giovedì 15 settembre 2016

IL FARNETICANTE RIDICOLO MARAVOT

Espongo al pubblico ludibrio il seguente sito farlocco, di certo un prodotto dell'Accademia di Lagado:

www.maravot.com/Etruscan_Phrases_a.html

Ovviamente non lo linko per non regalargli visite, anzi raccomando a chi voglia entrarvi di usare un sito che anonimizza le visite: 


L'autore del sito Maravot, certo Mel Copeland, parte dalla falsa idea (molto diffusa tra i dilettanti, soprattutto albanesi) che le Tavole Iguvine siano scritte in etrusco; da questa base erronea egli ricostruisce uno pseudo-etrusco interamente formato a partire da radici latine e addirittura da forme romanze, alterandone le desinenze e reinterpretandole allo scopo di provare la natura italica della lingua.

Poco importa a questo webmaster che sia di per sé evidente la natura del tutto dissimile della lingua delle Tavole Iguvine e di quella del Liber Linteus. Il fatto che l'una non serva ad interpretare l'altra non lo tiene nella minima considerazione: egli pretende di piegare la realtà dei fatti alle sue idee deliranti. La sua nociva invenzione dello pseudo-etrusco italico è da esporre alla gogna e all'irrisione come monito ai ricercatori.

Il principio su cui si fonda è quello della grossolana assonanza. Tra le "perle" del sito si può menzionare la coniugazione HV "io ho", HE "tu hai", HA "gli ha". Incredibile dictu, Mel Copeland ha tratto queste false agnizioni direttamente dalla lingua italiana! Ha preso parole italiane fatte e finite, le voci della coniugazione del verbo avere, quindi le ha proiettate indietro nel tempo fino a trapiantarle all'epoca dei Lucumoni. Inutile dire che tutto ciò farebbe ridere persino i polli.

Riporterò a questo punto un singolare aneddoto il cui scopo è quello di far comprendere la natura degli osceni abusi introdotti da Mel Copeland nel Web. Ricordo che un amico da giovane affermava di parlare il cinese. Caspita, ero davvero stupito, nella mia ingenuità di quell'epoca, da una simile capacità. Ecco che egli sciorinava i primi quattro numerali cinesi, che fornisco con a fianco la trascrizione in ortografia anglosassone:

unci (oonchie)
dunci (doonchie)
trinci (treenchie)
cali-calinci (kaly-kaleenchie)
 

Non andava oltre nella numerazione: evidentemente non era riuscito a costruire forme convincenti per le unità più alte. A queste voci cantilenate aggiungeva, come prova della sua presunta dimestichezza col mandarino, anche una frasettina che a sua detta i mariti cinesi avrebbero rivolto alle mogli prima di coricarsi:

cià-ciu-cia-chì (chah-choo-chah-kee)

Il punto è che questa sequenza di sillabe ha effettivamente senso compiuto... ma in dialetto milanese. Per coloro che ignorano l'idioma meneghino, darò la traduzione della frase: "Dai, succhia qui". Davvero poco a che fare con la lingua del Celeste Impero. 

C'è tuttavia una grande differenza, nonostante l'analogia nel metodo, tra questo pseudo-cinese e lo pseudo-etrusco di Maravot. Il primo è un prodotto ingenuo della gioventù spensierata ed esuberante. Il secondo è un prodotto doloso, una nociva menzogna che ha lo scopo di contaminare la Scienza, traviando gli sprovveduti per far loro credere cose molto distanti dalla realtà dei fatti. 

Riporto infine i numerali autentici del cinese mandarino:

一  yī "uno"
二 
èr "due"

三  sān "tre"
四 
sì "quattro"

wŭ "cinque"
liù "sei"
qī "sette"
bā "otto"
jiŭ "nove"
shí "dieci" 

lunedì 12 settembre 2016

I LIMITI INTRINSECI DEL PALLOTTINISMO

Una caratteristica comune tra gli archeologi è il pretendere di pronunciarsi su questioni linguistiche e rifiutare ogni confronto con gli interlocutori che hanno competenze diverse: l'archeologia appare fin troppo spesso come setta dogmatica che di fronte ad avverse argomentazioni ne nega l'esistenza e si chiude nell'autismo. A quanto pare manca alla maggior parte degli archeologi il metodo scientifico e tale carenza risulta ben evidente ogni volta che essi cercano di dedicarsi all'indagine linguistica.

Massimo Pallottino giustamente ha cercato l'etimologia etrusca di lemmi latini problematici: in un lampo di felice intuizione è riuscito a trovare nell'etrusco tus "letto" il corrispondente e l'antenato del latino torus "letto". Poi non è stato in grado di proseguire. Non ha infatti potuto comprendere che tus - torus dimostra la presenza del rotacismo in proto-latino: *tozos > torus - o meglio, non ha potuto capire le conseguenze cruciali e altamente produttive di questa assunzione, che non si limitano certo a una sola parola. Non ha capito che è possibile che anche altri vocaboli latini con -r- intervocalica risalgano a parole etrusche con -s-, e ha cercato in modo sistematico corrispondenti etruschi con -r-. Per contro Pallottino ha suggerito forme etrusche con -r- anche quando la corrispondente voce è attestata in latino arcaico e mostra invece -s-, fallendo in modo grossolano. Ad esempio ha cercato erroneamente nella base etrusca lar- il prototipo del latino Lares, nonostante il Carmen Arvale dimostri che anticamente si diceva Lases - il che prova che l'antenato etrusco di Lares era il teonimo Lasa e non la radice lar-.

La metodologia da applicare è la seguente:
1) individuare un lemma latino problematico, sospettato di essere di origine etrusca;
2) cercare la forma latina arcaica attestata (anche nell'antroponimia);  
3) cercare un termine etrusco (anche nell'antroponimia) che sia adatto a spiegare il lemma latino in questione.

Un'incompleta applicazione del metodo scientifico può portare a risultati simili a quelli prodotti dal Pallottino per il caso Lares. Così vediamo etimologie difettose proposte da Massimo Pittau, che pure è un linguista e che ha vigorosamente attaccato l'approccio degli archeologi agli studi etruschi. Prendiamo ad esempio il lemma etrusco fanu (con i suoi derivati). Come già Pallottino, anche Pittau è incline a vedere in esso l'antenato del latino fanum /'fa:num/ "tempio, luogo santo". Eppure sappiamo che il latino arcaico aveva fasnom. La forma etrusca corrispondente al vocabolo latino in questione non potrebbe mai essere fanu, in quanto in etrusco l'antico nesso -sn- non diventa -n- come in latino. Dovremmo avere semmai *fasnu o *faśnu, posto che f- sia un corrispondente corretto - il che non è detto. Infatti considerazioni etimologiche ci permettono di far risalire il latino antico fasnom a una forma con *dh-, da paragonare a greco θεός (thes) < *thesos, e all'armeno dik' "divinità pagane". L'origine ultima di questa radice è sconosciuta: è tradizionalmente considerata indoeuropea perché presente in alcune lingue di ottima tradizione indoeuropea: greco, armeno, latino e osco. Anche i dettagli dei singoli esiti di questa radice non sono esenti da problemi: ad esempio la vocale -a- del latino fanum rispetto alla vocale breve -e- del greco θεός, alla vocale lunga del latino fe:stus, fe:ria, e alla vocale lunga -ii- dell'osco fiisnam (acc.). La parola latina ha un vocalismo che è come un pugno in un occhio e che ha portato alcuni a postulare una variante della protoforma con una vocale indistinta (schwa) -ə-.

Siccome in caso di isoglosse tra etrusco e indoeuropeo, a forme IE con *dh- corrispondono forme etrusche in θ-, dovremmo aspettarci di trovare come parallelo una parola etrusca *θasnV o *θaśnV (V indica una vocale non determinabile), al momento non attestata. Sarà esistita? Non sarà esistita? Per ora nessuno lo sa, ma se il latino fanum ha avuto un corrispondente etrusco genuino (non dovuto a prestito), dovrebbe essere quello da me ricostruito.

In sintesi ci sono queste possibilità:

1) *fasnV o *faśnV - se è stato l'etrusco a prendere il lemma dall'italico (latino arcaico, etc.); 
2) *θasnV o *θaśnV - se è stato l'italico a prendere il lemma dall'etrusco (che a sua volta potrebbe aver preso a prestito il lemma da una lingua IE in una fase più antica); 
3) le forme in questione non esistono, la radice non ha avuto origine dalla lingua etrusca e non vi è mai giunta come prestito.

La questione non può ancora essere decisa con gli scarsi dati a nostra disposizione. Occorre attendere tempi migliori.

L'etrusco fanu invece è un participio passato passivo formato con il classico suffisso -u che si trova in moltissimi altri casi. Il significato deducibile dal contesto delle iscrizioni è "dichiarato". Giulio Facchetti sostiene questa interpretazione esplicitamente. Per quanto mi riguarda, concordo appieno con le sue conclusioni, anche se non ho una chiara idea sull'origine ultima della radice. Oltre a questo, egli ha identificato nella forma finora enigmatica zarfneθ che ricorre nel Liber Linteus un composto che contiene questo fan- in forma foneticamente ridotta. Il primo membro del composto è corradicale di zeri "rito", così zar-fn-eθ "che dichiara rituale". Forse la radice etrusca fan- corrisponde in qualche modo alla forma IE *bha:- che si trova nel latino for, fa:ris, fa:tus sum, fa:ri: "dire", con l'aggiunta di un'estensione in consonante nasale. Sergei Starostin nel suo database The Tower of Babel riporta i discendenti di questa radice nelle seguenti lingue: sanscrito, armeno, greco antico, slavo, proto-germanico, latino, osco. Rimando al sito per una trattazione più approfondita.  

Proto-IE: *bhā-
Meaning: to say

   Old Indian: sa-bhā́ f. `assembly, congregation'
   Armenian: ban, gen. -i `Wort, Rede, Vernunft, Urteil, Sache'; bay, gen. bayi `Wort, Ausdruck' (*bhǝti-s)
   Old Greek: phǟmí `sage', pháskō, inf. att. phánai̯, hom. phámen, ipf. éphǟn, inf. phásthai̯, aor. phǟ̂sai̯, pf. m. péphatai̯, ipv. pephásthō, va. pható- `sagen, erklären, behaupten'; phǟ́mǟ f. `Ausspruch, Kundgebung, Gerücht, Ruf, Rede'; phǟ̂mi-s, -ios f. `Rede, Gerede', pl. phḗmata = rhḗmata, phásmata Hsch., hüpo-phǟ́tǟ-s m. `Deuter, Ausleger', hüpo-, pro-phǟ́tōr m. `id.', pháti-s f. `Ausspruch, Gerücht, Kunde', phási-s `id.', phátǟ-s `pseústēs' Hsch., phōnǟ́ f. `Laut von Menschen und Tieren, Ton, Stimme, Aussprache, Rede, Sprache, Äusserung'
    Slavic: *bā́jātī, *bā́jǭ; *bāsnь; *bālьjь
    Germanic: *bō-n-ī(n-) f., *ba-nn-a- vb., *ba-nn-a- m., etc.
    Latin: for (Gramm.), fārī, fātus sum `sprechen', fācundus, -a `redegewandt', fātum, -ī n. `Schicksalsspruch, Orakel, Weissagung; Schicksal, Geschick', fāma f. `Sage, Gericht, Kunde; öffentliche Meinung (Gerede der Leute); Ruf, Leumund; guter und schlechter Ruf', fābula f. `Rede, Gerücht; (erdichtete) Erzählung, Sage, Fabel; Theaterstück'; fateor, fatērī, fassus sum `zugestehen, einraumen; bekennen, kundtun'; fās n. (indecl.) `das göttliche Recht'; nefās `Unrecht, Sünde'; fascinum n., fascinus, -ī m. `Behexung'; īnfāns, -antis `wer noch nicht sprechen kann'
    Other Italic: Osk faamat `ēdīcit', faammant `ēdīcunt', famatted `ēdīxīt, iussit'; fatíum `fārī'

L'origine ultima della radice è oscura. Il fatto stesso che la forma proto-indoeuropea sia ricostruibile con una vocale -a:- depone a favore di un antichissimo prestito. Come si vede le cose non sono tanto semplici: è un ginepraio che non può essere facilmente districato. Per giungere a conclusioni sicure sono necesari studi molto lunghi e complessi che difficilmente potrebbero essere portati a compimento da una sola persona. Le competenze di Pallottino in materia di lingue indoeuropee diverse dal latino erano abbastanza labili e ben lontane da quanto richiesto per esplorare un vasto paesaggio di rovine sprofondate nell'Oblio. Tale esplorazione tra l'altro all'archeologo romano non interessava minimamente, dato che era uno studioso politicizzato, cosa che lo portà a decretare la sostanziale illiceità di ogni seria ricerva volta a determinare l'origine degli Etruschi e la natura della loro lingua.

sabato 10 settembre 2016

QUANDO LA LINGUISTICA TIPOLOGICA È INUTILE, ABUSIVA E NOCIVA

Negli ultimi anni si è andata imponendo sempre più la cosiddetta linguistica tipologica, che consiste in un procedimento comparativo il cui fine è ricercare fenomeni strutturali comuni alle lingue, senza considerare in alcun modo la loro parentela genealogica. Le caratteristiche individuate da questi studi possono riguardare elementi morfologici o sintattici, come l'ordine delle parole nella frase. Si vengono così a definire diversi "tipi linguistici". Le tipologie morfologiche individuate sono le seguenti: 

1) Lingue agglutinanti
2) Lingue isolanti
3) Lingue flessive
   - Sottotipo: Lingue sintetiche
  
   - Sottotipo: Lingue analitiche

4) Lingue polisintetiche

Rimando al materiale reperibile nel vasto Web per approfondimenti. Se a qualcuno non basta, esistono i libri. Per quanto riguarda le tipologie sintattiche, sono state definite due diverse classificazioni. La prima è relativa al posizionamento del soggetto, del verbo e dell'oggetto all'interno delle frasi. Abbreviando il soggetto in S, il verbo in V e l'oggetto in O, ecco i tipi linguistici individuati:


La seconda classificazione tipologica sintattica prevede la distinzione seguente: 

1) Lingue ergativo-assolutive
2) Lingue nominativo-accusative 
3) Lingue sia ergative che accusative
4) Lingue attivo-stative 

Tutto splendido, schematico, cristallino come acqua di fonte e ben definito dal punto di vista logico. La linguistica tipologica dovrebbe essere un sublime giardino di perfezione. Di cosa dunque mi lamento? 

In poche parole: il problema è il seguente. Nel mondo anglosassone, così affetto da psicorigidità, gli studiosi tendono automaticamente a credere che le classificazioni di natura tipologica siano ipso facto anche genealogiche, nonostante nella definizione stessa di questa branca della linguistica sia fatta esplicita menzione del fatto che si tratta soltanto di classificazioni strutturali. Così ci si imbatte spesso in proposizioni futili che condizionano la ricerca, specialmente quando dallo studio delle singole lingue si passa allo studio della loro evoluzione nel tempo e della loro origine. Elenco alcuni pregiudizi di base: 

1) Due lingue appartengono a una stessa tipologia, quindi devono essere imparentate.
2) Due lingue non possono essere imparentate se appartengono a tipologie diverse.
3) Da una serie di lingue con una data struttura tipologica deve essere ricostruita una protolingua con uguali caratteristiche.

Da questi principali errori ha origine un vero e proprio perniciosissimo stupidario, che appesta il mondo accademico con aberrazioni di ogni tipo. 

Il basco è una lingua ergativo-assolutiva, quindi i suoi parenti vengono ricercati per necessità tra le lingue ergativo-assolutive. Se qualcuno proponesse una lontana parentela con una lingua non ergativo-assolutiva, sarebbe considerato un mezzo deficiente e guardato dall'alto in basso con spocchia da accademici che in realtà sono emeriti minchioni. Questo non perché ci sia del falso nella proposta, ma perché essa è scartata a priori.

Un altro esempio significativo è quello della tipologia sintattica dell'ipotetica protolingua dell'Umanità: a volte si trovano articoli su qualche quotidiano online cha aggiornano sullo stato delle ricerche, garantendo che l'ordine sintattico nella lontana preistoria doveva essere OSV. Viene poi fornito a titolo esplicativo il classico esempio della frase di Yoda "tuo padre lui è" non è calzante perché il verbo "essere" non regge l'accusativo - lo imparano anche i bambini alle elementari durante le lezioni di grammatichina e di analisi logica. Meglio sarebbe dunque citare come esempio un'altra sentenza del Maestro Yoda: "Quando lo scolo fatto sei volte tu avrai, dritto non piscerai".

Quando si considera l'evoluzione delle lingue, è futile cercare di classificare le lingue in funzione dell'ordine delle parole nella frase: tale ordine può infatti cambiare nel corso della loro storia. Basti citare il caso del latino, che ammette frasi come philosophum non facit barba "la barba non fa il filosofo", in cui l'ordine OVS sarebbe dai linguisti tipologici considerato un'anomalia inaccettabile se paragonato all'ordine SVO tipico delle lingue romanze. Eppure le lingue romanze sono derivate dal latino. Quello di cui certi accademici psicorigidi non tengono conto è un fatto molto semplice: l'usura fonetica degli apparati grammaticali porta a ridefinire nuove strutture, a rendere rigido qualcosa che prima era più libero. Le lingue del genere umano non sono sistemi in equilibrio. Quando dalla consunzione dei morfemi nasce l'ambiguità, la sopravvivenza impone di far scattare un sistema che permetta di risolvere il problema alla radice.

Per fissare le idee, in latino forme come canis (soggetto) e canem (oggetto) sono ben distinte a livello fonetico, mentre in italiano abbiamo una sola forma, cane, sia per il soggetto che per l'oggetto. Di conseguenza un romano poteva dire ursus laniavit canem "l'orso straziò il cane", ma anche canem laniavit ursus o ursus canem laniavit. Per dire "il cane straziò l'orso" si può scegliere tra canis laniavit ursum, ursum laniavit canis o canis ursum laniavit, senza problema alcuno. In italiano c'è invece una sola alternativa possibile: esprimere il soggetto e l'oggetto tramite la posizione nella frase: "l'orso straziò il cane" è una frase del tutto diversa da "il cane straziò l'orso"

La stessa esagerata importanza attribuita alla linguistica tipologica deriva dalla rigidità dell'inglese moderno: gli anglofoni reputano la propria lingua il centro dell'universo e proiettano su ogni cosa le proprie categorie mentali. Dal ritenere tali categorie "innate" al crederle intrinseche al linguaggio in quanto tale, il passo è più breve di quanto non sembri. Per la maggior parte degli anglosassoni, è sufficiente che una lingua posponga l'aggettivo al nome per essere automaticamente etichettata come "difficile", figuriamoci se ha caratteristiche come una diversa collocazione del verbo o l'ergatività. La natura sclerotica della sintassi dell'inglese, in cui una regola ammette ben poche eccezioni o non ne ammette affatto, porta a pensare che in tutte le lingue viga una stessa struttura inviolabile, assoluta e definibile in poche parole, quando invece vediamo che in molte lingue convivono diversi schemi sintattici. Il rischio di fraintendimento è molto elevato. La ricerca sulle origini genetiche delle lingue rischia di essere disturbata e di venire meno. 

Il caso del norreno

Oltre a quanto visto per la lingua di Roma, si possono fare infiniti esempi. In antico nordico la ricchezza dell'apparato morfologico dei sostantivi e degli aggettivi rende possibile una grande libertà sintattica, inconcepibile nelle lingue germaniche odierne come ad esempio l'inglese. È sufficiente riportare alcuni esempi salienti per vedere come le tipologie sintattiche SVO e OVS convivano nella lingua dei Vichinghi senza alcun problema. Questo dovrebbe bastare a gettare forte discredito sulle pretese di certi linguisti tipologici, se il buonsenso governasse.

Dalle parole dvergr "nano", eiga "possedere" e baugr "anello", si hanno due diversi modi per tradurre la frase "il nano ha un anello"

dvergrinn á baug
baug á dvergrinn

La prima frase è SVO, la seconda è OVS. Non sussiste alcuna ambiguità per via della morfologia: il nominativo maschile singolare di dvergr e di baugr è marcato da un suffisso rotico -r che manca nell'accusativo. In inglese si direbbe "the dwarf has got a ring", con un ordine rigido. Invertendo i membri si otterrebbe una frase senza senso: "*a ring has got the dwarf", vietata dalla logica delle cose. Il verbo to have (got) non si presta a usi metaforici, si eviti quindi di pensare al Gollum e al suo famoso tessoro. Nemmeno nel mondo dei Puffi può accadere che un oggetto inanimato sia il proprietario di un essere animato. 

Passiamo ora a una frase più complessa: "Olaf vide la vecchia donna". Queste sono le due traduzioni possibili in norreno: 

Óláfr sá konu þá ina gǫmlu Konu þá ina gǫmlu sá Óláfr 

Anche in questo caso, la prima frase è SVO e la seconda è OVS. Si noterà che in inglese abbiamo "Olav saw the old woman". Invertendo i membri della frase si inverte in automatico anche il significato, dando origine a "The old woman saw Olav", ossia "la vecchia donna vide Olaf". Se vogliamo invertire il senso nella frase norrena, dobbiamo cambiare la morfologia. Così per dire "la vecchia donna vide Olaf" abbiamo le seguenti possibilità: 

Óláf sá kona sú in gamla Kona sú in gamla sá Óláf.

Decisamente troppo per una mente irrigidita in schemi e schemini per necessità banali, che si limita all'ABC del mondo detestando ogni indagine.

martedì 6 settembre 2016

ANCORA SULLA LONTANANZA DELLA LINGUA NEOEBRAICA DA QUELLA SCRITTURALE

Riporto in questa sede la mia traduzione dell'abstract di un articolo oltremodo interessante di Ghil'ad Zuckermann dell'Università di Adelaide, intitolato Hybridity versus Revivability: Multiple Causations, Forms and Patterns.   


«Lo scopo di questo articolo è suggerire che per via di causazioni multiple ubiquitarie, il revival di una lingua non più parlata è improbabile senza la fertilizzazione incrociata dalla lingua (o dalle lingue) del revivalista. Così, ci si aspetta che gli sforzi di rivitalizzazione risultino in una lingua con una struttura genetica e tipologica ibrida. L'articolo evidenzia costruzioni morfologiche e categorie salienti, illustrando la difficoltà nel determinare una singola fonte per la grammatica della lingua di Israele. L'impatto europeo in queste caratteristiche è evidente tra le altre cose nella struttura, nella semantica e nella produttività. Essendo un articolo piuttosto che non un lungo libro, questo scritto non tenta di essere grammaticalmente esaustivo, ma piuttosto di gettare nuova luce sul parziale successo del revival linguistico in generale, e in particolare sulla genetica della lingua israeliana.
La causazione multipla è manifesta nel Principio di Congruenza, secondo il quale se una caratteristica esiste in più di una lingua che contribuisce <alla lingua rivitalizzata>, è più plausibile che persista nella lingua emergente. Questo articolo discute la causazione multipla
(1) nell'ordine costitutivo,
(2) nel sistema dei tempi verbali,
(3) nell'accrescimento della copula,
(4) nei calchi, e
(5) nella corrispondenza fono-semantica in israeliano (Zuckermann 1999, in modo un po' equivoco a.k.a. ‘ebraico rivitalizzato’ / ‘ebraico moderno’).
Ciò suggerisce che la realtà della genesi linguistica è di gran lunga più complessa di quanto permesso da un semplice sistema di albero familiare. È improbabile che le lingue ‘rivitalizzate’ abbiano un solo genitore. Parlando in generale, mentre la maggior parte delle forme dell'israeliano sono semitiche, molti dei suoi schemi sono europei. Si assume che
(1) mentre l'ebraico era sintetico, l'israeliano – seguendo lo Yiddish ecc. – è molto più analitico;
(2) l'israeliano è una lingua "habere" (cf. latino habere ‘avere’, che regge l'oggetto diretto), in forte contrasto con l'ebraico(*);
(3) le lingue europee talvolta dettano il genere delle parole israeliane coniate;
(4) la produttività (nascosta) e la semantica del sistema dei modelli verbali dell'israeliano, presumibilmente completamente ebraico sono, di fatto, spesso europee;
(5) in ebraico c'era una polarità di concordanza di genere tra nomi e numerali, es. ‘éser banót ‘dieci ragazze’(**) contro ‘asar-á baním ‘dieci ragazzi’(***) (femminile). In israeliano c'è un più semplice sistema europeo, es. éser banót ‘dieci ragazze’, éser baním ‘dieci ragazzi’;
(6) lo Yiddish ha plasmato la semantica del sistema verbale israeliano nel caso dell'incoatività;
(7) seguendo lo ‘standard medio europeo’, le proclitiche israeliane be- ‘in’, le- ‘a’ e mi-/me ‘da’, così come la congiunzione coordinata ve- ‘e’, sono fonologicamente meno dipendenti che in ebraico;
(8) la formazione di parole in israeliano abbonda di meccanismi europei come le parole macedonia.»

(*) Le lingue "habere" indicano il possesso con un verbo, mentre le lingue "non-habere" utilizzano una frase esistenziale (NdT)
(**) Più propriamente 'dieci figlie' (NdT)
(***) Più propriamente 'dieci figli' (NdT) 

Alcuni esempi concreti 

Lo stato costrutto non è più realmente produttivo, così anziché dire 'em ha-yéled "la madre del bambino", si dice ha-íma shel ha-yéled.

Abbondano costruzioni verbali analitiche che nella lingua biblica sono inconcepibili. Così sam tseaká "urlò" (lett. "mise un urlo"), natán mabát "guardò" (lett. "diede uno sguardo"), heíf mabát "guardò" (lett. "gettò uno sguardo"). Si tratta palesemente di calchi dallo Yiddish, es. gébṇ a kuk "dare uno sguardo" per "guardare".

Lo Yiddish ha dato un'infinità di calchi nella fraseologia corrente. Le radici usate sono genuinamente ebraiche, ma il loro uso idiomatico è Yiddish e non ha nulla a che vedere con la mentalità di un antico parlante di una lingua semitica. 
m
á nishmá "come stai?" (lett. "cosa si sente?"),
     cfr. Yiddish vos hert zikh
khamúda-le "ragazza carina", formato da khamuda
     "carina"
 e dal suffisso Yiddhish -le;
miluim-nik "riservista", formato da milu
ím
     "riserva"
  (lett. "riempimento") e dal suffisso
     Yiddish -nik.

Esiste un massiccio uso di mezzi produttivi internazionali (suffissi e prefissi):
bitkhon-
íst "uno che valuta tutto dalla prospettiva
     della sicurezza nazionale"
: suffisso -ist 
kiso-lógya "arte di trovarsi un seggio in
     parlamento"
: suffisso -logya 
anti-hitnatkut "anti-disimpegno" : prefisso anti-
post-milkhamt
í "postbellico": prefisso post- 
pro-arav
í "pro-arabo": prefisso pro-
Alle orecchie del Re Davide questi elementi sarebbero suonati alieni come se fossero giunti dalla lingua delle genti di Altair o di Vega: non avrebbe avuto nemmeno la minima idea della natura di queste sillabe o della loro origine. 

Le forme ebraiche sono state riplasmate, reinterpretate per adattarsi agli schemi delle lingue europee. Così anziché il corretto yesh l-i ha-séfer ha-zè "è a me questo libro" (i.e. "io ho questo libro) - in cui ha-séfer ha-zè "questo libro" è il soggetto - si dice yesh l-i et ha-séfer ha-zè "io ho questo libro" - in cui et ha-séfer ha-zè "questo libro" è l'oggetto, come si evince anche dall'uso della particella accusativa et. La forma yesh l-i "è a me" non sembra essere più compresa ed è vista come traduzione dello Yiddish ikh hob, khob "io ho"

Si ha un uso massiccio di prestiti dallo Yiddish per formare verbi:
la-khróp "russare" < Yiddish khr
ópṇ 
le-fargén "non invidiare" < Yiddish farg
ínən 
le-hafl
ík "schiaffeggiare" < Yiddish flik "buffetto"
le-hashpr
íts "spruzzare" < Yiddish shprits "spruzzo"
le-hashv
íts "vantarsi" < Yiddish shvits "sudore"
le-katér "gemere" < Yiddish kótər "gatto maschio" 

Si ha un uso massiccio di prestiti internazionali (in genere inglesi) per formare verbi: 
le-daskés "discutere" < discuss
le-fakés "focalizzare" < focus
le-flartét "flirtare" < flirt
le-hasn
íf "sniffare coca" < sniff
le-natrél "neutralizzare" < neutralize
le-tarpéd "sabotare" < torpedo

Rispetto ai contenuti dell'articolo, aggiungo alcune note sulla consunzione fonetica. Nella lingua parlata in Israele in questi tempi si sono prodotte numerose e singolari contrazioni che la renderebbero assolutamente incomprensibile agli Antichi. Così avviene che il termine biblico avikhem "vostro padre" è sostituito da aba shelkhem, che a rigor di logica, stando alla pronuncia vigente, dovrebbe suonare /a'ba ʃel'xem/. Invece è in auge una sua contrazione /abaʃ'xem/. Ditemi voi cosa avrebbe capito Isaia.

Commenti e considerazioni

Noi ci opponiamo ad ogni interazione tra la lingua madre del revivalista e la lingua oggetto di rivitalizzazione. Un buon prodotto non deve mostrare calchi che non sarebbero comprensibili a un parlante della lingua estinta su cui quella da rivitalizzare si fonda. Noi rifiutiamo il concetto di carattere genetico e tipologico ibrido. Soprattutto insidiosi sono i calchi grammaticali, specialmente quelli di natura sintattica. Il caso del neoebraico insegna. La conlang neoebraica è una lingua profondamente differente da quella biblica e non può in nessun caso essere vista come un suo sviluppo naturale nell'ambito di un'evoluzione storica continua. È una creazione artificiale in larga misura abusiva. Se ignorassi la natura irreversibile di ogni evento e di ogni processo di questo mondo, direi che il neoebraico necessiterebbe di un profondo processo di riforma. Sono tuttavia pienamente consapevole che un simile progetto fallirebbe prima ancora di cominciare. 

Una soluzione semplice

È chiaro che ormai la lingua di Israele è ben consolidata nell'uso e che evolverà seguendo il suo percorso, finendo col divenire ancor più irriconoscibile. In ogni caso non posso fare a meno di notare che molti problemi sarebbero stati evitati se fosse stato scelto l'aramaico come lingua ufficiale dello Stato di Israele.

LA LINGUA NEOEBRAICA: I COSTI DELLA RIVITALIZZAZIONE

Spesso si loda l'opera di resurrezione della lingua ebraica, presentandola come il caso di maggior successo nell'opera di revival linguistico - se non l'unico davvero riuscito - ma non si considerano alcuni effetti collaterali. Già ho introdotto l'ostico argomento in un post in cui commentavo un'affermazione di Amos Oz, facendo notare come la lingua neoebraica sia una conlang a tutti gli effetti e come si discosti non poco dall'ebraico biblico. Ora analizzerò un'altra questione.

I sistemi usati dallo Stato di Israele per imporre il neoebraico come unica lingua possono essere considerati pertinenti al concetto di etnocidio. Il Governo di Israele ha infatti stabilito l'affermazione di un'unica cultura ebraica - recente e ricostruita secondo criteri abbastanza arbitrari, emanazione artificiale del Movimento Sionista - decretando l'annientamento sistematico di tutte le genuine identità ebraiche della Diaspora. Pochi sanno della persecuzione dei parlanti Yiddish e della distruzione sistematica della lingua Karaim.

A chi voglia approfondire l'argomento rimando senza indugio a un documento oltremodo interessante di Elizabeth Freeburg dell'Università di Yale, intitolato The Cost of Revival: The Role of Hebrew in Jewish Language Endangerment.


Queste cose le genti non le sanno e non le vogliono sapere, perché non suscitano alcun interesse: la loro analisi richiede l'uso di uno strumento piuttosto impopolare chiamato "cervello". L'istituzione scolastica, fucina di demenza e propalatrice della peste della political correctness e di numerose altre storture, non si occupa affatto di questioni linguistice, giudicate futili. La vulgata si limita infatti alle solite baggianate isteriche sugli Israeliani cattivi e sui poveri Palestinesi, appiattendo la realtà tridimensionale e facendone una sfogliatina di banalità perché sia assimilabile dagli intelletti larvali degli studenti-zombie.  

Lo Yiddish era giudicato treif dalle autorità, ossia non kosher, ancor più impuro della carne di porco. In alcuni casi, come ci dice la Freeburg, i parlanti Yiddish furono addirittura minacciati e fatti oggetti di intimidazioni in perfetto stile mafioso: l'uso dell'idioma avito doveva essere scoraggiato con ogni mezzo. La lingua Yiddish resiste ed è tuttora rigogliosa soltanto presso la setta dei zeloti Haredim, gli Ultraortodossi. Questi parlano soltanto Yiddish, perché la lingua delle Scritture, chiamata Loshn Kovdesh (ebraico lāshōn qādōsh), è loro proibito parlarla per scopi profani. Così essi distinguono nettamente la lingua biblica dal neoebraico, chiamato Ivrít, che pure rifiutano per quanto possibile - arrivando a uno stile di vita che potremmo definire isolazionista. 

La lingua Karaim appartiene al ceppo delle lingue altaiche: è in sostanza una varietà di turco con influenze ebraiche nel lessico. In origine era parlato in Crimea e trovo ragionevole concludere che si tratti di un discendente dell'originaria lingua dei Khazari, popolazione di ceppo turco convertita all'Ebraismo tra la fine del VIII secolo e l'inizio del IX. L'immigrazione di Karaiti nello Stato di Israele fu forte nell'ultimo dopoguerra. Essi portarono con sé la loro lingua, che era usata anche per scopi liturgici. Il successo nella sua eradicazione fu tale che su 30.000 Karaiti etnici che attualmente vivono in Israele, non si trova nemmeno un singolo parlante di Karaim.

Solo in apparenza meno drammatica è la situazione del giudeo-spagnolo, detto anche Ladino o Judezmo. Si tratta di una varietà di castigliano con influenze ebraiche ed aramaiche, che nello Stato di Israele è ancora parlato da circa 70.000 persone. Se però si considera che attualmente i parlanti nel mondo sono in tutto 100.000, e che soltanto nel 1977 in Israele erano ben 300.000, si capisce che il declino della lingua è vertiginoso. Parlato quasi soltanto da persone anziane, il Ladino non viene più appreso dai giovani e si pensa che possa scomparire nel giro di una o due generazioni. Tutto segue senza ostacoli il piano generale: attrarre nel Paese di Canaan il maggior numero possibile di minoranze linguistiche ebraiche per estinguerle. 

sabato 3 settembre 2016

IL CRONOVISORE DI ERNETTI: UN COLOSSALE INGANNO


Un pezzo forte della propaganda complottista è il famoso cronovisore di Padre Pellegrino Ernetti, che merita di essere discusso in dettaglio per le sue profonde implicazioni filosofiche. Trattasi di un ipotetico macchinario in grado di captare immagini e suoni del passato, traducendo i segnali in immagini simili a quelle di un comune televisore. A detta dei sostenitori della teoria cospirazionista, il cronovisore sarebbe stato consegnato alle autorità ecclesiastiche, che lo avrebbero smontato e nascosto nei sotterranei del Vaticano.  

Gli antefatti

Isaac Asimov in un suo racconto abbastanza datato, Il cronoscopio (The Dead Past, 1956), descrive una macchina che rende possibile visualizzare eventi passati. Questo dispositivo immaginario, inventato dal fisico dei neutrini Sterbinski, è controllato dal Governo, che per ovvi motivi non ne permette l'uso e proibisce la ricerca in quel campo. Per questo il protagonista del racconto, che vorrebbe vedere con i suoi occhi i fasti, gli splendori e le miserie della città di Cartagine, prende la risoluzione di costruirsi in clandestinità un proprio cronoscopio. Constaterà presto che l'apparecchio non è in grado di andare nel passato oltre un periodo di poco più di un secolo: l'osservazione delle gesta della potente famiglia dei Barca gli resterà preclusa.


L'annuncio di una fantomatica scoperta

Il monaco benedettino Padre Pellegrino Maria Ernetti (1925-1994), filosofo, musicologo, fisico ed esorcista, era di certo un gran lettore di fantascienza e amava in particolare gli scritti di Asimov. Negli anni cinquanta dello scorso secolo fu impegnato in studi sulla natura del tempo e fu così che decise di sfruttare le idee contenute nel racconto asimoviano Il cronoscopio, pubblicato per la prima volta sulla rivista Astounding proprio nell'aprile del 1956. A sua detta, alle ricerche avrebbe partecipato Padre Agostino Gemelli (1878-1959) assieme a un gruppo di dodici eminenti scienziati la cui identità fu tenuta nascosta (in seguito trapelarono i nomi di Enrico Fermi e di Wernher von Braun). Nel 1972 fu dato l'annuncio della costruzione dell'apparecchio chiamato cronovisore o macchina del tempo: sul diciottesimo numero de La Domenica del Corriere comparve un'intervista a Padre Ernetti in cui si illustravano per sommi capi i principi di funzionamento del congegno e le sue mirabolanti proprietà. Tuttavia una cosa salta all'occhio leggendo le tonnellate di materiale reperibile nel Web: l'anno di inaugurazione del cronovisore sarebbe stato il 1956. Una coincidenza?

La censura del Vaticano e il nuovo interesse 

Dopo l'intervista pubblicata su La Domenica del Corriere, le gerarchie del Vaticano hanno dato forti segni di irritazione, imponendo all'ecclesiastico troppo esuberante una ferrea censura: del cronovisore non si doveva parlare più. Detto, fatto. Non se ne parlò più per oltre un decennio, finché nel 1989 il fisico Padre Luigi Borello pubblicò un libro, "Le pietre raccontano", in cui attaccava vigorosamente le ricerche sul cronovisore, nella cui reale esistenza affermava di non credere affatto. In risposta agli attacchi del Borello, Padre Ernetti scrisse una lettera, ribadendo i risultati ottenuti tramite la sua "macchina del tempo". Pochi anni dopo, siamo nel marzo 2000, comparve negli Stati Uniti un libro di Peter Krassa, "Il cronovisore di Padre Ernetti - la costruzione e la scomparsa della prima macchina del tempo del mondo", che conteneva testimonianze critiche. Nel 2002 fu il turno di un amico dell'Ernetti, il teologo e parapsicologo Padre François Brune, autore di un altro libro sull'argomento, "Le nouveau mystère du Vatican", in cui si ventilava l'ipotesi cospirazionista. Fu un successo clamoroso. Da allora gli ambienti dei complottisti sono in fermento e ne parlano senza sosta.  


La propagazione del suono
non è di natura elettromagnetica
 

Per essere un fisico, Padre Ernetti doveva avere per la verità una preparazione non troppo sinottica. In particolare doveva ignorare anche i più rudimentali fondamenti dell'acustica. Questo è quanto dichiarò nell'intervista comparsa su La Domenica del Corriere n. 18: «L'intera elaborazione si basa su un principio di fisica accettato da tutti, secondo il quale le onde sonore e visive, una volta emesse, non si distruggono ma si trasformano e restano eterne e onnipotenti, quindi possono essere ricostruite come ogni energia, in quanto esse stesse energia.»  Altri sconcertanti farfugliamenti, sempre dalla stessa fonte: «La procedura di funzionamento della macchina è la stessa utilizzata dagli astronomi che, calcolando gli anni-luce, riescono a ricostruire l’aspetto di una stella spentasi da migliaia di anni.» Ecco i componenti del cronovisore:

 1) Un certo numero di antenne e di transduttori in una non meglio specificata quanto fantomatica lega metallica, con la funzione di rilevare le onde sonore e visive legate agli eventi passati;
 2) Un modulo capace di orientarsi automaticamente in funzione delle onde sonore e visive captate;
 3) Numerosi dispositivi in grado di decodificare le onde, registrando le immagini e i suoni risultanti.

Sull'aspetto del macchinario c'è poco accordo: per alcuni era simile a un grosso tostapane, per altri aveva l'aspetto di un batiscafo. Quello che sfuggiva all'inventore del cronovisore è che le onde visive e le onde sonore di cui parlava non hanno la stessa origine. La propagazione delle onde elettromagnetiche è descritta dalle equazioni di Maxwell, mentre la propagazione del suono in un mezzo è un fenomeno meccanico. Eppure Padre Ernetti affermò il seguente sproposito: «Il suono e la luce sono energie. La luce può trasformarsi in suono e viceversa.» E ancora: «Il suono, una volta emesso, inizia un processo di disgregazione in altri tipi di onde sonore che l’orecchio umano non è in grado di udire. Dal suono disgregato si può tornare al suono originario, così come dalla materia disgregata si può ricostruire la sua forma originaria, secondo i principi della teoria atomica.» Assurdità sesquipedali che dimostrano l'assoluta e colpevole ignoranza delle nozioni basilari della fisica. Le conseguenze di tutto ciò sono gravi e smontano già da sole la favoletta. 

Non esistono in Natura le onde televisive

Ernetti è partito dall'idea che ogni evento emetta onde analoghe a quelle che codificano i programmi televisivi, con la parte video modulata in ampiezza e la parte audio modulata in frequenza ed entrambe le informazioni contenute nello stesso canale. Questa però è una pura e semplice assurdità. Essendo le onde sonore di natura totalmente diversa dalle onde elettromagnetiche, non esiste alcuna connessione possibile tra le ipotetiche tracce visive e le altrettanto ipotetiche tracce acustiche lasciate da un dato evento in un etere immaginario, che usando un vocabolo ben poco scientifico il monaco volpone chiamava "sfera astrale". Usare l'aggettivo immaginario è ancora generoso, visto che è stata dimostrata l'inesistenza di un mezzo speciale in cui la radiazione elettromagnetica si propaga (vedi interferometro di Michelson).

L'energia di Ernetti è una baggianata New Age

Incapace di afferrare semplici concetti della fisica, il costruttore del tostapane cronovisivo andò a schiantarsi contro il più ingannevole scoglio: quello dell'energia. La Scienza ci insegna che "l'energia è la grandezza fisica che misura la capacità di un corpo o di un sistema fisico di compiere lavoro, a prescindere dal fatto che tale lavoro sia o possa essere effettivamente svolto." (Fonte: Vocabolario Treccani). Questa definizione scientifica per il religioso era un tabù: non solo la ignorava bellamente, ma si inoltrò in un profluvio di cazzate che affondano le loro radici nello squallido supermarket del misticismo orientale. Questo è l'assunto di base di tutte le scempiaggini, il dogma energetico che si legge su centinaia di siti farlocchi e di blog: "Tutto è energia, inclusi i nostri pensieri, la nostra intenzione e le nostre emozioni. La nostra mente può davvero modificare la materia e la realtà". All'origine di questo meme c'è stato di certo un drogato che ha equivocato l'equazione di Einstein E = mc2. Ormai il contagio è tanto esteso che nemmeno l'Ordalia di una revolverata nel cranio riuscirebbe a rimuovere queste assurde credenze.


Il problema dell'iconografia di Cristo

Padre Ernetti affermò molte altre cose assolutamente inverosimili. Disse ad esempio che grazie al suo marchingegno aveva assistito alla Passione di Cristo. Non solo: a sua detta aveva filmato le sequenze dall'inizio alla fine. Invitato a produrre le prove di quanto asserito, l'ecclesiastico rilasciò una foto che mostra il volto di Gesù. Non passò molto tempo che si scoprì l'origine di tale immagine. Il volto di Cristo era stato tratto dalla foto di una scultura che si trova nel Santuario dell'Amore Misericordioso di Collevalenza, una frazione di Todi. Pressato, il callido Ernetti, che potrebbe figurare in una versione miniata del Roman de Renart come la Volpe, disse serafico che tali immagini si ispiravano alle indicazioni di una mistica visionaria che a sua detta aveva assistito alla Passione. Circola anche un'altra foto in cui Cristo cammina assieme ad alcuni apostoli: uno è verosimilmente Pietro e - incredibile dictu - nella versione completa dietro il gruppetto si vede un discepolo che fa fumo con la motocicletta! L'immagine è stata prodotta manipolando la foto da una crosta di proprietà del fratacchione. Qual è il problema? Semplice. Cristo siamo abituati a immaginarlo come un uomo alto e robusto, con capelli lunghi e barba. All'origine di tutto ciò sta la cosiddetta iconografia siriaca, che si impose soltanto a partire dal IV secolo. Nelle comunità paleocristiane, Cristo era invece raffigurato come un giovane imberbe. La più antica immagine di Cristo nota è quella del Buon Pastore, molto distante da tutto ciò che ci è familiare. Alcuni rappresentavano Cristo come l'Orfeo della tradizione classica o come un filosofo, per altri doveva invece essere un uomo brutto (es. San Giustino) o addirittura dal viso deforme (es. Clemente Alessandrino, Eusebio di Cesarea). Inutile dire che i primi Cristiani erano più vicini all'epoca in cui Gesù visse rispetto a tutti i ciarlatani e i visionari dei nostri tempi.


Cristo non ebbe la fisionomia di un franco
o di un burgundo
 

All'iconografia siriaca si sovrappose poi un nuovo modo di concepire la figura di Gesù. A seguito delle invasioni delle popolazoni germaniche sul finire dell'Impero Romano d'Occidente, si formò nei cosiddetti Regni Romano-barbarici una classe dominante di origine nordica. L'aristocrazia germanica nei regni di Franchi, Burgundi, Visigoti, Longobardi, Svevi, lasciò una traccia profondissima anche dopo che le corrispondenti popolazioni avevano cessato di essere entità etniche distinte. I nobili nel Medioevo discendevano proprio da quella aristocrazia, che diede origine alle caratteristiche stereotipate con cui ancora oggi si immagina il sovrano tipo. Ad esempio il Re Gambrinus nelle insegne di così tante birrerie e ristoranti: un uomo alto, slanciato, con volto allungato, barba e capelli lunghi di color castano chiaro. Proprio come Gesù, che è ritratto precisamente nello stesso modo. Alto, slanciato, volto allungato, barba e capelli lunghi che possono essere castani, in genere di una tonalità chiara, ma anche biondi o addirittura rossicci. Come un Re dei Franchi o dei Burgundi. La Sindone di Torino è certamente un falso, perché non mostra un uomo di fisionomia mediorientale, ma un nobile franco o burgundo. Per difendere l'iconografia tradizionale fu tentato di tutto. Gli esoteristi tedeschi e lo stesso Adolf Hitler giunsero a credere che Cristo fosse figlio di un legionario romano di sangue germanico chiamato Panthera. Stranamente i Nazisti condividevano proprio l'idea espressa nel Talmud, che faceva risalire la nascita di Gesù proprio a una relazione adulterina di Maria con un legionario. Ho sempre sostenuto l'esistenza di profonde relazioni tra il Nazismo e l'oggetto del suo odio, gli Ebrei - e questo fatto è una prova ulteriore. Questo però ci porta lontano e approfondiremo il discorso in altra sede. Tornando a noi, il Cristo di Ernetti ha anche le vesti tipiche dell'iconografia tradizionale. Sembra uscito da una rappresentazione artistica, per il semplice fatto che è uscito da una rappresentazione artistica.

Altre pretese informazioni recuperate

Stando a Padre Ernetti, il cronovisore avrebbe permesso a lui e agli altri sperimentatori di indagare numerose epoche, evocando per prima cosa un discorso di Benito Mussolini, per procedere a ritroso giungendo a Napoleone, immortalato nell'atto di abolire la Serenissima Repubblica di Venezia. Avrebbero fatto seguito tre esplorazioni del mondo romano con cattura di queste meraviglie: 1) scene di un mercato dell'epoca dell'Imperatore Traiano; 2) la Prima Catilinaria declamata da Cicerone (le cui doti oratorie avrebbero impressionato profondamente gli astanti); 3) la rappresentazione del Thyestes di Quinto Ennio, avvenuta a Roma nel tempio di Apollo il 169 a.C. Il Thyestes è una tragedia andata in gran parte perduta (si pensa che sia giunto a noi solo un decimo del testo), di cui l'Ernetti avrebbe trascritto interamente il testo. Il risultato, a quanto pare deludente, comprenderebbe soltanto una piccola aggiunta originale al materiale già noto. La sua pretesa di autenticità è stata confutata sulla base di argomenti linguistici dalla Professoressa Katherine Owen Eldred di Princeton. In ogni caso il testo prodotto dall'ecclesiastico non si trova da nessuna parte e non mi è possibile analizzare meglio la questione. Si dice che l'inventore del cronovisore fosse un fine latinista, cosa che mi lascia piuttosto scettico. Se la sua conoscenza della lingua di Roma fosse stata paragonabile a quella che aveva della fisica, allora un illetterato avrebbe potuto produrre un testo dotato di maggior senso.  

Conseguenze luttuose dell'eventuale divulgazione

Questo è quanto affermato da Renzo Allegri nel corso della sua intervista a Don Borello:

«Il Papa, i cardinali, gli scienziati, gli uomini politici che videro il cronovisore in funzione si resero subito conto della grande pericolosità di quello strumento. Se quella macchina fosse stata divulgata avrebbe sconvolto l’esistenza dell’intera umanità. Il cronovisore capta tutto ciò che è avvenuto, senza distinzione, senza poter selezionare. Non ci potrebbero più essere quindi segreti di Stato, segreti scientifici, industriali, commerciali, diplomatici, segreti personali. Non ci potrebbe più essere vita privata. Quella macchina in mano a governanti senza scrupoli avrebbe potuto instaurare la più feroce delle dittature. Furono perciò tutti concordi, compreso Padre Ernetti, a non divulgarla. Venne smontata e consegnata alle autorità ecclesiastiche».

Ecco il punto. Se il miracoloso tostapane in grado di catturare il passato fosse entrato in tutte le case, sarebbero fiorite tonnellate e tonnellate di sequenze pornografiche generate dalle corna! Milioni di mariti avrebbero potuto catturare le sequenze delle loro consorti intente a succhiare i bischeri e a farsi penetrare. Pensate, i padri e le madri avrebbero scoperto le loro figlie con l'uccello in bocca. Anche i figli e le figlie dandosi da fare avrebbero trovato prove delle scelleratezze dei loro genitori. Tutti sarebbero rimasti sconvolti e la società umana sarebbe finita! A meno che non si fosse subito imposto un "nuovo paradigma": quello enunciato da Valentina Nappi, che preconizza una società in cui "fare pompini è naturale come respirare"

Il giocattolo immaginario 

Quando ero piccolo condividevo con alcuni miei compagni di scuola una fantasia ingenua quanto assurda, quella dell'esistenza di un'automobile chiamata Zimparpai, che sarebbe stata in grado di compiere molti prodigi, tra cui quello di viaggiare nel tempo. Ecco, il cronovisore non è poi molto lontano dalla mitica Zimparpai.

Nel libro di Padre Brune si riporta infine che Padre Ernetti in punto di morte avrebbe rivelato senza mezzi termini a un suo nipote che il cronovisore non è mai esistito. La sua era una pia frode per spingere gli scienziati a compiere ricerche per poter giungere alla costruzione di un vero sistema per catturare immagini e suoni dal passato. Questo progetto gli stava così a cuore perché sperava di poter dimostrare una volta per tutte la realtà storica del Cristianesimo. Niente da fare, i complottisti non desistono e non tengono in benché minimo conto la possibilità di un inganno. Spuntano come funghi i siti che delirano di connessioni esoteriche assurde, facendo saltare fuori gli immancabili Templari, l'inesistente Priorato di Sion, le colossali stronzate su Rennes-le-Château, i Rosacroce, gli Illuminati, i Rettiliani, i Rothschild e quant'altro.  

Link e altre risorse 

Per approfondimenti riporto una serie di link a siti trovati nel Web sull'argomento. Per prima cosa riporto siti che sono opera di sostenitori dell'autenticità del cronovisore e che nella migliore delle ipotesi scarsamente attendibili. Vi sono tuttavia riportate informazioni di una certa utilità.   





Nel seguito riporto i link ad alcuni video: 




Infine aggiungo i link ad alcuni siti che sono opera di persone apertamente scettiche sull'esistenza del cronovisore. Peccato che si tratti di pagine un po' scarne. 



mercoledì 31 agosto 2016

ALCUNE NOTE SU STAND BY ME DI BEN E. KING E SUL SUO 'ADATTAMENTO' ITALIANO


Le parole di Stand by Me (1961), scritte da Ben E. King, Jerry Leiber e Mike Stoller, mi ispirano una serie di riflessioni. Questo è il testo: 

Stand by Me
(Ben E. King)

When the night has come
And the land is dark
And the moon is the only light we'll see
No I won't be afraid
Oh, I won't be afraid
Just as long as you stand, stand by me

So darling, darling
Stand by me, oh stand by me
Oh stand, stand by me
Stand by me

If the sky that we look upon
Should tumble and fall
Or the mountain should crumble to the sea
I won't cry, I won't cry
No, I won't shed a tear
Just as long as you stand, stand by me

And darling, darling
Stand by me, oh stand by me
Oh stand now, stand by me
Stand by me

So darling, darling
Stand by me, oh stand by me
Oh stand now, stand by me, stand by me
Whenever you're in trouble won't you stand by me
Oh stand by me, won't you stand now, oh, stand
Stand by me

La canzone di Ben E. King è palesemente rivolta a Dio. Si tratta di una chiara metafora della morte, che è vista come il calare delle tenebre alla fine di una giornata. Il moribondo si ritrova solo tra le montagne, in una valle solitaria e impervia, lontano dalle luci delle città. Non c'è più il sole a fare da guida. Sembra quasi di ravvisare un sentimento antico e tipico dei fierissimi Celti, la cui sola paura era che il cielo cadesse sulle loro teste. Infatti la volta celeste sembra tremare, le stelle sono scosse dalle loro sedi e minacciano il viandante. Un riferimento anche all'Apocalisse e a Satana che in forma di dragone smuove gli astri facendone precipitare una terza parte sulla Terra (Ap. 12, 3-4). Un'allegoria che non può avere corrispondenza nella realtà fisica dei cieli e delle stelle, che sono soli lontani e non innocue scintille incastonate nell'Empireo, ma che conserva immutata la sua potenza maestosa. Le montagne collassano, l'intero universo perde senso per chi si accinge a trapassare. Mentre la realtà quotidiana viene smantellata fin dalle fondamenta, Dio è la sola presenza amica. Sembra che l'autore del testo abbia provato sulla propria pelle un'esperienza di pre-morte (NDE), che sia stato vicinissimo a spirare e che una volta ritornato dai confini dell'esistenza terrena abbia sentito fin nel midollo il ricordo di quegli istanti. 

Si capisce che l'origine ultima del testo è Salmi 23, 4: 

Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte,
non temerei alcun male, perché tu sei con me;
il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.  

Alcuni affermano che la canzone di Ben E. King è un adattamento alla musica del suo tempo di un brano soul degli Staple Singers, risalente al 1955. Sono tuttavia convinto che non sia un banale remake. In realtà gli Staple Singers a loro volta si sono ispirati alla canzone Stand by Me di Charles Albert Tindley (1905), che è stata poi ripresa tra gli altri anche da Bob Dylan. Riporto il testo in questione per un rapido confronto:

Stand by Me
(Charles Albert Tindley song)

When the storms of life are raging
Stand by me (Stand by me)
When the storms of life are raging
Stand by me (Stand by me)
When the world is tossing me
Like a ship upon the sea
Thou who rulest wind and water
Stand by me (Stand by me)

In the midst of tribulation
Stand by me (Stand by me)
In the midst of tribulation
Stand by me (Stand by me)
When the hosts of hell assail
And my strength begins to fail
Thou who never lost a battle
Stand by me (Stand by me)

In the midst of faults and failures
Stand by me (Stand by me)
In the midst of faults and failures
Stand by me (Stand by me)
When I do the best I can
And my friends misunderstand
Thou who knowest all about me
Stand by me (Stand by me)

In the midst of persecution
Stand by me (Stand by me)
In the midst of persecution
Stand by me (Stand by me)
When my foes in battle array
Undertake to stop my way
Thou who saved Paul and Silas
Stand by me (Stand by me)

When I'm growing old and feeble
Stand by me (Stand by me)
When I'm growing old and feeble
Stand by me (Stand by me)
When my life becomes a burden
And I'm nearing chilly Jordan
O Thou Lily of the Valley
Stand by me (Stand by me)

Mentre Stand by Me di Ben E. King, membro della Chiesa Battista, è una canzone spirituale che affonda le sue radici nella sensibilità protestante, il suo "adattamento" italiano cantato da Adriano Celentano, Pregherò (1962), è invece di natura assolutamente dissimile. Pregherò non è una canzone cristiana nello stesso senso dell'originale: è infatti una canzone cattolica.  

Eccone il testo: 

Pregherò
(Adriano Celentano)
 

Pregherò
Per te,
Che hai la notte nel cuor
E se tu lo vorrai,
Crederai

Io lo so perchè,
Tu la fede non hai
Ma se tu lo vorrai,
Crederai.

Non devi odiare il sole
Perchè, tu non puoi vederlo,
Ma c'è
Ora splende, su di noi,
Su di noi.

Dal castello del silenzio,
Egli vede anche te
E già sento
Che anche tu, lo vedrai.

Egli sa
Che lo vedrai,
Solo con gli occhi miei
Ed il mondo,
La sua luce, riavrà
Io t'amo, t'amo, t'amo
O-o-oh!
Questo é il primo segno
Che da
La tua fede nel Signor,
Nel Signor, nel Signor.

Io t'amo t'amo t'amo
O-o-oh!
Questo é il primo segno che da
La tua fede nel Signor,
Nel Signor.
La fede é il più bel dono
Che il Signore ci da
Per vedere lui
E allor
Tu vedrai,
Tu vedrai,
Tu vedrai...

A comporre le parole fu Don Backy, un cantautore del clan di Celentano. Pregherò fu subito un successo strepitoso, che raggiunse il primo posto nelle classifiche e arrivò a vendere un milione di copie. Ricordo ancora quando in una trasmissione a cantare questa canzone fu Little Tony. Ci metteva un ardore che rasentava il fanatismo. Aveva gli occhi spiritati e simili a carboni ardenti, tanto da sembrare un milite in partenza per le Crociate.  
Del moribondo che si affida a Dio nel testo italiano non c'è traccia alcuna. A quanto ho potuto apprendere - ma è cosa tutta da dimostrarsi - l'autore del testo celentanesco avrebbe tratto ispirazione dalla vicenda di una ragazza che ha smesso di credere in Dio dopo aver perso la vista. Secondo il mio parere, è invece suscettibile di un'interpretazione ben più ampia. Nego che alluda a un caso particolare. Pregherò è un inno all'intolleranza religiosa, in cui chiunque non crede nel Dio imposto dai preti della Chiesa di Roma viene ritenuto un minus habens, in tutto e per tutto un minorato. La cecità non è, come alcuni dicono, l'incapacità degli occhi di una ragazza di vedere il mondo, ma una trasparente metafora dell'ateismo. L'ateo è in altre parole paragonato a un cieco, che ha la notte nel cuore, che odia il sole perché non può vederlo, che non concepisce i colori perché gli manca qualcosa. Il cattolico militante ritiene quindi di avere il dovere di vessarlo, di spingerlo in tutti i modi a rientrare nell'ovile ecclesiastico e di pregare Dio perché lo converta contro la sua volontà. Un'aporia spaventosa. I cattolici, che affermano la dottrina del Libero Arbitrio, poi si trovano a negarla, contraddicendosi ogni volta che chiedono a Dio di violare la volontà di una persona.

La mia ipotesi è che Pregherò sia stata commissionata dall'organizzazione settaria conosciuta come Azione Cattolica, che nei primi anni '60 aveva ancora un considerevole potere. I ranghi di tale associazione erano agguerritissimi e ben organizzati, tanto che lo stesso Mussolini dovette faticare non poco per sopprimerla, anche se non in modo definitivo. Preoccupato dall'influenza che la setta aveva sui giovani e dalla sua invadenza in ogni campo sociale, scatenò contro di essa gli squadristi d'assalto, che ne ebbero ragione soltanto dopo una dura pugna in cui ne devastarono le sedi, requisendo distintivi, spezzando crocefissi, intonando ripetuti canti osceni e di morte contro il Pontefice (il più mite ritornello sarà stato qualcosa del tipo "Ratti, Ratti nel buso del cul, vaffancul, vaffancul!"). La cosa è tanto più sorprendente se si pensa che questa offensiva esplose nel 1931, dopo la firma dei Patti Lateranensi (1929). Tornando a Celentano e a Don Backy, possiamo affermare questo: ciò che contraddistingue ogni sillaba di Pregherò è proprio l'idea di societas christiana, un'utopia teorizzata da Alcide De Gasperi e portata avanti non soltanto dal Partito Popolare (poi Democrazia Cristiana), ma anche dall'Azione Cattolica. Un'utopia fondata sulla confusione semantica tra le parole cristiano (christianus) e cattolico (catholicus), in cui chiaramente non c'è e non può esserci alcun posto per chi non si riconosce nella teologia e nell'etica della Chiesa Romana. 

Non posso accettare l'analisi di Marco Liberti - che pure riporta informazioni interessanti di cui gli sono grato. Dire che le parole di Ben E. King sono "un testo d'amore abbastanza banale" è una pura e semplice assurdità, più grande del mostro marino che inghiottì Giona. Banali parole d'amore saranno quelle che un ragazzo foruncoloso rivolge alla sua segaiola, non certo quelle di Stand by Me