venerdì 30 aprile 2021

DUE LEGGENDE PSEUDOLONGOBARDE SULL'ORIGINE DELLA COLOMBA PASQUALE

Si conoscono con una certa precisione i dettagli della nascita della colomba pasquale: risale al 1930 e a inventarla è stata la ditta milanese Motta. In quell'anno ci fu una grande abbondanza e avanzò molta pasta madre, che non poté essere utilizzata per la produzione del panettone natalizio. Così il pubblicitario Dino Villani, impiegato alla Motta, propose la geniale idea di utilizzare la pasta madre per la produzione di un nuovo dolciume in occasione della Pasqua, apportando qualche semplice cambiamento alla ricetta. Le principali innovazioni furono queste: la forma che imitava quella di un pingue volatile, il rivestimento di glassa di amaretto e mandorle, l'assenza di uva sultanina, l'abbondanza di scorze d'arancia candite. I macchinari rimasero gli stessi che già avevano prodotto il panettone a Natale, così il risparmio sarebbe stato notevole. La colomba nacque come dolce riciclato e il suo successo fu strepitoso.  

 
Falsi storici e memetica virale 
 
Tutto sembra chiaro e tracciabile. Eppure anche su qualcosa di tanto recente si sono diffusi racconti che hanno tutta l'aria di essere stati inventati ad arte, creati per conferire alla preparazione dolciaria una tradizione solida e una grande antichità. Anche se non ho alcuna prova al riguardo, non escludo che tutto sia partito dalla stessa Motta, forse addirittura dalla fantasia di Dino Villani, come trovata pubblicitaria. 
 
1) La leggenda della colomba di Alboino 
 
Questo pacchetto memetico è relativo alla pretesa origine della colomba pasquale ai tempi di Re Alboino "Amico degli Elfi" (circa 530 - 572), figlio di Audoino "Amico della Ricchezza". Riporto alcuni testi reperiti nel Web. 
 
Testo 1: è tratto dal sito Pavia e dintorni (www.paviaedintorni.it):
 

"Nel 572, quando Alboino entrò in Pavia, dopo tre anni di estenuante assedio durante i quali più volte minacciò di radere al suolo la città dopo averla conquistata, il suo leggendario cavallo stramazzò al suolo, proprio all'altezza dell’attuale via Alboino, dove allora esisteva porta San Giovanni.
Un fornaio, per placare l'ira furente del Re, gli si avvicinò e gli offrì un dolce fumante , profumato, appena sfornato dicendo:
"Sire, domani è la Santa Pasqua e le dono questo dolce che ha la forma di una colomba che è il simbolo della pace, la prego di risparmiare e rispettare la città ".
Il cavallo, come per miracolo, si drizzò completamente rianimato ed il Re proseguì il suo percorso.
Il giorno seguente Alboino doveva incassare quanto imposto alla città: denaro, gioielli e 12 fanciulle.
La prima di queste, interpellata, disse il suo nome: "Mi chiamo Colomba, sono la figlia del vecchio fornaio e - indicando le altre undici fanciulle - anche queste sono colombe al servizio del Re".
Alboino, addolcito dalle parole e dal ricordo del dono ricevuto, fece grazia e liberò le belle ragazze pavesi."

 
Testo 2: è tratto dal sito Sogni d'Oro (www.sognidoro.net):
 
 
"Questa leggenda risale all’epoca medioevale, quando re Alboino calò in Italia con le sue orde barbariche per assalire Pavia.
Dopo un assedio durato tre anni, alla vigilia della Pasqua, riuscì ad entrare in città. Come gesto di sottomissione dai cittadini riceve vari regali, fra i quali anche dodici meravigliose fanciulle.
Fu allora che un vecchio artigiano si presentò al re donandogli un dolce a forma di colomba, quale tributo di pace. Questo dolce era così invitante che costrinse il re alla promessa di pace e di rispettare sempre le colombe, simbolo di questa delizia.
Quando il re interpellò le fanciulle donategli scoprì che il loro nome rispondeva a quello di Colomba. Alboino comprese il raggiro che gli era stato giocato, ma rispettò lo stesso la promessa fatta e liberò le fanciulle."
 
 
2) La leggenda della colomba di Teodolinda e San Colombano  
 
Questo pacchetto memetico è relativo alla pretesa origine della colomba ai tempi della Regina Teodolinda "Tiglio del Popolo"  (circa 570 - 627) e di suo marito, il Re Agilulfo "Lupo Spaventoso" (morto nel 616).  

Testo 1: è tratto dal sito Pavia e dintorni (www.paviaedintorni.it): 
 

"Narra la leggenda che, intorno al 614, il santo abate irlandese San Colombano, dalla Svizzera passò in Brianza e poi a Pavia, città scelta come capitale dai Longobardi.
La cattolica longobarda Regina Teodolinda, in accordo con il re Agilulfo, donò a Colombano il luogo di Bobbio, con la chiesa di San Pietro e un quadrilatero di quattro miglia per lato.
Secondo la loro tradizione, Colombano e i suoi monaci, restaurarono la chiesa e costruirono all'intorno modeste abitazioni per tutti loro.
Al termine dei lavori Colombano, in periodo prepasquale, si recò a Pavia con i suoi monaci per ringraziare la Regina della importante donazione ricevuta.
Al suo arrivo in città fu ricevuto con santi onori dalla popolazione pavese e invitato ad un sontuoso pranzo dalla stessa Regina Teodolinda, naturalmente con tutti i suoi monaci.
Gli furono servite numerose vivande vegetali e farinacee e anche molta selvaggina rosolata e arrostita.
Colombano ed i suoi monaci, benchè non fosse di venerdì, giorno consigliato con cibi magri, rifiutarono quelle carni troppo grasse e ricche servite in un periodo di precetto quale quello pasquale.
La Regina Teodolinda si offese non capendo il motivo del rifiuto, ma l’abate superò con diplomazia l’incresciosa situazione affermando che essi avrebbero consumato le carni solo dopo averle benedette.
San Colombano alzò la mano destra in segno di croce ed ecco, le pietanze carnacee si trasformarono in candide colombe di pane bianco molto addolcito e zuccherato.
Colombano e i suoi monaci mangiarono abbondantemente le squisite colombe unitamente alla Regina Teodolinda che considerò il pasto come una benedizione divina pensando alle colombe che festeggiarono l'ingresso di Alboino a Pavia."

Testo 2: è tratto dal sito Il Golosario (www.ilgolosario.it): 
 

"Una leggenda vuole che la tradizione della colomba pasquale sia legata a Colombano, santo abate irlandese, e alla regina longobarda Teodolinda. Si narra che la regina favorì la predicazione del santo e che attorno al 612 i sovrani longobardi lo invitarono coi suoi monaci a un sontuoso pranzo. Fu servita molta selvaggina rosolata, ma Colombano e i suoi rifiutarono quelle carni troppo ricche in periodo quaresimale; Colombano però, per non offendere la regina Teodolinda affermò che avrebbero consumato le carni solo dopo averle benedette, quindi alzò la mano destra in segno di croce e le pietanze si trasformarono in candide colombe di pane. Il prodigio colpì molto la regina che comprese la santità dell’abate e decise di donare il territorio di Bobbio dove nacque l’Abbazia di San Colombano. La colomba bianca è anche il simbolo iconografico del Santo ed è sempre raffigurata sulla sua spalla."
 
Testo 3: riportiamo infine un link a un documento che si trova sul sito San Colombano (www.saintcolumban.eu), liberamente accessibile e scaricabile: 
 
 
Ebbene, queste sono soltanto leggende fatte di aria sottile. Non hanno nessuna documentazione che ne dimostri la fondatezza, oltre al fatto rilevante che sono tra loro contraddittorie: o la colomba pasquale ha avuto origine ai tempi di Alboino o ha avuto origine ai tempi di Teodolinda. Non è possibile che siano entrambe vere, però possono benissimo essere entrambe false.  

Un sano scetticismo

Con una certa saggezza, la Wikipedia in lombardo riporta quanto segue: 
 
 
"La Colomba de Pasqua a l'è un dolz inventad de la Motta a Milan al principi del '900, inscì de podé doperà l'impast del Panaton anca foeura del period del Denedal, e che poeu el s'è spantegad in tuta l'Italia. La legenda la cunta su che 'sto dolz chi el gh'habia origin ai temp di Lombard antigh, adritura del Re Alboin, ma a bon cunt a l'è apena una legenda." 

Traduzione in italiano: 

"La colomba di Pasqua è un dolce inventato dalla Motta a Milano all'inizio del '900, così da poter usare l'impasto del panettone anche fuori dal periodo natalizio, e che poi si è diffuso in tutt'Italia. La leggenda racconta che questo dolce abbia origine ai tempi degli antichi Longobardi, addirittura del Re Alboino, ma dopotutto è soltanto una leggenda." 
 
Le genti di Lombardia non sono certo note per la natura sofisticata delle loro argomentazioni intellettuali: tutto si riduce a poche frasi stringate, ma spesso alquanto efficaci ed annichilenti. 

Problemi di continuità 

Se le due leggende avessero il loro fondamento in un testo di qualche autore, si saprebbe. Chi le sostiene userebbe infatti queste fonti per giustificare la propria narrazione. Come mai questo non viene fatto? Semplice: perché non ci sono fonti di alcun genere. In altre parole, non si può dimostrare la trasmissione senza soluzione di continuià delle due leggende attraverso i secoli. 
Sarebbe necessario ricercare nei ricettari anteriori al XX secolo l'esistenza di qualche preparazione dolciaria pasquale a forma di colomba usata nel Milanese. Il fatto che nessuna ricetta di questo tipo sia citata come fonte dai sostenitori delle leggende riportate è un fortissimo indizio del fatto che non esista nulla su cui fondarsi. In altre parole, non si può dimostrare la trasmissione senza soluzione di continuità attraverso i secoli della ricetta di un pane pasquale dolcificato.    

Elementi di incongruenza interna 

Le due leggende riportate non mostrano una conoscenza adeguata del mondo dei Longobardi e di quello dei loro sudditi all'epoca di Alboino. Siamo ai grotteschi livelli di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno (Mario Monicelli, 1984), un film delirante e improbabile con Ugo Tognazzi nella parte di Bertoldo, Lello Arena nella parte di Re Alboino (non scorderò mai il suo ghigno!), Maurizio Nichetti nella parte di un Bertoldino fulvo dall'intelletto gracilissimo. Questi sono i miei commenti:  

1) Re Alboino era pagano e sostanzialmente non interessato alle dispute religiose. Non fu mai battezzato, come suo padre Audoino. Credeva che un uomo dovesse essere misurato soltanto col metro del valore sul campo di battaglia. Certamente conosceva il Crisianesimo e per motivi politici sostenne la Chiesa Ariana. Tuttavia non perseguitò mai la Chiesa Cattolica. La sua prima moglie era Clodosvinta, figlia del Re dei Franchi Clotario I, ed era cattolica. A quei tempi i matrimoni tra donne cattoliche e uomini pagani era particolarmente incentivati dal clero, nella speranza di poter ottenere conversioni. Queste disposizioni si applicavano in special quando il pagano era un sovrano. Clodosvinta tuttavia morì senza aver ottenuto il suo scopo, non riuscendo ad allontanare il marito dal paganesimo e dalla Chiesa Ariana. Fatta questa premessa, l'ideatore della leggenda della colomba pasquale di Alboino è partito dal presupposto che esistesse una situazione religiosa uniforme in tutto il Regno Longobardo, tra i nobili come tra i sudditi, essendo per lui scontato che l'unico culto fosse quello cattolico. Riteneva anche che fosse uniforme la situazione linguistica, che Alboino intendesse alla perfezione il latino volgare di un fornaio pavese e riuscisse a farsi da lui intendere con naturalezza. La cosa non è affatto scontata. Non dimentichiamoci che il latino volgare era divenuto incomprensibile tra località lontane: se anche Alboino avesse conosciuto una qualche forma di latino per necessità politiche, non gli sarebbe stato di giovamento alcuno per comunicare con un popolano di Pavia. Difficilmente il volgo pavese avrebbe inteso la lingua germanica dei Longobardi. A quale Santa Pasqua si riferiva il fornaio? A quella cattolica o a quella ariana? Essendo il suo culto quello di Godan, il Re Alboino sarebbe stato più sensibile al simbolismo del corvo, legato alla bellicosità e alla saggezza, che a quello della colomba. Un antico germano non apprezzava affatto la pace e cercava modi per rischiare la propria vita in grandi imprese, acquisendo così gloria imperitura.
 
2) La Regina Teodolinda era notoriamente cattolica, conosceva bene i monaci e sapeva senza alcun dubbio che bisognava informarsi sulle loro necessità alimentari quando si pensava di invitarne qualcuno a pranzo o a cena. I monaci irlandesi in particolare erano noti ovunque per avere regole di vita molto severe, fondate su un'ascesi rigorosa. Nessuno si sarebbe sognato di offrire loro della selvaggina rosolata, il cibo meno monastico che si possa immaginare! Trovo ridicola anche la narrazione dei monaci irlandesi che si ingozzano con pane zuccherato, per giunta anacronistico: all'epoca in Langobardia lo zucchero non lo aveva nessuno, nemmeno la corte reale. Veniamo ora a San Colombano (circa 540 - 615). Il suo nome originale irlandese era Colum Bán "Colomba Bianca", latinizzato in Columbanus. Fu un energico evangelizzatore, uomo coltissimo, abile diplomatico e gran viaggiatore, che attraversò l'Europa fondando molte abbazie, tra cui quella di Bobbio. Questi erano i dieci capitoli della Regula monachorum da lui istituita: obbedienza, silenzio, digiuno, disprezzo dei beni terreni, ripudio della vanità, castità, preghiera, discrezione, mortificazione di superbia e orgoglio, buon esempio. San Colombano non era Frate Trippa! Era un uomo di cui avere rispetto. Emergono anche altre contraddizioni. Ci furono gravi controversie tra San Colombano e Roma riguardo al calcolo della data della Pasqua. A quale Pasqua fa riferimento la leggenda? A quella calcolata da San Colombano o a quella calcolata secondo la tradizione di Roma? Mi sembra evidente che l'ideatore della leggenda della colomba pasquale di Teodolinda e di San Colombano ignorasse tutte queste cose e proiettasse nel passato un'immagine distorta del monachesimo irlandese. 
 
Un pacchetto memetico scadente
 
Si segnala infine un'altra leggenda, ancor più farlocca, che colloca l'invenzione della colomba pasquale durante la battaglia di Legnano, nel 1176, che finì la sconfitta di Federico Barbarossa da parte dei Comuni della Lega Lombarda. Durante l’attacco due colombe bianche si sarebbero fermate sulle insegne della Lega: l'accaduto, interpretato come buon augurio, avrebbe ispirato la preparazione di dolci bianchi a forma di colomba. 

Conclusioni

Il Web ha alterato la nostra percezione della realtà, rendendola offuscata e crepuscolare, dando enorme diffusione a quelle che sono pure e semplici assurdità. Riuscire a discernere il Vero dal Falso è sempre più difficile. L'Intelligenza Artificiale (meglio definibile come Idiozia Artificiale) affosserà senza dubbio questo mio contributo, bollandolo come "scarsamente originale" e "senza valore aggiunto", solo perché cito alcune fonti perché i lettori possano confrontarle e analizzarle. Me ne frego e continuo per la mia strada! 

mercoledì 28 aprile 2021

I CONTURBANTI MISTERI DELL'OLLA PODRIDA

Il piatto conosciuto come olla podrida (alla lettera "pentola marcia", pronuncia /'oʎa po'ðriða/) è tipico della cucina spagnola e gode di ottima tradizione, essendo già presente nella gastronomia medievale. È associato soprattutto alle regioni storiche dell'Estremadura e della Castiglia e León. È spesso considerato un bollito o un minestrone, anche se sarebbe più logico ritenerlo uno stufato. Gli ingredienti sono molteplici: carni varie, salsicce, lardo, altri cibi stagionati e affumicati, legumi, spezie e uova. Tutti convengono sul fatto che questa preparazione culinaria sia molto indigesta e adatta soprattutto ai climi rigidi. Il termine olla significa "pentola" e indica il nome del recipiente in cui tradizionalmente lo stufato composito viene cucinato; più precisamente si tratta di una pentola di argilla (olla de barro). È una parola che non presenta particolari problemi semantici. Le difficoltà le si incontra quando si cerca di analizzare l'attributo di olla, ossia podrida, che significa senza alcuna possibilità di errore "putrida, imputridita, marcia". Perché dare a un piatto glorioso e saporito un nome tanto dequalificante e umiliante? 
 
 
L'inconsistenza dell'etimologia tradizionale 

A un certo punto le genti di Spagna hanno provato un immenso imbarazzo per il nome dell'olla podrida. Per risolvere un simile assillante problema, hanno fatto ricorso all'etimologia popolare, dando un'origine implausibile all'aggettivo podrida, sommamente scomodo. Si è così diffusa l'idea secondo cui il nome originale dello stufato composito sarebbe stato olla poderida, interpretato come "pentola poderosa", da poder "potere". Le spiegazioni addotto sono in sostanza due: 
 
1) lo stufato se lo sarebbero potuti permettere soltanto i potenti (quindi sarebbe da interpretare "pentola dei poderosi", perché era "un plato muy ríco y costoso"); 
2) lo stufato sarebbe stato chiamato così per via della sua pesantezza, della potenza dei suoi molteplici ingredienti.
 
In ogni caso, secondo questa storiella invereconda, la fantomatica olla poderida sarebbe in seguito diventata per naturale evoluzione fonetica olla podrida: da qui la confusione con l'aggettivo podrida il cui significato è "marcia, imputridita". Stupisce che gli accademici, in mancanza di meglio, diano credito a una baggiata così colossale. Nessuno tra gli studiosi sembra aver notato una cosa molto semplice: non è mai esistito nella lingua spagnola un aggettivo *poderido "poderoso". Non se ne trova nemmeno una singola attestazione in tutta la letteratura spagnola. Non è mai esistito, anche perché è formato male. Il suffisso -ido è tipico del participi passati. Non è possibile aggiungere il suffisso del participio passato all'infinito di un verbo, come è appunto poder "potere". Non si può aggiungere -ido a -er nemmeno considerando poder come un sostantivo derivato dall'infinito dell'omonimo verbo. Questa formazione presupporrebbe l'esistenza di un verbo *poderir, con due suffissi dell'infinito, il che è semplicemente assurdo! Quindi tutti se ne devono fare una ragione: podrida significa proprio "marcia, imputridita" e non ha altro senso possibile.
 
Rudimentali tentativi di spiegazione  

Il lessicografo, crittografo e presbitero spagnolo Sebastián de Covarrubias y Orozco (Toledo, 1539 - Cuenca, 1613), ha scritto a proposito dell'olla podrida quanto segue: "por cuanto que se cuece muy despacio, que casi lo que tiene dentro viene a deshacerse", ossia "siccome cuoce molto lentamente, che quanto c'è dentro viene a disfarsi". Sempre meglio della favola della "pentola poderosa". Teniamo conto del fatto che lo stufato composito poteva essere un piatto di recupero, con cui processare avanzi di ogni tipo, anche carne un po' rancida. L'usanza di recuperare carne speziandola e cuocendola a lungo è ben nota anche tra gente di terre lontane: le badani ucraine cucinano la carne di cattiva qualità lessandola e riempiendola d'aglio; anni fa ne vidi una cucinare della carne passata che già aveva cattivo odore, trattandola con aceto e spezie, ottenendone uno stufato che sembrava fatto di carne fresca. Qualcuno ha persino supposto che l'olla podrida fosse chiamata così per pura e semplice ironia. L'ipotesi mi pare comunque abbastanza implausibile.   
 
Adattamenti in altre lingue 
 
Adattamento in italiano: olla podrida, ogliapodrida, òglia podrida, òglia putrida, òglia pudrida, ogliopotrida (l'accento è sempre sulla sillaba -ri-: podrìda, etc.); pentola marcia (quest'ultima voce è un calco, ossia una traduzione letterale).  
Adattamento in francese: pot pourri (si tratta di un calco, ossia di una traduzione letterale, da pot "pentola" e pourri "marcio"); sembra che il neologismo sia stato coniato da François Rabelais e di fatto compare per la prima volta in una sua opera, il Quinto libro di Pantagruel (pubblicato nel 1564). 
Adattamento in inglese: olio, glossato come "A spiced meat and vegetable stew of Spanish and Portuguese origin. Hence: any dish containing a great variety of ingredients" (Oxford English Dictionary).
 
Effetto boomerang: Il francese pot pourri (o pot-pourri), usato in ambito musicale o letterario per indicare una composizione di vari generi, è entrato in spagnolo come popurrí - anche se mai applicato all'ambito culinario. È parimenti entrato in italiano come pot-pourri /popu'ri/ (adattamento familiare pupurrì), con la stessa accezione, avendo anche il significato di "mescolanza di cose eterogenee". Allo stesso modo in inglese si ha potpourri /ˌpəʊpəˈɹiː/, /pəʊˈpʊəɹi/, /pəʊˈpɔːɹi/ (UK), /ˌpoʊ.pʊˈɹiː/, /ˈpoʊ.pʊɹiː/ (US), con la stessa accezione molto estesa: "A collection of various things; an assortment, mixed bag or motley".
 
Citazioni letterarie 
 
Riportiamo in questa sede i testi di quattro autori che menzionano il piatto spagnolo:  

"Quel piattone fumante laggiù mi sembra proprio olla podrida” – afferma il fedele scudiero e compagno di avventure di Don Chisciotte “e per la quantità di cose diverse che ci mettono non potrò non trovarcene qualcuna di mio gusto e giovamento" 
(Miguel de Cervantes Saavedra, Don Chisciotte della Mancia, Libro II, cap. 47)
 
"Però, se volete più sicuramente filosofare dite che de' corpi integranti dell'universo, quelli che son per natura mobili, si muovon tutti circolarmente, e che però la calamita, come parte della verace primaria ed integral sustanza del nostro globo, ritien della medesima natura; ed accorgetevi con questa fallacia, che voi chiamate corpo misto la calamita, e corpo semplice il globo terrestre, il quale si vede sensatamente esser centomila volte più composto poiché, oltre il contenere mille e mille materie tra sé diversissime, contien egli gran copia di questa che voi chiamate mista, dico della calamita. Questo mi pare il medesimo, che se altri chiamasse il pane corpo misto, e corpo semplice l’ogliopotrida, nella quale entrasse anco non piccola quantità di pane, oltre a cento diversi companatici."
(Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo) 

Il sonno tarda a venire
poi mi raggiungerà senza preavviso.
Fuori deve accadere qualche cosa
per dimostrarmi che il mondo esiste e che
i sedicenti vivi non sono tutti morti.
Gli acculturati i poeti i pazzi
le macchine gli affari le opinioni
quale nauseabonda olla podrida!
E io lì dentro incrostato fino ai capelli!
Stavolta la pietà vince sul riso. 
(Eugenio Montale, Dormiveglia) 

“Se mi conosceste di più” rispose sorridendo il conte, “non vi preoccupereste di una cosa quasi umiliante per un viaggiatore come me, che ha successivamente vissuto con maccheroni a Napoli, con polenta a Milano, con olla podrida a Valenza, con riso asciutto a Costantinopoli, con karrick nelle Indie, e con nidi di rondini nella Cina. Non c’è una cucina particolare per un cosmopolita come me: mangio di tutto ed in ogni luogo; solo mangio poco, ed oggi che mi rimproverate la mia sobrietà, sono in una delle giornate del mio massimo appetito, perché da ieri mattina non ho più mangiato.”
(Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo) 

Alcune deduzioni culturali e antropologiche. Il testo di Galilei ci mostra come l'olla podrida fu importata in Italia, dove fu protagonista delle tavole dei ceti abbienti nel XVI-XVII secolo. Montale etichettò l'olla podrida come "nauseabonda", forse più per il significato letterale del termine che per esperienza diretta del piatto. Anche Cervantes sembrava nutrire poco amore per l'olla podrida, credo per via di problemi di digestione.
 
La soluzione del mistero della pentola marcia 
 
Ricordo quando mangiavo tranci di prosciutto cotto, che era in uno stato appena appena migliore di quello della Marina Militare Britannica. Era grigiastro. Mancavano soltanto i bigattini brulicanti. Lo tagliavo a dadi e lo ingurgitavo avidamente! Mi faceva defecare zolfo liquido e caustico per giorni. Un fetore spaventoso, come se avessero rotto con una spranga un quintale di uova marce. Fuoriuscita di emorroidi, sfintere anale ustionato, come se fosse venuto a contatto con un carbone ardente. Questo sentenziò giustamente Andrea M., non appena lesse su Facebook delle mie difficoltà intestinali e anali:

"Chi mangia ben di Dio, caga peste"

L'olla podrida non è chiamata così per via dei suoi ingredienti o della procedura di preparazione: ha ricevuto questo nome perché fa produrre feci pestilenziali, marce, fortemente disbiotiche! Non è tanto l'input ad essere importante per la definizione, quanto l'output! Possibile che nessun filologo ci sia mai arrivato? 
 
Scatologie iberiche 

L'ipocrisia degli Spagnoli riguardo alle feci è a dir poco grottesca. Intendono rimuovere ogni allusione alla merda, poi sodomizzano volentieri e senza nemmeno usare clismi. Le ragazze spagnole smerdano pitoni giganteschi e scorreggiano in modo fragoroso. Ebbi il piacere di sentirne alcune mentre mi trovavo nelle latrine di un rifugio di montagna: mentre cercavo di liberare la vescica, le gentili donzelle usavano il cesso attiguo, una dietro l'altra. Svuotavano rapidamente gli intestini, facendo concerti con la tromba di culo! Ricordo un video porno interpretato da una coppia spagnola. Lei era una pingue chubby, lui era un ragazzo robusto e col pizzetto. Prima le ha leccato l'ano, poi ha spinto dentro il glande eccitato, nell'accogliente budello, cominciando a stantuffare. A un certo punto la chubby si è ritratta e gli ha deposto un escremento scuro sul glande. La povera ragazza grassoccia non era riuscita a trattenersi mentre lui le scavava dentro! Il ganzo non ha voluto continuare il coito e ha esclamato stizzito: "¡Es suficiente! ¡Es suficiente!" Non ha nemmeno eiaculato. All'epoca in cui la tradizione dell'olla podrida era al massimo del suo splendore, non si poteva nemmeno pensare al sesso anale, pena l'essere bruciati vivi sul rogo dall'Inquisizione. Oggi i divieti anti-sodomitici non sono più in vigore, eppure la materia fecale non la vuole sentir nominare nessuno, neanche quando ce l'ha addosso per qualche attività ludica finita male. Questo è quanto. 

sabato 24 aprile 2021

ANCORA SUL MISTERO DEL PIPPOLOGIO: VERSO UNA SOLUZIONE

Nel lontano 2014 ho pubblicato un brevissimo articolo sul pippologio, un dolce fallico prodotto nella nativa città di Seregno, in Brianza, in occasione dell'Epifania. Riporto il link a quel mio vecchio contributo, che si concludeva con una richiesta di informazioni, ovviamente caduta nel vuoto.    

 
Avevo cercato invano di trovare un'etimologia credibile a una parola così stramba, senza riuscire ad approdare a nulla di convincente. La mia mente contorta aveva risolto l'enigmatico pippologio in un improbabile *pippologi(h)o, cioè "pippo logico" quasi fosse un "pene dotato di logica" (ben noto è il termine pippo nel senso di "pene" e di "scemo"); l'inconsueto sviluppo fonetico lo adducevo a un'origine toscana tramite gorgia, pensando che si dovesse alla pronuncia di un pasticcere trapiantato in Brianza. Invece l'amico Watt, che ai tempi di Splinder gestiva il blog Etymos, mi aveva suggerito un'interpretazione altrettanto implausibile, ricostruendo un *pippo-elogio, ossia "elogio del pippo", senza badare troppo alla bizzarria formale di un simile composto. La cosa poi era finita con la pubblicazione dell'articoletto su questo blog e per diversi anni non ho più pensato a questo argomento.  
 
 
Qualche tempo fa l'amico seregnese P., grassoccio e calvo ma con una robusta barba, scrisse sul suo profilo di Facebook un post brevissimo ma entusiastico, corredato da una foto del dolciume simile a un membro eretto: "VIVA IL PIPOLOGIO!" La cosa mi ha illuminato. Finalmente avevo trovato una attestazione certa della parola da me descritta già da anni e la cui etimologia mi era parsa tanto misteriosa! Subito ho capito l'arcano: si trattava di una semplice questione di ortografia! Quando avevo appreso il vocabolo, chi me lo trasmise lo pronunciava con una consonante -pp- doppia (pippologio), ma la forma più comune ha una consonante -p- semplice (pipologio). Quando ho cercato "pipologio" usando Google, il vasto Web mi ha restituito alcune tracce utilissime quanto insperate e sono finalmente riuscito a capire qualcosa di più. 
 
Si trovano anche altre varianti del nome: papurogio, poporogio e papuròtt. Queste forme sono utilizzate nei comuni di Desio e di Lissone. Non c'è motivo di dubitare del significato originario di queste parole: "bambolotto".  
 
 
Epifania in Brianza, la tradizione del "Papurott" o "Papurogio"  
 
"Papurott o Papurogio è il bambolotto, dolce tipico brianzolo della festa: nella giornata del sei gennaio sulle tavole dei brianzoli, per la gioia dei bambini, non può mancare il fantoccio (esiste la variante con impasto di pan brioche o di frolla) preparato secondo le ricette della tradizione con le sue innumerevoli varianti. L'usanza di sfornare o acquistare i Papurott è particolarmente sentita a Lissone dove ogni anno all'Epifania in città avviene la distribuzione dei dolcetti e anche a Desio." 
 
E ancora, su una pagina ormai cessata: 
 
 
Il Papurogio è un dolce tipico dell’Epifania di Desio 

"Il nome lo si può ricondurre alla parola dialettale “Papurot” ossia bambino paffuto e sorridente, come è raffigurato tradizionalmente Gesù Bambino." 
 
"Il dolce tipico di Desio è il ‘papurogiu’. Le pasticcerie e le panetterie della cittadina brianzola ne fanno ognuna la propria versione personalizzata, solo nei cinque giorni che precedono l’Epifania. Il nome in origine lo si può ricondurre alla parola dialettale “Papurot” ossia bambino paffuto e sorridente, come è raffigurato tradizionalmente Gesù Bambino."

In questa pagina si trovano ancor più informazioni, che riporto per evitare che scompaiano inghiottite nel Nulla del Web: si fa persino nome e cognome dei possibili artefici.  
 
 
Papurott o Papurogio: un po’ di storia (e storie) del dolce dell’Epifania in Brianza
 
"A Desio ne sono convinti. Sono sicuri. L’originale dolce dell’Epifania è nato qui, esattamente a metà strada tra le case dove hanno visto la luce due grandi: Achille Ratti e Luigi Giussani. È nato nel laboratorio di Edoardo Pastori, sul “ponte”, con la roggia Traversi a scorrere accanto, la discesa per raggiungere la basilica e lo sferragliare del tram. È nato nel 1929, l’anno dei Patti Lateranensi, ma le sue radici, l’idea, l’intuizione, sono più vecchi di dieci anni, quando il papà di Edoardo, panettiere a Rho, già creava qualcosa di simile con la pasta del pane."

"A Desio il dolce della Befana è chiamato ‘papurogiu’, con due ‘u’. Il suo nome, però, in origine era leggermente diverso: Pastori lo aveva battezzato ‘poporogio’,con una serie di ‘o’ da fare invidia ad un onomatopeico. Era così per via della sua forma da bambino. Il nome del dolce si è alterato nel tempo, ma non la ricetta originale. Quella è rimasta invariata per anni, è stata portata avanti da Italo, figlio di Edoardo, ed è andata in pensione con lui, quando decise di chiudere il bar pasticceria di corso Italia. Non è mai invecchiata, la ricetta, pur avendo tra le pieghe 90 anni di vita come il lievito madre che era l’anima di ciascun omino dei Pastori. Sempre quello. Custodito gelosamente e attentamente dentro il tabernacolo della sala dolci. Piuttosto, la ricetta diveniva più fresca e fragrante, tanto che in molti hanno cercato di ripeterla. Ma non col medesimo gusto, quello regalato dalla ‘ics’, dall’ingrediente segreto." 
 
"E proprio a Lissone è storia è diversa. Perché sono storie di famiglia che sono dolci ricordi, dolci come il “Papurott”. Giancarlo Gatti, titolare della pasticceria “San Rocco” di via Settembrini a Lissone, ha mosso i primi passi sul bancone dell’attività aperta dal padre, Alfredo, e dallo zio Camillo nel 1953 in via Mazzini e 10 anni più tardi trasferitasi nella sede attuale. «Ai tempi mio padre e mio zio dividevano i locali, tra falegnameria e dolci – raccontava al CittadinoMB un anno fa – Vedevo mio papà col triciclo dei legnamè portare in giro le brioches. Poi, in via Settembrini, ricordo che io, avevo 7 o 8 anni, lo aiutavo a fare il Papurott: mettevo le uvette per creare gli occhi e l’ombelico. Si faceva solo a Lissone, sì. A Desio lo portavamo ai clienti. È una tradizione che è rimasta e di cui ancora oggi c’è una vera febbre: il 5 e il 6 gennaio la richiesta è sempre alta. Tutti vogliono il Papurott che è un simbolo, come la torta paesana alla festa di Lissone»."
 
Le genti di Lissone, in uno slancio di fanatismo campanilistico, si ostinano a dire che il dolciume è tipico unicamente del proprio paese. Le genti di Desio, dal canto loro, sono sempre pronte a giurare il contrario. A distanza di tanto tempo, è molto difficile accertare i fatti. Immagino il dialogo da cui è nato tutto. Il pasticcere ha plasmato dell'impasto e lo ha cotto, dando origine a una figura storpia e gobba. La moglie gli ha chiesto, con tono scettico: "Sa l'è cus'è cul ropp chi?" E l'uomo, afflitto, le ha risposto: "Al su nò. L'è un queicòss. L'è un poporògiu".  
 
A questo punto sono riuscito a mettere assieme lo scibile a cui posso avere accesso per elaborare una conclusione. Il percorso non è lineare e bisogna partire da lontano.

Mi trovavo a Malesco, in Val Vigezzo, con il fraterno amico P. "Nodens" (da non confondere con P. il Pingue) e con suo fratello T. (R.I.P.). Mentre passeggiavamo in paese come tutte le sere, ci imbattemmo in una vetrina in cui erano mostrati oggetti provvisti di etichette con il loro nome nel dialetto ossolano locale. C'era una bambola gigantesca, grande quasi quanto una bambina di dieci anni, con lunghe vesti e con i capelli biondi ben pettinate, di quelle che a Milano erano un tempo chiamate pigòtt (al singolare pigòta). Sotto la bambola c'era un'etichetta con la sua denominazione ossolana: LA PUPÙ. Scoppiammo a ridere e andammo avanti per una buona mezz'ora. Il giorno dopo, l'anziano C. (R.I.P.), che era nativo del paese, ci spiegò che in dialetto maleschese la pupù è la bambola. 

In un'altra occasione giunse una glossa inattesa. Il fratello di P. "Nodens" se ne uscì in un'occasione a chiamare i bambini col loro nome locale: pupurìtt. Capii subito che questo strano vocabolo era connesso con l'ossolano pupù "bambola". Certamente il termine pupurìtt "bambini" significava in origine qualcosa come "bambolotti". Anche in italiano esistono voci simili: pupo, pupa, pupattola, pupazzo. In Sicilia i pupi sono burattini che narrano vicende epiche, e l'uomo che li muove è il puparo. Questa radice esisteva già in latino, come ci mostrano le forme di origine dotta pupillo e pupilla.
 
pupo 
   1) "bambino piccolo" (regionalismo, Italia centrale)
   2) "marionetta" 
 
pupa 
   1) "bambola" 
   2) "ragazza" (gergale) 
     Esempio: Quella è la pupa del boss.
   3) "crisalide" (linguaggio scientifico)  

Forma derivata:
pupazzo

Etimologia: dal latino pūpus "bambino, ragazzo", fatto derivare dalla radice indoeuropea *peh2w- "poco, piccolo". La forma derivata pupazzo presuppone un latino *pūpāceus.  


1) ragazzino, fanciullo
2) bambola, pupazzetto, fantoccio 


1) bambina, fanciulla, ragazza 
2) pupilla dell'occhio 
3) (in senso figurato) occhio 
4) bambolina
5) pupilla 
 
 
Nell'Atlante Linguistico AIS, alla voce "bambola" (numero 750), troviamo alcune informazioni interessanti. 
 

Si può vedere che in alcuni paesini della Val Chiavenna e della Valtellina la bambola è chiamata pipœla o pipóla. Queste forme sono semplici varianti del più comune pupòla. Certo, è possibile che a Seregno il pipologio o pippologio si sia originato da un mutamento fonetico dissimilatorio simile a quello che ha portato a pipœla, pipóla, a partire da papuròtt, papurogio e simili, anche se la cosa in fondo non mi convince molto. A parer mio il passaggio dal biascicato papurogio all'audace pippologio è stata introdotta da un pasticcere estroso che ha deciso di alterare la figura infantile del pupazzo per trasformarla nella figura maliziosa del pippo, che è un cazzone gonfio di sperma. Detto questo, P. "Nodens" mi ha confermato che nella sua nativa Albiate è usata soltanto la forma pupurìn "bambino" (plurale pupurìtt "bambini"), che un vocabolo papuròtt "bambino grassoccio" è del tutto sconosciuto e che il dolciume fallico non si trova affatto. Evidentemente la produzione del pupazzo di pasta brioche, nata a Desio o a Lissone, è giunta a Seregno subendo la sua metamorfosi in un simulacro del membro virile eretto, senza poter arrivare più lontano.   

mercoledì 21 aprile 2021

IL VIN DE POMM, IL MELICHINO E UN ANNOSO EQUIVOCO

Questa definizione è tratta dalla versione online del Vocabolario degli Accademici della Crusca
 
 
MELICHINO.
Definiz: Lat. vinum ex malis, *pomatium.
Esempio: G. V. 11. 82. 2. Facea, e vendea il melichino, cioè cervogia fatta con mele. 
 
Il vocabolo melichino sarebbe dunque un sinonimo di sidro e del lombardo vin de pomm. Questo termine non va confuso con il nome dei melichini piacentini, biscotti rustici fatti con la farina di mais. Tutto parrebbe chiaro, eppure non è così. 

La glossa latina corretta di melichino è infatti vinum ex melle, hydromeli (1), medus (2)
(1) dal greco
(2) dal gallico 
 
La traduzione italiana corretta è questa:  
 
melichino = idromele leggero

In altre parole, siamo di fronte a un annoso abbaglio: melichino non è un altro nome del sidro e almeno in origine indicava una bevanda ben diversa. 
 
Una distorsione antica  

Vi ricordate di Nicolò Tommaseo (1802 - 1874)? Era quello che derideva Leopardi e che è stato reso cieco dalla sifilide, dopo un'assidua frequentazione dei bordelli di Parigi. Scrisse un detestabile romanzo, Fede e bellezza (Venezia, 1840), che Manzoni definì "un pasticcio mezzo giovedì grasso e mezzo venerdì santo", mentre Cattaneo ne parlà come di "una lunga e turpe storia per trovar marito". I suoi ingredienti sono misticismo, erotismo, senso del peccato, profonda religiosità e decadentismo. A onor del vero va detto che il Tommaseo ha compiuto anche qualche opera meritoria, avendo prodotto assiene a Bernardo Bellini (1792 - 1876) il Dizionario della Lingua italiana (1a ed. 1861), il più importante del Risorgimento. Questo lavoro monumentale è sinteticamente noto come Tommaseo-Bellini. Essendo deceduti sia Tommaseo che Bellini, gli ultimi due volumi furono portati a termine da Giuseppe Meini (1810 - 1889): a lui si devono tutte le voci da si a zuzzurellone. Dovremmo quindi definire l'opera in modo più corretto come Tommaseo-Bellini-Meini
 
Nicolò Tommaseo e Bernardo Bellini portavano avanti convenzioni ortografiche più antiche, seguite da moltissimi altri autori secoli prima di loro. Così scrivevano sistematicamente "mele" per "miele". L'ambiguità non esisteva a livello fonetico: era soltanto grafica e avrebbe potuto essere evitata tramite l'uso di un accento: mèle = miele. Tutti davano per scontata l'immediata comprensibilità delle loro parole, non si rendevano conto delle ambiguità e non immaginavano le conseguenze ultime delle loro scelte, come quella di non usare alcun accento per distinguere il miele dalle mele. L'opposizione tra i due lemmi omografi è così descritta in dettaglio:  
 
mele /'mɛle/ "miele"  -  mele /'mele/ "mele"
 
Non comparendo alcun diacritico, è tuttora possibile ingenerare confusione tra chi legge l'opera e non è informato a sufficienza. Ecco la voce MELICHINO (contrassegnata con una croce + perché caduta in disuso già all'epoca) nel Tommaseo-Bellini:  
 

+ MELICHINO. S m. Cervoglia fatta con mele. V. Melca nel De Vit., e anche il § 6 di Melicus e Meninon in Cel. Aurel.; e Melinus e Mellinia in Plaut., e in Plin. Melitinus, e in Apic. Melizomum, e nell'Onom. lat. gr. Mellaceum. G. V. 11. 82. 2. (C) Facea, e vendea il melichino, cioè cervogia fatta con mele. 
 
Si vede subito che la definizione è stata presa direttamente dal più antico Vocabolario degli Accademici della Crusca. La citazione "Facea, e vendea il melichino, cioè cervogia fatta con mele", ripresa tal quale e incompleta, è dall'opera di Giovanni Villani (1280 - 1348), storico, cronista e mercante fiorentino, autore della Nuova Cronica. Perché dico che è incompleta la citazione del Villani? Perché l'originale è questo (Nuova Cronica, Libro dodicesimo): "Alla fine si levò in Guanto uno di vil mestiere, che facea e vendea il melichino, cioè cervogia fatta con mele, ch'avea nome Giacopo d'Artivello, e fecesi maestro della Comuna di Guanto". Il toponimo Guanto è riferito alla famosa città di Gand (fiammingo Gent), nelle Fiandre Orientali. Subito dopo il Villani aggiunge: "E questo fu l’anno MCCCXXXVII; e per suo bello parlare e franchezza montò in brieve tempo in tanto stato e signoria col favore della Comune di Guanto, che cacciò di Fiandra al tutto il conte e tutti i suoi seguaci, e così di Guanto e di Bruggia e d’Ipro e delle altre ville di Fiandra ch’amavano il conte; imperò che chiunque facea resistenza si partia di Guanto con VIm o più della Comuna, e venia contro a que’ cotali, a combatterli e cacciarli; e così in poco tempo fu al tutto signore di Fiandra." Non sta parlando di Firenze. Ne deduciamo in ogni caso che l'autore riteneva l'uso del melichino proprio di genti di infima condizione sociale.

Ecco le necessarie glosse alla definizione della Crusca, a quella di Tommaseo e alla citazione da Villani: 

con mele = col miele 
cervogia fatta con mele = bevanda fermentata fatta col miele  

Veniamo ora alle voci latine e greche riportate da Tommaseo-Bellini: 

1) melca = latte con aceto e spezie
Non ha attinenza col melichino, essendo un latte acidulo e aromatizzato. Si veda il mio contributo sull'argomento:  
 

Le altre voci citate sono senza dubbio derivate dal latino mel "miele" o dal greco meli "miele": 

meninon (errato per melinon, Celio Aureliano, gr.)
melinus (varie fonti, lat.)
mellinia (lat.)
melitinus (Plinio il Vecchio, < gr.)
melizomum (Marco Gavio Apicio, < gr.)
mellaceum (lat.) 

Va espunta la voce melicus "poeta lirico; melodioso", che è dal greco μελικός (melikós), a sua volta da μέλος (mélos) "canzone, verso di una poesia", ma anche "membro, parte del corpo" - di cui non ho trovato nessun significato secondario attinente alla nostra trattazione: probabilmente il Tommaseo è incorso in un equivoco, interpretando con ingenuità "melodioso" come "dolce".
 
Nessuna delle voci elencate può essere derivata dal nome della mela, che in latino era mālum. Siccome Tommaseo e Bellini queste cose le dovevano sapere bene, è evidente che alludevano a un idromele leggero e non a un sidro di mele. Ancora una volta c'è stata un'interferenza con le cazzute e fantomatiche mele! 

Riporto qualche dettaglio in più. 
 
2) melinon = tipo di impiastro
greco: μέλινον 
 
Indubbiamente è una voce greca, anche se il suffisso in nasale -in- è ben strano, dato che i derivati di μέλι (meli) "miele" sono formati con μελιτο- (melito-) e μελισσο- (melisso-). 
La grafia meninon, erronea, è un refuso del Tommaseo-Bellini. Il demone Titivillus è sempre stato all'opera! Ecco il passo del medico Celio Aureliano che cita la preparazione (Morborum chronicorum libri V, tomo II):
 
Adponenda praetera extrinsecus emplastra, quae in cicatricem ducere valeant, ut est melinon, ac deinde siccantia magis. 
Tum cum firmum adparuerit lenimentum, erit amitaonion imponendum, vel polyarcyon malagma, admixto cerotario, ex oleo Cyprino confecto, parte tertia: siquidem haec singularia primo tempore aegrotantes ferre minime possint.   
 
Come si può notare, già esistevano i cerotti, alla lettera pezzi di cera usati per chiudere e curare le ferite. Come tutti i prodotti delle api, la cera è ricca di potenti antibiotici naturali. 
 
3) melinus = di miele; relativo al miele 

Questo aggettivo è strano per essere genuinamente latino: ci saremmo aspettati una liquida doppia -ll- e non siamo in grado di spiegarci l'anomalia. Potrebbe essere un prestito dal greco, che però ha derivati di μέλι (meli) "miele" formati con μελιτο- (melito-) e μελισσο- (melisso-). Non deve essere confuso con forme quasi omonime ma con vocale -ē- lunga: 
 
mēlīnus "di martora, di tasso" (donde mēlīna "sacca di pelle
      di tasso"), derivato da mēlēs "martora, tasso"
mēlinus "di mela cotogna"; "di color giallo cotogna" (dal greco
      μήλινος)
mēlinum "olio di cotogne" (dal greco μήλινον)
 
Questi sono due sostantivi che hanno a che fare con bevande ottenute dal miele: 
 
i) melina = idromele 
glossa inglese: mead  
 
Nello Pseudolus (Atto 2, scena 4, 51), Plauto ha scritto:  
 
murrinam, passum, defrutum, melinam promere quoiusmodi "prendere vino di mirra, passito, vino cotto e idromele, di qualunque tipo". 
 
Sono menzioni di varie bevande dolci in uso a Roma all'epoca, tra cui un vino aromatizzato alla mirra (murrina), un degno passito fatto con uvette (passum) e un poco salutare vino cotto in pentole di piombo e addolcito dalla reazione naturale col metallo tossico: è il famigerato dēfrutum (dēfrūtum), che sarebbe saggio rifiutare anche in condizioni di astinenza.
Altri riportano mellam anziché melinam: va detto che i testi di Plauto sono soggetti a letture e tentativi di restauro piuttosto capricciosi. Basti pensare che anziché quoiusmodī troviamo quoiquoimodī e quoivismodī. Tuttavia la scansione metrica del verso trocaico dimostra che non sarà da leggersi *mellam e che la forma melinam è perfettamente legittima. Ecco l'alternanza di sillabe lunghe e brevi: 
 
mur- (lunga)
-ri- (breve) 
-nam (lunga) 
pas- (lunga)
-sum (lunga)
dē- (lunga) 
-frū- (lunga)
-tum (lunga)
me- (breve) 
-li- (breve)
-nam (lunga)
quo- (lunga)
-ius- (lunga)
-mo- (breve)
-dī (lunga) 
 
Chiaramente la voce in questione è derivata dalla sostantivazione dell'aggettivo melinus "di miele; relativo al miele". Ne esiste una variante con consonante doppia e vocale lunga nel suffisso:
 
ii) mellīna = idromele 
glossa inglese: mead 

E' riportato che questa variante di melina "idromele" si troverebbe in Plauto, nell'Epidicus (Atto 1, scena 1, 23), ma si vede subito che non è così: 

Ubi is ergost? nisi si in vidulo aut si in mellina attulisti "Dov'è dunque? A meno che tu non lo abbia portato in una valigia o in una borsa"

In questo caso mellīna è una variante di mēlīna "borsa di pelle di tasso" e non c'entra con l'idromele, a dispetto di molte citazioni trovate nel Web.

4) mellinia = dolcezza, delizia 
sinonimi: dulcedo, dulcitudo, dulcitas, dulcor, mel

Plauto ha scritto nel Truculentus (Atto 4, scena 1, 6): 
 
hoc nimio magnae melliniae mihist "ciò è per me di troppo grande delizia".
 
Non siamo di fronte al nome di una bevanda, bensì a un semplice sostantivo astratto.

5) melitinus = mellifero, relativo al miele  

È dal greco μελίτινος (melítinos) "fatto di miele". In Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, Libro XXXVI, 33) si trova la seguente menzione del termine: 

Melitinus lapis sucum remittit dulcem melleumque. tunsus et cerae mixtus erutionibus pituitae maculisque corporis medetur et faucium exulcertioni, epinyctidas tollit, volvarum dolores inpositus vellere.  
 
"La pietra melitina emette un liquido dolce e di miele. Pestata e mischiata alla cera cura le eruzioni di catarro e le macchie del corpo e le ulcerazioni delle gole, toglie le pustole notturne e, messa sopra con un panno di lana, i dolori degli organi femminili." 

Non sembra essere lo specifico nome di una bevanda: è piuttosto un medicamento di dubbia efficacia. Si nota che in greco il suffisso -in- ha la vocale lunga, mentre in latino ha la vocale breve. 

6) melizōmum = sciroppo di miele 
greco: μελίζωμον

Questo è quanto scrisse Marco Gavio Apicio nel De re coquinaria (1, 2, 2): 

II. Conditum melizomum viatorium.

1. Conditum melizomum perpetuum, quod subministratur per viam peregrinanti: piper tritum cum melle despumato in cupellam mittis conditi loco, et ad momentum quantum sit bibendum, tantum aut mellis proferas aut vinum misceas sed, si vas erit, nonnihil vini melizomo mittas, adiciendum propter mellis exitum solutiorem. 
 
7) mellāceum = mosto cotto  
varianti: mellācium
sinonimi: sapa

È una voce postclassica. Il grammatico Nonio Marcello (IV o V secolo d.C.) ha dato nella sua opera De compendiosa doctrina (551, 21) la seguente definizione della parola sapa:
 
Sapa, quod nunc mellaceum dicimus, mustum ad mediam partem decoctum. 
 
Come si evince dal testo di Nonio, il mosto veniva cotto fino a ridursi della metà (ad mediam partem). Una sopravvivenza romanza di mellāceum è lo spagnolo melaza (in origine il plurale neutro), passato in francese come mélasse, da cui è stato preso l'italiano melassa.
 
Come si vede, le mele non c'entrano una cippa! Non posso certo dire di essere il primo ad essersi accorto del problema. Vincenzo Monti nel 1821 ha scritto Proposta di alcune correzione ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, in cui ha segnalato l'ambiguità: 
 
OSSERVAZIONE
 
Quel con mele tanto può esser plurale di Mela, quanto singolare di Mele, o sia Miele ; anzi ha più apparenza di questo che dell'altro. Chi assicura dunque al Crusca che la latina definizione Vinum ex malis, Pomatium sia giusta, e non piuttosto Mellina, o com'altri vogliono Melina con una sola l ( v. Plauto, Pseud. 2. 4. 51 ), cioè Pozione fatta col miele? La cervoglia non si fa forse con questo egualmente , anzi meglio?
 
Cosa ne deduciamo? Possiamo giungere a questa solida conclusione: in origine melichino e vin de pomm non erano sinonimi, ma si riferivano a due diverse bevande che un tempo erano in uso in Lombardia e altrove. La confusione deve poi essere effettivamente subentrata. Nel Dizionario veneziano-italiano di Giuseppe Piccio, II Edizione, con note grammaticali e fonologiche seguite da testi dialettali, Libreria Emiliana Editrice, Venezia (1929), la voce veneziana vin de pomi è tradotta in italiano con "sidro, melichino".  


Molti anni fa spiegai a un amico soprannominato Totz, nativo di Sovico, come mi producevo in casa l'idromele usando miele, acqua e lievito. Il Totz mi disse che la stessa ricetta da me descritta, ma con successiva diluizione con acqua, serviva a produrre il vin de pomm. Segno che il melichino aveva preso il nome del sidro, vin de pomm (= vinum ex malis), confondendosi con esso nel sapere comune e dando luogo a una singolare contraddizione. Questa è la spiegazione che mi è venuta in mente, alla luce dei fatti. Ai Lombardi di Milano e della Brianza era necessario produrre una bevanda inebriante, perché il vino era troppo costoso (si trovava soltanto il barbera di Superciuc, che doveva essere importato a caro prezzo dal Piemonte). Quindi si produceva questo spumantino dolce, fatto con miele o con mele, in fondo non importava, bastava che ci fosse qualcosa da bere per stare un po' allegri. Ho notato che il carissimo amico P. "Nodens" chiamava vin de pomm anche il vino moscato del Piemonte e più in generale ogni tipo di spumante dolce. "Gh'è ul vin de pomm!", diceva quando un comune amico apriva una bottiglia. Questo è segno che a un certo punto la locuzione vin de pomm si era separata dal suo significato letterale per indicare qualsiasi bevanda leggermente alcolica, frizzante e di colore chiaro, indipendentemente dalla materia prima utilizzata per la sua produzione (miele, mele, uva). Ho poi letto che nel Cusio, soprattutto a Omegna, per vin de pomm si intendeva invece un vino scadente. Sarebbe utile se la carissima L., che è di Omegna, confermasse l'informazione.