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venerdì 24 aprile 2020

ALCUNE NOTE SULL'ETIMOLOGIA DI OK

Tutti conoscono la locuzione Okay, scritta anche OK, Ok, O.K., che è sinonimo di "va bene". Si è diffusa a partire dagli Stati Uniti d'America - e su questo tutti sono d'accordo - ma pochi si domandano quale sia la sua vera origine. Eppure sono stati scritte così tante pagine sull'etimologia di OK che non si potrebbe nemmeno riuscire a contarle: si farebbe prima a pesarle. Non c'è una sola opera dell'ingegno umano che possa davvero fornire una soluzione certa di questo annoso problema. Possiamo dire che siamo di fronte a una realtà ben definibile come pantano etimologico
 
Spiegazioni acronimiche 
 
In qualche modo è sempre stato dato per scontato che OK non sia una vera e propria parola di un linguaggio naturale, bensì una sigla o un acronimo, una specie di abbreviazione composta dalle iniziali di un nominativo o di una frase. Non per niente una variante diffusa è proprio O.K., con tanto di lettere puntate che sembrano dare conferma di questa idea, così radicata nell'immaginario collettivo. Non fa qindi specie che siano state elaborati molti tentativi ad hoc per individuare il nominativo o la frase all'origine della supposta abbreviazione. 
 
Tra gli snob di Boston nel XIX secolo erano in uso due passatempi abbastanza futili: la costruzione di acronimi e le gare di ortografia umoristica (certo, a Sodoma si divertivano di più). Così è opinione comune che nei salotti qualche bostoniano durante una serata frizzante passata a ideare "comical mispellings" se ne sia uscito a scrivere oll korrect (o addirittura orl korrect, ole kurreck) anziché all correct, e da qui sarebbe derivato direttamente l'acronimo OK. Non per niente la prima attestazione di OK risale al 1939 e compare proprio sul quotidiano The Boston Post. Altri esempi di inutili creazioni dei questi cervellotici idioti di Boston sono le seguenti:  NG "no go", OFM "our first man", GT "gone to Texas", SP "small potatos". A quanto pare è stato addirittura individuato un predecessore di OK: all right, scritto comicamente oll wright, fu quindi abbreviato in OW.
 
Quando ero al liceo ero afflitto da un insopportabile genialoide, un biondino effeminato e molesto, fanatico pierangelista, convinto di avere la spiegazione definitiva di ogni cosa. Questo individuo era più irritante di una cimice dei letti. Un giorno la professoressa di inglese gli chiese se sapesse da dove ha avuto origine la locuzione OK. Lui rispose con supponenza che si trattava di una sigla formata dalle iniziali del nome di un club politico, il cosiddetto Old Kinderhook, che in occasione delle elezioni presidenziali del 1840 sosteneva il candidato democratico Martin Van Buren. Tale politicante era nato proprio a Kinderhook, nello Stato di New York, cosa che aveva dato nome al club. Il biondino odioso ne era convinto e non ammetteva dubbi: OK era proprio il nome di un club politico. Lo sosteneva con lo stesso fervore da pasdaran con cui propugnava la cosmologia del Big Bang, l'evoluzionismo di Darwin o l'origine della coscienza nella biochimica del cervello. Il contraddittorio non era previsto. Il biondino non era un essere umano, era un gelido androide. Per fortuna l'insegnante espresse dubbi su questa storiella dell'Old Kinderhook, e non gli diede soddisfazione, preferendo la teoria della derivazione di OK dalle iniziali di oll korrect
 
Il mondo accademico ritiene che le due spiegazioni appena riportate siano anche le più probabili. Quando un utente digita in Google la chiave di ricerca "OK etimologia", il motore mette in bella mostra un riquadro che riporta la storiella dell'Old Kinderhook e della candidatura di Van Buren alle presidenziali del 1840. La chiave di ricerca "OK etymology", in ingelse, fornisce un risultato simile ma più esteso e con anche un riferimento a orl korrect, postulando un'interferenza: l'abbreviazione di Old Kinderhook si sarebbe imposta sfruttando la popolarità della preesistente abbreviazione bostoniana di orl kurrect. Per molti è ragionevole che sia andata proprio così. Questo non toglie che siano state formulati molti altri tentativi di penetrare i misteri dell'OK. Sembrano tutte abbastanza stravaganti e surreali. Nella migliore delle ipotesi presuppongono storielle fabbricate a bella posta dal nulla. 

1) Greco: Ὅλα Καλά (ola kalá) "tutto bene"
Si suppone che la siglia fosse usata dagli immigranti greci nei telegrammi per limitare le spese; secondo altri sarebbe stata usata dagli insegnanti nella correzione dei compiti degli studenti; secondo altri ancora il suo uso sarebbe nato tra i marinai greci.
2) Russo: очень хорошо (očen' khorošó) "molto bene"
Si suppone che questa fosse un'esclamazione usata dagli scaricatori di porto ucraini a Odessa per segnalare che il caricamento delle merci era andato a buon fine. Ne sarebbe quindi derivata una sigla da scrivere sulle casse.  
3) Tedesco: ohne Korrektur "senza correzione" 
Si suppone che la sigla fosse usata dagli insegnanti nella correzione dei compiti; forse diffuso dalle minoranze germanofone del Texas? 
4) Tedesco: Ober Kommando "Alto Comando"
L'abbreviazione sarebbe nata tra i contingenti militari Assiani utilizzati dall'Impero Britannico per reprimere la Rivoluzione Americana. Oggi si scriverebbe piuttosto Oberkommando. Non manca chi suppone che OK stia invece per Oberst Kommandant, "colonnello in comando". La semantica è piuttosto forzata.  
5) Inglese: Order Received "ordine ricevuto", con la lettera R letta male come K.
L'errore sarebbe di lettura stato commesso un commesso nero semianalfabeta in una fattura di vendita, ma a quanto pare si tratta di una storiella inventata di sana pianta dallo storico Albigence Waldo Putnam.
6) Inglese: opposto di KO, abbreviazione di knockout.
Si presuppone l'origine della sigla nel gergo del pugilato, secondo l'idea che invertendo le lettere di una parola o di una siglia se ne invertirebbe magicamente anche il significato.
7) Inglese: cattiva lettura di 0k "zero killed", ossia "nessun ucciso"
Si tratterebbe di una specie di contrassegno usato dai militari americani per segnalare che una battaglia o una missione di combattimento si era conclusa senza nessuna perdita.
8) Inglese: Open Key "comunicazione aperta", ossia "pronto a trasmettere" 
Si presuppone l'origine della sigla nel gergo dei telegrafisti. Questa storiella sarebbe nata da un equivoco a partire da un telegramma in cui O.K. sta verosimilmente per oll korrect
9) Inglese: outer keel "chiglia esterna"
La sigla OK N° 1 sarebbe stata usata dai costruttori di navi dallo scafo di legno per contrassegnare la prima trave che doveva essere posata.
10) Inglese: King's Observatory "Osservatorio del Re" 
La siglia, a dire il vero KO, sarebbe comparsa sugli strumenti di precisione certificati dall'Osservatorio, che aveva sede a Richmond, nei pressi di Londra (la costruzione esiste ancora ma è una dimora privata). Questo KO era scritto in modo bizzarro, coi caratteri sovrapposti, tanto da essere letto erroneamente OK.   
11) Francese: au courant "al corrente", "consapevole di qualcosa" 
In una poesia dell'umorista Charles Godfrey Leland compare il personaggio di Hans Breitmann, immigrato tedesco semicolto, che avrebbe scritto male le iniziali della locuzione francese, dando origine a O.K. 
12) Latino: Omnis Korrecta (secondo altre fonti Omnes Korrecta) "tutta corretta" 
La sigla sarebbe stata usata dagli insegnanti nella correzione dei compiti degli studenti. Questa proposta di spiegazione è comparsa sul quotidiano The Vancouver Sun. I casi sono due: o l'autore non conosceva bene il latino, oppure presupponeva che la locuzione si riferisse a un sostantivo femminile sottinteso. Forse sarebbe stato meglio un neutro plurale, omnia correcta. La K si deve a una grafia fantasiosa come si è visto in altri casi simili.  
 
Sono assai numerosi i tentativi di ricondurre OK alle iniziali di qualche personaggio, reale o fantomatico, vissuto in passato. In genere si tratta di politici, ufficiali, funzionari o altre persone che si occupavano di controllare qualche tipo di merce apponendovi le proprie iniziali, di compilare elenchi o di firmare documenti. A parer mio si tratta di trovate ridicole, in ogni caso riporto quelle di cui sono venuto a conoscenza:  

i) Otto Kaiser, industriale tedesco che avrebbe apposto le proprie iniziali alla merce destinata all'imbarco, allo scopo di certificarla.
ii) Onslow e Kilbracken, parlamentari inglesi che avrebbero apposto le proprie iniziali alle proposte di legge da loro revisionate.   
iii) Orrin Kendall, produttore di biscotti e fornitore del Dipartimento di Guerra dell'Unione durante la Guerra Civile: su ogni biscotto ci sarebbero state le sue iniziali.
iv) Otis Kendall, controllore di merci nel porto di New York: su ogni cassa ispezionata avrebbe apposto le proprie iniziali.
v) Old Keokuk, capo degli Indiani Sawk, avrebbe siglato i trattati con O.K., dalle iniziali del suo nome.
 
Spiegazioni non acronimiche 
 
I Choctaw e i Chickasaw parlavano la stessa lingua. Nella lingua di questi popoli non esisteva un verbo in grado di tradurre "to be" dell'inglese (corrispondente a esse in latino). Si ovviava a questa carenza utilizzando una parola enfatica okéh, traducibile con "(è) così" o con "(è) vero", che concludeva ogni frase. La frase "l'indiano Choctaw è un buon compagno" si traduce con hattak upeh hoomah chahtah achookmah okéh (alla lettera "uomo corpo rosso Choctaw buono è così"). Il Generale Andrew Jackson abitò tra i Choctaw, quando ancora non era famoso, e deve aver sentito spesso pronunciare la parola in questione. Potrebbe quindi averla adottata come parte del proprio linguaggio colloquiale, mantenendo questo costume una volta diventato Presidente degli States. Questo è ciò che pensava William S. Wyman. Secondo un altro studioso, William H. Murray, l'origine di OK sarebbe sempre Choctaw, ma deriverebbe piuttosto da un'altra forma verbale: si hoka, traducibile con "sono io" o con "questo è ciò che ho detto". Si noterà che la forma riportata come okéh da Wyman oggi viene trascritta come okii e suona verosimilmente /o'ki:/.  
 
Nella lingua dei Lakota hoka hey significa "su, andiamo!" e traduce l'inglese "let's go!" o "let's do it". La pronuncia non è molto dissimile da quella dell'inglese americano OK e la semantica non è incompatibile. A proposito della locuzione Lakota, si menziona un singolare fraintendimento. Cavallo Pazzo (Tashunka Witko), che fu un valorosissimo condottiero degli Oglala, usava incoraggiare i suoi guerrieri con la frase "Hoka hey, oggi è un buon giorno per morire!" (in inglese "Hoka hey, today is a good day to die!"). Ebbene, negli States molti hanno creduto che la seconda parte della frase fosse proprio la traduzione di hoka hey, cosa che non corrisponde al vero. La frase originale in Lakota è "Nake nula wauŋ welo!", la cui traduzione accurata è "Sono pronto per qualunque cosa accada!" Certo, il succo del discorso è lo stesso. 
 
Nella lingua degli Wolof dell'Africa Occidentale (Senegal) waw-kay significa "sì, certo" ed è formata a partire da waw "sì" e dalla particella enfatica -kay. Le forme riportate non sono trascritte secondo l'ortografia anglosassone come potrebbe pensare a prima vista: c'è chi scrive waaw anziché waw, evidentemente la pronuncia è /wa:u/, /wa:u'kai/. La particella -kay si trova anche in axakay "sì", dove -x- è una forte aspirazione. Credo quindi che sia frutto di un fraintendimento la trascrizione "fonetica" uou-key che compare spesso nei siti web in italiano, venendo tra l'altro descritta come "Bantu". Una forma assai simile, waw-key, è considerata Bantu anche in siti web in inglese, anche se non ho potuto trovare la necessaria documentazione. Una forma simile al Wolof waw-kay si trova invece nella lingua dei Mandingo, ma con una fonetica forse più adatta a spiegare l'inglese OK: o ke "certo", "è così". Queste forme africane sarebbero state portate in America per via del traffico di schiavi. Trovo molto interessante notare che una forma kay "sì, certo", spesso scritta 'kay come se fosse derivata da un precendente okay, si trova nel linguaggio afroamericano: "Kay, massa, you just leave me, me sit here, great fish jump up into da canoe, here he be, massa, fine fish, massa; me den very grad; den me sit very still, until another great fish jump into de canoe;..." (J. F. D. Smyth, A Tour in the United States of America, 1784). 

Riporto una serie di altre proposte etimologiche non fondate su acronimi:  
 
1) Francese: aux quais "ai moli", au quai "al molo"
2) Francese: Aux Cayes "A Cayes", essendo Les Cayes una città di Haiti da cui si importava il rum. 
3) Francese: o qu'oui "certo che sì" 
4) Occitano: oc "sì". La parola sarebbe stata introdotta da coloni giunti nella Lousiana. 
5) Latino: hoc est "questo è" (usato come affermazione). La locuzione sarebbe stata diffusa a partire dal linguaggio degli studenti. 
6) Finlandese: oikea "corretto, giusto", ma anche "destro", proprio come accade nella semantica dell'inglese right. Esempio: se oli oikea vastaus "era una risposta corretta". Secondo le ricostruzioni degli uralisti questa parola deriva dal protofinnico *oikeda, a sua volta dal proto-finnopermico *wojketa
7) Scots: och aye (pron. /ox 'eɪ/, /oχ 'eɪ/) "oh sì". Non esistendo in inglese americano una consonante aspirata /x/ o /χ/ questa sarebbe stata adattata come una semplice occlusiva /k/. Nel Web in italiano la locuzione viene erroneamente attribuita al gaelico, ma si tratta di un errore. Lo scots è una lingua anglosassone come l'inglese. 

Mi sono imbattuto anche nel tentativo di ricondurre OK a una formula magica greca (di origine egiziana), ὤχ, ὤχ (okh okh), usata per scacciare le pulci. Credo che la proposta etimologica sia una pura e semplice burla.
 
Old Kinderhook e Old Kindersly  
 
C'è anche un altro O.K. negli Stati Uniti d'America, che nulla ha a che vedere con quello di cui stiamo trattando. Si tratta del famoso O.K. Corral, nei pressi di Tombston (Arizona), dove nel 1881 avvenne una sparatoria tra i fratelli Earp, sostenuti dal pistolero Doc Holliday, e la banda dei Cowboys. Questo microtoponimo deriva a quanto pare dall'abbreviazione di Old Kindersly Corral, a sua volta dal nome del primo proprietario di quel luogo desolato (corral significa "recinto"). Certo, non esiste alcuna connessione con OK "va bene", ma trovo bizzarra l'assonanza tra Old Kindersly e Old Kinderhook. Questo dimostra se non altro l'immensa diffusione della mania acronimica in tutto l'immenso territorio degli Stati Uniti, tanto da trovarsene esempi anche nelle zone più inaccessibili. 
 
Conclusioni  
 
A parer mio si salvano soltanto due ipotesi, che posso considerare decenti e abbastanza probabili: quella dell'origine dal Choctaw e quella dell'origine africana. Come terza possibilità potrei pensare al Lakota, anche se non mi convince del tutto. Il problema è che non riesco a decidere. Non possiedo tuttavia alcuna certezza definitiva. Troppo forte è il rumore di fondo. Rigetto senz'altro gli acronimi, le sigle e simili. Sfido chiunque a trovarmi uno straccio di prova materiale a favore di tali contorte fabbricazioni, tipo una trave con la scritta OK N° 1, una cassa con le iniziali di Otis Kendall, un documento militare che riporti il codice 0k e via discorrendo.

lunedì 30 settembre 2019

UN FALSO GERMANISMO: LA PAROLA 'BIONDO'

L'etimologia della parola biondo è incerta, checché se ne dica. Il Vocabolario Treccani riporta a questo proposito uno stringato commento: [da una radice *blund-, prob. germ.]. Simili proposte di un'origine germanica si trovano ancora di recente (Nocentini, 2010) e sono ben radicate nella tradizione. Sappiamo che si tratta di un vocabolo diffuso nelle lingue romanze, che sembra aver avuto il suo centro di diffusione nel territorio gallico. Le prime attestazioni in italiano risalgono al XIII secolo. Questo troviamo nella lingua d'oïl e nella lingua d'oc: 

Francese antico: blontz, blonz (forma obliqua blont, blunt
Provenzale antico: blons (forma obliqua blon

Lo spagnolo blondo è un evidente articolo d'importazione. In sardo abbiamo brundu "biondo", in genere ritenuto di introduzione tarda dalla Spagna, anche se avrei qualcosa da obiettare a riguardo.  

Il latino tardo *blundus, ricostruibile dai dati a disposizione, non è in ogni caso attestato. Piaccia o no, nessuna delle lingue germaniche conosciute possiede un vocabolo *blund col senso di "biondo" o di "giallo", che possa essere l'antenato diretto della forma tardolatina in questione. Certo, in inglese si trova blond "biondo", ma si tratta di un prestito dal francese, introdotto nel XVII secolo. Per giunta, la parola era sentita fino a non molto tempo fa come straniera, tanto che si usa tuttora la forma blonde "bionda" (variante antiquata blounde), con indicazione del genere femminile. Allo stesso modo in tedesco esiste l'aggettivo blond "biondo", che però non è affatto nativo, essendovi giunto dalla Francia. Non vi è alcuna prova che sia esistita nalla lingua dei Franchi la parola *blund "biondo", "giallo". Errano quindi coloro che danno per assodata questa etimologia. Il protogermanico *blundaz, ricostruito deduttivamente per spiegare le forme attestate nelle lingue romanze, è soltanto una futile speculazione: la sua natura è in ultima analisi fantomatica. 

Confutazione dell'origine anglosassone 

In antico inglese esistono due interessanti parole: il composto blonden-feax "dai capelli grigi" e il verbo beblonden "tinto". Il verbo d'origine di queste forme sarebbe il raro blandan "mescolare", che nel dialetto della Mercia suonava blondan. Così abbiamo anche blanden-feax per blonden-feax. Il participio passato beblonden avrebbe il significato originario di "mescolato" e sarebbe dunque passato ad acquisire il senso di "screziato", quindi "grigio" o "tinto". In norreno abbiamo blandinn "mescolato", attestato anche col senso di "confuso": ad esempio si usa questo vocabolo parlando di un colono che credeva sia in Cristo che in Thor, essendo molto confuso nelle cose della fede. Non esiste però nell'antico nordico nessuna menzione di un uso per indicare un colore. C'è un problema di non poco conto. Le forme anglosassoni citate hanno la vocale originale -a-, essendo -o- uno sviluppo successivo. La vocale -o-, che ha un suono aperto [ɔ], si è prodotta in epoca così tarda da non poter spiegare le forme romanze, che partono invece da un suono chiuso, reso con -u- in tardo latino e sviluppatosi in [o] in italiano.

La vera origine ligure della parola 

Esiste un toponimo ligure di estremo interesse nella Tabula alimentaria di Veleia che contiene proprio la radice che ci interessa:  si tratta di Blondelia. Questi sono gli estratti del testo in cui compare: 

[OBLIGATIO 5 / I]

   item l [1, 75] fund(um) Calidianum Licinianum, pag(o) s(upra) s(cripto), vico Blondelia, adf(inibus) Antonio Sabino et Calidio Prisco - 

Traduzione:

[IPOTECA 5 / I]
   e pure [1, 75] il fondo Calidiano Liciniano - che si trova nel distretto succitato, nella circoscrizione Blondelia, e confina con le proprietà di Antonio Sabino e di Calidio Prisco -

E ancora: 

[OBLIGATIO 21 / IV]

C(aius) Calidius Proculus prof(essus) est
   praed(ia) rustica (sestertium) CCXXXIII (milibus) DXXX n(ummum):  
   accipere deb(et) (sestertium) / XVI (milia) CCCXXXVIII n(ummum) et obligare
   fund(um) paternum, in Veleiate pag(o) Albense, / <vicis>
Blondeliae <et> Seceniae adf(inibus) Calidio Vero et Antonis Vero et Prisca, quem / professus est (sestertium) XCIV (milibus) DC (nummum):
    in (sestertium) VIIII (milia);


Traduzione: 

[IPOTECA 21 / IV]
Caio Calidio Proculo ha dichiarato
    proprietà agrarie per un valore di 233.530 sesterzi:
    deve ricevere 16.338 sesterzi e ipotecare
    il fondo ereditato dal padre - che si trova nel distretto Albese del territorio veleiate, nelle circoscrizioni Blondelia e Secenia, e confina con le proprietà di Calidio Vero e degli Antoni, Vera e Prisco -, che egli ha dichiarato per un valore di 94.600 sesterzi:
   riceve 9.000 sesterzi;



Il toponimo Blondelia significava "Terra Gialla", "Terra Ocra". Si noti che nello stesso documento è citato anche il f(undum) Glitianum Roudelium (sempre nel distretto Albese). Roudelium significava proprio "Terra Rossa". Le denominazioni tratte dal colore del terreno erano assai comuni nell'antichità. Il mistero è stato quindi svelato. Il ligure *blondos "giallastro" ha dato in latino tardo *blundus, donde derivano l'italiano biondo e le altre forme romanze. Già il Devoto a suo tempo aveva classificato questo vocabolo come "leponzio", intendendo evidentemente "ligure", sfidando così l'imperante ipotesi germanica.

Deliri dei romanisti 

Nessun senso pur elementare di ritegno alberga tra i romanisti, che hanno cercato di ricondurre il latino tardo *blundus a forme del latino più antico. Così alcuni di loro hanno scritto in preda alla demenza, affermando che *blundus sarebbe una "pronuncia popolare" di flāvus "biondo" - ovviamente senza avere idea di come una simile distorsione si sarebbe potuta produrre. Altri ancora, ignari persino dell'esistenza di lingue diverse dal latino, hanno costruito una forma artificiosa *albundus, facendola derivare chissà come da albus "bianco" e pensando che possa aver dato *blundus per "corruzione popolare". Dispiace constatare che gli autori di simili aberrazioni non siano stati deportati in Siberia e lasciati perire nudi nella tundra.

martedì 20 agosto 2019

ETIMOLOGIA DEL COGNOME BONOMIO

Bonomio è un raro cognome italiano attualmente presente in due comuni della Lombardia. È di sicura origine catara e deriva direttamente dall'occitano Bonome o Bo Home 'Buon Uomo', denominazione che si trova spesso latinizzata in Bonomius nei testi. L'origine è ovviamente dallo sviluppo occitano della forma latina Bonus Homo, plurale Boni Homines, che indica chi ha ricevuto il Battesimo di Spirito. Possiamo così dedurre che gli antenati dei Bonomio non soltanto erano Catari, ma che provenivano da comunità della Linguadoca, dove deve aver avuto origine il soprannome del capostipite. Anche nella Guascogna esistevano simili denominazioni. 

Il bizzarro caso di San Bonomio

Esiste anche un San Bonomio, ben rappresentato nella toponomastica piemontese (a Curino, a Settimo Rottaro e a Pozzolengo). Il punto è che quando si cercano informazioni concrete su questo santo, si scopre che sembra essere sorto dalla cattiva lettura di San Bononio. San Bononio Abate o Bononio di Lucedio (XI secolo) prese il suo nome dalla città di Bologna (lat. Bononia), di cui era nativo. Improbabile che possa derivare dall'ebraico Benoni 'Figlio del mio dolore', come pure è stato suggerito. In modo sorprendente, il sito santiebeati.it riporta informazioni confuse. Ci si imbatte infatti in una pagina (n. 1648) molto sintetica:

San Bononio

L'onomastico viene festeggiato il 30 agosto in ricordo din (sic) San Bonomio (sic), abate di Bologna, nativo di Lucedio (Vercelli) morto nel 1206.

Sullo stesso sito esiste poi un'altra pagina (n. 92417) dedicata a San Bononio Abate, che riporta informazioni corrette, tra cui la data di morte, il 1026. Evidentemente il 1206 è un errore nato dall'inversione di due cifre. Si specifica anche che il luogo di nascita è Bologna e non Lucedio, dove il santo fu invece abate. 

Qual è l'origine di tutta questa confusione? Forse un autentico San Bonomio il cui nome era sentito come scomodo? Forse è stato oscurato cum dolo

ETIMOLOGIA DI BONOSI 'DISSIDENTI DUALISTI'

Tra i molti termini usati in Linguadoca per indicare i Catari, c'era anche la denominazione Bonosi. Alcuni autori, tra i quali Jean Duvernoy, hanno tentato di connettere questa denominazione con Boni Homines, facendo riferimento a citazioni del  tipo "ad Bonomios sive Bonosios". Tuttavia per ragioni fonetiche l'ipotesi risulta destituita di qualsiasi fondamento. Di fronte a questo nome, avevo pensato che potesse significare 'bosniaco' e che derivasse quindi dal nome della Bosnia - tesi questa sostenuta esplicitamente da Malcolm Lambert. 

Questo riporta infatti tale autore: 

"La dinastia Trencavel era complice dell'eresia. Il Lavaur era nelle terre di Ruggeri II quando vi si erano rifugiati gli eretici per motivi di sicurezza. Il cronista Guglielmo di Puylarens narra l'aneddoto doloroso del vescovo di Béziers, ingannato da un suo parente cataro in punto di morte, che insistette per essere sepolto tra i "Bonosii", ossia i bosniaci (questo termine alludeva ai catari); si riferisce con tutta probabilità a Guillaume Peyre de Brens, il siniscalco di Ruggero".
(I Catari, pag. 97) 

La metatesi necessaria per far tornare l'etimo non mi ha però mai davvero convinto. Ho poi scoperto che l'origine è invece da Bonoso, un antico eresiarca, Vescovo di Sardica a cavallo tra il VI e il V secolo. Egli riteneva Cristo figlio adottivo di Dio. Essendo questa anche l'idea dei Buoni Uomini, ecco come mai il termine Bonosi è passato ad indicare i Catari. La spiegazione è questa: "Bonosi Episcopi Haeretici sectatores, Christum non verum, sed adoptivum Dei Filium esse, delirarunt" (fonte: Hofmann, Johann Jacob: Lexicon Universale. - Leiden, 1698). Si noti però che gli eresiologi denominavano Bonosiani i seguaci di Bonoso, la cui dottrina era in nettissima opposizione con quella dei Buoni Uomini, in quanto ammetteva la natura carnale di Cristo. Mentre per i Catari Cristo era un angelo fatto di Spirito, per i Bonosiani Maria ebbe molti figli nella carne. Essendo questa denominazione derivata da ignoranza ed equivoco, va respinta con fermezza. 

Si nota infine che il cognome Bonosi è tuttora presente in Catalogna ed anche in Italia: nella nostra penisola è raro ma documentato in tre comuni situati in Lombardia, in Trentino e in Toscana. 

venerdì 16 agosto 2019

ETIMOLOGIA DI BUGGERARE, BUGGERONE

Tutti sanno che la parola buggerare significa 'imbrogliare', 'ingannare'. Ebbene, essa in origine significava 'sodomizzare', e buggerone indicava il sodomizzatore. Lo slittamento semantico è del tutto analogo a quello subito dal veneziano gazarar 'imbrogliare': buggerone corrisponde al francese bougre e all'occitano bolgre, derivati a loro volta dal latino tardo bulgarus, ossia 'bulgaro'. Il motivo di questo è semplice: bulgarus era un epiteto dato ai Catari, la cui religione proviene in ultima analisi dalla Bulgaria. L'associazione con la sodomia nasceva dalla condanna del matrimonio e della procreazione, come già spiegato analizzando il sopracitato lemma veneziano. Per molto tempo in italiano bulgaro (variante bulghero) è stato usato come sinonimo di buggerone e di sodomita. Il termine buggerone ha avuto immensa fortuna. Passato anche in inglese come bugger, è diffuso con molte varianti dialettali in aree anche molto lontane: nei dialetti lombardi è documentato bolgiròn, in quelli veneti buzeròn, in siciliano buzzarruni. Echi si trovano anche nel tedesco Puzeron (ora desueto), nello spagnolo bujarrón (notare gli sviluppi fonetici anomali), nel basco bugre (dal francese) e persino nel cèco buzerant

All'epoca in cui la dissidenza dualista ancora fioriva in Occidente, esisteva anche il corrispondente femminile del buggerone: era la buggeressa (o buggioressa) 'donna che si lascia sodomizzare'. Un'attestazione notevole si ha in Rustico Filippi (fra il 1230 e il 1240 - fra il 1291 e il 1300), fiero ghibellino di Firenze con fama di misogino d'assalto. Glorioso maestro del vituperium, in una soave poesia intitolata Dovunque vai con teco porti il cesso, menziona una "buggeressa vecchia puzzolente". Tutto ciò è segno che nell'immaginario dell'epoca la buggeressa non faceva venire in mente una bella morettina donatrice di delizia. Comunque sia, ancora nella Firenze in cui infuriava il Savonarola, vi si trovavano donne dedite al coito anale - cosa che mandava il fanatico frate su tutte le furie. 

Girando nel web mi sono imbattuto in alcuni documenti antropologici sulla prostituzione nel XIX secolo, che poi non sono più riuscito a ritrovare. La propaganda cattolica è stata a dir poco martellante e a lungo non si è trovata alcuna resistenza. Mi sono reso conto di come fino a pochi decenni fa fosse ben dura la vita del povero buggerone, specie se era un uomo virile e bramoso di infilare il randello in un deretano femminile. Ancora quando ero giovane la norma era questa: nessuna donna, per quanto libidinosa e dissoluta, amava prestarsi a una tale penetrazione. Persino le meretrici di più infima categoria rifuggivano i clienti che chiedevano loro di potersi infilare nell'entrata posteriore. Non accettavano di soggiacere alla sodomia nemmeno se pagate a peso d'oro.

ALBIGESI E ALBANESI

Com'è risaputo, le genti del mondo chiamano i Buoni Uomini e i Credenti usando molte denominazioni, tra cui una delle più note ed usate è Albigesi. Ad esempio, la funesta guerra di sterminio bandita da Innocenzo III contro la Linguadoca è chiamata crociata contro i Catari e gli Albigesi. Il funesto pontefice romano voleva sradicare i suoi ex correligionari dalla società umana, emanando un Decreto di Estinzione che non è mai stato revocato: così come gli Israeliti hanno tuttora il comandamento di estinguere la stirpe di Amalek, allo stesso modo è ancora incluso nei canoni della Chiesa Romana il comandamento di annientarci, dovunque noi siamo, anche se tutto ciò che ci resta è un'idea. Il nome Albigesi è stato attribuito in modo prevalente ai Buoni Uomini e i loro Credenti per tutto il XIX secolo e buona parte del XX. Eppure non si tratta di una definizione teologica, bensì geografica. 

Come fa notare il Duvernoy, l'origine del termine Albigesi risiede nella lingua del Paese di Oïl, dove era uso comune chiamare in questo modo l'intera popolazione della Linguadoca. In particolare l'aggettivo si riferisce alla città di Albi, che in epoca antica era chiamata Albiga. Pars pro toto. Si pensa che il toponimo sia di origine ligure, anteriore all'arrivo dei Celti: è derivato da una radice *alb- che indica l'altura, la montagna, e che si ritrova non soltanto nel nome delle Alpi, ma anche in quelli di città come Alba Longa. A conferma dell'uso geografico dell'epiteto, sono stati chiamati Albigesi non soltanto i Buoni Uomini e i loro Credenti, ma anche i Valdesi, che non aderiscono certo all'Entendensa de Be. Non sono rare le menzioni di autori del XVIII e del XIX secolo riguardanti i Valdesi, descritti erroneamente come discendenti di Albigesi. Ancora oggi alcuni integralisti cattolici sono convinti dell'origine catara del Valdismo soltanto perché alcune comunità di Credenti Catari hanno trovato scampo nelle Valli Valdesi in Piemonte, permanendovi a lungo. 

Altro significativo problema è quello dell'origine del termine Albanese, che in Italia indicava coloro che professavano il Dualismo Assoluto della Chiesa di Dragovitsa - ad esempio la comunità di Desenzano. Secondo alcuni tale epiteto sarebbe semplicemente derivato dal nome di un Vescovo chiamato Albano, ma va detto che di un tale prelato dualista non si trova alcuna traccia sicura nelle cronache. Resta ad illuminarci come un faro il Compendio scritto da Giovanni di Lugio, che afferma in una frase: "i Veri Cristiani che a giusto titolo sono chiamati Albanesi"

Jean Duvernoy nota: "Se si trattasse di un appellativo di convenzione derivato da una località oppure da una persona, ormai dimenticata, "a giusto titolo" (recto nomine) non avrebbe senso. Quale sinonimia può esserci tra "veri cristiani" e "albani o albanesi"? Se, invece, Albanenses è la forma italiano di Albigesi, come non vedere dei veri cristiani in coloro che si richiamano ai martiri dell'immenso massacro?" (maiuscole e minuscole sono dell'autore).

Altre ipotesi più stravaganti ipotizzano che il termine Albanesi sia derivato da Alba, in Piemonte, oppure dall'Albania. Secondo i dati del sito Gens Labo, il cognome Albigese, inequivocabile, è presente in due soli comuni, uno i Friuli e uno in Campania. Un cognome Albigesi, altrettanto sicuro, si trova nei pressi di Torino. 

mercoledì 14 agosto 2019

ETIMOLOGIA DI CASTELNAUDARY

Situato a circa 55 km da Tolosa e a circa 30 km da Carcassonne, Castelnaudary sorge nei pressi del centro che nell'antichità era chiamato Sostomagus. Il toponimo, chiaramente preromano, mostra il tipico suffisso celtico -magos 'campo'. In lingua occitana l'abitato è invece conosciuto come Castelnau d'Arri, che è da interpretarsi come 'Castelnuovo di Ario', con riferimento al gran numero di dissidenti dualisti che vi abitavano quando fu edificato il maniero che diede nome al centro medievale. In latino il luogo è citato come Castellum Novum Arri. La prima menzione risale al 1103; in un altro documento del 1118 si cita: "Castellum novum quod cognominatur Arri". Si trova anche la variante Castellum novum Arianorum, ossia 'Castello Nuovo degli Ariani'. 

Alcuni autori hanno messo in dubbio questa etimologia, interpretando invece Arri come la parola guascone arri, harri, che indica il rospo. Questa connessione con il nome di un anfibio non è probabile, dato che non rende conto delle forme latine e non è giustificabile a livello grammaticale. La parola guascone (h)arri 'rospo' è senza dubbio un termine del sostrato preindoeuropeo, ma non sono al momento in grado di fornirne una spiegazione più profonda. Non mi sembra molto credibile l'opinione di coloro che associano il vocabolo in analisi al basco harri 'pietra', affermando che un grosso batrace verrucoso somiglierebbe a una roccia scabra. Nel lessico neolatino del guascone la consonante h- in genere è derivata da una precedente f- (es. hemna 'femmina'). 

Esiste in provincia di Mantova un comune chiamato Castel d'Ario (o Casteldario). Certo, sarebbe suggestivo immaginare che l'origine sia simile a quella di Castelnaudary. Ebbene, possiamo escluderlo. Fino al 1867 Castel d'Ario si chiamava più prosaicamente Castellaro (in mantovano Castlàr). Il sindaco Luigi Boldrini chiese a Giosuè Carducci, suo amico, di trovare una denominazione poetica per il borgo lombardo, qualcosa che facesse sognare. Ecco che il poeta, autore degli eroici versi "Vino e ferro vogl'io, come a' begli anni...", trasse spunto dalle tradizioni locali che volevano il paesino fondato da un centurione chiamato Ario (o Dario). Nacque così Castel d'Ario, che nulla ha a che fare con l'eresiarca alessandrino o con i Dualisti medievali - pure molto numerosi in quelle terre.

lunedì 12 agosto 2019

ALCUNE PRECISAZIONI SULL'ETIMOLOGIA DI CATARO

Il termine catharus (dal greco katharos 'puro') è un epiteto già in uso con riferimento agli antichi Manichei e anche agli Orfici, chiamati Cathari o Catharistae. Si pensa che la parola sia stata usata dai teologi della Chiesa di Roma principalmente per questo motivo. I Catari chiamavano se stessi in vari modi: Buoni Uomini, Amici di Dio, Buoni Cristiani, Veri Cristiani. In particolare si nota che Amico di Dio è la traduzione letterale di Bogomil, a sua volta traduzione slava del greco Philos Theou. Nei testi di autori catari non si trova mai la parola cataro (forse esiste una singola eccezione scoperta di recente, ma non ho potuto averne conferma).

Innanzitutto dico qualcosa sulla corretta pronuncia della parola cataro, perché troppe volte mi sono imbattuto in persone che la ignorano. L'accento, come dovrebbe essere chiaro anche dall'etimologia, cade sulla prima sillaba: càtaro, Càtari. Non bisogna mai, per nessun motivo, dire *catàro, *Catàri - anche se questo malcostume è diffuso.

Il termine Catarismo è un comodo neologismo formato tramite il produttivo suffisso -ismo: il vero nome della religione catara è Conoscenza del Bene, o anche semplicemente Bene. I Catari della Linguadoca dicevano Entendensa de Be (o Entendensa del Be). Sorprende la semantica di Entendensa, che potrebbe essere una perfetta traduzione in occitano del greco Gnosis 'Conoscenza'.

Tutto parrebbe chiaro. Restano però alcune questioni insolute, legate a forme popolari che sembrano derivate direttamente dal greco katharos, senza mediazione latina. 

In Italia settentrionale i Catari erano chiamati Gàzari. La -z-, che è sonora, indicherebbe una tarda pronuncia bizantina, e starebbe a provare un'origine orientale diretta del termine. Questa denominazione persiste tuttora in alcuni dialetti piemontesi come gàser 'mago, marito della strega'.

In tedesco si hanno le forme Ketzer 'eretico' e Ketzerei 'eresia', chiaramente derivate da Cathari. È interessante notare a questo punto un altro problema. La -th- potrebbe essere divenuta -tz- (sorda) per pronuncia bizantina e la forma essere recente. Potrebbe però darsi che -th-, divenuta un'occlusiva dentale -t-, si sia poi regolarmente evoluta in -tz- a causa della seconda rotazione consonantica, un mutamento regolare che ha colpito l'Alto Tedesco, agendo tra l'altro su molti prestiti dal latino ecclesiastico. In questo caso la parola sarebbe abbastanza antica. A conferma di questo c'è il vocalismo: la presenza dell'Umlaut palatale che trasforma la -a- in -e-. Così Cathari deve essere la forma originaria, plurale ma usata poi anche come singolare, donde l'Umlaut che altrimenti non si potrebbe spiegare in alcun modo. 

Infine va menzionata un'etimologia falsa e infamante, che purtroppo trova ancora sostenitori. Il teologo cattolico Alano di Lilla suppose un'origine dal latino catus 'gatto', accusando i Catari di baciare il posteriore di un felino nel corso di fantomatici riti orgiastici. Tutto ciò è una pura e semplice calunnia: i Buoni Uomini avevano come regola la castità assoluta. La pseudoetimologia da catus è parte di un apparato ideologico e denigratorio micidiale, già visto all'opera in molte occasioni nel corso dei secoli. Va riportato che alcuni studiosi francesi ancora di recente hanno sostenuto la suddetta analisi fallace. Tra questi Duvernoy e Roquebert. Roquebert è ostile al Catarismo, e la cosa non deve stupire.

giovedì 12 luglio 2018

ABITUDINI ALIMENTARI AGGRESSIVE TRA I PASSERIFORMI

In Facebook frequento numerosi gruppi dedicati alla fauna, in particolare a rettili, uccelli, insetti e altri artropodi. Ogni tanto mi imbatto in interventi di estremo interesse. Il 16 maggio 2018 nel gruppo ERPETOLOGIA: Official Group - Rettili, Anfibi, Aracnidi ed Insetti è comparso un post di Flavio Brand sulle raccapriccianti abitudini dell'avèrla, un simpatico passeriforme che compie spaventose opere di tortura e di macelleria ai danni delle proprie vittime, che possono essere lucertole, rospi, topi, insetti e persino altri uccelli. In realtà non si tratta di un'unica specie, bensì di una numerosa famiglia, i Laniidae. Il nome scientifico di questi uccelli deriva dalla parola latina lanius, di origine etrusca, che significa "macellaio", "sacrificatore", "carnefice".


Riporto in questa sede il post che ha attratto la mia attenzione, seguito dai commenti degli utenti. Errori e refusi sono degli autori. 

Flavio Brand:
Chi potrebbe essere così spietato da impalare una povera ed innocua lucertola? Fortunamente l'uomo non c'entra nulla in questo caso... colui che commette questi efferati crimini é l'avérla, un uccello passeriforme denominato Falconcello.
Questo passerotto molto carino ma sanguinario, é lungo circa 18 cm e pesa dai 35 ai 70 grammi. Uno dei tanti uccellini che si sentono cinguettare sulle colline e sui centri a più di 2000 metri sul livello del mare.
Anche in Italia si trova in quasi tutti i boschi o nei campi del paese, tranne in Sicilia e nel Salento. L’avrete quindi visto durante una gita in campagna e ne avrete lodato la simpatia, perché probabilmente non sapete che l’avèrla è uno degli assassini più spietati in natura. È chiamato anche uccello macellaio per la sua abitudine tutta particolare di puntare le prede da una postazione di avvistamento e poi di infilzarle su di un rovo o su qualcosa di acuminato e mangiarle piano piano qualora le prede siano di grosse dimensioni.
Una rarità nel regno animale, in cui solitamente i predatori uccidono alla svelta, solo per sopravvivenza.
L'averla si nutre di piccoli topi, di lucertole, di cavallette, di insetti e persino di altri uccelli, mangiandoli un po’ alla volta dopo che li ha impalati sullo spiedo, che può essere il rovo di un roseto o il filo spinato.
L'avèrla uccide anche quando non ha fame, impalando le vittime per poi tornare in seguito a nutrirsene.
Ovviamente la tecnica di caccia dell'averla, per quanto spietata possa sembrare é un espediente trovato per sopperire alla mancanza di artigli che hanno i predatori piu grandi ed assicurarsi pasti sostanziosi.

Marco Moretti:
Che non sia un "espediente" lo dimostra il fatto che tali costumi non sono affatto comuni tra i passeriformi.

Davide Noviello:  
La definizione di passerotto è davvero fuori luogo per un'averla, visto che appartiene al genere Lanius, famiglia Lanidi e non ha alcuna parentela con i passeri. Il fatto che appartenga all'ordine dei passeriformi non la accomuna ai passeri, del resto anche i corvidi sono passeriformi, ma nessuno chiamerebbe passerotto una cornacchia.

Stefano Piccioli:
Anche Cince e Cinciarelle non scherzano in fatto di aggressività alimentare, specie durante il freddo delle stagioni invernali. Queste due specie non esitano ad attaccare e ad uccidere altri Passeracei, come gli Organetti, per perforarne il cranio e nutrirsi del loro cervello, organo ricchissimo in lipidi, utili a questi piccoli "assassini" per difendersi dal freddo...

Gianfranco Zrcadlo Russo:
ho visto molte foto in cui le cince d'inverno ripuliscono le ossa spolpate dei cervi abbandonate dai lupi... rosicchiano i resti di grasso...

Google, come tutti i poteri del mondo, cerca con ogni mezzo di nascondere tutto ciò che è scomodo, così non è agevole reperire materiale fotografico sulle azioni scellerate dei sadici volatili. Ovviamente, se ci si mette d'impegno, si riesce a trovare il modo di superare gli ostacoli. Per contemplare cose davvero truci, suggerisco questi link: 



Stupisce la foto di un'avèrla che ha impalato un pettirosso, ridotto a un batuffolo di piume. Per non parlare di una lucertola trafitta da una lunga spina, con gli occhi pietrificati dalla sofferenza, come se in pochi secondi avesse incontrato un fato peggiore di mille morti. Davanti a questi orrori, i materialisti non sono in grado di fornire una risposta convincente. Cercano di razionalizzare le peggiori atrocità, pretendendo ogni volta di ridurle a qualcosa di accettabile che esenti la Natura da ogni colpa e che impedisca alle genti di vedere nell'esistenza qualcosa di negativo. Una simile propaganda, che per decenni ha avuto in Piero Angela il suo apostolo, si potrebbe definire banalizzazione del Male. La sua matrice, mi sembra utile farlo notare, poggia sulle dottrine evoluzionistiche di Darwin. Tanto si è dimostrato pervasivo il martellamento mediatico e scolastico, che ne vediamo all'opera i frutti anche in persone che non si definiscono materialiste. Così ecco che Flavio Brand nega innanzitutto la natura crudele delle avèrle aguzzine, quindi attribuire le loro attitudini a qualcosa di futile: non avendo questi uccelli artigli sviluppati, eccoli costretti ad evolvere raffinate tecniche di tortura per potersi nutrire. L'assurdità di una simile opinione è di per sé evidente. Sarebbe come affermare che avendo Ted Bundy i nervi delle mani un po' deboli, si è visto costretto ad assassinare decine di ragazze, sodomizzandole da vive e da morte, seppellendole nei boschi e andando di notte ad aspirare i lezzi della loro putrefazione!

Questo è riportato nel Compendio del Dualismo Anticosmico (cap. 5) a proposito dei materialisti che si affannano a far cozzare nelle categorie del Darwinismo aspetti della realtà non riducibili alla mera biologica: 

«Essi agitano davanti a noi lo spettro di un Rasoio di Occam utilizzato male, ossia di uno pseudo-Rasoio di Occam, e poi forniscono per ognuna delle evidenze da noi mostrate una spiegazione diversa e del tutto inverosimile, negando alla radice proprio quello strumento concettuale che dicono di utilizzare. Essi balbettano di “educazione all’istinto di caccia” di fronte alla crudeltà delle orche e di “conseguenze di un’epidemia di peste bovina” o di “mal di denti” di fronte ai Mangiatori di Uomini di Tsavo. Biascicano di “conseguenze di una malattia virale” di fronte alle vespe parassitogene e di “schizofrenia” di fronte ai cannibali. Una data aberrazione sessuale sarebbe dovuta a una “strategia riproduttiva”, mentre una data altra sarebbe dovuta a “parestesia”, ossia a “errata interpretazione dei dati sensoriali”. Un dato fenomeno naturale è per loro dovuto a qualcosa di completamente dissimile da ciò che muove un fenomeno diverso: non hanno alcuna visione di insieme. Così biasimano noi perché ammettiamo Due Princìpi in quanto mossi dalla necessità effettiva, mentre loro si fanno beffe di ogni principio di economia di pensiero e sciorinano enciclopedie di teorie per spiegare quelle che sono soltanto le conseguenze di un’unica causa: il Male Metafisico

Su Quora il problema della definizione del Bene e del Male desta ancor più inquietudine che su Facebook, specialmente in rapporto alla Natura. C'è chi nega la validità di questi concetti: essi semplicemente non esisterebbero, sarebbero creazioni umane. Altri cercano con ogni mezzo di abbattere i loro confini definitori, affermando che ci sarebbe un po' di Bene nel Male e un po' di Male nel Bene. Però uno stiletto di ferro, piantato nel cranio, che folgora il cervello di una persona uscendo da un'orbita oculare e spaccando un occhio, non è possibile definirlo come qualcosa di buono. Non serve un atto di fede nel soprannaturale per definire il concetto di demone: è un essere che esiste al solo scopo di infliggere dolore ad altri esseri, chiamati vittime.

Note etimologiche:
i nomi vernacolari dell'avèrla

In italiano il nome avèrla presenta alcune varianti: avèlia, vèlia, vèrla. La regione da cui queste forme si sono irradiate è la Toscana, ove è presente anche la forma ghièrla. Ovviamente l'etimologia è ritenuta incerta dai romanisti. Stando al dizionario Treccani, l'avèrla cenerina è chiamata ghièrla gazzina. La connessione di questi bizzarri uccelli con le gazze è assai popolare, forse per via della livrea e del carattere vivace. Questo ci suggerisce anche il vero etimo della parola, che è dall'etrusco. Il prenome etrusco Vel, da un più antico Venel, nelle iscrizioni bilingui etrusco-latine è tradotto in modo quasi sistematico con Gaius (cfr. Facchetti, 2000). Lo stesso professor Facchetti ha pensato di tradurre il prenome Gaius con "Felice", dato che in italiano esiste il ben noto aggettivo gaio (dal provenzale gai "vivace"). Anche se nella lingua di Roma non è attestato un aggettivo con questo significato, è assai possibile che dovesse esistere tra il volgo, essendo riconducibile alla stessa radice di gaudeo "gioisco, godo" e di gaudium "gioia" (*gaw-, presente anche in greco). A parer mio Vel (arc. Venel) è da una parola etrusca con lo stesso senso. Non è improbabile che avesse anche il significato di "gazza": lo stesso italiano gazza è da un più antico gaia. Così Velia, usato come antroponimo femminile (la forma arcaica è attestata come Velelia su un vaso trovato a Tragliatella), potrebbe essere realmente il nome etrusco dell'avèrla. Sono convinto che si tratti di un vocabolo etrusco sopravvissuto in Toscana.

In inglese l'avèrla è detta shrike /ʃraɪk/, dall'anglosassone sċrīc /ʃri:k/. Il vocabolo è verosimilmente di origine onomatopeica, avendo poi perso questa caratteristica per via della naturale evoluzione fonetica. Risultano alcuni paralleli in altre lingue germaniche (svedese skrika "ghiandaia; urlare", tedesco Schrei "grido").  

La grande avèrla grigia (Lanius excubitor) è nota in Germania con vari nomi di supposta origine cristiana, come Warkangel, Werkengel, Wurchangel (una variante Werkenvogel è rifatta con Vogel "uccello"). Il significato dovrebbe essere quello di "angelo sterminatore", "angelo assassino", preferibile all'improbabile "angelo soffocante" riportato nella Wikipedia in inglese e altrove. In tedesco standard Wu¨rg(e)engel significa proprio "angelo sterminatore". Anche in Inghilterra, nello Yorkshire, ricorrono forme dialettali derivate dalla stessa fonte che ha dato origine ai composti tedeschi: war(r)iangle e weirangle (che indicano l'avèrla piccola, Lanius collurio). Un tempo questa denominazione era più diffusa: in Chaucer waryangle è un termine offensivo e l'avèrla è descritta come "piena di veleno". Il primo membro di queste parole è chiaro: antico alto tedesco warag, warg, warch "fuorilegge", anglosassone wearg "fuorilegge; lupo". Dato che le forme inglesi corrispondono a quelle tedesche, come possono avere origine cristiana? Dovrebbero essere state importate in Britannia dai Sassoni pagani, in un'epoca ben anteriore a quella della cristianizzazione della Germania! L'associazione al concetto di "angelo" sarà quindi dovuta a falsa etimologia. Percorrendo la Germania troviamo interessantissime vestigia pagane. Lungo il corso superiore del Reno è attestato l'epiteto Linkenom, forse "Sinistro Prenditore", per quanto si possa trattare di un'etimologia popolare. Le forme più interessanti sono tuttavia quelle che coinvolgono il numero nove: basso tedesco Neghendoer e medio alto tedesco Nünmörder, documentato attualmente nella variante Neuntöter, che è usato per designare Lanius collurio. Il significato è "che uccide nove (tipi di vittime)". Questo è un dettaglio della massima importanza, a quanto pare ignorato dagli studiosi, che fa riferimento alla somma importanza del numero nove nella religione pagana germanica. Si deve ricordare che nove erano i tipi di legno usati per celebrare i sacrifici (blót) nell'antica Scandinavia (cfr. poesia di Trollkyrka). In Germania l'avèrla (di qualsiasi specie) doveva essere sacra a Wotan per via della sua ferocia.

domenica 1 aprile 2018

NOTE SUL LAVORO DI ZBIRAL

David Zbíral, dell'Università Masaryk di Brno (Repubblica Ceca), è l'autore dei contributi Édition critique de la Charte de Niquinta selon les trois versions connues (Edizione critica della Carta di Niceta secondo le tre versioni conosciute) e La Charte de Niquinta et le rassemblement de Saint-Félix: État de la question (La Carta di Niceta e il convegno di Saint-Félix: Stato della questione). Questi due lavori sono tra gli atti del colloquio internazionale 1209-2009, cathares : une histoire à pacifier?, tenutosi a Mazamet il 15, 16 e 17 maggio 2009 sotto la presidenza di Jean-Claude Hélas. Questi sono i link: 



Questo è l'abstract del primo articolo, da me tradotto:

"La Carta di Niceta, testo che riporta una grande raduno eretico a Saint-Félix de Lauragais nel 1167 e che rivendica la provenienza dissidente, è una questione chiave della ricerca attuale sul Catarismo e sul Bogomilismo. La Carta è il solo documento dissidente a testimoniare un'organizzazione molto solida della dissidenza catara nel Mezzogiorno del XII secolo e a postulare legami degli eretici meridionali con la dissidenza orientale. L'ipotesi di un falso moderno si dimostra piuttosto improbabile. Ma restano diverse altre ipotesi sulla sua redazione nel Medioevo, dunque della sua interpretazione: si può trattare di una stilizzazione antieretica, di un documento in gran parte legato ai fatti storici, di un falso dissidente, di una leggenda dissidente del XIII secolo. Questo articolo riassume lo stato attuale della discussione e apporta argomenti a favore e contro le diverse ipotesi."

Il secondo articolo contiene il testo della Carta, con spiegazioni sul suo adattamento a partire dalle tre versioni conosciute. Come spiega l'accademico ceco, le lettere illeggibili sono state restaurate; le lettere u e v sono state impiegate secondo il loro valore fonetico, la lettera j è stata trascritta come i tranne che in Fanumjovem, l'uso delle minuscole e delle maiuscole ha subìto adattamento, come la punteggiatura. A parer mio, i testi originali avrebbero dovuto essere riportati tal quali, senza alcuna modifica, accanto al testo restaurato. Infatti, più che di adattamento si dovrebbe parlare di ricostruzione.

Resta fondamentale l'importanza di questa edizione critica della Carta di Niceta, in un periodo in cui i decostruzionisti cercano di destrutturare la Storia, negando addirittura l'autenticità di questo cruciale documento. Il fatto che nel comitato di studio sia stata inclusa Anne Brenon, una delle principali voci del decostruzionismo, è a parer mio una pecca non emendabile che getta ombra sull'intero progetto. Anche se di certo le sue posizioni sono lontane da quelle di Monique Zerner - che nega l'esistenza stessa della religione dei Buoni Uomini - è notorio il suo scetticismo sui rapporti tra i Catari e i Bogomili. Ancora a distanza di secoli, la Carta di Niceta fa tremare, dando la prova che il Catarismo era una vera religione organizzata, di origine orientale e non una forma di evangelismo elementare autoctono riconducibile all'identità nazionale occitana. Ecco perché molti cercano con ogni mezzo di far sparire ogni documento e di pervertire ogni dato, ad esempio non considerando la diffusione della religione dualista in Italia. Purtroppo Zbíral non ce la fa a sostenere a spada tratta l'autenticità della Carta. Gira intorno alla stessa colonna, enumera svariate ipotesi, analizza una possibilità dopo l'altra, ma non osa proclamare la Verità - dato che non riconosce l'esistenza di tale concetto. Postmoderno fino al midollo, egli dice che la questione stessa dell'autenticità non è ben posta. Queste sono le sue parole: "Le scienze non dovrebbero pretendere di possedere delle verità: piuttosto dovrebbero cercare delle probabilità. Ciò che voglio fare nel seguito non è dunque decretare se la Carta è autentica o falsa, ma esaminare attentamente le differenti possibilità e, in base ai loro pro e contro, stimare la loro probabilità". Sembra dimenticarsi che la Scienza deve obbedire al principio di non contraddizione, che serve a determinare ciò che non può essere vero. Troppa è l'ammirazione di questo Zbíral per gli studiosi francesi. Non ho stima alcuna di tali accademici: li reputo servi della retorica e dei paroloni, che spargono fumo su tutto e restano irresoluti davanti ai fatti. Sono invertebrati incapaci di ammettere anche soltanto un singolo fatto come qualcosa di incontrovertibile. Sono amebe. Ecco perché l'accademia francese è stata intaccata dalla peste decostruzionista diffusa dal diabolico Derrida. Dopo tanti secoli ancora non si giunge ad alcuna pacificazione. Resto in attesa della cacciata dei mercanti dal Tempio. 

Etimologia di Papa Niquinta

Traduciamo il nome Niquinta con Niceta, perché questa è la sua origine: Papa Niquinta /ni'kinta/, attestato anche con la variante Pope Niquinta, viene dal bulgaro Pop Nikita. Si tratta di un semplice adattamento della forma slava alla lingua d'oc. Il religioso in questione era Niceta di Dragovitsa, la cui autorità era riconosciuta all'epoca da tutte le Chiese Dualiste, in Occidente come in Oriente. Questo dimostra che il Dualismo Assoluto è la dottrina più antica e autorevole. Se la cosa non è chiara alle attuali amebe di Francia, era invece chiarissima ai Buoni Uomini e ai Credenti dei tempi di Niceta, che non esitavano a professare la Fede patendo la tortura e la morte.

Il testo

Riportiamo in questa sede il testo della Carta di Niceta, omettendo tutte le note di Zbíral e i corsivi:

Anno MCLXVII. Incarnationis Dominice in mense madii. In diebus illis ecclesia Tolosana adduxit Papa Niquinta in Castro Sancti Felicii et magna multitudo hominum et mulierum ecclesie Tolosane aliarumque ecclesiarum vicine congregaverunt se ibi ut acciperent consolamentum.
Et dominus Papa Niquinta cepit consolare. Postea vero Robertus de Spernone, episcopus ecclesie Francigenarum, venit cum consilio suo, et Marchus Lombardie venit cum consilio suo similiter, et Sicardus Cellarerius, ecclesie Albiensis episcopus, venit cum consilio suo, et Bernardus Catalani venit cum consilio ecclesie Carcassensis, et consilium ecclesie Aranensis fuit ibi. Et omnes sic innumerabiliter congregati, homines Tolosanae ecclesie voluerunt habere episcopum et elegerunt Bernardum Raimundum. Similiter vero et Bernardus Catalanus et consilium ecclesie Carcasensis rogatus ac mandatus ab ecclesia Tolosana et cum consilio et voluntate et solucione domini Sicardi Cellarerii elegerunt Guiraldum Mercerium, et homines Aranensis elegerunt Raimundum de Casalis.
Postea vero Robertus d’Espernone accepit consolamentum et ordinem episcopi a domino Papa Niquinta ut esset episcopus ecclesie Francigenarum.
Similiter et Sicardus Cellarerius || accepit consolamentum et ordinem episcopi ut esset episcopus ecclesie Albiensis. Similiter vero Marchus accepit consolamentum et ordinem episcopi ut esset episcopus ecclesie Lombardie. Similiter vero Bernardus Raimundus accepit consolamentum et ordinem episcopi ut esset episcopus ecclesie Tolosanae. Similiter et Guiraldus Mercerius accepit consolamentum et ordinem episcopi ut esset episcopus ecclesie Carcasensis. Similiter et Raimundus de Casalis accepit consolamentum et ordinem episcopi ut esset episcopus ecclesie Aranensis. Post haec vero Papa Niquinta dixit ecclesie Tolosane : Vos dixistis mihi ut ego dicam vobis consuetudines primitivarum ecclesiarum sint leves aut graves et ego dicam vobis : Septem ecclesie Asiae fuerunt divisas et terminatas inter illas et nulla illarum faciebat ad aliam aliquam rem ad suam contradicionem.
Et ecclesia Romanae et Drogometie et Melenguie et Bulgarie et Dalmaciae sunt divisas et terminatas et una ad altera non facit aliquam rem ad suam contradicionem, et ita pacem habent inter se. Similiter et vos facite. Ecclesia vero Tolosana elegit Bernardum Raymundum et Guillermum Garsias et Ermengaudum de Forest et Raimundum de Beruniaco et Guilabertum de Bono Vilario et Bernardum Contor et Bernardum || Guillermum Bone Ville et Bertrandum de Avinione ut essent divisores ecclesiarum. Ecclesia vero Carcasensis elegit Guiraldum Mercerium et Bernardum Catalanum et Gregorium et Petrum Calidas manus et Raimundum Poncium et Bertrandum de Molino et Martinum de Ipsa Sala et Raimundum Guibertum ut essent divisores ecclesiarum. Et isti congregati et bene consiliati dixerunt quod ecclesia Tolosana et ecclesia Carcacensis sint divisas propter episcopatos et sicut episcopatum Tolose dividitur cum archiepiscopato Narbone in duobus locis et cum episcopato Carcasensis : a Sancto Poncio sicut montana pergit inter Castrum Cabarecii et Castrum Altipulh et usque ad divisionem Castri Saxiaci et Castri Verduni et pergit inter Montemregalem et Fanumjovem et sicut alii episcopati dividuntur ab exitu Redensis usque ad Leridam sicut pergit apud Tolosam, ita ecclesia Tolosana habet in sua potestate et in suo gubernamento.
Similiter et ecclesia Carcasensis, sicut dividitur et terminatur, habet in sua potestate et in suo gubernamento omnem episcopatum Carcasensis et archiepiscopatum Narbonensis et aliam terram sicut divisum est et dictum usque ad Leridam, sicut vergit apud mare. Et ita ecclesie sunt || divisas, sicut dictum est, ut abeant pacem et concordiam adinvicem et iura ad altera non faciat aliquid ad suam contradicionem. Huius sunt testes rei et defensores : Bernardus Raimundus et Guillermus Garsias et Ermengaudus de Forest et Raymundus de Bauniaco et Guilabertus de Bone Vilario et Bernardus Guillermi Contor et Bernardus Guillermi de Bone Ville et Bertrandus de Avinone et ecclesie Carcasensis Guiraldus Mercerii et Bernardus Catalani et Gregorius et Petrus Calidas manus et Raimundus Poncii et Bertrandus de Molino et Martinus de Ipsa Sala et Raymundus Guiberti. Et omnes isti mandaverunt et dixerunt Ermengaudo de Forest ut faceret dictatum et cartam Tolosane ecclesie. Similiter et Petro Bernardo mandaverunt et dixerunt ut faceret dictatum et cartam ecclesie Carcasensis. Et ita fuit factum et impletum.
Hoc translatum fecit translatare dominus Petrus Isarn de antiqua carta in potestate supradictorum facta qui  ecclesias sicut superius scriptum est diviserunt. Feria II. in mense augusti XIIII. die in introitu mensis, anno MCCXXIII ab Incarnatione Domini. Petrus Pollanus translatavit haec omnia rogatus ac mandatus.

giovedì 29 marzo 2018

NOTE SUL LAVORO DI DELLA TORRE ARRIGONI

Dianora Della Torre Arrigoni è l'autrice dell'interessantissimo trattato Seta selvatica: passato e presente. Il lavoro è diviso in due parti, consultabili e scaricabili sia dal sito del GENM (Gruppo Entomologico Naturalistico Meldolese) che dalla pagina dell'autrice su Academia:

Prima parte:



Seconda parte: 



Indice

Parte prima
  Caratteristiche, proprietà e usi
  Amica dell'ambiente
  Panorama storico
  La stagione europea
  Bibliografia

Parte seconda  Scenario attuale
  Da parassiti dannosi a fonte di guadagno
  Madagascar: un modello per l'Africa
  Referenze bibliografiche
  I bachi da seta esistono ancora

Immergendosi nella lettura, si apprendono molte utili nozioni. Il baco da seta, ossia la larva del bombice del gelso (Bombyx mori), non è l'unico bruco in grado di produrre un filo serico utilizzabile dal genere umano per confezionare indumenti. Esistono in natura circa 400 specie diverse dal Bombyx mori, i cui bruchi tessono un bozzolo che permette di ottenere la seta selvatica, usata da epoche immemorabili in varie parti del mondo. L'allevamento di queste larve presenta diversi vantaggi: si tratta di specie non completamente domesticate, che non dipendono dall'uomo, inoltre si nutrono di foglie di diversi alberi - mentre il baco da seta si nutre esclusivamente di gelso. L'autrice tratta le caratteristiche dei vari tipi di seta selvatica e fa un quadro storico molto esauriente del loro utilizzo. In Cina, prima ancora della domesticazione del Bombyx mori, era usata la seta ottenuta dall'Antheraea pernyi, originaria della Mongolia e utilizzata anche dalle sue genti già nel II secolo a.C. In India, la seta selvatica era conosciuta già diversi millenni prima di Cristo, mentre il baco da seta vi fece la sua comparsa soltanto più tardi, verso il III secolo d.C. Alcune farfalle produttrici di seta sono da epoche immemorabili ritenute sacre dalla religione Hindu, come ad esempio l'Antheraea mylitta, i cui ocelli erano visti come il disco di Visnu. In tempi più vicini a noi, Gandhi affermò nel corso della sua visita in Assam che "le donne Bodo tessevano sogni sui loro telai": la specie utilizzata in quella regione è Antheraea assama. Nel Messico precolombiano, gli Aztechi e altri popoli traevano la loro seta dai grandi nidi comuni delle larve di Gloveria psidii. I bozzoli di una Pieride, Eucheria socialis, fornivano agli Aztechi non soltanto tessuti, ma anche la carta. L'estinzione dell'uso della seta selvatica in Messico è molto recente, risale a circa cinquant'anni fa. Le informazioni raccolte nel trattato sono numerose e di gran pregio: ne consiglio vivamente la lettura a tutti, è qualcosa che allarga i propri orizzonti e permette di far luce su aspetti poco noti dell'esistenza.  

L'epidemia di pebrina e le sue conseguenze 

Si apprende che l'uso della seta selvatica si diffuse in Europa nel XIX secolo. Una spaventosa epidemia di natura virale aveva aggredito i bachi da seta in molti paesi, devastando la sericoltura tradizionale. La malattia era detta pebrina, dall'occitano pebre "pepe", perché sul corpo dei bachi colpiti comparivano caratteristiche macchie nere, che ricordavano nella forma grani di pepe. Il motivo di una denominazione di origine occitana è presto spiegato: i primi focolai della malattia si sono formati nel Midi francese verso la metà del secolo, diffondendosi poi a macchia d'olio. La sericoltura dipende dal seme-bachi (il vocabolo ha una struttura abbastanza curiosa), che consiste nelle uova della farfalla da seta. Col propagarsi della pebrina in Francia, l'unica risorsa degli allevatori era procurarsi seme-bachi sano da regioni in cui non era ancora giunta l'infezione. Per porre rimedio alla calamità, iniziarono così a importare seme-bachi dall'Italia. Quando l'epidemia oltrepassò le Alpi, la situazione divenne critica: la sericoltura italiana, diffusa e prospera nella quasi totalità degli stati preunitari, subì danni ingentissimi. Di qui la necessità di ricercare seme-bachi sano in terre lontane: i semai andarono a procurarselo nei Balcani, in Turchia, in Asia Centrale, in Cina e persino in Giappone - dove era iniziata l'apertura commerciale ai paesi stranieri dopo secoli di isolamento. Mi ha molto colpito la determinazione con cui i semai affrontavano la durissima via del Giappone, giungendo fino a Yokohama, dove si teneva da agosto a fine ottobre un regolare mercato del seme-bachi. I molli francesi, incapaci di tanto eroismo e privi di tempra, non tentarono nemmeno simili imprese, così quando la pebrina si estinse, la sericoltura non si fu in grado di risollevarsi. Un effetto collaterale di questa crisi fu l'importazione e l'acclimatazione in Europa di specie di farfalle da seta diverse dal Bombyx mori, come alternativa alla seta tradizionale. In particolare furono utilizzati Saturnidi provenienti dalla Cina e dall'India.  

Il Brucaliffo e la serendipità

Sono giunto a conoscere il presente lavoro per puro caso, mentre cercavo notizie sull'allevamento delle larve di Saturnia pyri, farfalla notturna nativa dell'Europa, da cui secondo alcune fonti si può ottenere seta di alta qualità. Ho ricordi d'infanzia di questi bruchi del pero, grossi e molto appariscenti, tanto da somigliare al Brucaliffo. Avevo letto da qualche parte che questa specie, diffusa dalla Spagna alla Siberia e in parte del Nordafrica, in passato era stata utilizzata nella sericoltura. Ho potuto constatare che la Della Torre Arrigoni menziona a malapena nel suo lavoro, ma riporta un fatto importante. Il bozzolo tessuto dal bruco del pero è composto da filamenti spezzati in più punti e necessita di cardatura e filatura per poter essere utilizzato. Peccato: essendo una specie autoctona, avrebbe potuto essere una risorsa importante. In passato supponevo che le larve della Saturnia pyri non fossero di facile allevamento o che la resa fosse scarsa: non potendo disporre di conoscenze più dettagliate, facevo illazioni. Adesso ho imparato qualcosa di molto utile. Navigando nel Web ho poi scoperto che la specie non si trova in Inghilterra, anche se ne sono stati recentemente scoperti alcuni esemplari a Swaythling, nello Hampshire. Con ogni probabilità provengono da un allevamento abbandonato, anche se si specifica che questa pratica non è attestata nel Regno Unito.


Etimologia di tussah

In inglese la seta ricavata dai bozzoli di bachi selvatici è detta tussah, con le varianti tussor, tussore, tusser, tussas, tussus. L'origine di questa parola è dall'indostano tasar, a sua volta dal sanscrito tasara, trasara "spola". Per motivi fonetici, il vocabolo sanscrito non può essere derivato dalla radice taṃs- "decorare; muovere", come suggerito da Monier-Williams (non dimentichiamo la variante con tr-!): è con tutta probabilità un relitto di una lingua del sostrato preindoeuropeo dell'India. 

Gli Aztechi, i bachi selvatici e la seta

Non sono riuscito a reperire i nomi Nahuatl delle farfalle Gloveria psidii ed Eucheria socialis, menzionate dall'autrice. Gli Aztechi usavano il nome ocuilicpatl per indicare la seta (selvatica), nome derivato da ocuilin "verme" e da icpatl "filo" (alla lettera "filo del verme"). Il bruco produttore di seta era chiamato tzāuhqui ocuilin "verme filatore" (da tzāhua "filare"), mentre il bozzolo era chiamato cochipilōtl (da cochi "dormire"). Un sinonimo di cochipilōtl è calocuilin, alla lettera "verme-casa" - e non "casa del verme", che sarebbe *ocuilcalli

Etimologia del nome Dianora

Non posso resistere alla tentazione di inserire un'ultima nota etimologica. Il nome Dianora, davvero curioso e raro, è attestato già in epoca medievale. La sua origine è controversa. Nasce a parer mio da Eleonora, di cui sono attestate le varianti Lionora e Lianora. Alla forma Lianora si è sovrapposto il nome della dea Diana, il cui culto è riuscito a sopravvivere alla dissoluzione dell'Impero Romano d'Occidente, perdurando a livello popolare per tutto il Medioevo.