Nella sua utile e bella guida all'ebraico biblico, intitolata Lo stato costrutto ebraico - La costruzione ebraica del genitivo, Gianni Montefameglio spiega come funziona il complemento di possesso in quell'antica lingua. Il documento può essere consultato sul sito www.biblista.it e scaricato in formato .pdf al seguente url:
Premetto questo: per semplicità utilizzo la scrittura ebraica non vocalizzata, fornendo al contempo una trascrizione semplificata. Veniamo al dunque. Il nome del possessore si trova nello stato assoluto e porta l'articolo determinativo ה, ha-. Il nome della cosa posseduta lo precede, spesso è in forma ridotta foneticamente e non prende mai l'articolo.
Premetto questo: per semplicità utilizzo la scrittura ebraica non vocalizzata, fornendo al contempo una trascrizione semplificata. Veniamo al dunque. Il nome del possessore si trova nello stato assoluto e porta l'articolo determinativo ה, ha-. Il nome della cosa posseduta lo precede, spesso è in forma ridotta foneticamente e non prende mai l'articolo.
Così da עמק, ʻemeq "valle" e da מלך, melekh "re" abbiamo:
עמק המלך, ʻemeq ha-melekh "la valle del re".
עמק המלך, ʻemeq ha-melekh "la valle del re".
Come ci viene detto, è sempre possibile sostituire il nome allo stato costrutto con una coppia di nomi in stato costrutto, tramite quello che è un bell'esempio di meccanismo di ricorsività possessiva. Così possiamo dire:
עמק בן־המלך, ʻemeq ben ha-melekh "la valle del figlio del re".
Volendo si può procedere oltre. Sarebbe possibilissimo coniare una frase come questa:
דבש עמק בן־המלך, devash ʻemeq ben ha-melekh "il miele della valle del figlio del re"
Oppure, perché no, addirittura questa:
םתיקות דבש עמק בן־המלך, metiqut devash ʻemeq ben ha-melekh "la dolcezza del miele della valle del figlio del re".
Bene, sappiamo che Noam Chomsky andrebbe in sollucchero studiandosi questi particolari, perché riterrebbe che la ricorsività possessiva della lingua dell'Antico Testamento sia una prova capitale della teorie della grammatica generativa. Esiste una sola Lingua Umana, archetipo platonico, emanazione dell'Uno: questo egli sostiene. Tutte le lingue parlate da qualsiasi gruppo umano manifestatosi nella Storia non sono che casi particolari dell'unica Lingua soggiacente. Questa Lingua archetipica è caratterizzata dal meccanismo della ricorsività, che rende possibile applicare una regola linguistica al risultato di una sua precedente applicazione. Se quella che è ritenuta la Prima Lingua, la lingua del Popolo Eletto, gioca tanto bene con la ricorsività, significa dunque che tale caratteristica è l'impronta stessa del Logos, che permea l'intera Creazione di Dio e la rende possibile. Mai entusiasmo potrebbe dirsi più fallace!
Ricordo don M., che era un uomo di dura cervice, oltre che smisuratamente vanitoso. Non aveva tratto gran profitto dai suoi studi in seminario, così il vescovo gli aveva raccomandato di seguire un corso di ebraico biblico. In realtà glielo aveva imposto (anche in un'altra occasione aveva fatto ricorso a misure coercitive, per far sì che il prete facesse uso di un inglese decente). Mi trovavo in Inghilterra, in quel di Brighton, ed ero ospite di una famiglia di tradizioni cockney assieme a don M. In quell'occasione, vidi che l'ecclesiastico teneva spesso in mano una grammatica della lingua ebraica e che aveva sulla scrivania una copia della Bibbia in tale lingua. Così ebbe a dirmi che stava facendo grandi progressi nell'imparare l'ebraico. "È una lingua primitiva di un popolo primitivo, anzi, primordiale", mi spiegò, "Quindi è di una semplicità estrema. È elementare, può esprimere soltanto concetti terra a terra." In pratica una lingua di ominidi. Queste affermazioni mi lasciarono basito. Ben sapevo che don M. stava dicendo spaventose stronzate, come del resto era suo costume. Il suo pensiero era una mistura di ignoranza, di antisemitismo e di pregiudizi medievali sull'ebraico come lingua adamitica - quindi infantile, priva di qualsiasi mezzo per esprimere pensieri elevati, da contrapporsi alla natura arzigogolata del latino.
Questi concetti non sono poi così estranei al mondo accademico. Prendiamo ad esempio l'ottima Grammatica elementare dell'ebraico biblico, ad uso degli studenti dell'Istituto Superiore di Scienze Religiose di Genova (è l'Istituto Superiore ad essere di Genova, non le Scienze Religiose...). Si può consultare e scaricare liberamente al seguente link:
Ebbene, a pagina 3 troviamo questo sunto:
L’Ebraico è una lingua relativamente facile:
– il verbo, che ha solo due tempi, non ha nulla della complessità del verbo greco;
– il nome non ha declinazione;
– il vocabolario è relativamente povero;
– la sintassi è semplice e piana, ama mettere in fila le sue proposizioni coordinandole con una semplicità che potremmo dire infantile: è la “paratassi” ebraica.
Avremo modo di mostrare quanto queste tesi siano ingannevoli.
Sappiamo che l'ebraico biblico non è la Prima Lingua del genere umano. Si tratta di una lingua derivata come tutte le altre. Nello specifico, è un idioma cananeo, proprio come il fenicio e l'ugaritico. C'è chi accusa queste lingue semitiche di non essere complesse dal punto di vista sintattico? E chi l'ha detto che la sintassi ipercomplessa sia un vantaggio? Possiamo facilmente mostrare che l'ebraico biblico è una lingua sobria. Si tratta di una caratteristica che deve essere vista come un pregio, non come un difetto.
Fornisco il link al capitolo secondo della Encyclopedia of Hebrew Language and Linguistics, che tratta della sintassi:
Innanzitutto faccio notare che nei testi in lingua inglese la definizione di paratassi e di ipotassi è un po' diversa da quella usata in Italia. Noi riteniamo pertinente all'ipotassi ogni proposizione subordinata, non le coordinate, che sono invece pertinenti alla paratassi. Per gli anglosassoni, basta l'uso di una congiunzione come "and", "or" o simili per far sì che si parli di ipotassi. Riporto in questa sede tre esempi presi dal documento di cui sopra, ma in scrittura non vocalizzata, usando una trascrizione meno precisa ma più comprensibile ai lettori:
ותרא האשה כי טוב העץ למאכל, wa-tere ha-'isha ki tov ha-ʻets le-ma'akhal "e la donna vide che l'albero era buono come cibo."
כי עשית זות אתה מכל־הבהמה ומכל חיתתהשדה, ki ʻasita zot 'arur 'atta mi-kal-ha-behema u-mi-kol khayyat ha-sade "perché hai fatto questo, sei più maledetto di ogni animale, domestico o selvatico."
וישלחהו יהוה אלהים מגן־עדן לעבד את־האדמה, wa-yshallekhehu YHWH 'elohim mi-gan ʻeden laʻavod et ha'-adama "e Dio YHWH lo cacciò fuori dal gardino dell'Eden affinché lavorasse la terra."
Possiamo dire con certezza che non era ritenuto necessario applicare più di una volta i meccanismi ricorsivi di incorporazione di proposizioni subordinate, o coordinare un'infinità di proposizioni dello stesso livello della principale. Un singolo livello di ricorsività era più che sufficiente in caso di subordinazione. Si può dire che Dio cacciò Adamo dall'Eden perché coltivasse la terra. Non si può dire che Dio cacciò Adamo dall'Eden perché coltivasse quella terra che era ricchissima di argilla e priva di palmizi, diversamente dalle valli che sarebbero poi state date al primo principe del paese di Sodoma e Gomorra, divenute sterili dopo che la collera divina si fu abbattuta sulla zona, permettendo la sola fuga di Lot, che fu sedotto dalle proprie figlie dopo che bevve con avidità l'abbondante vino da loro elargitogli. Non si può dire, proprio perché non serve dirlo. A che scopo condensare un intero racconto in una lunghissima e inutile catena verbale? Lasciamo questi esercizi a Pdor figlio di Kmer!
Prendiamo adesso le stringate frasi tratte dall'Antico Testamento, in tutta la loro essenziale chiarezza, e confrontiamole con alcuni brani del filosofo Peter Sloterdijk, ricchissimi di strutture ipotattiche, al punto da non risultare ben comprensibili. Ecco un estratto da Il quinto Vangelo di Nietzsche (2015):
La famosa frase «l'uomo è l'auto-sperimentazione di se stessi» che tanto spaventa i sapienti moderni come quel noto cardinale di Milano che si è giocato di recente l’ultimo conclave, non è semplicista negazione di ogni contatto con Dio in nome dell’autosperimentazione umana fine a se stessa, altrimenti non si capirebbe nulla di cristianesimo così come degli almeno milleseicento anni post Christum che generarono la più robusta riforma dell’uomo dai padri della Chiesa fino agli albori dei tempi moderni. E lo stesso machiavellismo che Nietzsche esalta come il fenomeno decisivo del Rinascimento, non dovrebbe essere liquidato senza notare che tali entità nietzscheane furono date per l’elevazione dell’uomo dal fondo abrasivo, putrido, melmoso e ipocrita che aveva toccato e che lo fagocitava con forme di schiavitù e di male sempre più pervasive che furono effettivamente considerate ne II Capitale di Marx (altro famoso discepolo se non di Cristo almeno dell’intero arco che va da Cristo alla nascita della borghesia), il cui libro, che già aveva anticipato le idee di questa opera fondamentale per il socialismo politico e non purtroppo per il socialismo etico, Per la Critica dell’economia politica, apparve simultaneamente all’opera principale di Darwin. Tale è la genealogia di Nietzsche, che da qui in poi possiamo legittimamente definire “il quinto evangelista”.
Secondo voi questo è vero progresso? Quando sono arrivato a "il quinto evangelista" del finale, già avevo del tutto dimenticato l'inizio con "La famosa frase" e tutto quanto sta in mezzo, sentendomi un minus habens, quasi una moderna sottospecie di Homo erectus o di Australopithecus afarensis sprovvisto dell'area di Broca! Sono forse un ingenuo adamita? No, è in Sloterdijk, magnifico rettore mefistofelico, che c'è qualcosa che non va. Intanto confermiamo la natura pseudoscientifica della grammatica generativa chomskiana.
עמק בן־המלך, ʻemeq ben ha-melekh "la valle del figlio del re".
Volendo si può procedere oltre. Sarebbe possibilissimo coniare una frase come questa:
דבש עמק בן־המלך, devash ʻemeq ben ha-melekh "il miele della valle del figlio del re"
Oppure, perché no, addirittura questa:
םתיקות דבש עמק בן־המלך, metiqut devash ʻemeq ben ha-melekh "la dolcezza del miele della valle del figlio del re".
Bene, sappiamo che Noam Chomsky andrebbe in sollucchero studiandosi questi particolari, perché riterrebbe che la ricorsività possessiva della lingua dell'Antico Testamento sia una prova capitale della teorie della grammatica generativa. Esiste una sola Lingua Umana, archetipo platonico, emanazione dell'Uno: questo egli sostiene. Tutte le lingue parlate da qualsiasi gruppo umano manifestatosi nella Storia non sono che casi particolari dell'unica Lingua soggiacente. Questa Lingua archetipica è caratterizzata dal meccanismo della ricorsività, che rende possibile applicare una regola linguistica al risultato di una sua precedente applicazione. Se quella che è ritenuta la Prima Lingua, la lingua del Popolo Eletto, gioca tanto bene con la ricorsività, significa dunque che tale caratteristica è l'impronta stessa del Logos, che permea l'intera Creazione di Dio e la rende possibile. Mai entusiasmo potrebbe dirsi più fallace!
Ricordo don M., che era un uomo di dura cervice, oltre che smisuratamente vanitoso. Non aveva tratto gran profitto dai suoi studi in seminario, così il vescovo gli aveva raccomandato di seguire un corso di ebraico biblico. In realtà glielo aveva imposto (anche in un'altra occasione aveva fatto ricorso a misure coercitive, per far sì che il prete facesse uso di un inglese decente). Mi trovavo in Inghilterra, in quel di Brighton, ed ero ospite di una famiglia di tradizioni cockney assieme a don M. In quell'occasione, vidi che l'ecclesiastico teneva spesso in mano una grammatica della lingua ebraica e che aveva sulla scrivania una copia della Bibbia in tale lingua. Così ebbe a dirmi che stava facendo grandi progressi nell'imparare l'ebraico. "È una lingua primitiva di un popolo primitivo, anzi, primordiale", mi spiegò, "Quindi è di una semplicità estrema. È elementare, può esprimere soltanto concetti terra a terra." In pratica una lingua di ominidi. Queste affermazioni mi lasciarono basito. Ben sapevo che don M. stava dicendo spaventose stronzate, come del resto era suo costume. Il suo pensiero era una mistura di ignoranza, di antisemitismo e di pregiudizi medievali sull'ebraico come lingua adamitica - quindi infantile, priva di qualsiasi mezzo per esprimere pensieri elevati, da contrapporsi alla natura arzigogolata del latino.
Questi concetti non sono poi così estranei al mondo accademico. Prendiamo ad esempio l'ottima Grammatica elementare dell'ebraico biblico, ad uso degli studenti dell'Istituto Superiore di Scienze Religiose di Genova (è l'Istituto Superiore ad essere di Genova, non le Scienze Religiose...). Si può consultare e scaricare liberamente al seguente link:
Ebbene, a pagina 3 troviamo questo sunto:
L’Ebraico è una lingua relativamente facile:
– il verbo, che ha solo due tempi, non ha nulla della complessità del verbo greco;
– il nome non ha declinazione;
– il vocabolario è relativamente povero;
– la sintassi è semplice e piana, ama mettere in fila le sue proposizioni coordinandole con una semplicità che potremmo dire infantile: è la “paratassi” ebraica.
Avremo modo di mostrare quanto queste tesi siano ingannevoli.
Sappiamo che l'ebraico biblico non è la Prima Lingua del genere umano. Si tratta di una lingua derivata come tutte le altre. Nello specifico, è un idioma cananeo, proprio come il fenicio e l'ugaritico. C'è chi accusa queste lingue semitiche di non essere complesse dal punto di vista sintattico? E chi l'ha detto che la sintassi ipercomplessa sia un vantaggio? Possiamo facilmente mostrare che l'ebraico biblico è una lingua sobria. Si tratta di una caratteristica che deve essere vista come un pregio, non come un difetto.
Fornisco il link al capitolo secondo della Encyclopedia of Hebrew Language and Linguistics, che tratta della sintassi:
Innanzitutto faccio notare che nei testi in lingua inglese la definizione di paratassi e di ipotassi è un po' diversa da quella usata in Italia. Noi riteniamo pertinente all'ipotassi ogni proposizione subordinata, non le coordinate, che sono invece pertinenti alla paratassi. Per gli anglosassoni, basta l'uso di una congiunzione come "and", "or" o simili per far sì che si parli di ipotassi. Riporto in questa sede tre esempi presi dal documento di cui sopra, ma in scrittura non vocalizzata, usando una trascrizione meno precisa ma più comprensibile ai lettori:
ותרא האשה כי טוב העץ למאכל, wa-tere ha-'isha ki tov ha-ʻets le-ma'akhal "e la donna vide che l'albero era buono come cibo."
כי עשית זות אתה מכל־הבהמה ומכל חיתתהשדה, ki ʻasita zot 'arur 'atta mi-kal-ha-behema u-mi-kol khayyat ha-sade "perché hai fatto questo, sei più maledetto di ogni animale, domestico o selvatico."
וישלחהו יהוה אלהים מגן־עדן לעבד את־האדמה, wa-yshallekhehu YHWH 'elohim mi-gan ʻeden laʻavod et ha'-adama "e Dio YHWH lo cacciò fuori dal gardino dell'Eden affinché lavorasse la terra."
Possiamo dire con certezza che non era ritenuto necessario applicare più di una volta i meccanismi ricorsivi di incorporazione di proposizioni subordinate, o coordinare un'infinità di proposizioni dello stesso livello della principale. Un singolo livello di ricorsività era più che sufficiente in caso di subordinazione. Si può dire che Dio cacciò Adamo dall'Eden perché coltivasse la terra. Non si può dire che Dio cacciò Adamo dall'Eden perché coltivasse quella terra che era ricchissima di argilla e priva di palmizi, diversamente dalle valli che sarebbero poi state date al primo principe del paese di Sodoma e Gomorra, divenute sterili dopo che la collera divina si fu abbattuta sulla zona, permettendo la sola fuga di Lot, che fu sedotto dalle proprie figlie dopo che bevve con avidità l'abbondante vino da loro elargitogli. Non si può dire, proprio perché non serve dirlo. A che scopo condensare un intero racconto in una lunghissima e inutile catena verbale? Lasciamo questi esercizi a Pdor figlio di Kmer!
Prendiamo adesso le stringate frasi tratte dall'Antico Testamento, in tutta la loro essenziale chiarezza, e confrontiamole con alcuni brani del filosofo Peter Sloterdijk, ricchissimi di strutture ipotattiche, al punto da non risultare ben comprensibili. Ecco un estratto da Il quinto Vangelo di Nietzsche (2015):
La famosa frase «l'uomo è l'auto-sperimentazione di se stessi» che tanto spaventa i sapienti moderni come quel noto cardinale di Milano che si è giocato di recente l’ultimo conclave, non è semplicista negazione di ogni contatto con Dio in nome dell’autosperimentazione umana fine a se stessa, altrimenti non si capirebbe nulla di cristianesimo così come degli almeno milleseicento anni post Christum che generarono la più robusta riforma dell’uomo dai padri della Chiesa fino agli albori dei tempi moderni. E lo stesso machiavellismo che Nietzsche esalta come il fenomeno decisivo del Rinascimento, non dovrebbe essere liquidato senza notare che tali entità nietzscheane furono date per l’elevazione dell’uomo dal fondo abrasivo, putrido, melmoso e ipocrita che aveva toccato e che lo fagocitava con forme di schiavitù e di male sempre più pervasive che furono effettivamente considerate ne II Capitale di Marx (altro famoso discepolo se non di Cristo almeno dell’intero arco che va da Cristo alla nascita della borghesia), il cui libro, che già aveva anticipato le idee di questa opera fondamentale per il socialismo politico e non purtroppo per il socialismo etico, Per la Critica dell’economia politica, apparve simultaneamente all’opera principale di Darwin. Tale è la genealogia di Nietzsche, che da qui in poi possiamo legittimamente definire “il quinto evangelista”.
Secondo voi questo è vero progresso? Quando sono arrivato a "il quinto evangelista" del finale, già avevo del tutto dimenticato l'inizio con "La famosa frase" e tutto quanto sta in mezzo, sentendomi un minus habens, quasi una moderna sottospecie di Homo erectus o di Australopithecus afarensis sprovvisto dell'area di Broca! Sono forse un ingenuo adamita? No, è in Sloterdijk, magnifico rettore mefistofelico, che c'è qualcosa che non va. Intanto confermiamo la natura pseudoscientifica della grammatica generativa chomskiana.
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