sabato 31 ottobre 2015

UNA FALSA INTERPRETAZIONE DELLA SHIBBOLETH DEI VESPRI SICILIANI: IL POTERE DELL'ANACRONISMO

Riflettendo sui ceci e navigando nel Web mi sono imbattuto in un interessante documento, di cui riporto in particolare un brano:


"Secondo quella che è ritenuta una leggenda, durante i Vespri siciliani gli abitanti dell'isola avrebbero ucciso i francesi che, interpellati, non erano in grado di pronunciare correttamente la  parola siciliana ciciri, 'ceci' (il fonema  [tʃ]  manca  in  francese,  dove  viene  adattata con [ʃ]; il fonema /r/ in francese è pronunciato in modo diverso dall'italiano)."

Il punto è che all'epoca dei Vespri Siciliani (1282) la lingua francese non era quella parlata al giorno d'oggi. Si trovava nella sua fase antica, denominata lingua d'oïl: non soltanto aveva il fonema /tʃ/, ma la rotica era trillata esattamente come in italiano. Così la parola chevaus, chevax "cavallo" si pronunciava /tʃe'vaos/ (-x era un monogramma usato per scrivere -us, -os). Il rotacismo francese, più noto come "erre moscia", è un costume molto più tardo: comparve dapprima tra i nobili come segno di distinzione, e si propagò all'intera popolazione soltanto nel tardo XVIII secolo. Nella sua opera Il borghese gentiluono, Molière (XVII secolo) descrive il suono della rotica come alveolare trillato (vibratile), non come una uvulare. Il Maestro di filosofia, volendo insegnare l'ortografia al borghese Jourdain, descrive in modo sorprendentemente preciso come formare i suoni corrispondenti alle singole lettere. Prima inizia dalle cinque vocali, poi continua con le consonanti. Quando arriva alla R, si esprime con queste parole: 

"Et l'R, en portant le bout de la langue jusqu'au haut du palais; de sorte qu'étant frôlée par l'air qui sort avec force, elle lui cède, et revient toujours au même endroit, faisant une manière de tremblement, RRA". 

"E la R, portando la punta della lingua fino al palato, in modo che la lingua, spinta dall'aria che esce con forza, ceda e ritorni sempre allo stesso punto, producendo una specie di tremolia: R, RA."

Tale suono, che un odierno parigino non saprebbe pronunciare, è ancora la norma tra i francofoni del Québec, rimasti a lungo isolati dalla Francia.

Le genti gnosimache queste cose non soltanto non le sanno, ma non le vogliono sapere: a moltissimi è naturale credere che il francese abbia sempre avuto la "erre moscia", ab aeterno, così proiettano l'attuale pronuncia fino ai tempi della Torre di Babele, senza nemmeno sapere che il francese all'epoca di Giulio Cesare era semplicemente... latino volgare.

Possiamo così concludere questo trattatello affermando che di certo i rivoltosi siciliani del XIII secolo giugulavano senza pietà chiunque anziché dire "cìciri" dicesse "cicirì", "cicìri"... o "cicìrri".

GALLETTI REALI E FANTOMATICI CECI

La pietra dello scandalo questa volta è un brano delle Satire di Orazio, in cui è descritto il personaggio di Cicirrus, un antenato di Pulcinella. A dare il nome alla macchietta è la parola cicirrus, che significa "galletto" e che doveva essere in uso nel paese degli Osci. Questo vocabolo corrisponde alla perfezione alla glossa greca κίκιρρος, riportata da Esichio e tradotta con ἀλεκτρυών, ossia "galletto da combattimento". Non ci vuole l'intelligenza di un Einstein per dedurre che questo lemma cicirrus, κίκιρρος è in ultima analisi di origine onomatopeica, e corrisponde grossomodo al nostro chicchirichì. Non si ha motivo di pensare che l'onomatopea sia un vizio esclusivamente moderno solo perché nelle scuole si insegna una lingua latina non colloquiale.


Perché Orazio ha dato questo nome a un suo personaggio guittesco? Secondo alcuni perché era litigioso come un galletto. Così è infatti descritto: 

Nunc mihi paucis
Sarmenti scurrae pugnam Messique Cicirri,
Musa, velim memores et quo patre natus uterque
contulerit litis.

"Ora Musa vorrei
che tu ci ricordassi in poche parole la guerra del buffone Sarmento
e di Messo Cicirro e da quale padre nati l'uno e l'altro
vennero alla zuffa.

Quale che possa essere il motivo di un simile antroponimo, la sua identità con la glossa di Esichio è il punto di partenza di ogni ulteriore speculazione. 

Eppure un nostro avversario, un archeologo, pur di screditare le conoscenze scientifiche e far prosperare la pseudoscienza, si ostina a negare una realtà dei fatti tanto evidente (e se vogliamo persin banale), sostendo assurdamente che il termine cicirrus significherebbe invece "cece", e che Messo Cicirro avrebbe tratto il suo nome da un grosso neo piriforme che aveva in faccia: sarebbe quindi stato, incredibile dictu, una sorta di Bruno Vespa dell'epoca. Questo è quanto ha da dire sull'argomento:

«Il tutto appare completamente logico, se non fosse che i cicirri sono i ceci, termine italico e non greco, tuttora chiamati così nel sud (http://ilquotidianodellabasilicata.ilsole24ore.com/it/ e Vespertine Vignettes a review of Sicilian Vespers by Cedric Hampson in PDF) e non i galli e che Esichio, che scrive in greco, non sapendolo ha preso una cantonata. Quasi solo su questo è stata costruita l'ipotesi della restituta.
Il brano di Orazio (satira 1,5) è questo:
"L’illustre stirpe di Messio sono gli Osci; vive ancora la Signora di Sarmento: i nati da questi due antenati vennero allo scontro. Per primo Sarmento: “Dico che sei simile ad un cavallo selvaggio.” Ridiamo e lo stesso Messio: “Va bene” e muove la testa: “o se la tua fronte non avesse il corno tagliato”, disse, “cosa faresti quando minacci così con le corna tagliate ?” Una ignobile cicatrice gli deturpava la fronte pelosa dalla parte sinistra della faccia. Dopo aver lanciato molti motti in faccia e sulla malattia campana chiedeva se ballasse la danza del pastore Ciclope: diceva che non aveva bisogno della maschera e dei tragici coturni. Cicirro all’indirizzo di questi motteggi diceva molte cose: chiedeva se aveva già donato al Lari la catena per grazia ricevuta; per il fatto che era scrivano, per nulla minore era su di lui il diritto della sua padrona; chiedeva infine perché qualche volta era fuggito lui, al quale sarebbe bastata una libbra di farro dato che era così piccolo e gracile. Insomma la cena si prolungava piacevolmente."»

A sentir lui, Cicirro avrebbe la stessa origine di Cicerone. La spiegazione sarebbe la cosiddetta malattia campana, che "faceva verrucosi e come cornuti nel volto" e che Orazio cita esplicitamente. Questo però non è una prova a favore della teoria del cece. Infatti a leggerne le descrizioni, questa malattia non consisteva in un semplice neo o in una singola verruca, ma in qualcosa di ben più deturpante. Vengono in mente i condilomi giganti acuminati, che in alcuni casi possono portare alla formazione di strutture simili a corna e che sono chiamati popolarmente "creste di gallo". Così, ammettendo la malattia campana come origine dell'antroponimo, Messo Cicirro sarebbe letteralmente Messo il Galletto, a motivo delle sue creste di gallo.

Questo però non basta. Veniamo infatti ad apprendere che secondo l'archeologo - che sarà anche un buon archeologo ma che quando pretende di occuparsi di linguistica proferisce soltanto assurdità - nei dialetti dell'Italia Meridionale, la parola "cicìrri", con l'accento sulla seconda sillaba, significherebbe "ceci".

Vediamo invece come stanno le cose. Prendiamo un sito nel Web, e riportiamo senza modifiche i dati che riporta, limitandoci ad aggiungere un paio di note: 

Dialetto

Voce

Basilicata

cic’r

Calabria

ciciaru

Campania

cìcero

Liguria

çeìxo (sing.), çeìxi (pl.)*

Piemonte

cisi

Puglia

cìcere

Sardegna

cixiri (pronuncia: cijiri), basolu pittudu o tundu

Sicilia

cìciru



*In realtà è çeixo /'seiʒu/, pl. çeixi /'seiʒi/: l'autore della lista ha collocato male l'accento, che cade sulla e. Così fainâ de çeixi "farinata di ceci".

E ancora:

ceci

aiolu pizzutu

Sardegna

siniscola

ceci

cic’r

Puglia

Bari

ceci

ciceri

Calabria

locride

ceci

ciceri

Puglia

Soleto (Lecce)

ceci

ciciari

Calabria

Reggio Calabria

ceci

ciciri

Calabria

Casabona

ceci

ciciri

Calabria

Delianova
(Reggio Calabria)

ceci

cìciri

Puglia

nardò

ceci

ciciri

Puglia

Salento Sud

Ceci abrustoliti

càlia

Calabria

Reggio Calabria

cecio

cic’

Lazio

Pastena (FR)

cecio

ciciru

Puglia

Salento Sud

cecio o ceci

ciciru o ciciri

Sicilia

Avola SR



**Il lemma càlia è l'unico nella lista a non continuare la parola latina per "cece": è infatti dal verbo caliari "seccare al sole", di chiara origine araba (< qala "arrostire"). 

Anche se non sempre riportato nelle liste di vocaboli di cui sopra, l'accento è sistematicamente sulla prima sillaba: si dice cìciri, non *cicìrri. Anche se qualcuno scrive impropriamente cicirri, come nel documento pdf in inglese allegato dal sostenitore delle pronuncia ecclesiastica, questo è soltanto un espediente grafico per trascrivere il siciliano cìciri /'tʃitʃiri/ o il lucano cic'r /'tʃitʃərə/. Il motivo è anche piuttosto chiaro a chi abbia una minima nozione di lingua latina scolastica e di filologia romanza: in latino è cicer, genitivo ciceris, con -e- breve, e quindi con accento sulla prima sillaba. Non esiste la benché minima giustificazione per una forma con accento sulla seconda sillaba.

Tutto è molto semplice: dire che nei dialetti meridionali la parola *cicìrri significa "ceci", anziché il corretto cìciri, è una falsificazione. Bisognerà poi capire se siamo di fronte a una falsificazione inconsapevole o consapevole.

Vediamo di riassumere il procedimento del nostro avversario, che si ostina a definire "non scientifica" la conoscenza contenuta nelle opere dell'intero mondo accademico sulla lingua latina. Vediamo invece quanto sia "scientifico" il suo modo di ragionare.

1) Egli prende una parola dagli odierni dialetti dell'Italia Meridionale;
2) Ne altera l'accento e la pronuncia, foggiando un falso per poterlo usare per i propri scopi;
3) Proietta questa parola all'indietro nei secoli:
4) Prende una parola attestata in Orazio e la identifica con la parola da lui fabbricata e illecitamente proiettata nel passato romano. 

Non c'è che dire: Galileo si starà rigirando nella tomba come una trottola.

domenica 25 ottobre 2015

ANTICHI PRESTITI LATINI IN GALLESE E CONSERVAZIONE DELLA QUANTITÀ VOCALICA IN SILLABA TONICA

Riporto una serie di antichi prestiti latini in gallese allo scopo di mostrare i diversi esiti delle vocali toniche latine a seconda della loro quantità. Come si può vedere, le originarie vocali brevi toniche latine hanno esiti molto diversi da quelli delle corrispondenti vocali lunghe. Questo si può notare anche quando nelle parole gallesi l'accento si è ritratto.   

1) La vocale a breve latina in sillaba tonica rimane a:

Addaf "Adamo" < lat. Adam
aml "abbondante"
 < lat. amplu(m) 
arf "arma"
 < lat. arma
bagl "gamba; stampella"
 < lat. baculu(m)
barf "barba"
 < lat. barba(m)  
cadair "sedia" < lat. cathedra(m) 
calch "calce" < lat. calce(m) 
ffagl "torcia" < lat. facula(m)
fflam "fiamma; fuoco"
< lat. flamma(m)
llafur "lavoro; fatica"
 < lat. labor
maneg "guanto"
< lat. manica(m)
Pader "Padre Nostro" < lat. Pater

In caso di metafonia, si muta in ei: 

lleidr "ladro" < lat. latro: 

2) La vocale a lunga latina in sillaba tonica a seconda del contesto diventa aw [au̯] oppure o

caws "formaggio" < lat. ca:seu(m)
Ionawr "Gennaio" < lat. <me:nse(m)>
     Ia:nua:riu(m)
(dydd) Mawrth "Martedì"
 < lat. <die(m)> Ma:rtis
Mawrth "Marzo" < lat. <me:nse(m)> Ma:rtiu(m)

awdurdod "autorità" < lat. aucto:rita:te(m)
canol "mezzo, centro"
 < lat. cana:le(m)
cardod "carità"
 < lat. carita:te(m)
ciwdod "città"
 < lat. ci:vita:te(m)
diwrnod "giornata"
< lat. (mediev.) diurna:ta(m)
estron "straniero"
 < lat. extra:neu(m)
gwyddor "principio"
 < lat. abeceda:riu(m)

parod "pronto" < lat. para:tu(m)
pechod "peccato"
 < lat. pecca:tu(m)
plo "fato, maledizione" < lat. pla:ga(m)

pysgod "pesci" < lat. pisca:tu(m)  
Ymherodr (ant. Ymherawdr) "Imperatore"
       < lat. Impera:tor

I rari casi in cui la vocale a lunga latina rimane immutata sono dovuti a prestiti dal latino ecclesiastico:

pagan "pagano" < lat. pa:ga:nu(m)
pla "peste"
< lat. pla:ga(m)**

*Per l'esito genuino di un derivato della parola latina, si veda il toponimo Powys
**Per l'esito genuino della parola latina, si veda sopra il lemma plo "fato, maledizione".


3) La vocale e breve latina in sillaba tonica rimane e

creu "creare" < lat. creo:
cyllell "coltello"
 < lat. cultellu(m)
elfen "elemento"
 < lat. elementu(m)
ffenestr "finestra"
< lat. fenestra(m)
gefell "gemello"
 < lat. gemellu(m) 

gwiwer "scoiattolo" < lat. vi:verra(m) 
llew "leone" < lat. leo:
meddyg "medico"
 < lat. medicu(m)
offeren "messa"
 < lat. offerenda
porchell "maialino"
 < lat. porcellu(m)
pregeth "predica"
 < lat. praeceptu(m)  

ysblennydd "splendido" < lat. splendidu(m) 
ysgrifen
"scritto"
< lat. scri:bendu(m)


In un caso si muta in a

sarff "serpente" < lat. serpe:ns

4) La vocale e lunga latina in sillaba tonica diventa wy [ʊi̯]:

cadwyn "catena" < lat. cate:na(m)
cwyr "cera"
 < lat. ce:ra(m)
cynnwys "contenuto"
< lat. conde:nso:
dwys "intenso"
< lat. de:nsu(m)
eglwys "chiesa"
 < lat. eccle:sia(m)
gwenwyn "veleno"
 < lat. vene:nu(m)
mwys "paniere; piatto"
 < lat. me:nsa(m)
plwyf "parrocchia"
 < lat. ple:be(m)

proffwyd "profeta"
 < lat. prophe:ta(m)
pwys "libbra"
< lat. pe:nsu(m)
rhwyd "rete"
< lat. re:te
swydd "lavoro; ufficio"
 < lat. se:de(m) 

Se è sparita una consonante mediana, l'esito è più complesso: 

Powys, una provincia del Galles <lat. 
     pa:ga:ne:nse(m)
 

rheol, rhyol "regola" < lat. re:gula(m)

5) La vocale i breve latina in sillaba tonica diventa y [ɨ]

addysg "educazione" < lat. addisco:
disgybl "discepolo"
 < lat. discipulu(m)
dysgu "insegnare"
 < lat. disco:
ffydd "fede" < lat. fide(m)
gwydr "vetro"
 < lat. vitru(m)
gwyrdd "verde" < lat. viride(m)
llyfr "libro" < lat. libru(m)
llythyr "lettera"
 < lat. littera(m)
myrdd "diecimila"
 < lat. myrias
pysg "pesce" < lat. pisce(m)
sych "secco" < lat. siccu(m)
syml "semplice"
 < lat. simplex

Se è sparita una consolante mediana, si forma un dittongo: 

gŵyl "giorno di festa" < lat. vigilia(m)

Se anticamente seguiva -a, e in qualche altro contesto, diventa e:

saeth "freccia" < lat. sagitta(m)
senedd "parlamento"
 < lat. synodu(m)

Un importante caso di vocale i breve rimasta immutata è dovuto all'analogia col diffusissimo suffisso -ig, di origine celtica: 

Nadolig, Nodolig "Natale" < lat. Na:ta:licia

6) La vocale i lunga latina in sillaba tonica rimane i:

gwin "vino" < lat. vi:nu(m) 
lladin "latino" < lat. lati:nu(m)
melin "mulino"
 < lat. moli:na(m) 

mil "mille" < lat. mi:lia
prif "principale" < lat. pri:mu(m)
selsig "salsiccia"
 < lat. salsi:ciu(m)
trist "triste"
 < lat. tri:ste(m)

7) La vocale o breve latina in sillaba tonica rimane o:

abostol "apostolo" < lat. apostolu(m)
cloff "zoppo"
 < lat. cloppu(m)
corff "corpo"
 < lat. corpus
modd "modo"
 < lat. modu(m)
pobl "popolo"
 < lat. populu(m)

pont "ponte" < lat. ponte(m) 

ysgol "scuola" < lat. schola(m)

In caso di metafonia, si muta in y [ɨ]: 

myfyr "studio, meditazione" < lat. memoria(m)
ystyr "significato"
 < lat. historia(m)

8) La vocale o lunga latina in sillaba tonica diventa u [ɨ(:), i(:)], più raramente aw

awdur "autore" < lat. aucto:re(m)
awr "ora"
 < lat. ho:ra(m)
ffurff "forma"
 < lat. fo:rma(m) 

henadur "assessore" < lat. sena:to:re(m) 
nawn "mezzogiorno" < lat. <ho:ra(m)< no:na(m)
urdd "ordine (religioso)"
 < lat. o:rdo:

9) La vocale u breve latina in sillaba tonica diventa w [ʊ]

cwmwl "nube" < lat. cumulu(m)
ffwrn "forno"
 < lat. furnu(m)
(dydd) Sadwrn "Sabato" < lat. <die(m)> Saturni:

Se è sparita una consonante mediana, si forma un dittongo:

Awst "Agosto" < lat. <me:nse(m)> Augustu(m)

Se anticamente seguiva -a, diventa o: 

boch "guancia" < lat. bucca(m)
fforch
"forchetta" < lat. furca(m)
porffor "porpora"
< lat. purpura(m)

In caso di metafonia, si muta in y [ɨ(:)]

cŷn "scalpello" < lat. cuneu(m)
pydew "pozzo"
 < lat. puteu(m)

10) La vocale u lunga latina in sillaba tonica diventa i nei prestiti più antichi, u [ɨ(:), i(:)] in quelli più recenti: 

cib "tazza" < lat. cu:pa(m)
dir "acciaio"
< lat. du:ru(m) 
nifer "numero"
< lat. nu:meru(m)  

astud "diligente" < lat. astu:tu(m) 
(dydd) Llun "Lunedì" < lat. <die(m)> Lu:nae
mesur "misura"
 < lat. me:nsu:ra(m)
mur "muro"
 < lat. mu:ru(m)
pluf "piuma" < lat. plu:ma(m)
pur "puro" < lat. pu:ru(m)
segur "inattivo"
 < lat. se:cu:ru(m)
(dydd) Sul "Domenica" < lat. <die(m)> So:lis

sabato 24 ottobre 2015

FONOLOGIA DELLA LINGUA LATINA: QUANTITÀ VOCALICA E SUA DECADENZA

Nel latino dell'epoca classica la quantità delle vocali non era una mera masturbazione mentale dei poeti, come si tende ad insegnare nel sistema scolastico italiano, ma qualcosa di vivo e vitale: esistevano realmente vocali lunghe e vocali brevi nella lingua parlata.

Riporto alcuni interessanti brani tratti da Introduzione allo studio del latino volgare, di C.H. Grandgent (traduzione di N. Maccarone, edito da Hoepli), che trattano della quantità delle vocali e di alcuni importantissimi cambiamenti nel sistema vocalico che la lingua latina parlata subì nel corso dei secoli. 


C. - Quantità

    159. Bisogna far distinzione tra quantità vocalica e quantità sillabica. Ogni vocale latina poteva essere per natura lunga o breve; quanto grande fosse la diffrenza noi non sappiamo, ma possiamo congetturare che nel linguaggio comune fosse maggiore nelle vocali toniche che nelle atone.
Una sillaba era lunga se comprendeva 1) una vocale lunga o un dittongo, 2) una vocale breve e una consonante seguente. Se, tuttavia, la consonante era finale e la parola seguente cominciava con vocale, la consonante, nel discorrere fitto, era senza dubbio trasportata nella sillaba seguente o non faceva posizione: vedi § 133. Per la divisione della sillaba formata di muta + liquida, vedi §§ 132, 134.

...

2. QUANTITÀ VOCALICA. 

    165. Originariamente, forse, le vocali lunghe e brevi erano distinte soltanto dalla durata, cioè le vocali avevano, per es., lo stesso suono in lātus e lătus, in dēbet e rĕdit, in vīnum e mĭnus, in nōmen e nŏvus, in ūllus e mŭltus. Sia o non sia stato così, il fatto è che in latino e, i, o, u lunghi e brevi differivano in ciò, che erano aperte le vocali brevi, chiuse le lunghe: vẹndo sęntio, pịnus pįper, sọlus sǫlet, mụlus gųla. Ossia, la lingua per le vocali di breve durata non si sollevava tanto quanto per quelle più lunghe. Più tardi, nella maggior parte dell'impero, į e ų si pronunciarono sempre più basse, e divennero e : vedi §§ 201, 208. Per a, che è pronunziato colla lingua giacente piatta sul suolo della bocca, non vi fu tale differenziazione.
Secondo il Meyer-Lübke, Lat. Spr., 467, la diversità di timbro delle brevi e delle lunghe si sentiva chiara circa il primo secolo della nostra era. In Vok., I, 461, II, 146, III 151, 212, è addotta la testimonianza dei grammatici, tutti di età più tarda; in Vok., II e sgg. la prova delle iscrizioni. Mario Vittorino, verso il 350 dell'era volgare, distingue due suoni di e (S. 175, 182); Pompeo, verso il 480, cita Tertulliano per un e simile ad i, e parecchi grammatici del quinto secolo distinguono nettamente
da ę (S. 176, 182); sin dal secondo secolo ae fu spesso usato per ę nelle iscrizioni (S., 183-184). Terenziano Mauro, verso il 250, distingue da ǫ (S., 175, 211) e così fanno altri grammatici (S., 211). Scrttori che distinguano chiaramente e į, non si trovano fino a Consenzio, nel quinto secolo (S., 193); e, tuttavia, è spesso usato per i nelle iscrizioni, come menus, ecc., e i per e, come minses, ecc. (S. 195, 200-201). Nessuno dei grammatici, come sembra, distingue e ų, ma o è usato per u nelle iscrizioni, come ocsor, secondus, ecc. (S., 216-217).

...

c. Scomparsa dell'antica quantità.

   173. La differenza di quantità fu probabilmente più grande e più costante nelle vocali accentate che non nelle disaccentate. Le distinzioni di qualità, che derivano dalla quantità originale, perdurarono, nelle sillabe toniche, durante il periodo latino e si svilupparono di più nelle lingue romanze; nelle sillabe atone le distinzioni furono senza dubbio più lievi, e furono spesso soppresse.
    174. L'antica quantità si andò anch'essa perdendo, in massima parte durante l'impero. Pare che sia scomparsa dalle sillabe atone verso il terzo o quarto secolo; ma si avverte la confusione fin dal secondo. Il nomin. singol. -ĭs e il plurale -ēs andarono confondendosi verso il 150 dell'era volgare (S., 75), e ae fu spesso usato per e nelle iscrizioni (S., 183-184: benae, ecc.). Terenziano Mauro, circa il 250, ci dice che au è breve in sillabe disaccentate, come in aut (S., 66). Altri grammatici ci mettono in guardia contro una quantità di errori. Commodiano, nel terzo e quarto secolo, pare che osservi la quantità nelle sillabe toniche ma la trascuri nelle atone, e troviamo numerosi errori metrici in altri poeti seriori: cfr. J. Cornu, Versbau des Commodian in Bausteine, 576.
   D'altra parte, le parole latine prese a prestito dalla lingua brettone, massimamente nel terzo e quarto secolo, mostrano, attraverso un ambiamento d'accento, conservata la quantità nelle sillabe postoniche: Loth, 72, 65. Inoltre, le parole latine prese a prestito dall'antico alto tedesco attestano la conservazione di i e u lunghi davanti all'accento: Franz.
   È possibile che la quantità delle vocali atone si sia meglio mantenuta nelle provincie che in Italia.
   175. Nelle sillabe accentate appaiono esempi sporadici di confusione verso il secondo secolo, come aeques per eques nel 197 (S., 225); ma probabilmente la scomparsa dell'antica distinzione non fu generale prima della fine del sesto. Servio, nel quarto secolo, critica Rŏma (S., 106). S. Agostino dichiara che «Afrae aures de correptione vocalium vel productione non judicant» (Lat. Spr. 467). Pompeo e altri grammatici biasimano la confusione di aequus e ĕquus (S., 107, 178). Molte poesie tarde non osservano affatto la quantità.
   D'altra parte, le parole latine prese a prestito dal brettone dal secondo al quinto secolo, ma massimamente nel terzo e quarto, mostrano conservata la quantità delle vocali lunghe: Loth, 64. Le parole latine dell'anglo-sassone, tolte a prestito nel quinto e sesto secolo, conservano la quantità dellevocali su cui sta l'accento: Pagatscher. Le parole latine nell'antico alto-tedesco distinguono pure quantitativamente ī e ĭ, ē e ĕ, ō e
ŏ, ū e ŭ; ŏ, ĕ si distinguono anche qualitativamente, cioè ē > î sta di contro ĕ > e o i; ō > û o ô sta di contro a ŏ > o: Franz.

domenica 18 ottobre 2015

SPIEGAZIONI DEL DITTONGO SPURIO AE PER E BREVE IN LATINO

I nostri avversari, riportando casi di scambio del dittongo -ae- con il monottongo -e- in numerose parole latine, pretendono di dimostrare che lo stesso dittongo sia sempre stato meramente grafico, anche nelle epoche più antiche. In particolare sembrano non badare alla quantità vocalica, visto che nelle loro liste di vocaboli ambigui includono anche alcune forme con vocale -e- breve.

Ne ho trovate due:

aequus per equus
caedrus per cedrus

Questi doppioni non sono affatto assimilabili a quelli del tipo ceterus per caeterus, in cui la -e- tonica era invece sicuramente lunga: devono quindi essere trattati e interpretati a parte. 

Dal punto di vista etimologico, è chiaro che la scrittura caedrus è priva di significato, essendo la parola cedrus dotata di una vocale -e- breve, come dimostra in modo incontrovertibile la sua provenienza dal greco κέδρος. In latino esisteva anche un'altra forma, citrus, dotata ovviamente di -i- breve, che proveniva dalla stessa parola greca κέδρος, ma tramite la mediazione della lingua etrusca:

greco κέδρος > etr. *citre /'kitrə/ > lat. citrus

La presenza di simili doppioni non è infrequente, data l'influenza che la lingua etrusca ebbe in epoca antica su quella di Roma. La variante caedrus è invece sicuramente tarda e volgare, essendo attestata nelle Glossae Placidi Grammatici. Di per sé non prova nulla: quando si produsse, ormai il dittongo etimologico /ae/ si era già da tempo monottongato: deve trattarsi di un caso di vocale breve divenuta lunga sulla bocca di parlanti incolti, in un'epoca in cui la lingua latina stava rapidamente scadendo.

Ugualmente tarda è la variante aequus per equus, stigmatizzata da Pompeo grammatico (V secolo d.C.): 

"Plerumque male pronuntiamus et facimus vitium, ut brevis syllaba longo tractu sonet aut iterum longa breviore sono: si qui velit dicere Ruoma aut si velit dicere aequus pro eo quod est equus, in pronuntiatione hoc fit." 

Stando alle parole del grammatico africano, in equus la vocale tonica era erroneamente prolungata da parlanti che mostravano scarsa dimestichezza col latino, producendo così una vocale aperta /ɛ:/, che veniva scritta naturalmente servendosi del dittongo ae, essendo diversa dalla e lunga ereditata, che aveva invece un suono chiuso. La forma aberrante Ruoma invece era nata da una pronuncia erronea con /ɔ/ breve e aperta anziché con /o:/ lunga e chiusa, tipica dell'Africa. Doveva così essersi sviluppato un dittongo ascendente: /'rwɔma/ anziché /'ro:ma/. Lo stesso Agostino di Ippona ci parla delle difficoltà delle genti africane a intendere la quantità vocalica. Allego alcuni interessanti link a documenti che trattano di questi affascinanti argomenti: 



Diversa è invece la precoce comparsa della grafia -ae per -e breve nella parola bene, scritto erroneamente benae: è naturale che la monottongazione dell'originario dittongo ae sia iniziata nelle sillabe atone e solo in seguito abbia colpito anche le sillabe toniche.

Anche a questo è possibile trovarne una spiegazione logica. Nella parola in questione il dittongo ae era spurio, ossia meramente grafico. Serviva ad esprimere una vocale -e- molto aperta e diversa dalla comune -e- breve simile a quella dell'italiano tetto. Doveva invece suonare come una a anteriore /æ/ (simile alla pronuncia americana dell'inglese bat).

Verso l'inizio dell'Impero certi parlanti incolti dovevano aver cominciato a pronunciare in certi contesti la vocale /ɛ/ breve più aperta del normale, fino a spingersi ad /æ/. Un po' come certi ragazzi d'oggi che sono arrivati a pronunciare "vabbane" anziché "va bene". È assai verosimile che questi soggetti usassero la grafia ae come ipercorrettismo, a causa della loro ignoranza e della loro bassa condizione sociale. Questo comporta anche la mancata distinzione tra vocali brevi e lunghe da parte di questi parlanti difettosi.