lunedì 30 marzo 2020

PULIZIE DI PRIMAVERA  

Saranno stati una decina. Tutti con la mascherina chirurgica e armati di spranghe. Sbucarono da Via Luciano Luberti e si avventarono contro il gruppo di anziani radunati davanti all’ufficio postale di Via Tasso. Fu un’azione fulminea, di una brutalità inaudita. Li vidi scagliarsi sui vecchi menando violentissimi colpi di spranga alla testa. Dal mio balcone, situato al quarto piano, potevo udire il suono prodotto dalle sbarre di ferro sulle scatole craniche dei pensionati. Nel giro di pochi minuti, sul marciapiede e sulla sede stradale giacevano una ventina di anziani con il cranio fracassato. Gli assalitori se ne andarono con la stessa velocità con cui erano venuti. Quando riuscii a mettermi in contatto con gli uffici della Questura, la strage si era già consumata. Scesi per strada e mi avvicinai al luogo della carneficina: lo spettacolo era terribile: sangue ovunque, materia cerebrale. Un vecchio rantolava in modo atroce, una schiuma rossastra gli usciva gorgogliando dalla bocca. Grida femminili assordanti rimbombavano dai palazzi limitrofi. Furono ben presto soverchiate dall’ululato delle sirene delle ambulanze e delle volanti che stavano sopraggiungendo a tutta velocità. Mi allontanai in tutta fretta, rifugiandomi sotto il portone, appena prima che l’area si saturasse di poliziotti e di infermieri. Appena varcata la soglia del palazzo, mi sentii chiamare per nome. Era l’inquilino dell’appartamento al pianoterra, un bevitore incallito:
“Ci ammazzano tutti! Lo ha detto la radio!”
“Detto cosa?”
“Che stanno ammazzando vecchi in tutta Italia!”.
Me ne tornai di sopra e accesi la televisione. Un’edizione speciale di Studio Aperto stava dando notizia di massacri di anziani in varie località del paese. Quindi si trattava di un piano preordinato, non di un’azione isolata.
Squillò il telefono. Era un funzionario della Questura.
“E’ lei che ha chiamato poco fa? Scenda, per cortesia, siamo sotto al suo palazzo. Porti con sé un documento di identità.”
Scesi maledicendo la sorte.
Davanti all’ingresso c’erano un paio di uomini in borghese.
“Ridolfi?”
“Sì, sono io.”
“Favorisca un documento.”
Il questurino esaminò la mia carta d’identità e la passò al collega.
“Adesso lei ci racconta tutto per filo e per segno. Dove si trovava quando si è svolto il fatto?”
“Sul balcone, stavo mettendo i rifiuti nel bidoncino che tengo lì.”
“Lei vive solo?”
“Sì.”
“E cosa ha visto, esattamente?”
“Ho dato un’occhiata giù e c’erano tutti ‘sti vecchietti davanti all’ufficio. Di solito succede quando pagano le pensioni.”
“E poi?”
“E poi ho visto una banda di tizi con le spranghe uscire di corsa da Via Luberti.”
“Me li descriva.”
“Avevano tutti le mascherine in faccia, quelle azzurre, dovevano essere giovani, data l’agilità e il colore dei capelli. Chiome grigie o bianche non ne ho viste.”
“Colore della pelle?”
“Con la pelle scura non ne ho visti.”
“Ne è sicuro?”
“Si è svolto tutto talmente in fretta che non posso dirlo con assoluta certezza ma credo proprio di sì.”
“Sono usciti da Via Luberti quindi”
“Sì, e si sono lanciati sui pensionati. Quelli sono venuti per uccidere.”
“E lei come fa a saperlo?”
“Cazzo, menavano sprangate tremende alla testa!”
“Eviti questo linguaggio e si attenga ai fatti.”
“I fatti sono davanti ai vostri occhi, distesi sul marciapiede davanti alle Poste, immobili.”
“E mentre questo avveniva lei cos’ha fatto?”
“Ho chiamato voi.”
“Non ha cercato di fermarli?”
“E come, con la fionda?”
“La diffido dal continuare su questo tono.”
“Scusi ma secondo lei cosa dovevo fare, gettarmi come Batman su quella banda di forsennati e sgominarli a mani nude?”
“Intendevo dire: non li ha invitati a desistere?”
Esterrefatto, guardai il questurino dritto negli occhi.
“Abito al quarto piano, e anche se mi fossi messo a urlare a squarciagola non mi avrebbero sentito: le grida dei pensionati presi a sprangate avrebbero coperto le mie. Ho ritenuto più utile chiamare la polizia, cioè voi.”
“Quanto è durata l’azione?”
“Cinque minuti, una cosa allucinante.”
“Perché allucinante?”
“Perché sono stati velocissimi, un’incursione micidiale.”
“E alla fine di questa ‘incursione’, come la chiama lei, cos’hanno fatto?”
“Si sono dileguati in Via Luberti. Dal mio balcone vedo solo la riga dello stop, quindi non so, poi, dove siano andati.”
“Lei è stato notato nei pressi dell’ufficio.”
“Sì, dopo che se ne sono andati sono sceso.”
“Per quale motivo?”
“Per vedere se ci fossero sopravvissuti.”
“Lei è forse un medico?”
“No.”
“E come contava di ‘vedere’, tastando il polso alle vittime?”
“No, semplicemente osservando coi miei occhi la situazione, da vicino.”
“Ha toccato qualcuno dei corpi?”
“No, nessuno.”
“Si è limitato a ‘osservare’, dunque.”
“Sì, ho osservato che c’erano corpi con la testa rotta e le cervella di fuori, e un poveraccio che rantolava. Per poco: poi ha smesso e gli occhi gli si sono rovesciati all’indietro. Quando ho sentito le sirene delle ambulanze, sono rientrato nel palazzo dove abito per evitare di creare intralcio ai soccorritori.”
“Può andare. La convocheremo per stilare la deposizione.”
Sacramentando in silenzio risalii al mio appartamento. “Mannaggia a me, potevo farmi i cazzi miei!”.
Quel giorno non combinai nulla di utile. Le immagini e i suoni della strage mi tornavano di continuo alla mente. L’edizione delle 13 di Rai News 24 esordì così: “Pogrom di anziani in tutta Italia: migliaia le vittime. Cordoglio unanime da tutte le più alte istituzioni. Ferma condanna da parte del Presidente della Repubblica: ‘Non consentiremo a una minoranza di violenti di trascinare il paese nella barbarie’.”
Si parlava di almeno trentamila morti. L’amara verità cominciava a farsi strada tra le nebbie dell’edulcorazione: i millennial stavano giustiziando gli odiatissimi veci. Su Internet circolavano le voci più disparate: i linciaggi e le esecuzioni sommarie non si contavano più. Mi imbattei in un proclama agghiacciante che così recitava:
“Voi ci avete fottuto il futuro e adesso noi fottiamo voi, vecchiacci di merda. Ci avete tolto la possibilità di avere un lavoro fisso e dignitosamente retribuito. Siete andati in pensione con quindici anni di anzianità. Avete drenato le risorse della nazione e ancora rompete il cazzo, vi lamentate e ci date dei fannulloni. Avete avuto tutto ciò che a noi viene negato: un lavoro fisso, un sistema di welfare. Vi restituiremo pan per focaccia. Quello di oggi è soltanto l’inizio, l’inizio delle pulizie di primavera!”.

Pietro Ferrari, marzo 2020

sabato 28 marzo 2020

LA NUBE 
 
All’alba del 30 settembre 2020 fui svegliato da un fortissimo tanfo di feci. La prima cosa che mi venne in mente fu che fosse esploso il cesso. Andai a controllare: era tutto in ordine. Non restava che una spiegazione: uno spandimento massiccio di fanghi nei campi. Doveva trattarsi di qualcosa di proporzioni inaudite, vista l’intensità dell’odore.
Accesi la televisione: l’edizione delle 6 e 45 del Tg5 si aprì con questo annuncio: “La comunità scientifica avverte: una nube di gas proveniente dallo spazio ha raggiunto il nostro pianeta. Il gas – prosegue il comunicato dell’Agenzia spaziale – benché maleodorante non rappresenta un pericolo per la salute.”

Una nube di gas cosmici puzzolenti. Ci mancava solo quello.

E mi toccava pure andava al lavoro. Appena messo piede in cortile, fui investito da un zaffata di fetore escrementizio che superava tutto ciò  che avevo sperimentato nei decenni di vita trascorsi in quella zona densa di porcilaie. Durante il viaggio verso Pavia l’assedio olfattivo aumentò ulteriormente. In ufficio l’aria era pressoché irrespirabile: la sensazione nettissima era di essere immersi in una vasca piena di stronzi fumanti. Una collega diede di stomaco in corridoio.
 
Su Internet circolavano notizie raggelanti: la nube maleodorante non se ne sarebbe andata in fretta. 
Alle 17:00, un messaggio a reti unificate del presidente del Consiglio sancì  il lockdown generale. 
Ci muravano vivi un’altra volta! Mi domandai quale potesse essere l’efficacia del provvedimento: l’odore di merda entrava dappertutto, abitazioni private incluse! 
Quel giorno non riuscii a pranzare: qualsiasi cosa ingerissi, avevo l’impressione di mangiare merda. 
Il tragitto a piedi dall’ufficio alla macchina fu un calvario: avanzavo a fatica in una spessa bolla fecale. Sul marciapiede di Viale Lungo Ticino Visconti vidi accasciarsi una passante, una donna procace, sulla quarantina. 
Tentai di soccorrerla ma si mise a strillare: “Aiuto, mi sta palpando!”. 
“Signora, non dica scemenze!” 
La adagiai su una panchina.
“In altre circostanze le direi di prendere un bel respiro ma oggi non mi sembra il caso.”

Per un istante parve riacquistare una certa lucidità.

“Mi scusi, non so cosa mi ha preso, dev’essere questo fetore, mi stordisce.”

“Ce la fa ad andare a casa?”

“Mi sta socratizzando!”

Me ne andai immediatamente. Ci mancava solo una matta!

L’abitacolo dell’automobile puzzava tale e quale alla latrina intasata di una stazione ferroviaria. Non c’era scampo, la nube fecale era penetrata ovunque.

Accesi la radio. Risuonò la voce tristemente nota di padre Fabrizio: “Il dodicesimo segreto recita a chiare lettere: se non vi convertirete vi manderò un segno che l’umanità intera non potrà ignorare. Quel segno è arrivato!”.

Come facesse quel prete delirante a scorgere in una nube di merda un segno divino era cosa che andava oltre le mie possibilità di comprensione.

Cambiai canale: Radio JD trasmetteva un’intervista a un “esperto”, tale Aurelio Fubini Trulli, autore del libro: “Le piramidi, la Maddalena e il segreto del Graal”. Questo Trulli era certissimo di avere la spiegazione in tasca: “Si tratta di un’arma chimica. Il cloud seeding è sfuggito loro di mano. Sono gli effetti collaterali dei programmi di controllo meteorologico e geoingegneria climatica. I governi ne sono ben informati ma tacciono”.

Misi in moto e partii. Incredibilmente, la strada era deserta. Dove erano finiti tutti quanti? All’altezza di Porta Damiani dovetti frenare di colpo: la donna di prima era nel bel mezzo della carreggiata e si sbracciava gridando a squarciagola.

“Aiuto! E’ violenza di gruppo! Mi faccia salire!”

“Si sposti per favore.”

“Non può abbandonarmi in queste condizioni! Lei è un mostro!”

“La prego, si faccia da parte.”

“Guardi, non le piacciono le mie autoreggenti?”

“Si tolga dalla strada!”

“Mi faccia salire altrimenti chiamo aiuto!”

“Ma se non sta facendo altro da venti minuti!”

“E allora mi faccia salire!”

“Per andare dove? Mi lasci in pace!”

“Aiuto!”

“Salga, perdiana, salga!”

“Che odore c’è su questa macchina?”

“Lo stesso che c’è fuori, porca puttana!”

“Mi sta dando della porca e della puttana! Lei è un bruto!”

“La smetta con questa storia o la scaravento giù dalla macchina!”

“Non può: ho già messo la cintura.”

“Dove la devo portare, dove abita?”

“Via Lutezio”

“Mai sentita nominare!”

“Liutprando.”

“Dio santo, non si ricorda nemmeno dove vive?”

“Luftanzio, mi pare.”

“Non esiste nessuna via Luftanzio.”

“E invece sì.”

Accostai.

“Adesso le dimostro che non esiste.”

Impostai il navigatore.

“Vede? Non c’è nessuna via Luftanzio.”

“Non ha aggiornato lo stradario.”

“Mi dia un punto di riferimento.”

“Piazza Giovanni Aquarone.”

“E dove cazzo sarebbe?”

“A Torre Beretti.”

“Torre Beretti? Ma scusi lei non è di Pavia?”

“No.”

“E non poteva dirmelo prima?”

“Lei non me l’ha chiesto.”

“Senta, io la porto in stazione e la faccenda si chiude qui.”

“Le piacciono le mie autoreggenti?”

“La faccia finita, per carità!”

“Lei non lo dice ma lo pensa. Ho visto il modo in cui mi guardava prima: come una bestia!”

“Sono stato una bestia a farla salire!”

Nel piazzale della stazione si era radunata una folla di pendolari con le mascherine chirurgiche. Posteggiai vicino alla pensilina dell’autobus.

In quel mentre una donna anziana veniva issata sulle braccia da un gruppo di energumeni, come si usava fare con le statue del Cristo, nei paesi di provincia, durante le processioni del Venerdì santo.

“Qui stanno dando tutti di matto.”

“Vado a vedere se c’è il treno, lei però rimanga qui per favore. Se è tutto ok le faccio segno dall’ingresso.”

“Perché dovrei?”

“Per favore.”

Non chiedetemi il motivo ma le diedi retta e rimasi ad aspettare. La vidi scomparire tra la folla. Riapparve dopo un quarto d’ora: quando aprì la portiera fui raggiunto da una zaffata di tanfo escrementizio che avrebbe abbattuto un facocero.

“Hanno soppresso le corse!”

“E’ sicura? Ha controllato bene?”

“Tutto soppresso, non parte nulla! Ci sono i treni fermi sui binari.”
“Non è possibile.”
“Le giuro che sto dicendo il vero. Quest’odore di merda è insopportabile, non ce la faccio più. Partiamo, la supplico.”

“E dove vuole che vada?”

“Via Simeone Salos.”

“Non esiste! Sicuramente non a Torre Beretti!”

“E’ una traversa di Viale Maria Egiziaca.”

“Lei non sta bene.”

“Controlli lo stradario.”

Pur di levarmela dai piedi ero pronto a tutto. Controllai lo stradario: a Torre Beretti risultava un viale intitolata a Maria Egiziaca!

“Strano, non l’avrei mai detto.”

“Mi accompagnerebbe a casa? Sia buono con me e io sarò buona con lei. Le piacciono le mie autoreggenti?”

“Basta con queste autoreggenti! Senta, la accompagno a casa e non parliamone più.”

“Lei è una persona dolce, anche se dall’aspetto animalesco.”

“Grazie, davvero molto gentile!”

Partii e dopo neanche cento metri mi fermai di nuovo: c’era un uomo disteso sull’asfalto in Viale Vittorio Emanuele II.

“Dobbiamo spostarlo.”

“Non può passargli sopra?”

“E’ impazzita? Scenda piuttosto, e mi aiuti a spostarlo.”

Scendemmo dalla macchina e quando fui accanto al corpo riconobbi Fernando, uno degli ubriaconi più noti di tutta Pavia.

“Lo prenda per i polsi, stringa forte e sollevi.”

Rimuovemmo il cadavere e lo posammo vicino a un portone. L’odore di merda era indescrivibile.

Risalimmo in macchina e la donna cominciò a ridere in modo convulso.

“Cosa le prende adesso?”

“Non ci siamo neanche presentati. Io mi chiamo Domitilla.”

“Piacere, Erminio.”

“Davvero? Mio nonno si chiamava così. Forse.”

“Come forse?”

“Credo di essermi pisciata addosso.”

“Sta scherzando?”

“No no, dico sul serio.”

Mi aveva pisciato per davvero sul sedile. Non reagii, non dissi nulla. L’odore di merda era talmente intenso da esercitare una sorta di effetto narcotizzante.

In Viale della Libertà ardeva una vettura della polizia municipale: i corpi degli agenti giacevano sul ciglio della strada, circondati da pozze di sangue. Le cose stavano prendendo una bruttissima piega.

“Via Simeone Salos.” 

“Ho capito.”

“Torre Beretti.”

“Siamo diretti lì.”

“Potrebbe fermarsi al Mood Moda? Mi servono delle scarpe invernali.”

“No, non posso.”

“Vorrei sedermi dietro, il sedile bagnato mi dà fastidio.

“Se solo avesse avuto la bontà di non pisciarmi in macchina!”

“La prego.”

Accostai. Una volta scesa, si tolse gonna e mutande come nulla fosse e posò gli indumenti sul tappetino del sedile passeggero.

“Non ha una coperta in macchina?”
 
“E’ nel bagagliaio, la prenda.”
“Non si apre.”

“Sì che si apre, prema il pulsante!”

“Ok”

Prese la coperta, se l’avvolse intorno ai fianchi e si sedette sul sedile posteriore.

“Se le scappa di nuovo per favore mi avverta!”

“Certamente.”

“Voglio sperare!”

Sul rettilineo in uscita da Pavia, all’altezza della rotonda degli Ottagoni, giaceva un groviglio di vetture accartocciate le une sulle altre. Svoltai a sinistra ed entrai in San Martino: in paese non incontrai ostacoli. Non si vedeva in giro un’anima.

“Mood Moda, voglio i tronchetti.”

“E’ chiuso.”

“Fa orario continuato.”

“La smetta.”

“Con le micro borchie.”

“Sarà per un’altra volta.”

“Mi faccia telefonare al punto vendita.”

La ignorai. Armeggiò a lungo con lo smartphone.

“Non risponde nessuno.”

“Che strano eh?”

“Se crede di ferirmi con il suo sarcasmo, si sbaglia.”

Nei pressi del Bennet dovetti rallentare e fermarmi di nuovo: un gregge di pecore occupava entrambe le corsie. Non se ne vedeva la fine.

“Perché ci siamo fermati?”

“Secondo lei?”

Prima che potessi aggiungere una sola parola, Domitilla scese dall’auto e si mise a gridare: “Pastore, pastore!”.

Poi, rivolta verso di me:

“Deve esserci per forza un pastore. Dove c’è un gregge, c’è anche un pastore.”

E riprese a gridare. D’un tratto, dal gregge emerse una figura umana: era un uomo piccolissimo, arrivava al garrese delle pecore, sarà stata alto al massimo 90 cm. Per questo non l’avevamo visto.

“Ha bisogno signora?”

“Ci fa passare? Dobbiamo andare a Torre Beretti.”

“A Torre Beretti? Ma non lo ha visto il fumo?”

“Che fumo?”

“Di là, guardi bene.”

Scesi dall’auto e solo in quel momento mi resi conto che, in direzione Sannazzaro, si ergeva un’enorme colonna di fumo nero.

“Che è successo?”

“Hanno bombardato la Raffineria.”

“E chi l’avrebbe bombardata?”, domandai al pastore-nano.

“Non ne ho idea. So solo che ho visto sfrecciare degli aerei e poi, dopo un po’, ho sentito i boati.”

Tornai in macchina. Domitilla tornò a sedersi sul sedile posteriore, con un’espressione affranta.

“Senta”, dissi, “non so cosa stia succedendo, ho l’impressione che tutto stia andando alla malora. Per stanotte, se vuole, può dormire da me. La casa è grande, per quanto fatiscente. Sempre che si riesca a passare. A questo punto, non so cosa ci aspetta dopo Santa Croce.”

“E’ la fine, la fine.”

Sentii bussare alla portiera.

Era il pastore-nano che mi porgeva una bottiglia di grappa.

“La tenga pure, ne ho altre, le ho prese al supermercato, è tutto gratis.”

“Come gratis?”

“Non c’è nessuno alla casse, a parte i morti.”

Domitilla mi strappò la bottiglia di mano e bevve una lunga sorsata a garganella.


Pietro Ferrari, marzo 2020

giovedì 26 marzo 2020

UN THREAD SUL TENTATIVO DI IDENTIFICARE UNA LINGUA IGNOTA DA ME UDITA IN SEREGNO  
 
Riporto nel seguito l'interessante conversazione avvenuta su Facebook, dopo che mi sono imbattuto in una donna parlante una lingua senza rispondenza alcuna con quanto da me conosciuto.  


Giovanni Agnoloni:
estone?

Marco Moretti:
Poteva sembrare una soluzione allettante, ma temo che sia molto implausibile. Per scrupolo ho ascoltato diversi video. Una prosodia completamente dissimile, una diversa fonotattica. Quello che poi colpisce dell'estone è l'alta frequenza delle sibilanti, molto rare invece nella lingua sconosciuta che ho udito.

Marco Moretti:
Ho provato di tutto, inutilmente. Sono giunto alla conclusione che l'esistenza stessa di quella lingua è qualcosa di incongruo, che su questo pianeta non dovrebbe sussistere. Si tenga conto che non ci sono infinite possibilità compatibili con il somatismo della locutrice. Detto ciò, non sono riuscito a trovare una soluzione al problema, che mi assilla, anche perché non è affatto il primo caso di questo genere che mi capita. Da dove vengono queste persone? Chi le ha messe qui? 

Giovanni Agnoloni:
Sarà un dialetto

Fabiana Cilotti:
ho pensato al finlandese o a qualche lingua ugrofinnica, quindi anche ungherese e l'estone, ma certamente tu sei molto più esperto di me. Ma ciò che ti ha colpito è stata solo la lingua, o l'incongruenza tra la lingua e la fisionomia?

Marco Moretti:
Entrambe le cose. Forse se avessi visto un unicorno mi sarei stupito meno.

Marco Moretti:
Ho provato persino a visionare un video nella lingua degli Udmurti, di ceppo ugrofinnico. Si tratta di un popolo che vive in una remota zona della Russia e che è ancora pagano. Non c'è corrispondenza alcuna nella struttura delle parole. Direi proprio che il ceppo uralico nel suo complesso non c'entra nulla.

Fabiana Cilotti:
Lappone-sami?

Marco Moretti:
Mi sento di escluderlo. Ho condotto alcuni studi su parole di sostrato presenti in quella lingua, che è dello stesso ceppo del finlandese, anche se è molto diversa e ha una fonetica particolare.

Marco Moretti:

Fabiana Cilotti:
forse Papi non era il nome del figlio ma significava "vieni qui"

Marco Moretti: 
E' possibile. Del resto, in assenza di qualsiasi parola identificabile, si può dire ben poco. Non c'era nemmeno un prestito da una lingua nota. A volte, quando si sente qualcuno parlare in arabo o in una lingua slava, si notano parole italiane incorporate nel discorso. Una volta, sul treno, ho udito una donna parlare al telefono in una lingua sconosciuta, con una rotica molto vibrante, ma sono riuscito a riconoscere diverse parole prese a prestito dal russo.

Fabiana Cilotti: 
il problema sono i dialetti, che a volte sono difficilmente riconducibili alla lingua originaria, specialmente in una conversazione captata a frammenti, pensa al bergamasco con l'italiano!
E poi ci sono parole o frammenti di esse che sono comuni in molte lingue anche se hanno significato diverso, tipo "mir", in russo mondo, in albanese "bene", e miliardi di altre.
Da come la descrivi sembrerebbe più una lingua uralo altaica ma credo sia difficile riuscire a risolvere questo enigma... dovevi chiederglielo :)

Marco Moretti:
Innanzitutto bisogna definire cos'è un dialetto. Chiamo "dialetti" le varietà galloitaliche come quelle lombarde perché manca una lingua codificata: molti insorgerebbero se si volesse rendere il milanese del Porta la lingua di tutta la Lombardia. Detto questo, il caso del bergamasco aspirato è decisamente anomalo. Non ci sono infinite possibilità, dopotutto. Per quanto riguarda i "falsi amici", va detto che "mir" in russo significa "pace", non "mondo". Credo che sia molto difficile che parole come "svaboda" e "narodny" possano essere "falsi amici" o frutto di inganno. Se ho udito una lingua uralica, allora possiamo dire che un idioma bantu fa parte dei vernacoli toscani.

Fabiana Cilotti:
tu solo sai quanto hai ascoltato di quel discorso e quante parole se pur incomprensibili ti sono arrivate e quante ne hai perse, cioè, in pratica quanto ciò che hai percepito fosse frammentario o meno. Mi pare che la tua osservazione si basi prevalentemente sul suono e sulla fonotassi, ma fortemente condizionata dall'aspetto della donna. Forse se tu l'avessi sentita registrata e non avessi visto chi parlava ti saresti orientato altrove, su altri gruppi linguistici che, in bocca ad una bionda pallida, magari appaiono assurdi

Marco Moretti:
Se avessi sentito una registrazione senza vedere la persona, non avrei avuto la benché minima idea del gruppo linguistico su cui orientarmi. Blackout totale.

Giovanni Agnoloni:
Basco?

Marco Moretti:
Impossibile. Ho studiato quella lingua in numerose sue varianti e la riconosco all'istante. Si tratta di un superstite non indoeuropeo, che proprio per questo è di estremo interesse. Per anni ho analizzato numerosissimi vocaboli, classificandoli a seconda della loro natura. Sono a conoscenza dei lavori di molti accademici. Infatti, essendo il basco una lingua isolata, ci sono stati innumerevoli tentativi di trovare una parentela. Anni fa il professor Bengtson ha mandato un suo servo per cercare di carpire alcuni miei lavori, che tra l'altro erano consultabili in un gruppo di Yahoo, dai cui iscritti cercavo suggerimenti e critiche. Poi ho constatato che lo stesso Bengtson si è avvalso di qualche mia etimologia, senza nominarmi, come è tradizione nel mondo accademico.

Marco Moretti:
C'è una sola cosa in comune tra il basco e la lingua sconosciuta da me udita: entrambe hanno una distribuzione molto squilibrata dei suoni (anche se in modo del tutto diverso).

Francesco Grieco:
ma scusa Marco, i tratti somatici della donna riconducevano ad etnie slave?

Giovanni Agnoloni:
Macedone?

Marco Moretti:
Non era una lingua slava, o avrei riconosciuto molte parole. Il fatto che, come rilevato, mancavano del tutto suoni palatali è molto significativo. No, i tratti somatici non erano simili a quelli di una slava.

Marco Moretti:
Marco Moretti Se dovessi rivederla, a questo punto la fermerei di certo.

Lukha B. Kremo:
Una lingua romani?

Marco Moretti: 
In tal caso sarebbe stata un'albina. Resto comunque abbastanza scettico. Ho udito diverse varietà di romani in svariate occasioni: non di rado mi imbatto in persone di tribù ferroviarie. La sonorità è spesso abbastanza sfuggente e la fonetica è singolare. Una volta c'era sul treno una comitiva di rom valacchi e sono riuscito a distinguere alcune di parole nei loro discorsi. Avevo isolato la parola "manushka" nel discorso di una donna, facendo un'analisi di tale voce, formata da "manush", che significa "uomo" e da un suffisso "-ka" che funge da relativo.

Marco Moretti:
Forse la soluzione è particolarmente contorta e legata a casi sommamente improbabili.

domenica 22 marzo 2020

UNA LINGUA NON IDENTIFICABILE

Tornando a casa, per le vie di Seregno mi sono imbattuto in una donna che parlava senza sosta al cellulare in una lingua sconosciuta e del tutto impenetrabile. Era una persona di piccola statura e aveva i capelli biondissimi, direi che dall'aspetto sembrava proprio una giovane inglese. Un bambino procedeva davanti a lei in bicicletta, indossava un berretto rosa e aveva una faccia scialba. Più ascoltavo le parole della donna, più mi sembravano strane. Il punto è che quella non era affatto una lingua europea. Più in generale, direi che non si trattava una lingua ascrivibile ad alcun ceppo noto. La sonorità era bizzarra, a volte sembrava quasi di udire qualcosa a metà strada tra il francese e lo slavo, ma non sembrava che avesse suoni palatali. A quanto pare non aveva nemmeno una rotica. Ho distinto in modo nitido soltanto poche sillabe: la parola “bokùf” e un'uscita con un improbabile gruppo di consonanti, “-imdzki”. Tra l'altro quella sembrava essere l'unica occorrenza di una terminazione in “-ki”. A un certo punto la donna ha richiamato il figlio, che era andato troppo lontano con la bicicletta. Con mia grande sorpresa lo ha chiamato "Papi". Da dove diamine veniva quella strana bionda? Ho sentito in me un forte senso di disorientamento. Ero tentato di fermarla e di chiederle che lingua stava parlando, ma ho provato disagio e non l’ho fatto. 
 
Marco "Antares666" Moretti, marzo 2018 

mercoledì 18 marzo 2020

TURISTI EXTRATERRESTRI?

Sul treno per Seregno mi capitò di imbattermi in tre persone davvero singolari. Un giovane uomo con la barba corvina, una donna sua coetanea, forse sua moglie, e un anziano che aveva l'aspetto di un magherebino. I due giovani avevano invece sembianze tipicamente europee. La pelle dell'uomo attempato era però di una tonalità più scura della media, come se fosse molto abbronzato. Gli abiti del ragazzo erano strani: portava pantaloni corti di colore marrone scuro e di una foggia che non avevo mai visto prima. La ragazza era indistinguibile da una italiana media, quali se ne possono vedere in giro ogni santo giorno. I tre si esprimevano in una lingua incomprensibile che non sono riuscito a identificare, nonostante mi sia scervellato per capirci qualcosa. Nella loro fitta conversazione sono riuscito a isolare le seguenti parole, alcune delle quali ripetute più volte:

nan-diè
sho-bà
kagdòa
mulumìme-bobò
masìta
palète
itta-camicia
sittu-kolèke 
 
Uno di questi morfi mi sembra un chiaro prestito dall'italiano: camicia. Trovo difficile pensare che si tratti di una mera coincidenza. È stato aggiunto un prefisso itta- di cui non so specificare il senso, forse una specie di articolo o un pronome dimostrativo. Il morfo sittu-kolèke potrebbe contenere un prestito dall'italiano "collega", ma non ne sono affatto sicuro. Il prefisso sittu- deve essere affine a itta-, forse una forma declinata.

In che lingua parlavano i tre stranieri? Mi sono fatto una rapida quanto inconcludente mappatura mentale. 

Non si trattava di una lingua romanza. Non si trattava di una lingua germanica. Non si trattava di una lingua slava. Non si trattava di una lingua baltica. Non si trattava di una lingua celtica. Non si trattava di una lingua uralica. Non si trattava di una lingua altaica. Non si trattava di basco. Non si trattava di una lingua nord caucasica. Non si trattava di una lingua kartvelica. Non si trattava di una lingua semitica. Non si trattava di una lingua berbera. Non si trattava di una lingua iranica. Non si trattava di una lingua indiana. I tre non erano Rom e la loro lingua non era una varietà di romani e neppure di para-romani.
Sorge una domanda: che diavolo di lingua era?

Marco "Antares666" Moretti, luglio 2015

domenica 15 marzo 2020

IL TELEPATE

A volte, durante i miei quotidiani viaggi in treno verso il luogo di schiavitù salariata, mi imbatto in un individuo alquanto singolare. Nella maggior parte dei casi lo trovo la mattina presto andando verso Milano sul treno che proviene da Biasca, anche se qualche volta lo incrocio mentre mi dirigo verso Seregno dopo una defatigante giornata di lavoro. È un uomo maturo di statura molto bassa, con pochi capelli grigi, una bella pelata e baffetti esigui. Una fisionomia comune in Inghilterra, ma abbastanza inusuale in Italia. Il suo volto mi ricorda vagamente quello di Vittorio Sermonti, il noto e apprezzato dantista, ma il cranio ha una forma bombata davvero curiosa. Ha uno sguardo tremendo e di fuoco, con occhi chiari che sembrano di brace come quelli di Caronte. Ogni volta che lo vedo sono preso da un disagio insostenibile, e questo per una ragione molto semplice: so per certo che è un telepate. Riesce a scandagliare la mente di tutti i suoi vicini, scavando in profondità, leggendo i pensieri e dicifrando le emozioni. Il punto è che lo sento scavare nella mia anima come se usasse strumenti chirurgici, sono cosciente della reale esistenza dei suoi poteri perché li ho vissuti sulla mia pelle. Me ne sono accorto in occasione di una giornata estiva particolarmente afosa. Una donna bionda e formosa era seduta davanti a me, proprio di fianco al telepate. Guardando le gambe e i piedi di quella bellezza statuaria mi sono messo a fantasticare e ho pensato di strusciarle il fallo sulla pelle di tutto il suo corpo fino ad avere un'eiaculazione. Gli occhi dell'uomo simile a un piccolo Caronte mi hanno incenerito: poteva vedere nella mente ogni mia azione immaginaria e disapprovava fortemente tali fantasie. Mentre nella fantasia il mio fallo accarezzava il volto della maliarda, passandole prima sulle guance, poi sotto il naso, sulle labbra e cominciando quindi ad eruttare il seme, sono stato assalito da una sensazione difficile a definirsi, come una fitta, una scossa, in ogni caso qualcosa di molto fastidioso. Allora ho visto che il telepate mi fissava, pieno d'ira. La sua ostilità era totale, pur rimanendo egli immobile. Sembrava quasi che mi accusasse di aver commesso un atto di violenza! La donna non si è accorta di nulla: sonnecchiava beata senza nemmeno sapere cosa stava accadendo. Ho subito cambiato scompartimento e da allora ho deciso di oppormi ai tentacoli telepatici di quell'essere alieno, rifuggendolo. Non so chi o cosa sia, ma di certo non è un terrestre. Non è l'unico caso di individuo telepatico in cui mi sono imbattuto, ma devo dire che nel corso della mia esistenza ben poche cose sono state per me altrettanto spiacevoli.

Marco "Antares666" Moretti, gennaio 2017

giovedì 12 marzo 2020

DUE INDIANI UN PO' TROPPO GROTTESCHI

Oggi sul treno c'erano due uomini bizzarri e molto scuri di pelle, che sembravano genti dell'India. Avevano addosso un odore stranissimo, intenso, vagamente simile a quello del curry ma nauseabondo; i loro tratti somatici erano marcati, quasi caricaturali. La cosa che mi ha più colpito è che parlavano una lingua che non sono riuscito a identificare. Uno di loro, che era a dir poco obeso, ripeteva di continuo frasi con le seguenti parole: "IKSOS STAIR", "IKSOS SATAIR", "IKSOS SATRA". Qualcosa mi diceva che non erano di questo pianeta. Un pensiero è balenato in me nell'Antica Lingua. Sono uomini della specie che chiamo "TEDHAAR". Probabilmente sono giunti sulla Terra da DZAMBRA o da qualche pianeta di quel tipo. Un pensiero forte, netto, chiarissimo quanto inspiegabile, che nessuno potrà mai cancellare dalla mia memoria. 

Si potrà dire che si trattava semplicemente di cittadini dell'India, terrestri a tutti gli effetti. La lingua sarà stata una delle tante parlate nel Subcontinente, indoeuropea, dravidica o munda. Il problema è che la sonorità dell'eloquio di quegli uomini era chiara, tanto che coglievo le parole distintamente. Non presentavano suoni aspirati e retroflessi tipici delle lingue indiane. In ogni caso il TEDHAAR obeso mi sembrava un idiota. Continuava a fissare uno scontrino che teneva in mano, additando il prezzo e ripetendo sempre quelle stesse parole che evidentemente erano numerali. L'altro cercava di spiegargli qualcosa, anche se non ci riusciva. Il quoziente intellettivo di quegli individui mi sembrava minimo. A Sesto San Giovanni sono scesi dal treno e non li ho mai più rivisti. Per fortuna, non mi hanno fatto una bella impressione. In ogni caso, non è la prima volta che vedo elementi estranei a questo pianeta andarsene in giro allegramente per Milano e per l'hinterland come se nulla fosse. 

Marco "Antares666" Moretti, ottobre 2012

martedì 10 marzo 2020

IL NOBILUOMO E LA NEVE DELLA MORTE

Una giornata di sole, il cielo sereno e splendente nonostante sia inverno, senza nemmeno l'ombra di una nube. Sono a Milano in Via Melchiorre Gioia, appena uscito dal bar dove ho consumato un pasto scadente durante la pausa pranzo, un input a malapena migliore dell'output. All'improvviso vedo sopraggiungere un uomo quale mai ho visto prima nel corso della mia esistenza. È longilineo, magrissimo e scattante, con la pelle chiara come se non avesse sangue nelle vene, o come se il suo sangue non avesse quasi emoglobina. Somiglia a Sting, il famoso cantante, ma è incredibilmente longilineo, gli occhi sono grigi tanto da sembrare fatti di ghiaccio, i capelli sono rossi come il fuoco o come una varietà metallica di carota. Mi accorgo subito che la fisionomia è del tutto inusuale, non ci si potrebbe imbattere in nulla di simile nel capoluogo lombardo, nemmeno per caso. I suoi abiti sono neri, la sua andatura è sostenuta, il suo portamento è altero, aristocratico. Capisco subito che il lui c'è una nobiltà che non ha mai potuto avere origine su questo pianeta. Forse potrebbe essere un inglese, certo, ma ha comunque qualcosa di diverso, di inesplicabile. Non posso razionalizzare una presenza così incongrua. Se in strada si vedesse un gruppo di uomini di quel tipo, si urlerebbe di certo per lo stupore. Già uno così sfiora quasi l'assurdo, un gruppo sarebbe qualcosa di impossibile, di troppo impensabile per essere reale. A un certo punto sento in me la sua essenza, come se fosse avvenuto un contatto telepatico. Tutto dura pochi istanti, eppure mi cambia la vita. Mi rendo conto che è come se lo avessi riconosciuto, nonostante l'alienità che separa le nostre rispettive condizioni. Un pensiero pulsa nella mia testa: "BONDA GAVALANT!" Quella lingua, che il genere umano ritiene ignota, in realtà la conosco bene. Siamo soltanto in due a parlarla in questo mondo infelice, io e un fraterno amico. Per questo la mia sorpresa è ancora più grande. "BONDA GAVALANT!" significa "NOBILUOMO DI GAVALAN!" L'uomo dai capelli fulvi e lucenti capisce all'istante che ho capito la sua origine. Ha captato i miei pensieri, li ha sentiti in sé, ne sono certo. Mi guarda in preda all'inquietudine e si allontana a passo spedito, come se avesse visto la Morte. Solo allora capisco il perché della sua visita su questo globo terracqueo, proprio a Milano. È venuto a cercare la Neve della Morte, la cocaina!  
 
Marco "Antares666" Moretti, dicembre 2013  

venerdì 6 marzo 2020

INFILTRAZIONI

Mi trovavo alla stazione di Milano Porta Garibaldi, sul treno per Chiasso, in attesa della partenza. Due donne sedevano una di fronte all'altra, su due posti vicino al finestrino, non lontano da me. Erano molto diverse tra loro. Una aveva l'aspetto di una albanese biondiccia, ma con la pelle un po' più scura della media italiana. Aveva un braccio ingessato e vestiva in modo dimesso. Pantaloni sbiaditi e strappati in più punti, anche la camicia non era messa meglio. L'altra donna invece sembrava un'indiana e indossava un lussuoso sari variopinto. Aveva un ornamento nasale ed era molto truccata. I capelli corvini erano raccolti in una acconciatura molto elaborata che non avevo mai visto. Tuttavia la sua pelle non era quella di un'indiana comune: era molto chiara, quasi cadaverica. La donna col braccio ingessato parlava una lingua che non avevo mai sentito prima. Una struttura fonetica stravagante e la presenza di una consonante rotica uvulare molto sgradevole. Non era una semplice erre francese, era un trillo fatto con l'ugola, quasi un ringhio. Con mio grande stupore, la donna che sembrava un'indiana chiara di pelle si è messa a rispondere nella stessa lingua!

Marco "Antares666" Moretti, ottobre 2010

lunedì 2 marzo 2020

UN ALIENO A MILANO

Mi trovavo in Piazza San Babila. Da un po' giravo nervosamente nei pressi di un monumento a forma di piramide che sorge in quel luogo, aspettando il buon Alex "Logos" Tonelli. Intanto la mia attenzione è stata attirata da uno strano uomo che sembrava un sudamericano dai lineamenti grossolani. Forse un colombiano, ma chi poteva dirlo? Per un attimo ho pensato che fosse una specie di Maradona dei poveri. Andava in giro insieme a due prostitute piuttosto appariscenti, che evidentemente aveva rimorchiato in loco. Ecco che a un certo punto lo stravagante puttaniere si è avvicinato a me. In un italiano dalla pronuncia traballante mi ha chiesto quale fosse il nome del monumento. Gli ho risposto che lo ignoravo. Lui è rimasto stupefatto, chiedendomi come fosse possibile che non sapessi dargli una risposta. Dalle sue parti, diceva, se ci fosse stata una simile meraviglia, tutti l'avrebbero conosciuta e il suo nome sarebbe stato famoso. Poi ha pronunciato quella che doveva essere  la parola per indicare la piramide nella sua lingua. Sono rimasto esterrefatto, aveva una sonorità impressionate. Dovendo trascriverla, è qualcosa come T'KHRRYENN. Decisamente non è spagnolo.

Marco "Antares666" Moretti, novembre 2009