Al liceo lessi alcuni interessantissimi brani sul testo di storia usato nella scuola che frequentavo: Storia Moderna, di Gabriele De Rosa, edizioni Minerva Italica, 1982. L'ho recuperato, traendolo dalla polvere di un luogo ctonio pieno di cose vecchie, l'ho sfogliato e ho trovato con inaspettata facilità ciò che cercavo. A pagina 253 si parla della dieta di Napoli, che nel corso del XVII secolo subisce un drastico cambiamento. Li riporto senz'altro in questa sede, perché penso che siano di grande utilità.
Si impoverisce la dieta alimentare
"È vero che nel corso del Settecento la popolazione di Napoli crebbe notevolmente: nonostante la peste del 1656 e la carestia del 1764, essa salì da 240 mila abitanti ai primi del Seicento ai 437 mila abitanti alla fine del Settecento. Era la città più popolosa d'Italia. Ma questa crescita demografica non corrispondeva a uno sviluppo dell'industria e del commercio della città; essa era il risultato dell'abbandono della terra da parte dei contadini, che non sopportavano più le misere condizioni di vita a cui erano sottoposti da parte dei baroni e dei grandi feudatari. Del resto, questa abnorme crescita demografica di Napoli ha un riscontro nell'impoverimento della dieta alimentare. Tra il XV e il XVI secolo il consumo base dei napoletani era costituito dalla "foglia", che era una sottospecie del cavolo, da carne, da pesce secco o salato, da formaggi, frutta e vino. Con il XVII secolo si ricominciò a mangiare meno carne."
E ancora:
"In realtà - scrive Giovanni Aliberti - da un tipo di dieta basata su glucidi (pane e vino), protidi (carne e derivati) e lipidi (grassi vegetali e animali) (...) si passa ad un regime dietetico fondato principalmente sui carbo-idrati, cioè sulla pasta alimenate, cibo senza dubbio più nutriente rispetto alla cellulosa ed all'acqua contenute nella tradizionale "foglia", ma insufficiente ad assicurare quella quantità necessaria di sostanze proteiche che sono indispensabili all'equilibrio biologico e che solo la carne più dare. Fenomeno, d'altronde, che non riguarda solo Napoli, ma presso che tutta l'area napoletana i cui abitanti, proprio a partire dal Cinquecento, rifluiscono ad un livello alimentare, sia quantitativo che qualitativo, nettamente peggiore rispetto al secolo precedente. Dal secolo XVII in poi, dunque, il consumo della "foglia" cede sempre più a quello dei maccheroni, che diventano la base dell'alimentazione napoletana sia come massa alimentare che come nutrimento vero e proprio."
"In realtà - scrive Giovanni Aliberti - da un tipo di dieta basata su glucidi (pane e vino), protidi (carne e derivati) e lipidi (grassi vegetali e animali) (...) si passa ad un regime dietetico fondato principalmente sui carbo-idrati, cioè sulla pasta alimenate, cibo senza dubbio più nutriente rispetto alla cellulosa ed all'acqua contenute nella tradizionale "foglia", ma insufficiente ad assicurare quella quantità necessaria di sostanze proteiche che sono indispensabili all'equilibrio biologico e che solo la carne più dare. Fenomeno, d'altronde, che non riguarda solo Napoli, ma presso che tutta l'area napoletana i cui abitanti, proprio a partire dal Cinquecento, rifluiscono ad un livello alimentare, sia quantitativo che qualitativo, nettamente peggiore rispetto al secolo precedente. Dal secolo XVII in poi, dunque, il consumo della "foglia" cede sempre più a quello dei maccheroni, che diventano la base dell'alimentazione napoletana sia come massa alimentare che come nutrimento vero e proprio."
Sono riuscito a recuperare informazioni sul testo di Giovanni Aliberti: Economia e società a Napoli dal Cinquecento al Settecento, Editori meridionali riuniti, 1974 (428 pagine).
Riporto ora il link a un prezioso articolo di Luciano Pignataro, Da mangiafoglie a mangiamaccheroni, storia della straordinaria netamorfosi partenopea. Il testo è una vera e propria miniera di informazioni! Vi si trovano anche diverse citazioni letterarie oltremodo interessanti.
Fino agli inizi del XVII secolo il territorio urbano di Napoli era ricchissimo di orti. La produzione di vegetali commestibili era prospera. Per questo motivo i Napoletani erano soprannominati "mangifoglie". Quando nel corso dei decenni si ebbe nella città un abnorme incremento demografico, non era più possibile mantenere l'alimentazione tradizionale. Serviva una nuova fonte di sostentamento, atta a mantenere le necessità di una grande massa di gente. Non si poteva trattare di un prodotto deperibile. Doveva conservarsi bene ed essere facilmente trasportabile. In Sicilia l'uso della pasta secca aveva una tradizione che risaliva agli Arabi e le cui prime attestazioni risalgono addirittura al X e al XI secolo. Per questo motivo i Siciliani erano soprannominati "mangiamaccheroni". I maccheroni erano conosciuti anche a Napoli già nel XVI secolo e anche prima, ma erano un alimento tipico degli aristocratici, di uso limitato, da condirsi con zucchero e cannella. Negli anni '30 del XVII secolo a Napoli fu inventato il torchio con trafila per la produzione automatica dei maccheroni, che era chiamato 'ngegno (con diverse varianti ortografiche come 'ncegne, 'nciegno; deriva dal latino ingenium). Questo macchinario fu determinante per il cambiamento delle abitudini alimentari dei Partenopei. Nell'area napoletana il metodo di produzione prevedeva l'uso dei piedi per lavorare l'impasto nella sua fase iniziale, non diversamente da quanto avveniva nell'Egitto dei Faraoni nel processamento della pasta di pane usata per la fermentazione della birra. Le condizioni igieniche, per essere eufemistici, non dovevano essere delle migliori. Questo sistema di impasto coi piedi, incredibile a dirsi, arrivò fino alla prima metà del XIX secolo. Grazie alla fortuna del torchio con trafila, agli inizi del XVIII secolo si era ormai completata la trasformazione dei "mangiafoglie" in "mangiamaccheroni": il nomignolo un tempo dato ai Siciliani era ora tipico dei Napoletani. Nel frattempo si era del tutto perso il gusto per i cibi agrodolci: le ricette più antiche di paste zuccherate e aromatizzate con cannella erano scomparse in favore del condimento con formaggio e solo in seguito, a partire dalla fine del XVII secolo, anche con pomodoro (è l'origine della famosa pummarola 'ncoppa, la prima ricetta con questo ingrediente è del 1692). I Lazzaroni erano grandi divoratori di maccheroni, che mangiavano tipicamente con le mani, sollevandone una gran massa con un gesto particolare e lasciandoseli cadere in bocca. Erano comuni in questo contesto le malattie a trasmissione oro-fecale, dato che non vi era la costumanza di detergersi le mani dopo essersi puliti il deretano. I contagi da Escherichia coli imperavano e le infestazioni da ascaridi non dovevano essere rare! Il famigerato colera sarebbe venuto soltanto in seguito, nel corso del XIX secolo.
Le conseguenze dell'input sull'output
Al cambiamento dell'alimentazione dovette fare riscontro un cambiamento nella produzione fecale e nelle proprietà organolettiche degli escrementi espulsi, ma di questo nessuno studioso si occupa. Ritengo che sia un male. Le feci prodotte dai mangiatori di foglia dovevano essere eubiotiche e poco fetide. Le feci prodotte dai mangiatori di maccheroni divennero senza dubbio disbiotiche e graveolenti, spesso caratterizzate da fenomeni fermentativi e putrefattivi che provocavano la comparsa di lezzi infernali. A quei tempi le genti non avevano nemmeno la più vaga idea di cosa fosse la celiachia, che pur doveva essere presente. Chi ne era affetto andava incontro a una vita infernale, con terribili conseguenze a cui non poteva in alcun modo porre rimedio. Si andava dall'osteoporosi alla necrosi intestinale e al coma. Possiamo dire che il passaggio dalla foglia ai maccheroni fu un sacrificio al Moloch della sovrappopolazione, che a fronte di pochi effetti positivi dovette provocare la rovina di non poche vite.
Il ciclo infinito del cibo e della merda
Non è possibile separare completamente quello che mangiamo da quello che defechiamo. Bisognerà farsene una ragione: le mani che portano il cibo alla bocca sono le stesse che rimuovono gli escrementi dallo sfintere anale, pur con vari aiuti. Nella nostra epoca si usa la carta igienica, in tempi meno fortunati si ricorreva a strumenti più rudimentali, come ad esempio panni, pietre lisce o muschio. In ogni caso resta sempre qualcosa della pasta marrone asportata con gran fatica. In ogni boccone di cibo che mangiamo si trovano sempre particelle fecali, seppur minuscole al punto di essere invisibili ad occhio nudo. Anche se la maggior parte delle persone non ne è consapevole, ogni pasto è un atto di coprofagia!
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