name of a citizen of Reate mentioned by Varro, Fircellius) and fedus.
Similar forms roughly classed by the grammarians as 'Old Latin' we may believe to have been dialectal, e. g. fordeum for hordeum, folus for hŏlus, fostis for hostis, fostia for hostia, &c., though some of them may be mere coinages to strengthen the argument for the spelling with h- (see Quint, i. 4. 14 ; Ter. Scaur. pp. II, 13 K.; Vel. Long. p. 81 K. ; Paul. Test. 59. 21 Th. &c.).
A Faliscan inscription has foied for hodie (Not. Scav. 1887, pp. 262, 307) : foied uino pipafo kra karefo
'hodie vinum bibam, eras carebo,' but a Sabine inscription has hiretum, apparently from the root ĝher- (?gher-) (Osc. heriiad, Gk. χαίρω, &c.), and Ter. Scaurus (13. 9 K.) quotes haba (Lat. faba, O. SI. bobu, I.-Eur. bh-) as Faliscan. (See von Planta, i. p. 442 ; Löwe, Prodr. p. 426 ; and on the interchange of f and h in Etruscan inscriptions, Pauli, Altitaliscke Forschungen, iii. p. 114). Lat. fel has been explained as a dialectal form for *hel (cf. Gk. χόλος) and fovea for *hovea (Gk. χειά) (cf. the gloss 'fuma' terra, C. G. L. v. 296. 50).

Conclusioni

Appurato che in non pochi casi h- iniziale aveva una variante dialettale f-, che fosse sabina o meno, occorre giungere per necessità ad un'epoca sufficientemente antica in cui h- suonava pienamente come fricativa. Non ha così senso l'idea dei nostri avversari, che ritengono h- nelle parole latine come un mero vezzo grafico privo di corrispondenza fonetica ab aeterno. Allo stesso modo l'etimologia di radici inizianti per h- e dotate di origine indoeuropea prova che tale consonante discendeva da un suono più complesso, un'occlusiva velare aspirata *gh-. Nelle parole che hanno invece origine etrusca, si nota che l'alternanza tra h- e f- è presente anche in quella lingua, in cui l'aspirazione si pronunciava ed era un fonema, non un semplice vezzo arbitrario. Proprio come in latino troviamo attestato Ferclis per Hercules, così in etrusco abbiamo il gentilizio Ferclite per Herclite, che corrisponde in pieno al greco Ἡρακλείδης

domenica 14 febbraio 2016

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: I PERFETTI RADDOPPIATI


Pubblico un estratto dall'ottima tesi di laurea di Matteo Calabrese (Università degli Studi della Calabria), Lingua e cultura degli Enotri alla luce dell’iscrizione paleoitalica di Tortora (pagg. 12-14), che tratta in modo sintetico ma efficace l'argomento dei perfetti raddoppiati nelle lingue italiche:  

Accertata la derivazione della forma comune osco-falisca fifik- e di quella enotria fεfικεδ da una forma base *fe-fēk, data l’arcaicità di tali forme, la spiegazione del differente vocalismo della sillaba reduplicativa tra fεfικεδ/hehik-, da un lato, e fifik-, dall’altro, non può prescindere dal problema della formazione della sillaba reduplicativa nel perfetto indoeuropeo, tanto più in considerazione dell’attestazione sincronica, nell’iscrizione di Tortora, di forme come fεfικεδ e fυf(υ)ϝοδ, che mostrano un tipo di raddoppiamento basato sulla generalizzazione della vocale /e/ (come in greco) e sull’adattamento alla vocale radicale (come in indo-iranico).4 

   4 Cfr. Di Giovine 1996, pp. 113 ss.; Lazzarini-Poccetti
   2001, pp. 77-78.

Per giustificare la presenza di tali forme nello stesso documento, Poccetti1 ipotizza l’adozione, in italico, di entrambe le modalità di raddoppiamento oppure la generalizzazione protostorica, come in greco, della vocale /e/, poi armonizzatasi con la sillaba radicale.2 

Poiché l’eventuale generalizzazione della vocale /e/ precederebbe la sua armonizzazione con la sillaba radicale, la verifica di tale ipotesi implica necessariamente l’analisi dei contesti di occorrenza della vocale stessa nelle forme di perfetto che riflettano la fase precedente sia all’armonizzazione sia, in casi particolari, alla possibile chiusura timbrica verificatasi in sillaba interna per l’accento intensivo iniziale.3 

Per quanto riguarda il latino, i seguenti esempi dimostrano che /e/ è la vocale originaria di raddoppiamento, preservata in quasi tutti i contesti, ma soggetta ad armonizzazione con la vocale radicale se questa è posteriore [u, o] oppure anteriore chiusa non arrotondata [i]:4

cado
    *ce-căd-i  >  ce-cid-i

cano 
    *ce-căn-i  >  ce-cin-i

curro 
    *ce-curr-i  >  cu-curr-i

disco < *didcsco 
    *de-dic-i  >  di-dic-i

fallo 
    *fe-fall-i  >  fe-fell-i

*me-men-i  >5  me-min-i


    1 Cfr. Lazzarini-Poccetti 2001, p. 78.
   2 Cfr. Di Giovine 1996, p. 116; Marinetti-Prosdocimi
      1994a, p. 296.
   3 Cfr. Vineis 1997, p. 336.
   4 Cfr. ivi, p. 336.
   5 Si tratta di una forma derivata da *me-men-ai
     (Gamkrelidze-Ivanov 1995, p. 261).
 

mordeo  
      me-mord-i  >1  mo-mord-i

pango 
     *pe-păg-i  >  pe-pig-i

parco 
     *pe-parc-i  >  pe-perc-i

pario 
     *pe-păr-i  >  pe-per-i

pello < *pelno2
    *pe-pel-i  >3  pe-pul-i

pendo 
     pe-pend-i

posco 
    *pe-posc-i  >  po-posc-i

pungo 
    *pe-pŭg-i  >  pu-pug-i

spondeo
    *spe-pond-i  >  spo-pond-i

tendo
     te-tend-i

tondeo 
     *te-tond-i  >  to-tond-i
tundo 
     *te-t
ŭdi  >  tu-tud-i

Sulla base dei seguenti esempi (perfetti e tempi derivati dal tema del perfetto), si può dedurre che anche in osco e in umbro la vocale originaria di raddoppiamento è /e/, parimenti conservata in quasi tutti i contesti, ma armonizzatasi con la vocale radicale se questa è anteriore chiusa non arrotondata [i], come emerge dalla forma osca fifikus, che, sebbene isolata, testimonia uno sviluppo osco-umbro parzialmente analogo a quello latino, ma certamente indipendente da esso:4 

o. deded / u. dede
o. fefacid
u. fefure
o. fifikus
u. peperscust
u. pepurkurent 

   1 A differenza degli altri perfetti contenuti in quest’elenco, tale forma non è asteriscata ed è sottolineata per evidenziare la sua attestazione accanto all’allotropo con vocale armonizzata (Lazzarini-Poccetti 2001, p. 77).
   2 Cfr. Pokorny 1959, p. 801; Marinetti-Prosdocimi 1993,
     pp. 258-259.
   3 Si tratta di una forma derivata da *pe-pel-ai (Vineis
     1997, p. 336).
   4 Cfr. Buck 1904, p. 170.
 

Ennesima confutazione delle tesi dei nostri avversari:

La vocale della sillaba del raddoppiamento era -e-, assimilata in -o- e in -u- se la vocale radicale nella protoforma era posteriore. La vocale della radice del perfetto era in origine la stessa di quella del presente indicativo: dove si è alterata è stato a causa dell'azione dell'accento che cadeva sulla sillaba del raddoppiamento. Vediamo così con la massima chiarezza che è semplicemente assurdo e insensato postulare suoni palatali (postalveolari) in questo contesto fin dai primordi della lingua.

Osservate la regolarità della formazione delle protoforme di questi perfetti:

/*kad-/   -   /*ke-kad-/
/*kan-/   -   /*ke-kan-/
/*kurs-/   -   /*ke-kurs-/
/*didk-sk-/   -   /*de-dek-/
/*fals-/   -   /*fe-fals-/
/*mord-/   -   /*me-mord-/
/*pang-/   -   /*pe-pag-/ 
/*park-/   -   /*pe-park-/
/*par-/   -   /*pe-par-/
/*pel-n-/   -   /*pe-pel-/
/*pend-/   -   /*pe-pend-/
/*porsk-/   -   /*pe-porsk-/
/*pung-/   -   /*pe-pug-/
/*spond-/   -   /*spe-(s)pond-/
/*tend-/   -   /*te-tend-/
/*tond-/   -   /*te-tond-/
/*tund-/   -   /*te-tud-/
 

Solo per fare un esempio, mi si dovrebbe ora spiegare che senso avrebbero fantomatiche protoforme le seguenti: 

/*kad-/   -   /**tʃe-tʃid-/
/*kan-/   -   /**tʃe-tʃin-/ 

Cosa dovrebbe far sì che fin dall'epoca più antica una /k/ alternasse con una /tʃ/? Perché mai due suoni tanti diversi avrebbero dovuto essere ritenuti allofoni dall'eternità? In base a quale principio si dovrebbe rinunciare a comprendere la formazione dei perfetti raddoppiati oscurandone la regolarità primordiale? In base a quale principio si dovrebbe scartare una soluzione logica e semplice per preferirle un'assenza di spiegazione? Perché l'ha detto il Papa? Perché l'ha detto l'Imperatore? Giammai! È evidente che i suoni palatali possono essersi evoluti soltanto a partire da precedenti suoni velari seguiti da vocali anteriori, e che la trasformazione deve essere avvenuta in epoca tarda

Soltanto persone che ignorano e vogliono ignorare ogni seppur minimo rudimento dell'origine della lingua latina possono insistere con pervicacia nelle loro inconsistenze.

sabato 13 febbraio 2016

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: MASCILLA PER MAXILLA

La parola latina maxilla ha numerosi parenti in altre lingue indoeuropee, che possono essere consultati agevolmente nel database The Tower of Babel di Sergei Starostin: 

Proto-IE: *smakr- (IndoIr. -k'-)
Meaning: beard, chin
Hittite: zamangur, zamakur n. 'Bart' (Friedrich 259),
     samankurwant- 'bärtig' (180)
Old Indian: śmáśru n. `beard, moustache'
Armenian: maurukh, mōrukh `Bart'
Baltic: *smakr-a-, -ia- c., -ā̂ f.
       Meaning: chin
       Lithuanian: smakr̀a-s `Kinn', dial. smakrà `id.'
       Lettish: smakrs, smakre, smakris, smakars
           `Kinn, Gaumen'
Germanic: *smáxr-ia- m.
       Meaning: lip
       Old English: smǟre, -es m. `lip'
Latin: māla f. `Kinnbacke, Kinnlade; Wange; Bart', dem.
      maxilla
`Kinnbacke; Kinn'
Celtic: Ir smech `Kinn'
Albanian: mjekrɛ Kinn, Bart 

Come già visto nel caso di axilla, diventato ascilla e quindi italiano ascella, anche in questo caso si è avuta una metatesi. La forma maxilla, che è un diminutivo di ma:la < *maksla, ha prodotto la variante mascilla semplicemente invertendo /k/ e /s/. Solo in epoca tarda ha subito palatalizzazione, sviluppandosi poi nell'esito italiano. Coloro che postulano i suoni palatali (postalveolari) della pronuncia ecclesiastica ab aeterno, sono assolutamente incapaci di spiegare l'accaduto. 

PROVE ESTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: L'ETIMOLOGIA DI ASCIA

La parola italiana ascia deriva direttamente dal latino ascia. Questo a sua volta deve venire da un precedente *axia, come mostrato dai parenti in altre lingue indoeuropee. Ecco i dati riportati nel benemerito database di Sergei Starostin, The Tower of Babel 

Proto-IE: *agʷes-i-
Meaning: axe
Old Greek: aksī́nǟ f. `Axt, Beil'
Germanic: *akwiz-jō f.; *akús-jō f.; *akwís=;
             *akús=
       Meaning: ax
       Gothic: akʷizi f. () `ax'
       Old Norse: öx f., ax f.
           Swedish: üxa
           Danish: öxe
       Old English: äx (äsc, acas), -e f., acase (axe),
                 -an
f. `axe'
           English: axe
       Old Saxon: akus
       Middle Dutch: aex f.
            Dutch: aaks, aks, aakst m.
       Old Franconian: acus
       Middle Low German: axe, ēxe, 5) ē̆xte; 3) akes
       Old High German: ackis, ackus (um 800)
             Middle High German: ackes, aks, ax, axt
                  st. f. 'axt'
             German: Axt f.
Latin: ascia f. `Axt der Zimmerleute, Steinmetze
      und beim Feldbau, Maurerkelle' 

Questa radice, ricostruita per l'Indoeuropeo occidentale, e priva di attestazioni nell'area tocaria e indoaria, è sospettata essere un lemma tratto da un sostrato preindoeuropeo in epoca molto antica, per via della presenza del fonema /a/ e di variazioni fonetiche inconsuete.

Orbene, visto che questo *axia è reale, come risulta dalle evidenze esterne, deve aver subìto metatesi per poter dare origine alla forma attestata ascia, la cui pronuncia doveva essere stata /'askja/. La palatalizzazione deve quindi essere avvenuta in epoca posteriore, in quanto la pronuncia palatale ab aeterno sostenuta dai nostri avversari non ha il minimo senso e non rende conto dell'etimologia della parola.

L'ARAUCANA: MASSACRO DEGLI DEI

Titolo originale: La Araucana: Conquista de gigantes
Anno: 1971
Paese di produzione: Spagna / Cile / Italia

Regia:
Julio Coll Claramunt
Lingua:
 spagnolo
Durata:
102'
Colore
: colore

Specifiche tecniche:
Techniscope Technicolor 
Genere:
avventura, storico
Sceneggiatura: Julio Coll Claramunt, Enrico Llovet,
      Enrique Campos Menéndez 
Tratto da: "La Araucana", poema epico di Alonso De Ercilla
      y Zú
ñiga
Fotografia: Antonio Maccoppi
Montaggio:
Julio Coll Claramunt
Musiche:
 Carlo Savina

Produzione: MGB Cinematografica (Roma);
      Paraguas Films (Madrid)
Distribuzione: Indipendenti Regionali
Attori: 
 
   Venantino Venantini: Pedro de Valdivia
 
   Elsa Martinelli: Inés Suárez
  
Victor Alcázar: Lautaro  
   José "Pepe" Martín: Monseñor Lobo
 
   Elisa Montéz: La Coya
 
   Eduardo Fajardo: Viceré Lagasca
 
   Erika Lopez: Guacolda
 
   Julio Peña: Quiroga
 
   Beni Deus: il Vescovo Marmolejo 
   Armando Fenoglio: il medico
   Juan Pérez Berrocal: Colo Colo
 
   Manuel Otero: capo Picunche 
  
 
 
   Elena Moreno: il machi (sciamano) 
 
   Ricardo Palacios: Balboa  


Trama (da Comingsoon.it):
Nel 1539, il capitano spagnolo Pedro de Valdivia, già distintosi nella conquista del Venezuela, compie, alla testa di uno sparuto gruppo di soldati, una spedizione nei territori del Cile, abitati dai fieri Araucani. Sottomessi gli indigeni, e ribattezzata la regione col nome di Nuova Estremadura, Pedro fonda la città di Santiago. Partito per domare una ribellione, gli Araucani, guidati dal capo di una tribù alleata, i Ficunches (sic), assaltano la città distruggendola. La fredda determinazione e la ferocia con cui Valdivia reprime la rivolta, suscitano la collera di un sacerdote, padre Juan che convoca il capitano a Lima, per farlo processare da tribunale della Santa Inquisizione. Chiamato a rispondere di ben 57 capi d'imputazione, Pedro viene assolto: il tribunale gli impone, però, di separarsi dalla donna, Ines Suarez, con la quale convive more uxorio. Intanto, gli Araucani e i Ficunches preparano un nuovo attacco contro gli spagnoli. A comandarli stavolta, è il giovane Laurato, un indiano già al servizio di Valdivia, che dagli spagnoli ha appreso a cavalcare e a sparare. In una dura battaglia in campo aperto, Pedro viene sconfitto e muore.

Precisazioni:
Con buona pace del recensore, il capo della rivolta si chiamava Lautaro (adattamento di Lef-Traru "Falco Veloce"), non Laurato. L'etnonimo corretto è Picunche ("Popolo del Nord"), non Ficunche. Nella lingua Mapudungun, che era l'idioma generale del Cile, il suono /p/ non alterna mai con /f/: si tratta di due fonemi distinti. C'è la concreta possibilità che l'autore di questa inconsistenza abbia voluto fare uno scherzo goliardico, basandosi su una volgare assonanza.  

Recensione: 
Il film ha senza dubbio l'immenso merito di avere come soggetto il fiero ed eroico popolo Mapuche. Seguendo un'usanza ormai abbandonata dagli etnologi, i Mapuche sono chiamati Araucani. Nel corso del film si cerca di dare una spiegazione dell'origine di questo nome facendolo risalire a una conifera nativa del Cile (nome scientifico Araucaria araucana), citando un proverbio in cui i nativi sono paragonati a tale albero e al condor. La realtà è molto più semplice: gli Araucani si sono sempre dati il nome Mapuche, derivante da mapu "terra" e da che "gente". Questa è la denominazione che si dovrebbe adottare universalmente. Si può comunque capire che la sceneggiatura in questo ricalchi l'opera di Ercilla e che il regista-sceneggiatore ignorasse la lingua Mapudungun. Le perplessità su alcuni dettagli della ricostruzione storica comunque non mancano. Siamo sicuri che tra i Mapuche gli amanti si baciassero sulla bocca come accade tra i popoli europei? A me risulta che tra le genti native d'America tale costume fosse sconosciuto o ritenuto ripugnante. Non so come le cose stiano tra i Mapuche attuali; in ogni caso occorrerebbe il parere di un etnologo esperto, e dubito che l'etnologia scenda volentieri in simili dettagli pruruginosi. Il poema da cui il film è stato tratto è un'opera molto complessa e non sono certo che la pellicola ne ricalchi fedelmente la trama: se va bene si tratterà di un'ispirazione vaga, come accade fin troppo spesso nel mondo del cinema. Ho dato un'occhiata all'Araucana, un testo di notevole complessità scritto in stanze reali e influenzato dalle opere di Ariosto e di Tasso, ma non mi è parso di vedervi molto di simile all'intreccio del film. La figura della donna-soldato Inés Su
árez che segue il conquistador Pedro de Valdivia è mostrata come un modello di eroina romantica e femminista che per l'epoca mi pare un po' troppo audace. Sarà anche corrispondente al vero, ma nella realtà dei fatti non credo che due soldati si sarebbero abbandonati alla sodomia finendo impiccati, se avessero avuto la possibilità di stuprare una donna. Mi piacerebbe poi studiare a fondo la biografia di Pedro de Valdivia per vedere se davvero fu processato con 57 capi di imputazione. La tentazione di romanzare la realtà è troppo forte, e questo potrebbe anche essere il caso. Pretendere che un film storico si attenga ai fatti al 100% è davvero troppo.

Il limite più grande della pellicola è però il fatto che i dialoghi dei Mapuche non siano nella loro lingua nativa e tradotti da sottotitoli. Certo, un film ha bisogno di essere facilmente comprensibile da tutti e di non porre eccessivi problemi agli spettatori, ma qui si presentano paradossi ai confini del ridicolo, come quando il Capitano Valdivia e i suoi soldati incontrano per la prima volta i capi Mapuche, con tutti che parlano tra loro con la massima naturalezza nella stessa lingua senza bisogno di interpreti. Certe scene sono poco realistiche, come quando Valdivia fa usare al capo Picunche una balestra, e questi riesce a centrare una lancia tenuta in pugno da Inés Suárez, col rischio di ucciderla. Nella realtà non sarebbe andata così bene, e nemmeno un arrogante conquistador avrebbe corso un simile rischi per mera spavalderia. Il film in ogni caso è nel complesso spettacolare e meritevole di essere ben valutato, in quanto i suoi lati buoni superano di gran lunga quelli difettosi. Splendide sono le riprese del deserto di Atacama. Esaltante è il finale, con gli eroici Mapuche che annientano l'esercito spagnolo. Alcune sequenze di uccisioni e di crani rotti sono rimaste molto impresse nella mia memoria, anche se quando ho rivisto il film dopo molti anni, la battaglia mi è sembrata meno truculenta di quanto ricordassi.

venerdì 12 febbraio 2016


CRISTIADA

Titolo originale: For Greater Glory -
         The true story of Cristiada
Lingua originale: inglese, spagnolo
Paese di produzione: Messico
Anno: 2012
Durata: 143 min
Colore: colore
Audio: sonoro
Genere: drammatico, storico, guerra, epico
Regia: Dean Wright
Soggetto: Michael James Love
Produttore: Pablo Jose Barroso
Distribuzione (Italia): Dominus Production S.r.l.
Fotografia: Eduardo Martinez Solares
Musiche:
James Horner
Scenografia: Salvador Parra
Interpreti e personaggi:
  Andy Garcia: Enrique Gorostieta Velarde
  Eva Longoria: Tulita
  Peter O'Toole: padre Christopher
  Bruce Greenwood: ambasciatore Dwight Morrow
  Oscar Isaac: Victoriano 'El Catorce' Ramirez
  Bruce McGill: presidente Calvin Coolidge
  Nestor Carbonell: sindaco Picazo
  Catalina Sandino Moreno: Adriana
  Santiago Cabrera: padre Vega
  Rubén Blades: presidente Plutarco Elías Calles
  Eduardo Verástegui: Anacleto González Flores
  Mauricio Kuri: José Sánchez del Rio
  Adrian Alonso: Lalo
  Raúl Adalid: padre Maria Robles
  Ignacio Guadalupe: vescovo Pascual Diaz
  Raúl Méndez: Miguel Gomez Loza

Trama (da Wikipedia): 
Il film è aperto dai titoli che descrivono gli articoli anticlericali presenti nella Costituzione del Messico del 1917. Quando il neoeletto presidente messicano, Plutarco Elías Calles (Rubén Blades), avvia una violenta e implacabile repressione contro la fede cattolica, nel paese scoppia una guerra civile (indicata successivamente come guerra Cristera). Le chiese sono date alle fiamme, si verificano omicidi di preti e contadini, i cui corpi vengono poi appesi ai pali del telegrafo quale monito.
La storia si sposta allora su Padre Christopher (Peter O'Toole), prete cattolico spietatamente ucciso dai Federales. Il tredicenne José Luis Sanchez (Mauricio Kuri), testimone del delitto, si unisce ai ribelli, i Cristeros, guidati dal generale in pensione Enrique Gorostieta Velarde (Andy Garcia), ateo, che prende il ragazzo come suo protetto. Catturato durante uno scontro con i Federales, José è sottoposto a tortura. Il ragazzo, però, non rinuncia alla sua fede e per questo è messo a morte. L'anno seguente anche il generale Gorostieta muore in battaglia, nello stato di Jalisco.
Nel 1929, accordi tra le due fazioni pongono fine ai combattimenti e viene ristabilita la libertà religiosa.(1) Papa Benedetto XVI ha beatificato José nel 2005, con altri dodici martiri tra i Cristeros.
Dopo i titoli di coda viene mostrata la vera esecuzione di un cristero, che apre le braccia in segno di pace e di croce.

(1) In realtà anche dopo gli accordi ci sono state molte uccisioni di Cristeros che avevano deposto le armi, e si segnala una seconda sollevazione, chiamata "La Segunda" (1931-1938).

Recensione:
Un film robusto e avvincente, che tratta un tema sconosciuto ai più, quella che è stata definita "una pagina dimenticata della storia". Un cast di tutto rispetto e mezzi notevoli. C'erano tutti i presupposti per ottenere un grande successo, eppure questo non è avvenuto. In Italia il film ha impiegato ben due anni per trovare una distribuzione e anche quando ci è riuscito le difficoltà sono state notevoli. Saltano all'occhio diversi punti oscuri che meritano di essere approfonditi.  

Come si fa notare nel sito Destra.it, Cristiada non colpisce i nervi scoperti della comunità ebraica, di quella musulmana e di quella antifascista, così facili al tumulto per ogni singola virgola fuori posto. Chi dunque è stato urtato? Non ci vuole un'aquila per capire che c'è lo zampino della Setta Massonica, da sempre produttrice di un'immensa mole di disinformazione e ostile ad ogni tentativo di rappresentazione oggettiva di fatti storici, soprattutto se quanto reso pubblico mette l'organizzazione occulta in cattiva luce per qualche porcata che ha commesso. Questo però non basta a spiegare il sostanziale quanto anomalo boicottaggio che ha colpito la pellicola.

La Chiesa Romana, che sulla ribellione dei Cristeros ha sempre assunto posizioni stranamente ambigue, per qualche motivo non ha utilizzato quello che sarebbe stato un formidabile strumento di propaganda. Come mai? Anche se la cosa può apparire incredibile, immenso è stato l'imbarazzo delle gerarchie ecclesiastiche, che hanno assistito alla proiezione del film a porte chiuse e l'hanno avvolto in una cappa di silenzio. Giudizi eulogistici si trovano quasi soltanto in blog vicini alla setta di Comunione e Liberazione o a conventicole similari, che hanno scalpitato non poco per il boicottaggio, attribuito unicamente agli "anticlericali". Non sempre i loro post sono leggibili. I loro schemi sono come al solito grossolani e semplicistici. A parte questi rigurgiti acidi e il tumulto di ambienti parrocchiali che hanno organizzato proiezioni semiclandestine della pellicola, per il resto il mutismo del Web è quasi completo. Si segnala una recensione negativa pubblicata su Mymovie.it, che definisce il film "retorico" e "stantio".

Si possono trarre le seguenti conclusioni:

1) La Massoneria ha infiltrato la Chiesa Romana in modo profondo: la Gran Loggia Vaticana è da tempo una realtà. Sotto Bergoglio si può dire che essa abbia completo potere. Naturale che chiunque tiri fuori i Cristeros sia visto come carta igienica vetrata.
2) Alle gerarchie fa paura che diventi di pubblico dominio il comportamento codardo dei vescovi che sono fuggiti dal Messico, presi da allergia al martirio. Come si può giudicare un pastore che abbandona il suo gregge e lo fa dilaniare dai lupi?
3) Alle gerarchie fa paura che diventi di pubblico dominio il fatto che il Papato non ha mai aiutato con le sue immense risorse la popolazione oppressa. Il sostegno ai Cristeros è venuto infatti dalla setta cattolica dei Cavalieri di Colombo, che ha fatto ricorso a collette per raccogliere fondi.
4) Evidente che la Chiesa Romana non voleva compromettere i rapporti con gli Stati Uniti, che però sostenevano il presidente Calles: a questo si deve il suo silenzio carico di ambiguità, non rotto nemmeno dalla canonizzazione di un certo numero di martiri.

Ecco i Porporati. Non hanno il coraggio di esporsi per aiutare i perseguitati - per non parlare di subire il martirio - ma il coraggio di intromettersi nella politica italiana dettando legge in Parlamento, quello ce l'hanno eccome!