sabato 30 novembre 2019


LA FONTANA DELLA VERGINE 

Titolo originale: Jungfrukällan
Anno: 1960
Regia: Ingmar Bergman
Paese: Svezia
Lingua: Svedese
Durata: 89 min
Colore: B/N
Rapporto: 1,37:1
Genere: Epico, drammatico
Soggetto: Leggenda popolare del XIV secolo (Per Tyrssons
      d
öttrar i Vänge)
Sceneggiatura: Ulla Isaksson
Produttori (non accreditati): Ingmar Bergman, Allan
      Ekelund
Casa di produzione: Svensk Filmindustri 
Responsabile della produzione: Carl-Henry Cagarp 
Fotografia: Sven Nykvist
Musiche: Erik Nordgren
Montaggio: Oscar Rosander
Scenografia: P.A. Lundgren
Costumi: Marik Vos-Lundh (come Marik Vos)
Trucco: Börje Lundh
Fonici: Evald Andersson (effetti sonori), Staffan Dalin,
     Aaby Wedin 
Dipartimento artistico: Karl-Arne Bergman
Assistente alla telecamera: Rolf Holmquist
Interpreti e personaggi:
    Birgitta Pettersson: Karin
    Gunnel Lindblom: Ingeri, la serva pagana
    Max von Sydow: Töre
    Birgitta Valberg: Märeta
    Axel Düberg: Pastore magro
    Tor Isedal: Pastore a cui è stata strappata la lingua
    Ove Porath: Bambino
    Allan Edwall: Il monaco
    Oscar Ljung: Simon
    Gudrun Brost: Frieda
    Axel Slangus: Il Guardiano del Ponte, Odino
    Tor Borong: Un bracciante
    Leif Forstenberg: Un bracciante
Doppiatori italiani:
    Fiorella Betti: Karin
    Anna Miserocchi: Ingeri, la serva pagana
    Giuseppe Rinaldi: Töre
    Lydia Simoneschi: Märeta
    Pino Locchi: Pastore magro
    Manlio Busoni: Il monaco
    Maria Saccenti: Frieda
    Amilcare Pettinelli: Il Guardiano del Ponte, Odino
Traduzioni del titolo:
    Inglese: The Virgin Spring
    Tedesco: Die Jungfrauenquelle
    Francese: La Source
    Spagnolo: El manantial de la doncella
    Portoghese:
A Fonte da Virgem
    Danese: Jomfrukilden
    Finnico: Neidonlähde
    Lituano:
Šaltinis
    Polacco: Źródło
    Russo: Девичий источник
    Ungherese: Szűzforrás
    Turco: Genç kız pınarı
    Arabo (Egitto): Alrabi' albekr
    Persiano:
Cheshme-ye bakere
    Giapponese:
Shojo no izumi (処女の泉
Premi e riconoscimenti:
    1961 - Premio Oscar
        Oscar al miglior film straniero
    1961 - Golden Globe
        Golden Globe per il miglior film straniero
    1960 - Festival di Cannes
        Menzione speciale
    1961 - Semana Internacional de Cine de Valladolid
        Lábaro de oro

Trama:
Siamo nel XIV secolo, in una regione impervia della Svezia. Töre è un proprietario terriero la cui moglie Märeta è molto devota. La loro  unica figlia, la bellissima Karin, deve portare dei ceri in chiesa in occasione della Candelora per offrirli alla Vergine. Infatti secondo il costume cristiano i ceri per la Madonna devono essere offerti da una ragazza vergine. Nella fattoria di Töre abita anche Ingeri, una serva che porta in grembo un figlio, frutto di uno stupro. Di notte, mentre i suoi padroni dormono, lei invoca Odino affinché porti loro la rovina. La ragazza gravida è infatti pagana. Nessuno sospetta l'odio che cova in lei, così viene incaricata di accompagnare Karin nel suo viaggio verso la chiesa. Durante il tragitto accadono cose portentose. Mentre Karin procede a cavallo, Ingeri viene chiamata dal custode del ponte, che la attira nella propria dimora. Presto si capisce che il vecchio uomo è in realtà lo stesso Odino. Terrorizzata in seguito a un'avance, la giovane pagana fugge via nel bosco. Intanto la figlia di Töre incontra tre pastori. Il primo è un uomo magro con pochi capelli biondicci. Il secondo, bruno e dal sembiante distorto, è mutilato della lingua e parla in modo incomprensibile. Il terzo è un bambino. I tre convincono facilmente la ragazza a dividere con loro le proprie provviste, ma a questo punto accade la tragedia. Una volta consumato con lei il pasto, i due uomini le saltano addosso e la stuprano. Preso da una furia incoercibile, l'uomo con la lingua tagliata si avventa su di lei con una grossa mazza di legno e le fracassa il cranio, uccidendola sul colpo. Ingeri, che nel frattempo è giunta sul luogo, assiste al delitto ma non fa nulla per fermarli. La ragazza uccisa viene spogliata delle sue vesti preziose e abbandonata. L'uomo con la lingua tagliata trova i ceri e li calpesta con furia. Il bambino, mosso a pietà, seppellisce Karin raccogliendo a mani nude il terriccio e mettendolo sul corpo estinto per coprirlo alla bell'e meglio. Intanto nella dimora di Töre tutti capiscono che qualcosa è andato storto, visto che la giovane non ha fatto ritorno. Giungono i tre pastori, che trovano il padrone della fattoria e gli chiedono ospitalità, dicendo di provenire da un paese devastato dalla carestia. Vengono accolti e condotti nella grande sala, dove viene dato loro da mangiare. Durante la notte, i tre commettono un gravissimo errore: propongono alla signora della casa, Märeta, la vendita di una splendida veste, dicendo che apparteneva a una loro sorella deceduta. La donna riconosce subito il prezioso abito di seta della figlia. Capisce immediatamente che la povera Karin è stata uccisa da quegli uomini. Senza scomporsi dice loro che ne deve parlare con suo marito, quindi si reca da lui e gli racconta tutto. Töre è furioso e prepara la vendetta di sangue. Chiede a Ingeri, che gli ha narrato le atrocità compiute dai pastori, di scaldare le pietre per il bagno. Fatto questo, sradica con la forza delle proprie braccia una betulla, ne taglia i rami e li usca per fustigarsi mentre prende un bagno a vapore. Si tratta di un complesso rituale preparatorio. Fatto questo, entra nella grande sala e uccide i pastori. Non ha pietà neppure del bambino, nononstante le suppliche di Märeta, che per istinto materno vorrebbe risparmiarlo: lo afferra e lo getta contro un mobile, fracassandogli la spina dorsale, uccidendolo sul colpo. Ingeri guida i genitori di Karin sul luogo del delitto e il cadavere viene tolto dal sottile strato di terra nuda sotto cui l'aveva nascosta il bambino. Töre non sa darsi pace e si strazia, non capisce come Dio possa averlo caricato con un simile gravame. Nonostante non sia capace di spiegarsi la volontà divina, l'uomo promette solennemente che edificherà una grande chiesa di pietra e di calce proprio in quel luogo. Non appena il corpo della vergine viene rimosso, sgorga una copiosa fonte di acqua limpida. Ingeri si prosterna, piange e si lava il volto nell'acqua, mentre Märeta usa l'acqua per pulire la faccia di Karin da ogni traccia di sozzura e di sangue.     

 
Recensione: 
Con pochissime eccezioni, i recensori che abbondano nel Web non sembrano capire l'estrema complessità di questo film. C'è chi parla del rapporto tra l'essere umano e Dio, in un'ottica esclusivamente cristiana. Eppure la chiave di lettura appare subito fin dalle prime sequenze della pellicola, come una crepa che si apre all'improvviso nel cielo: la giovane Ingeri, nella sua solitudine, compie un atto privato che è qualcosa di inconcepibile in un contesto dominato dal geloso Dio delle Scritture. Ingeri urla: "Odino vieni a me!" Ecco la spaccatura che incrina le certezze dell'uomo medievale. Tanto hanno risuonato in me queste parole che mi è parso di udirle in norreno: "Óðinn kom til mik!" Sarebbe di grande interesse curare un doppiaggio del film in quella lingua. Certo, nel XIV secolo sarebbe suonata in modo un po' diverso, ma la sostanza non cambia. Emerge dall'analisi dell'opera di Bergman l'incredibile debolezza della religione ancestrale rispetto al nuovo culto cristiano, introdotto sulla punta della spada. Di fronte al tormento dell'uomo che si domanda come mai Dio sia muto, più muto del pastore assassino responsabile di tutto questo dolore, la soluzione sarebbe semplice. Eppure proprio per la sua semplicità, appare inconcepibile al protagonista. Abiurare il Cristianesimo e adorare Odino, ecco la soluzione più ovvia, più immediata, in grado di ricomporre un mondo distrutto. Perché costruire una chiesa anziché placare l'antica divinità con un sacrificio di sangue? Cercare la Salvezza? Perché mai, visto che nessuno si può salvare? Non so come mai nessuno si sia accorto di questo punto cruciale. Per dirla in modo stringato, il problema è che troppe persone credono che Odino e Thor siano invenzioni della Marvel. 

Una censura vigliacca 

In un borgo particolarmente bigotto del Texas il film di Bergman è stato censurato perché nelle sequenze dello stupro sono visibili le gambe nude della ragazzina. Questa è la mens puritana americana. Il problema non è la violenza sessuale, che ha proprio nella Bibbia una rinomata tradizione apologetica. Il problema sono le gambe nude. Ecco, volevo giusto farlo notare. Tra le mer(d)aviglie dell'America c'è anche questo genere di cose.  


Una guerra di religione 
 
I tre pastori sono pagani che combattono attivamente contro la religione dominante. I loro crimini non sono semplici atti di predazione: sono atti di guerra. Il calpestamente dei ceri non sarebbe mai stato compiuto da un cristiano in un simile contesto. Il pastore bruno dalla lingua mozzata è quello più animato dall'odio, perché intende vendicarsi di un grave torto che gli è stato inflitto. Anche se nella pellicola di Bergman non si parla degli antefatti, si capisce all'istante qual è la causa della mutilazione. L'uomo è stato sorpreso a compiere un sacrificio pagano e un sovrano cristiano lo ha condannato, facendogli recidere la lingua. Cose del genere erano all'ordine del giorno. Oggi si fa tanto parlare di un Medioevo splendido che irradiava la luce della civilità. Coloro che lo fanno e che a ogni piè sospinto insistono sulle "radici cristiane dell'Europa", relegano nell'Oblio le innumerevoli atrocità di quel mondo di tormenti e di morte, in cui la Chesa di Roma governava col pugno di ferro del peggior tiranno. Sono orrori ben documentati. Ne esiste una vasta miniera in cui non smetto mai di scavare. 
 
 
Il Guardiano del Ponte 

"Come ti chiami?", chiede Ingeri. "Di questi tempi quale valore ha un nome?", risponde il Guardiano. L'allusione è chiara. In un'epoca in cui si è imposto il Cristianesimo e l'Antico Costume langue, i nomi degli uomini hanno cessato di avere importanza. Non mancano i riferimenti all'onniveggenza e all'onniscienza di Odino. "Questo è un luogo molto solitario. Non hai nessuno vicino?" chiede Ingeri. "No", risponde il Guardiano, "Io sento ciò che voglio. E vedo ciò che voglio. Sento tutto ciò che si sussurra in segreto, e vedo quello che altri non vedono." Poi promette di condividere con la ragazza questa facoltà sovrumana: "Puoi riuscire a farlo anche tu, solo che tu lo voglia. Ascolta!" All'improvviso si odono rumori di zoccoli di cavalli al galoppo. "Cos'è questo galoppo all'esterno?", chiede Ingeri. "Sono tre spettri che vanno a nord!", risponde il Guardiano. La giovane non supera la prova, non accetta il modo in cui la forza sta per esserle trasmessa. Non gradisce di farsi rovistare tra le gambe dall'essere che le appare come un vecchio uomo lascivo. Quando fugge sconvolta dalla dimora del dio, si sentono gracchiare due grossi corvi: sono proprio Huginn e Muninn! Si credeva che questi prodigiosi volatili, neri come la pece, volassero in tutto il mondo e portassero a Odino ogni genere di notizie e di informazioni. Essendo in grado di bilocarsi, il Guardiano del Ponte fa la sua comparsa tra gli arbusti, sghignazzando. Si vede che un suo occhio è diverso dall'altro: si tratta di una biglia di pasta di vetro lavorata con arte. Com'è notorio, il Padre degli Asi è monocolo, avendo sacrificato un occhio per avere la sapienza. Le sue capacità di mascheramento sono leggendarie! 
 
Nei rari commentatori che si sono resi conto dei contenuti pagani del film, sorge il dubbio che il Guardiano del Ponte possa essere il Diavolo. La cosa non è affatto problematica. Come l'ottima studiosa Gianna Chiesa Isnardi ci ricorda, nella società scandinava cristianizzata permaneva la ferma credenza nell'esistenza fisica degli antichi Dei, che però erano ritenuti demoni. Così ai tempi in cui la vicenda è ambientata Odino era considerato una manifestazione del Diavolo. Si è verificato un bizzarro sincretismo. In altre parole, se la conoscenza delle cose del Cielo aveva per i Cristiani nordici la sua fonte nelle Scritture, la demonologia era formata dall'intero edificio dell'antica religione pagana. La conoscenza delle cose dell'Inferno implicava dunque la pratica dei riti del Paganesimo e questo per secoli dopo che era avvenuta la cristianizzazione. Peccato che queste cose i manuali scolastici non le riportino, tanto sono considerate irrilevanti dallo sciagurato corpo docente. 
 

 
Ingeri e il veleno dei rospi 

La pratica magica di Ingeri è per necessità molto limitata. Si limita in buona sostanza all'utilizzo dei rospi, nascosti abilmente in mezzo al cibo per avvelenare le persone odiate. Il suo bersaglio è Karin, ma il batrace tossico finisce in bocca al pastore più giovane, inducendogli un'intensa nausea e crisi di vomito. La bruna Ingeri è consapevole della pochezza delle proprie arti, per questo viene subito irretita dal Custode del Ponte, che le promette una cura ai dolori della gravidanza. Il seggio di Odino è di fattura arcaica. I braccioli sono statue lignee finemente intagliate: una rappresenta Thor con tanto di martello, l'altra rappresenta Freyr. Seguono alcuni incantesimi. "Questo reca sollievo ai tuoi dolori", dice Odino alla ragazza, mostrandole il corpo di un serpente arrotolato e irrigidito. Ne ha subito pronto un altro identico, un doppione, seguito da una formula simile: "Questo reca sollievo alle tue pene". "Basta o sangue, non scorrere più!", recita quindi mostrando il dito mozzato di un uomo, rimedio contro le emorragie. La divinità estrae un pesce rinsecchito e dice: "Pesce non nuotare più". Subito dopo estrae un pipistrello rinsecchito e dice: "Pipistrello non volare più". Tutto ciò ha corrispondenze ben numerose nel patrimonio di formule e incantesimi in uso nell'antica Germania come medicina tradizionale. Com'è ovvio, i recensori ignari dell'antica religione non si sono accorti di nulla e nemmeno menzionano questi tesori antropologici nei loro interventi. 


Lo scacciapensieri 
 
Uno dei tre pastori, quello ben dotato di parlantina, a un certo punto suona uno scacciapensieri. Si tratta di uno dei più antichi strumenti musicali. Molti pensano che sia originario della Sicilia, dove è chiamato marranzanu. In realtà il suo uso è documentato su territori vastissimi, praticamente in ogni parte del globo. Oltre a marranzanu, in Sicilia è chiamato anche mariòlu o ngannalarruni (alla lettera "inganna-ladri"). La parola marranzanu significa propriamente "grillo canterino", ma esiste anche un suo omofono col significato di "uomo poco raccomandabile" (derivato di marranu, equivalente all'italiano marrano, di origine spagnola e in ultima analisi araba). Così grazie a questa omofonia è nato mariòlu, come per un gioco di parole (anche mariòlu significa "uomo poco raccomandabile"). In Sardegna lo strumento musicale arcaico è chiamato trunfa o trumba. In modo simile, gli Zingari della Campania lo conoscono come tromba, denominazione che ritorna nei Balcani come dombra. In Lombardia è detto viabò, in Corsica riberbula. In Francia si chiama guimbarde, in Spagna arpa de boca o biribao, in Portogallo birimbau. La sua diffusione raggiunge la Siberia e la remotissima terra degli Jakuti (che non sono gli inventori della Jacuzzi).  

Il canto del cuculo 

L'arrivo dei tre pastori è preceduto e accompagnato dal canto del cuculo, un uccello augurale connesso a Odino. Simile a un piccione con gli occhi grossi, fissi e strabici, col ventre decorato finemente da leggere striature, questo parassita dei nidi di altre specie emette un verso nitidissimo e potente, anche se molto ripetitivo: "Gukkù! Gukkù! Gukkù!" Può andare avanti anche per mezz'ora. Quel cuculo canoro è un portento funesto che annuncia la rovina di Karin e continua a cantare a lungo. 


Il pastore e l'uccisore: due fratelli  

In Germania esiste un detto arcaico, testimonianza di un'epoca molto diversa dalla nostra. Schäfer und Schinder sind Geschwisterkinder "Il pastore e l'uccisore sono due fratelli". Il termine Schinder, ormai arcaico, indicava un uomo incaricato di abbattere animali vecchi o malati e di riciclarne i resti. Era una sorta di intoccabile, come i Dalit dell'India. I suoi compiti includevano la soppressione dei cani randagi, la pulizia dei pozzi neri e delle fogne, la rimozione di cumuli di immondizia. Un altro significato di Schinder è "uomo che abusa,  tormenta o sfrutta altre persone". Il pastore e l'abbattitore erano i residui di una società neolitica male assimilata dalle genti indoeuropee e relegati come altri intoccabili ai margini del consorzio umano: non sorprende troppo che su di loro gravasse uno stigma, che fossero considerati moralmente ripugnanti. Lo stupro e l'assassinio erano loro attributi, come la sporcizia e l'impurità.  


Il canto del monaco 
 
La vergine Karin è appena partita a cavallo per portare i ceri alla Madonna. Il monaco è al settimo cielo ed esprime la sua gioia con un bellissimo canto che non è stato tradotto. La sua pronuncia è chiarissima, al punto che molte parole mi risultano comprensibili, come se la lingua fosse una forma di tardo norreno più che non svedese moderno. In particolare la rotica /r/ è fortemente trillata, come in italiano e in spagnolo. Quando visitai la Svezia, rimasi stupito dal suono della lingua. Quando capii che la parola stjarna "stella", era pronunciata /'ʃanǝ/, mi sentii quasi male e fui preso dal disgusto. E pensare che in norreno i suoni erano distinti, chiari e cristallini come acqua di fonte! Ecco, il canto del monaco bergmaniano testimonia che una pronuncia arcaica e nobile dello svedese è ancora ricordata da alcuni. 

 
Un inferno pagano 
 
Il monaco è un uomo molto istruito e intelligente. È un valente poeta, le cui parole non si dimenticano. Oltre a conoscere le Scritture, conosce bene anche le cose pagane. Così, avendo capito che i pastori e gli assassini sono consanguinei stretti, raggiunge il bambino steso sul letto e gli racconta del reame di Hel:

"Vedi come il fumo trema e si abbarbica sotto il tetto? È come se avesse parura dell'Ignoto. Eppure se si librasse nell'aria troverebbe uno spazio infinito dove volteggiare. Ma forse non lo sa. E così se ne sta qui, nascosto, tremolante e inquieto. Con gli uomini capita lo stesso. Essi vagano inquieti come tante foglie al vento. Per quel che sanno e per quello che non sanno. Tu... tu passerai su un ponticello stretto e malfermo. Così stretto che non saprai dove poggiare il piede per sorreggerti. Sotto di te muggisce un fiume, ed è tetro, e vuole inghiottirti. Ma raggiungerai l'altra riva. Ma ora avanti a te trovi un burrone, così scosceso che non puoi vederne il fondo. Delle mani vogliono afferrarti, ma non ti raggiungono. Infine, di fronte a te avrai un'orribile montagna. Il fuoco scaturisce dai fianchi. Crepacci orrendi partono dalle sue falde. Le fiamme sprizzano tutte insieme, rame e ferro, vetriolo azzurro e giallo zolfo. Il basalto geme e si frantuma sotto il maglio dei fulmini, e intorno atterriti piccoli uomini fuggono, come mille formiche. Perché quella fornace inghiotte gli assassini e i predoni!"

Solo a questo punto subentra qualcosa di cristiano, anche se non viene menzionato esplicitamente il Salvatore:

"Ma nel preciso esatto istante in cui ti senti perso, una mano ti afferra e un braccio ti circonda alla vita, e ti trasporta lontano, in salvo, là dove il Male non ha più potere alcuno." 

Ci si imbatte ben di rado in simili vette di poesia, di assoluto lirismo!

Un antico codice di vendetta 

Per Töre la vendetta è qualcosa di estremamente importante. L'uccisione di un proprio caro non può e non deve per nessun motivo restare impunita. In un contesto in cui la giustizia pubblica è lesta soltanto a punire le offese religiose, è dovere irrinunciabile del singolo assumersi l'onere di vendicarsi. A parer mio è errato, nonostante venga fatto spesso, opporre il codice della vendetta, di cui si ricorda l'origine pagana, alle dottrine cristiane del perdono e della misericordia. Basta infatti studiare le saghe nordiche per comprendere che l'essere pagano o cristiano non influenza affatto il modo di intendere la vendetta. Ci furono ferventi cristiani che non porgevano affatto l'altra guancia. Il Re Olaf II Haraldsson di Norvegia, che fu fatto santo (e tale dovrebbe essere ancora considerato dai cattolici), era violento e tirannico, tanto che il perdono gli era alieno. Impugnava la spada e affrontava i nemici in battaglia, faceva torturare e uccidere, condannava a morte senza la minima esitazione. Eppure lui e i suoi cortigiani erano chiamati Kristmenn, ossia "Uomini di Cristo".  


La leggenda delle figlie di Per Tyrsson 
 
Bergman ha apportato modifiche alla leggenda originale e l'ha molto rielaborata. Questo è il testo della ballata, intitolata Per Tyrssons döttrar i Vänge o Töres döttrar i Vänge (due versi sono incompleti, le parti mancanti ricostruite sono messe tra parentesi quadre [...]): 

Per Tyrssons döttrar i Vänge
kaller var deras skog
de sovo en sömn för länge
medan skogen han lövas

Först vaknade den yngsta
kaller [var deras skog]
så väckte hon upp de andra
medan [skogen han lövas]
Så satte de sig på sängastock.
Så flätade de varandras lock.
Så togo de på sina silkesklär.
Så gingo de sig åt kyrkanom.
Men när som de kommo till Vänge lid
så möta dem tre vallare
- Å antingen viljen I bli vallareviv
eller viljen I mista ert unga liv?
- Å inte vilja vi bli vallareviv.
Långt hellre vi mista vårt unga liv
De högg deras huven mot björkestock.
Där runno tre klara källor opp.
Kropparna grävde de ner i dy.
Kläderna buro de fram till by.
Men när som de kommo till Vänge gård,
ute för dem fru Karin står
- Å viljen I köpa silkessärkar
dem sexton jungfrur stickat å virkat
- Lös upp era knyten å låt mej se,
kanhända jag känner dem alla tre
Fru Karin sig för bröstet slår
och upp till Per Tyrsson i porten hon går
- Där håller tre vallare på vår gård.
De hava gjort av med döttrarna vår.
Per Tyrsson han tar sitt svärd i hand.
Så högg han ihjäl de äldsta två.
Den tredje låter han leva
för att få honom fråga:
- Vad heter eder fader?
Vad heter eder moder?
- Vår fader Per Tyrsson i Vänge
Vår moder fru Karin i Skränge
Per Tyrsson han går sig åt smedjan
Han slår sig järn om midjan
- Vad skola vi göra för syndamen?
- Vi ska bygga en kyrka av kalk å sten.

- Den kyrkan skall heta Kärna
den bygga vi upp så gärna  
 
Questa è la traduzione:  

Le figlie di Per Tyrsson a Vänge,
era così fredda la foresta,
dormirono un sonno troppo lungo 
mentre la foresta metteva le foglie
La più giovane si svegliò per prima,
Iera così fredda <la foresta>,
E così lei svegliò le altre
mentre la foresta metteva le foglie 
Poi si sedettero sul letto
Così si intrecciarono i capelli l'un l'altra
Così indossarono le loro vesti di seta
Così andarono alla chiesa
Ma quando giunsero al colle di Vänge
Incontrarono tre banditi.
"Volete essere mogli di banditi, 
o perdere le vostre giovani vite?"
"Non vogliamo essere mogli di banditi,
perderemo piuttosto le nostre giovani vite". 
Tagliarono le loro teste su un ceppo di betulla
Là subito sgorgarono tre fonti
I corpi sepolti nel fango 
I vestiti portati al villaggio
Quando giunsero alla fattoria di Vänge
La Signora Karin li incontrò nel cortile
"E vorreste voi comprare abiti di seta,
da nove ragazze intrecciati e cuciti a maglia?"
"Slegate i vostri sacchi e fatemi vedere,
forse li conosco tutti e tre"
La Signora Karin si batté il petto dal dolore
e andò a trovare Per Tyrsson.
"Ci sono tre banditi nel nostro cortile,
che hanno ucciso le nostre figlie."
Per Tyrsson impugnò la sua spada
Egli uccise i due più anziani
Il terzo lo lasciò in vita
Quindi gli chiese questo:
"Qual è il nome di tuo padre?
Qual è il nome di tua madre?"
"Nostro padre è Per Tyrsson a Vänge,
Nostra madre è la Signora Karin a Stränge."
Per Tyrson andò alla fucina
E si fece applicare il ferro intorno alla vita.
"Cosa dobbiamo fare per i nostri peccati?"
"Costruiremo una chiesa di calce e di pietra.
Quella chiesa sarà chiamata Kerna,
e la costruiremo ben volentieri." 

Il testo svedese, sopra riportato in ortografia normalizzata, è stato cantato da Greta Naterberg e raccolto da J.H. e D.S. Wallman nel 1812. Come si vede, nella ballata sono tre le vergini uccise; Karin è invece il nome della moglie del possidente, loro madre. Bergman ha semplificato le cose, così c'è una sola vergine, a cui viene attribuito il nome che nella leggenda originale era della moglie di Töre. La cosa più sconvolgente, di cui nella pellicola non si fa menzione, è che i tre briganti assassini sono essi stessi figli dei genitori delle vergini e quindi loro fratelli. Essi volevano prendere come mogli le loro stesse sorelle, ignorando la loro origine. Perché i tre figli sono diventati briganti? Non lo sappiamo. Sugli antefatti, oscurissimi, ha cercato di fare chiarezza il regista, mettendoci della sua fantasia. 
 
Etimologia di Töre 
 
L'antroponimo Töre, con la variante Tyre e col patronimico Tyrsson, risale al norreno Þýrví, Þórví, attestato però come nome femminile. Il nome del signore di Vänge dovrebbe significare "Consacrato a Thor", meno probabilmente "Combattente di Thor". Resta di difficile spiegazione l'Umlaut palatale.
 
Altre recensioni e reazioni nel Web 
 
Segnalo una recensione che mi sembra migliore di molte altre, pubblicata sul sito Quinlan.it (Rivista di critica cinematografica). L'autore è Massimilano Schiavoni.   

 
Certo, mi pare un po' stravagante la tesi del Divino che salterebbe fuori in un suo aspetto mostruoso proprio nel verrucoso rospo che insozza il pane, in contrasto al candore immacolato dell'ostia. In ogni caso, è comunque molto interessante.

giovedì 28 novembre 2019

IMPREVISTI
 
Avrà avuto ventotto anni al massimo. Una bella ragazza maghrebina, di corporatura minuta. Mi osservava sorridendo. Ero al terzo cocktail, quindi non propriamente lucido. Viviana, seduta al mio fianco, se ne uscì dicendo:
“Che dici, la chiamiamo?”
“Chiamiamola.”
Com’era sua abitudine, cambiò idea quasi subito.
“Aspetta, chiedo a Q.”
“Chiedi.”
La vidi avvicinare il gestore del locale, un egiziano. Chiacchierarono a lungo.
La giovane maghrebina non smetteva di fissarmi.
Vuotai il bicchiere e mi alzai, dirigendomi verso i due dialoganti.
“Dice Q. che tra un paio d’ore ne dovrebbe arrivare da Milano un’altra più bella.”
“L’ho presentata a una coppia, marito e moglie, mi hanno detto che è stata fantastica”, puntualizzò il gestore, “Li ha fatti impazzire di piacere”.
Viviana mi fece segno di seguirla all’esterno del locale.
Appena fuori si accese una sigaretta e disse:
“Bisogna portarla in un motel, Q. non affitta più le stanze.”
Dal tono intesi che la situazione non suscitava più il suo interesse.
Colsi la palla al balzo.
“Senti, è l’una e mezzo, non mi va di aspettare due ore una che manco so chi sia.”
“Ma sì, infatti.”
Pagai il conto e ce ne andammo.
Per essere dicembre, non faceva neanche tanto freddo. Niente brina sul parabrezza.
Misi in moto.
Fatte poche centinaia di metri, l’utilitaria che viaggiava davanti alla mia rallentò e accostò a destra. Intravidi un agente dei carabinieri con la paletta in mano. Se avessero fermato me, addio patente.
Per tutto il tragitto Viviana non fece altro che parlare dell’unico argomento che le stesse realmente a cuore: se stessa. Un ininterrotto flusso autoreferenziale, un monologo vacuo, desolante. 
La lasciai a casa e tornai al bar, seguendo un itinerario alternativo per evitare la pattuglia dei caramba. La ragazza era là dove l’avevo lasciata. Mi presentai.
“Piacere, mi chiamo Marco”.
“Sofia. Sapevo che saresti tornato.”
Accarezzai, più che stringere, la sua mano morbida e ben curata.
“Che ne diresti se ci facessimo un giro?”
“Dove?”
“Al Diamante. Un quarto d’ora e siamo lì.”
“Fanno 4 Vu.”
“D’accordo.”
Salimmo in macchina.
Dieci minuti più tardi, parcheggiai nel posteggio interno del motel. Non era certo popolato: cinque vetture compresa la mia.
Al banco della reception, il deserto.
Sofia sedette su una poltrona e prese a sfogliare una rivista.
Un urlo spaventoso, proveniente dal piano superiore, risuonò nella hall. Sofia scattò in piedi come una molla.
“Andiamo via subito!”
Ci fiondammo all’esterno. Neanche il tempo di mettermi alla guida e dall’ingresso del motel vidi uscire un uomo corpulento con una camicia bianca imbrattata di sangue. Aveva un’espressione folle stampata in volto.
“Parti, cazzo, parti!”
Innestai la prima e lasciai il posteggio a tutta birra.
Nello specchietto retrovisore, intravidi il tizio che correva a perdifiato, inseguendoci.
“Quello è un pazzo fottuto!”
Sofia era terrorizzata, si calmò solo quando entrammo in Pavia.
“Ti riporto al bar?”
“Sì sì per favore. Ti spiace se ci vediamo un’altra volta?”
“Non c’è problema.”
Quando arrivammo, il bar era chiuso.
“E adesso come faccio?”
“Non ti preoccupare. Ti do un passaggio a casa. Dove abiti?”
“Milano, via Chiesa Rossa. Sai dov’è il Takeout?”
“Sì.”
“Grazie, sei un tesoro.”
“Secondo me quello ha ammazzato qualcuno.”
“Non sono fatti nostri.”
“Ci sono telecamere a circuito chiuso in quei posti.”
“E con ciò? Mica abbiamo fatto niente di male. Siamo entrati e siamo usciti.”
“Articolo 593 codice penale.”
“Cos’è? Non sono un avvocato.”
“Omissione di soccorso.”
“Cosa conti di fare, chiamare gli sbirri?”
Eravamo all’altezza del mobilificio di Corso Partigiani, appena prima di entrare a Certosa. Si scorgevano distintamente i lampeggianti di due ambulanze nei pressi del semaforo, in mezzo al paese.
“Tutte stanotte capitano?”
Rallentai l’andatura. Il transito sulla statale dei Giovi era bloccato: oltre alle ambulanze, altre vetture erano ferme in mezzo alla strada, alcune messe di traverso. Si vedevano vetri rotti e, quel che è peggio, corpi umani riversi sull’asfalto.
Accostai e feci inversione.
“Dove sono gli infermieri?”
“Non ne ho idea. Passiamo da Pontelungo.”
“Prendi per il Cantone Tre Miglia”
“No Sofia, è una strada stretta: se troviamo un ostacolo siamo fottuti. Preferisco allungare il tragitto e non correre rischi.”
Lungo il rettilineo dopo Ponte Carate non incrociai una macchina che fosse una.
Sofia smanettava al cellulare.
“Ho provato a chiamare le mie amiche. Non mi risponde nessuna!”
A duecento metri dalla rotonda di Zeccone, vidi il lampeggiante blu di un’auto della polizia. Un agente, in piedi in mezzo alla strada, stava puntando la pistola in direzione di un gruppo di persone nei pressi delle case. Si udirono colpi di arma da fuoco.
Invertii nuovamente direzione.
“Ma si può sapere che succede stanotte? Senti Sofia, vieni a dormire a casa mia e domattina ti porto a casa.”
“Sempre se ci arriviamo.”
Non replicai, sapevo che aveva ragione.
Accesi l’autoradio.
Un cronista di Radio Popolare stava parlando di violenti scontri in corso a Milano.
Sofia si mise a pregare in arabo. 
 
Pietro  Ferrari, novembre 2019

lunedì 25 novembre 2019

TRANSAZIONI

Al mio ingresso nel locale fui colpito  da una ventata di odore acre e nauseabondo: una mescolanza di sudore ascellare e inguinale, maschile e femminile, fumo di narghilè, profumi  dozzinali. Un vero e proprio uppercut olfattivo. Vacillai per un istante. Sabrina, la donna con cui avevo deciso di trascorrere la serata, mi precedeva. Pagai alla cassa per entrambi, affidai il cappotto alla guardarobiera sudamericana e mi immersi nella calca. La mia compagna pareva perfettamente a proprio agio in mezzo a quegli afrori animaleschi. La sala era affollata di energumeni tatuati dall’aspetto patibolare e donne abbigliate come battone. Gli altoparlanti trasmettevano a volume altissimo motivi musicali in lingua spagnola. “Prendiamo qualcosa da bere?”, domandò Sabrina. Mi diressi al bar e ordinai due cocktail. Il barista, un tipo con l’aria da galeotto, mi servì due cocktail a base di vodka di infima qualità. Sabrina aveva già fatto amicizia con una perfetta sconosciuta, un troione di provenienza balcanica. Le passai il bicchiere.
“Vado a sedermi.”
Non c’era traccia di divanetti liberi. Guardandomi intorno riconobbi con stupore un tale conosciuto molti anni prima, appollaiato tutto solo su una seggiola in un angolo del locale. Era un insegnante di religione, un personaggio ambiguo. Mi avvicinai.
“Salve, si ricorda di me?”
“Certo, l’ho riconosciuta appena l’ho vista entrare. Come sta?”
“Bene. Lei?”
“Carina la sua fidanzata.”
“Non è la mia fidanzata. E’ una tipa con cui esco.”
“Capisco. Lei mi è sempre parso una persona seria, affidabile. Potrei chiederle un favore?”
“Sentiamo.”
“Dovrei sbrigare una faccenda ma non posso procedere personalmente. Le interessano mille euro?”
“Dipende dalla faccenda.”
“Ho un pacco in cantina e vorrei liberarmene.”
“Quanto pesa questo pacco?”
“78 kg”
“Voluminoso, direi. Ed è stabile?”
“No, si muove, questo è il punto. Gradirei stabilizzarlo, capisce?”
“E non può provvedere da sé?”
“Non ci riesco, per questo mi serve un aiuto.”
“Mille euro non compensano il rischio.”
“Facciamo duemila?”
“Sta scherzando? Diecimila o non se ne parla.”
“No no, è troppo… Cinquemila al massimo.”
“Per cinquemila le stabilizzo il pacco ma allo smaltimento ci pensa lei.”
“Va bene.”
“Mi dia il suo numero.”
Registrai il numero tra i contatti del cellulare e mi allontanai. Sabrina stava ballando in pista con il troione balcanico.
Le feci segno di avvicinarsi.
“Questo posto puzza e la musica fa schifo. Io non ci resto un solo minuto di più.”
“A me piace.”
“Come preferisci. Fatti riaccompagnare a casa dalla signora, allora. Hasta la vista.”
Le voltai le spalle senza prestare la minima attenzione alle sue recriminazioni, ritirai il cappotto al guardaroba e mi levai di torno.
L’indomani inviai un messaggio al prof con un burner phone pagato venti euro.
“Mi dia il suo indirizzo.”
La risposta arrivò all’istante.
Due ore dopo, bussavo alla sua porta. L’abitazione dell’insegnante pareva uscita dalle pagine di Edgar Allan Poe: una villetta a due piani, fatiscente, in preda al disfacimento. Lo specchio di una psiche devastata, prossima al crollo.
Prima di farmi entrare sbirciò furtivamente tutto intorno, come se temesse di essere spiato.
“Si accomodi.”
“Prima di accettare l’incarico, voglio vedere il pacco.”
“Va bene. E’ armato?”
“Lo sono sempre.”
 “Le faccio strada.”
“Un attimo.” Indossai una maschera da giocatore di hockey.
Scendemmo in cantina.
Era un locale angusto, l’aria sapeva di muffa. Il prof accese la luce.
Una figura umana incatenata a una colonna, giaceva a terra, distesa su un sacco a pelo.
Era un uomo sui sessant’anni, imbavagliato e dall’aria terrorizzata.
“Vede?”
Risalimmo.
“Allora, accetta?”
“Prima voglio sapere chi devo uccidere.”
“E’ un preside. Non le occorre sapere altro.”
“Lo decido io cosa mi occorre o no. Perché lo vuole morto?”
“Perché è uno stronzo, mi ha reso la vita impossibile.”
“Ok.”
“Allora è d’accordo?”
“Prima i soldi.”
“Non li ho qui con me.”
“Non si faccia sentire sino a quando non li avrà disponibili, tutti e sull’unghia, in banconote da 50. E si ricordi che allo smaltimento dovrà provvedere di persona. Sacchi neri della spazzatura ne ha? Un vecchio impermeabile?”
“Sì sì.”
“Serviranno anche un secchio e parecchi stracci.”
“La prossima volta mi faccia trovare i soldi. E niente stronzate, intesi?”
“Intesi.”
Stavo per salire in macchina quando squillò il cellulare. Era Sabrina.
“Cazzo vuole sta puttana di merda?”. Rifiutai la chiamata.
Appena a casa controllai il funzionamento della motosega. Era a posto. Tirai fuori dalla sgabuzzino gli stivali di gomma. Avrei utilizzato la visiera protettiva che impiegavo solitamente con il decespugliatore, per evitare gli schizzi di sangue in faccia durante il depezzamento della salma.
L’indomani mattina ricevetti una chiamata dal prof.
“Quando può venire?”.
“C’è il fluido?”
“Tutto quanto.”
“Alle 21. Mi faccia trovare il cancello aperto.”
Trovai il cancello aperto e il prof seduto in veranda.
Prelevai il materiale da lavoro dal bagagliaio.
“Non perdiamo tempo.”
Appena dentro casa, poggiai il borsone in corridoio.
“I soldi.”
Il prof prese una busta dal ripiano di un mobile.
Era gonfia di pezzi da cinquanta. Li contai: c’erano tutti.
Suddivisi il malloppo e lo riposi nelle tasche capienti del giubbotto, chiudendo le cerniere.
“Secchio, stracci e sacchi neri sono già in cantina?”
“Sì.”
“Disponga gli stracci sul pavimento, tutto intorno al suo ospite temporaneo. Appena ha terminato, risalga. Ha con sé le chiavi del lucchetto?”
Mi osservò come inebetito.
“Allora?”
“Ce le ho.”
“Si muova.”
Mi tolsi le scarpe e calzai gli stivali di gomma, indossai i guanti in pelle e l’impermeabile di plastica.
Avvitai il soppressore di suono alla Glock 17 e rimasi in attesa.
Il prof tornò dopo poco.
“Metta l’impermeabile. Guanti da lavoro ne ha?”
Il prof assentì.
Indossai cuffia e visiera protettiva e sollevai il borsone: “Diamoci da fare.”
Scendemmo in cantina.
Appena entrati, mirai alla testa del sequestrato e gli piantai due proiettili nel cranio, nel giro di un secondo.
Il prof rimase scioccato dalla fulmineità dell’azione.
“Sciolga le catene al preside, forza.”
Il cadavere si afflosciò sugli stracci.
“Prenda il secchio e sollevi il morto.”
“Ma pesa.”
“Non rompere il cazzo. Sollevalo quel tanto che basta per far pendere la testa sul secchio.”
Presi dal borsone il coltello da sub e tagliai la gola al preside.
Il sangue sprizzò copioso nel secchio.
“Facciamo scendere il grosso.”
“Pesa troppo.”
Lo aiutai a tenere sollevato il cadavere.
“Può bastare.”
Adagiammo la salma e la svestimmo.
“Adesso viene la parte brutta.”
Tirai fuori dal borsone la motosega.
“Sollevagli la gamba sinistra e tienila stretta per il piede. Hai capito?”
Il prof, bianco come un cencio, fece segno di sì.
Avviai la motosega, tagliai gambe e braccia e decapitai il cadavere.
“Prendi quel cazzo di sacchi neri e sistema un pezzo per sacco. Il torso è un problema. Dovrò sventrarlo e svuotarlo.”
Il prof fu colto dai conati di vomito.
“Se mi rigetti addosso ti sparo. Non scherzo.”
Gli passò subito la voglia.
Al termine dell’operazione, eravamo imbrattati di sangue e altri fluidi innominabili, come due macellai.
Sul pavimento della cantina giacevano nove sacchi neri, due dei quali contenenti stracci imbrattati di sangue e abiti.
“Il preside aveva con sé portafoglio e documenti quando lo hai sequestrato, suppongo.”
“Sì.”
“Falli sparire, distruggili questa notte stessa.”
Con uno straccio, ripulii, per quanto possibile, la motosega.
“Non fare la stronzata di abbandonare i sacchi neri tutti nello stesso posto, capito? Sparpagliali in giro. E fa’ attenzione alle telecamere vicino ai cassonetti. Anche il tuo impermeabile e le scarpe devono sparire. Prendimi un sacco nero. Vuoto.”
Risalimmo al pianterreno.
Mi tolsi  visiera, stivali, impermeabile di gomma e li riposi nel sacco.
“Di questi mi occupo io. Tu pensi al resto, e senza perdere tempo. Vatti a fare una doccia prima di uscire, che hai i capelli unti di sangue rappreso.”
Accostai il più possibile l’auto all’ingresso col bagaglio aperto. Caricai la mia roba.
“Entro 12 ore devi far sparire tutto quello che c’è in cantina. Svuota il secchio nel cesso. Quando hai finito, avvertimi. Se ti dimentichi di farlo, verrò a cercarti e non sarò di buon umore.”.
Misi in moto e me ne andai.
Sbirciando nello specchietto retrovisore, vidi il prof chiudere il cancello e rientrare in casa.
Ventiquattro ore dopo, ricevetti un messaggio laconico: “Sistemato”.
Distrussi il cellulare.
La questione poteva dirsi chiusa. 
 
Pietro Ferrari, novembre 2019

venerdì 22 novembre 2019

NOTE SUL LAVORO DI LUBOTSKY O IL FONEMA PROTOINDOEUROPEO *A

Alexander Lubotsky (Università di Leida) è l'autore del lavoro Against a Proto-Indo-European phoneme *a (Contro un fonema protoindoeuropeo *a), consultabile e scaricabile al seguente url di Academia.edu:


Il problema trattato è cruciale negli studi sul protoindoeuropeo e a parer mio di grande interesse. 

La ricostruzione di un fonema protoindoeuropeo *a accanto ai fonemi *e e *o è stata spesso contestata. Questo presunto fonema ha le seguenti mirabili proprietà: 

i) ricorre limitatamente,
ii) non è presente nelle terminazioni e nei suffissi,
iii) non mostrare praticamente apofonia,
iv) è presente solo in poche radici isolate che non appartengono al vocabolario di base.

Per i motivi sopra elencati, alcuni studiosi hanno ipotizzato che *a non sia un genuino fonema protoindoeuropeo, ma che si sia sviluppato in diverse lingue dal contatto con una ipotetica consonante poi scomparsa e trascritta come *H2. Nonostante ciò, più tardi è prevalsa un'opinione comune che considera il fonema *a una presenza inevitabile, dal momento che la sua spiegazione in termini di consonanti laringali è impossibile - tranne che in posizione iniziale, a quanto pare. Ebbene, l'autore dell'articolo è dell'opinione che il fonema *a sia superfluo. Volendo dimostrare l'esistenza del fonema *a in protoindoeuropeo dobbiamo considerare quelle lingue in cui il fonema *o non è diventato *a. Queste sono il greco, l'armeno, il tocario, il celtico, l'italico (falisco-latino e osco-umbro). Ci sono tuttavia problemi notevoli. Non è chiaro il vocalismo del tocario. In armeno non c'è ancora consenso sulle condizioni in cui il protoindoeuropeo *o è diventato a. In italico e in celtico ci sono molti casi di parole che mostrano a anziché o (es. latino cavus "cavo, profondo" accanto a un più logico ma raro covus). In celtico abbiamo almeno un caso di -o- al posto dell'atteso -a-: mori- "mare", ma in latino mare. Così l'autore deduce che l'unica lingua che mostra prove valide per dirimere la questione sia il greco. A parer mio è come andare dalla padella alla brace. Proprio il greco è proposto come soluzione, con tutte le sue infinite controversie etimologiche, col suo imponente sostrato pre-indoeuropeo, con tutti i tentativi di ricondurre all'indoeuropeo forme che appartengono a lingue perdute, con tutte le sue chimere e i molteplici strati di relitti di lingue indoeuropee residuali non altrimenti attestate. 
 
Detto tra noi, non mi piace più di tanto questo studio, le sue argomentazioni mi sembrano troppo contorte, tanto che è persino difficile esporle in forma sintetica. Comunque la si giri, non si riesce a spiegare nulla. Esistono elenchi di parole indoiraniche con -a- a cui corrisponde la stessa vocale -a- / -ā- nelle lingue indoeuropee cosiddette "meridionali". Il punto è che non si arriva ad afferrare il senso di questi dati - senza tener conto della possibilità di etimologie fallaci. L'autore dà diverse spiegazioni a seconda dei casi, così divide il materiale in diverse sezioni. Ecco una breve lista, a titolo di esempio:

Sanscrito pajra- "fermo" :
    Greco pḗgnūmi "io rendo saldo" < *pāg-
Sanscrito svadati "è dolce" :
   Greco hēdús "dolce" < *swādus
Sanscrito bajati "divide" :
   Greco phageĩn "mangiare"
Sanscrito radati "morde"
   Latino rādō "io rado"
Sanscrito śāśaduḥ "eccelsero" :
   Greco kekadménos "eccellente" 
Sanscrito śad- "cadere" :
   Latino cadō "io cado" 
 
Alcuni raffronti li rigetterei subito per motivi semantici. Non collegherei una radice che significa "dividere" con una radice che significa "mangiare", o una radice che significa "mordere" con una che significa "radere". Notiamo poi un falso raffronto: il greco kekadménos "eccellente" è un hapax di Pindaro, che lo ha costruito "anticando" la forma kekasménos, derivante dal verbo kaínūmai "io supero, io eccello" e senza traccia alcuna di un'antica -d-.   
 
Cosa molto importante, tre nomi radicali sono stati ricostruiti in protoindoeuropeo con il vocalismo -a- che alterna col grado -ā- nel nominativo singolare. Sono i seguenti: 
 
1) IE *sal- "sale":
      Armeno:
      Tocario B: salyiye
      Greco: háls "sale" 
      Latino: sāl "sale" 
      Gotico: salt "sale" 
      Lettone: sā̀ls "sale" 
      Lituano: sólymas "acqua salata"
      Slavo ecclesiastico: solĭ "sale" 
      Antico irlandese: salann "sale" 
      Gallese: halen "sale" 
 
2) IE *g'hans- "oca"
      Greco: khḗn "oca" 
      Latino: ānser "oca"
      Gotico: *gansus "oca"
      Norreno: gǫ́ss "oca"
      Antico irlandese: géiss "cigno" (< *ghansi-)
      Lettone: zùoss "oca" 
      Sanscrito: haṁsa- "cigno"
      Avestico: "oca" 

Lo slavo *gǫsĭ "oca" ha tutta l'aria di essere un prestito da una varietà di gotico.
 
3) IE *nas- / *nās- "naso"  
    Latino: nāris "narice", nāsus "naso"
    Norreno: nǫs "narice"
    Antico alto tedesco: nasa "naso"  
    Sanscrito: nāsā "naso" (du.)
    Antico persiano:
nāham "naso" (acc.)  
    Avestico: nɔ̄ŋhā "naso"
    Lituano: nósis "naso" 
    Lettone: nãss "narice"
    Slavo ecclesiastico: nosŭ "naso" 

Queste sono le forme protoindoeuropee ricostruite da Kortlandt nel 1985 (teoria delle laringali) e riportate dall'autore: 

1) nom. *seH2ls "sale"
    acc. *sH2elm
    gen. *sH2los 

2) nom. *g'heH2ns "oca" 
    acc. *g'hH2ensm
    gen. *g'hH2nsos 

3) nom. *neH2s "naso"
    acc. *neH2sm 
    gen. *nH2sos

A mio avviso sono ricostruzioni un po' opinabili, poi mi sbaglierò. Potrò anche essere il peggiore degli incompetenti, tuttavia mi domando perché l'accusativo singolare di *neH2s "naso" dovrebbe essere *neH2sm e non *nH2esm, come dovrebbe essere dal confronto con gli altri paradigmi. Domanda: quale lingua mostra in concreto un esito di *neH2s tal quale, senza suffisso alcuno? Non è che c'è qualche fallacia nelle forme ricostruite? Il problema è capire se la criticità che ha dato il fonema -a- nelle lingue storiche si trova a monte o a valle della lingua con le laringali. 
 
Nell'edificio presentato le criticità esistono. 
 
1) L'autore cita il sanscrito salila- (n.) "mare" (tra l'altro omesso da Starostin nel suo database). Intanto bisogna dimostrare che la parola abbia come suo significato centrale proprio "salato". Il suo significato originale potrebbe invece essere "acqua". Bisogna anche dimostrare che sia corretta l'etimologia, dal momento che il "suffisso" -ila- mi pare soverchiamente sospetto. E se fosse da dividersi *sa-lila- e fosse una parola para-Munda che ha *sa- come prefisso? Sarebbe proprio una bella beffa! 
 
2) Non ci sono soltanto esiti del protogermanico *gansu- / *gansi- con sibilante: esistono anche strane forme che hanno un'occlusiva dentale. In antico inglese abbiamo ganot "maschio dell'oca" e in antico alto tedesco ganazzo, ganzo, con lo stesso significato. Non solo: in antico inglese c'è anche gandra, sinonimo di ganot, che ha dato l'inglese moderno gander "maschio dell'oca". E queste forme come diamine le spieghiamo? Lubotsky suggerisce sommessamente che queste forme siano indoeuropee genuine e che vadano considerate come una prova della necessità di analizzare IE *g'hans- come *g'han-s-. Mi pare lampante che si tratti di prestiti da una lingua perduta.

3) Non si fa una parola sugli strani esiti latini di IE *nas- / *nās- "naso": non esiste infatti soltanto nāris "narice", con rotacismo, ma anche nāsus "naso" senza rotacismo. Sono convinto che sia un po' ingenuo pensare che l'accusativo nārem sia un esito diretto di una forma come *neH2sm, quando potrebbe benissimo essere il prodotto di vari livellamenti analogici. Insomma, si cerca di capire ogni minimo dettaglio aggiustando queste benedette laringali, trascurando il ruolo della patafisica. Si rischia l'anacronismo.  
 
A questo punto al lettore potrebbe anche venire in mente un'idea provocatoria: esasperato, potrebbe pensare che le ricostruzioni con le laringali siano soltanto un gran mucchio di balle. Non arrivo a tanto, ovviamente. Quello che penso è in buona sostanza questo: il fonema *a doveva essere presente in protoindoeuropeo in parole prese a prestito da lingue perdute (di sostrato, superstrato o adstrato, non sappiamo dirlo) - e per di più in una fase posteriore alla scomparsa delle laringali.

NOTE SUL LAVORO DI LUBOTSKY O IL SOSTRATO NELL'INDOIRANICO

Alexander Lubotsky (Università di Leida) è l'autore del lavoro The Indo-Iranian substratum (Il sostrato indoiranico), pubblicato originariamente in Early Contacts between Uralic and Indo-European: Linguistic and Archaeological Considerations (Contatti precoci tra uralico e indoeuropeo: considerazioni linguistiche e archeologiche). Il contributo è stato presentato a un simposio internazionale tenuto alla Stazione di Ricerca di  Tvärminne dell'Università di Helsinki, 8-10 gennaio 1999. L'articolo è consultabile e scaricabile al seguente url:


È un'approfondita trattazione degli elementi di sostrato comuni alle lingue indiane e a quelle iraniche, con discussione della loro struttura fonetica e morfologica, oltre a elenchi di radici. Questa è la sinossi, da me tradotta:

"Lo studio dei prestiti può essere uno strumento potente per determinare i contatti culturali preistorici e le migrazioni, ma questo strumento è usato in modo diverso in varie discipline. Così gli studi sui prestiti sono pienamente accettati nella linguistica uralica, mentre gli indoeuropeisti sono spesso riluttanti a riconoscere l'origine straniera di parole attestate nelle lingue indoeuropee. La ragione è ovvia: in uralico, noi conosciamo la sorgente dei prestiti (indoiranico, germanico, baltico), mentre la sorgente di possibili prestiti in indoeuropeo è di solito sconosciuta. Nonostante ciò, è una questione di grande importanza distinguere tra il lessico ereditato e i prestiti, anche se la lingua donatrice non può essere determinata. 
Negli anni recenti la metodologia per trattare i prestiti da una fonte sconosciuta è stata sviluppata da Kuiper (1991 e 1995), Beekes (1996) e Schrijver (1997). Come questi studiosi hanno fatto notare, un etimo è verosimilmente da considerarsi un prestito se è caratterizzato da qualcuna delle seguenti caratterstiche: 1) distribuzione geografica limitata; 2) irregolarità fonologica o morfofonologica; 3) fonologia insolita; 4) formazione insolita di parole; 5) semantica specifica, es. una parola appartiene a una categoria semantica che è particolarmente suscettibile di essere presa a prestito." 

Concordo sull'immensa importanza della scienza dei prestiti. Dissento invece sulle ragioni della riluttanza degli indoeuropeisti a riconoscere questo. Non lo fanno perché le lingue donatrici sono ignote, bensì per ragioni ideologiche e dogmatiche. Ragioni che non di rado sono contaminate dalla politica. Ho conosciuto indoeuropeisti convinti che i popoli di lingua indoeuropea debbano essere "moralmente superiori" a popoli che parlano lingue di ceppi diversi.  Quindi passano ad applicare il concetto di "superiorità morale" direttamente alle lingue e persino alle singole parole che ne compongono il lessico. C'è anche un'altra cosa su cui non sono molto d'accordo. Gli uralisti accettano pienamente l'esistenza di prestiti dall'indoiranico, dal germanico e dal baltico nelle lingue uraliche. Diverso discorso quando si tratta di elementi di sostrato provenienti da lingue ignote che compaiono come sostrato, numerosi ad esempio nelle lingue uraliche dei Saami (Lapponi). Sorge allora una specie di puritanesimo non troppo dissimile da quello dei Neogrammatici: ecco che la reazione spontanea di molti studiosi è quella di ricondurre le parole problematiche a etimologie conosciute, anche a costo di far loro violenza. Per fortuna c'è chi fa eccezione. 
 
L'autore applica le linee guida di Kuiper-Beekes-Schrijver al lessico indoiranico alla ricerca di prestiti di origine sconosciuta entrati nella protolingua in epoca anteriore alla sua suddivisione in due rami. Lo studio si fonda su una lista, raccolta dall'etimologo Manfred Mayrhofer (1926 - 2011) e contenente circa 120 parole sanscrite provviste di corrispondenze iraniche, ma prive di chiari collegamenti al di fuori dell'indoiranico. 
 
Le parole della lista di Mayrhofer soddisfano il criterio della limitata distribuzione geografica. Ciò non è però sufficiente. Infatti una parola potrebbe essere priva di un'etimologia credibile solo perché è andata perduta in tutti gli altri rami dell'indoeuropeo, restando soltanto in indoiranico. Può anche darsi che si brancoli nel buio perché l'etimologia corretta non è ancora stata trovata. Soltanto in presenza di altre caratteristiche tipiche di un prestito l'autore prende seriamente in considerazione l'idea di un'origine straniera. Nell'articolo il termine "sostrato" si usa per ogni lingua donatrice di prestiti, senza considerare che potrebbe essere anche un adstrato o un superstrato: la distinzione non può essere determinata allo stato attuale delle conoscenze. Ci potrebbe anche essere stata più di una lingua donatrice. L'autore passa quindi ad analizzare in dettaglio le caratteristiche peculiari mostrate da alcune delle parole indoiraniche isolate.

1) Corrispondenze fonetiche irregolari

In posizione iniziale: 

Sanscrito s- : Proto-iranico *s-
   Sanscrito sikatā- "sabbia" :
   Antico persiano ϑikā- "sabbia".  
   Sanscrito sūcī- "ago" :
   Tardo avestico sūkā- "ago".
Sanscrito k- : Proto-iranico *g- 
   Sanscrito keśa- "capelli" :
   Tardo avestico gaēsa- "capelli ricci".
Sanscrito ph- : Proto-iranico *sp- 
   Sanscrito phāla- "vomere" :
   Persiano moderno supār "vomere".
Sanscrito ś- : Proto-iranico *xšṷ- 
   Sanscrito śepa- "coda", ma pracrito cheppā- :
   Tardo avestico xšuuaēpā- "coda".

In posizione mediana: 

Sanscrito -a- : Proto-iranico *-u- 
   Sanscrito jahakā- "riccio" (animale) :
   Tardo avestico dužuka- "riccio" (animale).
Sanscrito -ā- : Proto-iranico *-a- 
   Sanscrito chāga- "caprone":
   Ossetico sæğ / sæğæ "caprone".
Sanscrito -v- : Proto-iranico *-b- 
   Sanscrito gandharva- "un essere mitico":
   Tardo avestico gaṇdərəβa- "un essere mitico".
Sanscrito -dh- : Proto-iranico *-t- 
   Sanscrito gandha- "odore" :
   Tardo avestico gaiṇti- "cattivo odore".
Sanscrito -ar- : Proto-iranico *-ra- 
   Sanscrito atharvan- "prete" :
   Avestico āϑrauuan- / aϑaurun- "prete". 
Sanscrito -ar- : Proto-iranico *-ṛ- 
   Sanscrito gandharva- "un essere mitico":
   Tardo avestico gaṇdərəβa- "un essere mitico".
Sanscrito -ūr- : Proto-iranico *-ṛ- 
   Sanscrito dūrśa- "indumento grossolano" :
   Wakhi δərs "lana di capra o di yak".

2) Struttura della radice impossibile per una parola indoeuropea

Esiste una ben nota legge fonetica che impedisce la contemporanea presenza di due consonanti occlusive sonore non aspirate nella stessa parola. Si evince quindi che parole come *gadā- "mazza" e *gṛdā- "pene" non possono aver avuto la loro origine nella lingua protoindoeuropea.

3) Struttura sillabica inusuale (parole trisillabiche con vocale lunga o dittongo nella seconda sillaba). 
 
Questi sono alcuni esempi di forme proto-indoiraniche ricostruite dall'autore:

*pīi̭ūša- "colostro"
*mai̭ūkʰa- "piolo di legno"
*i̭avīi̭ā- "canale"
*ṷarājʰa- "cinghiale selvatico"
*kapauta- "piccione"
*kapāra- "vaso, piatto"

La struttura di queste parole è tale da rendere molto difficile una spiegazione sulla base della morfologia indoeuropea. Come sempre l'autore è molto diplomatico. Direi che cercare di spiegare le parole di questo genere sulla base della morfologia indoeuropea è come pretendere di spiegare sulla base dell'anglosassone la morfologia della parola axolotl. Il suffisso della parola sanscrita pīyūṣa- "colostro" si trova anche nella parola sanscrita tarda gaṇḍūṣa- "acqua per sciacquarsi la bocca". Lubotsky rimanda a Wackernagel per questo dettaglio morfologico, facendo notare che anche separando il suffisso in pīyūṣa-, resterebbe una base problematica con una vocale lunga -ī- inesplicabile. Aggiungo che gaṇḍūṣa- deriva dalla radice para-Munda *gand- "acqua", termine di sostrato che emerge anche nella toponomastica indiana. 

4) Peculiarità fonetiche  

Aspirate sorde:
*(s)pʰāra- "vomere", *atʰarṷan- "prete", *kapʰa- "muco, catarro", *kʰā- "pozzo, sorgente", *kʰara- "asino", *mai̭ūkʰa- "piolo di legno".

Affricate palatali estremamente frequenti:
*anću- "pianta di Soma", *āćā- / *aćas- "regione, spazio", *ćarṷa, nome di una divinità, *daćā- "orlo, filo", *dṛća- / *dṝća- `coarse garment', *jʰarm(i)
a- "struttura solida, casa permanente", *kaćapa- "tartaruga", *kaića- / *gaića- "capelli", *kućši- "lato del corpo, fianco", *maljʰa- "ventre", *naij(s)- "spiedo", *ućig- "prete sacrificatore", *ṷarājʰa- "cinghiale selvatico", etc.

Frequenti gruppi consonantici con -s-:
*kućši- "lato del corpo, fianco", *ṷṛćša- "albero", *mats
a- "pesce", *naij(s)- "spiedo", *kšīra- "latte", *pusća- "coda", *sćāga- / *sćaga- "caprone". 

La sequenza -rṷ-:
*atʰarṷan- "prete", *ćarṷa-, nome di una divinità, *g(ʰ)andʰ(a)rṷa- (/ -b(ʰ)a-) "un essere mitico". 
 
5) Peculiare formazione delle parole 
 
"Suffisso" -ka- (normalmente soltanto denominale):
*atka- "mantello", *stuka- "ciuffo di capelli", *ṷṛtka- "rene",
*jajʰaka- (/ -ā-) / *jajʰuka- (/ -ā-) "riccio" (animale);

"Suffisso" -sa- (raro nel lessico ereditato):
*pī
ūša- "colostro", *ṷṛćša- "albero";
 
"Suffisso" -pa-
*kaćapa- "tartaruga", *pāpa- "cattivo", *stupa- / *stūpa- "ciuffo di capelli", *šṷaipa- "coda";

Altre suffissazioni insolite:
*stu-ka-
contro *stu-pa- / *stū-pa-, entrambi "ciuffo di capelli", *nagna(jʰu)- "lievito, pane" (sanscrito nagnahu- "lievito", iranico *nagna- "pane"), *karuš- "danneggiato" (detto di denti), *jʰarm(i)
a- "struttura solida, casa permanente", *matsa- "pesce", *naij(s)- "spiedo", *ućig- "prete sacrificatore", *bʰiš- "medicina, erba medicinale" (sanscrito bhiṣaj- "medico", tardo avestico bišaziia- "curare"), *paṷasta- (/ -ā-) "veste". 
 
6) Categorie semantiche 
Si può sospettare che una parola sia un prestito anche se non mostra anomalie fonologiche e/o morfologiche, e questo soltanto per la sua appartenenza a un dato campo semantico (es. religione, culto del Soma, tecnologia). Anche se gli indoeuropeisti classici insorgeranno nel leggerlo, appartiene al sostrato qui studiato anche il teonimo *indra- "divinità uranica", che mostra un vocalismo irregolare, oltre a *ṛši- "veggente", il cui esito sanscrito mostra un accento iniziale aberrante. Motivi semantici spingono ad attribuire un'origine straniera a parole come *daćā- "orlo, filo", *išt()a- "mattone", *ṷāćī- "ascia, coltello appuntito" e via discorrendo. 
 
Il sostrato in proto-indoiranico e in sanscrito
 
A questo punto l'autore indaga la corrispondenza tra le caratteristiche delineate per gli elementi del sostrato nel proto-indoiranico e quelli del sostrato presente nelle sole lingue indiane, che sono entrati in sanscrito soltanto quando le genti indoarie hanno attraversato l'Hindukush. A complicare le cose, si trova una notevole concordanza strutturale, anche in assenza di parole comuni.   

i) Abbondanza di parole trisillabiche con sillaba mediana lunga:
urvārū- "cetriolo", ulūka- "gufo", uṣṇīṣa- "turbante", ṛbīsa- "forno", kapola- "guancia", karīṣa- "letame", karmāra- "fabbro"*, kilāsa- "di colore variegato", kiśora- "puledro", mayūra- "pavone", masūra- "lenticchia", śārdūla- "tigre", śṛgāla- "sciacallo", etc. 
 
*Non è un derivato del verbo kṛ- "fare": occorre fare attenzione alle false etimologie.

ii) Presenza di aspirate sorde:
ulūkhala- "mortaio", khila- "terra incolta", khārī- "misura di grano", kharva- "mutilato", phala- "frutto", mukha- "bocca, faccia", śikhā- "ciuffo di capelli, cresta".

iii) Grande abbondanza di consonanti palatali (fricative e affricate):
nella lista di Kuiper di 383 parole straniere nel Ṛg-Veda, Lubotsky ha contato ben 90 parole contenti tali suoni (corrispondente a circa 23,5% del totale).

iv) Gruppi consonantici con -s-:
kṣauma- "di lino" (cfr. umā- "lino"), ikṣvāku-, nome proprio di persona  (Ṛg-Veda), kutsa-, nome proprio di persona (Ṛg-Veda), etc.

iv) Presenza del "suffisso” -pa-:
alpa- "piccolo", turīpa- "sperma", puṣpa- "fiore", śaṣpa- "erba giovane", śilpa- "variegato" (also śilpa- "ornamento"), śūrpa- "cesto di vagliatura", etc. 

v) Presenza del "suffisso" -h-:
malha- "dal ventre pendente, dal seno pendente" (detto di capre e pecore), barjaha- "mammella", barjahya- "capezzolo".

vi) Presenza del "suffisso" -ig- (si direbbe un agentivo):
ṛtvij- "prete", vaṇij- "mercante".

vii) Presenza della sequenza -rṷ-:
urvārū- "cetriolo", kharva- "mutilato", turvaśa-, nome proprio di persona, paṭharvan-, nome proprio di persona (RV), śarvarī- "notte" (aggiunto dall'autore con qualche dubbio). 

Lubotsky pensa di aver risolto il problema, traendo dall'analisi dei dati la seguente conclusione: la lingua che ha dato gli elementi di sostrato in proto-indoiranico deve essere stata simile a quella che ha dato gli elementi di sostrato in sanscrito, a causa delle caratteristiche fonologiche e morfofonologiche condivise. Il quadro che ne deriva è a mio avviso estremamente semplicistico e non tiene conto della complessità delle stratificazioni di elementi di sostrati in sanscrito. Per comprendere quanto è intricata la situazione rimando alle mie note sul lavoro di Witzel: 
 
 
Notiamo subito un problema che Lubotsky sembra non considerare: i prefissi delle parole di sostrato attribuibili alla lingua perduta chiamata para-Munda (ka-, ku-, ki-, etc.), che a quanto pare mancano nelle parole di sostrato in proto-indoiranico. Trovo soltanto kṣauma- "di lino" rispetto a umā- "lino", che mi pare inesplicabile. Ho rilevato una parola che doveva già essere presente prima dell'arrivo delle genti indoarie in India, ma che in seguito deve essere entrata come prestito nel para-Munda, assumendo un prefisso caratteristico e finendo quindi in sanscrito. Questo è il percorso: 
 
Proto-indoiranico: *stupa / *stūpa "ciuffo di capelli" =>
Para-Munda: *ka-stūpa "ciuffo di capelli" =>
Sanscrito: kastūpa "ciuffo di capelli". 

Del resto, non posso fare a meno di notare che diverse parole raccolte dall'autore e presenti soltanto in sanscrito si discostano da tutto ciò che è stato analizzato da Witzel - e in particolare dal para-Munda - mostrando invece un'effettiva rassomiglianza fonologica con gli elementi di sostrato in proto-indoiranico. Potrebbe darsi che fossero un tempo presenti in proto-indoiranico per poi finire perdute in iranico e conservate soltanto in sanscrito. Alludo a forme come ṛtvij- "prete", vaṇij- "mercante". 
 
Prestiti indoiranici in uralico 
 
Esistono molti prestiti indoiranici nelle lingue uraliche. Nonostante ciò, l'autore è incline a pensare che non ci siano realmente prestiti indoeuropei in proto-uralico. La sua opinione sembra allinearsi con quella degli studiosi che considerano le isoglosse tra indoeuropeo e uralico una prova della relazione etimologica tra le due (proto)lingue. I prestiti dall'indoiranico inizierebbero nel periodo ugrofinnico. Peccato che non si riesca a far collimare i dati. Il più antico strato di prestiti consiste di parole che si trovano soltanto in sanscrito, senza alcun corrispondente iranico. Questi sono alcuni esempi:       

Ugrofinnico *ora "lesina" :
    Sanscrito ārā- "lesina"
Finnovolgaico *reśmä "corda" :
   Sanscrito raśmi- "briglia"
Finnovolgaico *onke "uncino" :
   Sanscrito aṅka- "uncino"
Finnopermico *ant3 "erba giovane"
   Sanscrito *andhas- "erba"
 
Secondo Lubotsky, questo si dovrebbe al fatto che i popoli uralici sarebbero entrati in contatto prima con le genti indoarie, considerate una sorta di avanguardia, durante la loro migrazione verso oriente. I prestiti iranici sarebbero giunti dopo, come un flusso continuo. Ci sono parole proto-indoiraniche presenti già in ugrofinnico: 
 
Ugrofinnico mekše "ape" :
   Proto-indoiranico makš- "ape" 
 
Ci sono poi prestiti dal proto-indoiranico al proto-permico, che non possono essere troppo recenti perché mostrano la sibilante /s/ conservata: 
 
Proto-permico *sur "birra" : 
   Proto-indoiranico *surā "birra"
La probabile origine ultima della radice è sumerica. 
 
Il vogulico tas "estraneo" è un prestito dal proto-indoiranico *dasu- "straniero". Anche qui la sibilante integra è prova di antichità. E se i prestiti fossero giunti in uralico direttamente dalla lingua del sostrato senza mediazione indoeuropea?    
 
Esempi di false etimologie 

Il proto-indoiranico *matsa- "pesce" (sanscrito matsya-, tardo avestico masiia-) non può essere ricondotto al protogermanico *mati- "pasto" (donde gotico mats "cibo", matjan "mangiare"; inglese meat "carne", etc.). La radice protogermanica *mati- è abbastanza isolata (sono stati proposti esili paralleli in antico irlandese) ed è stata fatta risale a un fantomatico protoindoeuropeo *mad-. La radice proto-iranica non si spiega: semantica difettosa (indica anche il pesce vivo, non necessariamente come cibo, etc.), oltre alla presenza dell'ingombrante "suffisso" -s-
 
Il proto-indoiranico *magʰa- "dono, offerta sacrificale" (sanscrito magha-, tardo avestico maga) non può essere connesso con la radice protogermanica *maγ- "essere capace, potere" (donde gotico magan "essere capace, potere", mahts "forza, potenza") per evidenti motivi semantici. Oltretutto la radice protogermanica ha paralleli soltanto in baltico, in slavo e in celtico (gallico mageto-, mogeto-, mogit- "potente", documentato in antroponimi e topomini), ha tutta l'aria di essere un prestito da una lingua perduta.