domenica 25 ottobre 2015

ANTICHI PRESTITI LATINI IN GALLESE E CONSERVAZIONE DELLA QUANTITÀ VOCALICA IN SILLABA TONICA

Riporto una serie di antichi prestiti latini in gallese allo scopo di mostrare i diversi esiti delle vocali toniche latine a seconda della loro quantità. Come si può vedere, le originarie vocali brevi toniche latine hanno esiti molto diversi da quelli delle corrispondenti vocali lunghe. Questo si può notare anche quando nelle parole gallesi l'accento si è ritratto.   

1) La vocale a breve latina in sillaba tonica rimane a:

Addaf "Adamo" < lat. Adam
aml "abbondante"
 < lat. amplu(m) 
arf "arma"
 < lat. arma
bagl "gamba; stampella"
 < lat. baculu(m)
barf "barba"
 < lat. barba(m)  
cadair "sedia" < lat. cathedra(m) 
calch "calce" < lat. calce(m) 
ffagl "torcia" < lat. facula(m)
fflam "fiamma; fuoco"
< lat. flamma(m)
llafur "lavoro; fatica"
 < lat. labor
maneg "guanto"
< lat. manica(m)
Pader "Padre Nostro" < lat. Pater

In caso di metafonia, si muta in ei: 

lleidr "ladro" < lat. latro: 

2) La vocale a lunga latina in sillaba tonica a seconda del contesto diventa aw [au̯] oppure o

caws "formaggio" < lat. ca:seu(m)
Ionawr "Gennaio" < lat. <me:nse(m)>
     Ia:nua:riu(m)
(dydd) Mawrth "Martedì"
 < lat. <die(m)> Ma:rtis
Mawrth "Marzo" < lat. <me:nse(m)> Ma:rtiu(m)

awdurdod "autorità" < lat. aucto:rita:te(m)
canol "mezzo, centro"
 < lat. cana:le(m)
cardod "carità"
 < lat. carita:te(m)
ciwdod "città"
 < lat. ci:vita:te(m)
diwrnod "giornata"
< lat. (mediev.) diurna:ta(m)
estron "straniero"
 < lat. extra:neu(m)
gwyddor "principio"
 < lat. abeceda:riu(m)

parod "pronto" < lat. para:tu(m)
pechod "peccato"
 < lat. pecca:tu(m)
plo "fato, maledizione" < lat. pla:ga(m)

pysgod "pesci" < lat. pisca:tu(m)  
Ymherodr (ant. Ymherawdr) "Imperatore"
       < lat. Impera:tor

I rari casi in cui la vocale a lunga latina rimane immutata sono dovuti a prestiti dal latino ecclesiastico:

pagan "pagano" < lat. pa:ga:nu(m)
pla "peste"
< lat. pla:ga(m)**

*Per l'esito genuino di un derivato della parola latina, si veda il toponimo Powys
**Per l'esito genuino della parola latina, si veda sopra il lemma plo "fato, maledizione".


3) La vocale e breve latina in sillaba tonica rimane e

creu "creare" < lat. creo:
cyllell "coltello"
 < lat. cultellu(m)
elfen "elemento"
 < lat. elementu(m)
ffenestr "finestra"
< lat. fenestra(m)
gefell "gemello"
 < lat. gemellu(m) 

gwiwer "scoiattolo" < lat. vi:verra(m) 
llew "leone" < lat. leo:
meddyg "medico"
 < lat. medicu(m)
offeren "messa"
 < lat. offerenda
porchell "maialino"
 < lat. porcellu(m)
pregeth "predica"
 < lat. praeceptu(m)  

ysblennydd "splendido" < lat. splendidu(m) 
ysgrifen
"scritto"
< lat. scri:bendu(m)


In un caso si muta in a

sarff "serpente" < lat. serpe:ns

4) La vocale e lunga latina in sillaba tonica diventa wy [ʊi̯]:

cadwyn "catena" < lat. cate:na(m)
cwyr "cera"
 < lat. ce:ra(m)
cynnwys "contenuto"
< lat. conde:nso:
dwys "intenso"
< lat. de:nsu(m)
eglwys "chiesa"
 < lat. eccle:sia(m)
gwenwyn "veleno"
 < lat. vene:nu(m)
mwys "paniere; piatto"
 < lat. me:nsa(m)
plwyf "parrocchia"
 < lat. ple:be(m)

proffwyd "profeta"
 < lat. prophe:ta(m)
pwys "libbra"
< lat. pe:nsu(m)
rhwyd "rete"
< lat. re:te
swydd "lavoro; ufficio"
 < lat. se:de(m) 

Se è sparita una consonante mediana, l'esito è più complesso: 

Powys, una provincia del Galles <lat. 
     pa:ga:ne:nse(m)
 

rheol, rhyol "regola" < lat. re:gula(m)

5) La vocale i breve latina in sillaba tonica diventa y [ɨ]

addysg "educazione" < lat. addisco:
disgybl "discepolo"
 < lat. discipulu(m)
dysgu "insegnare"
 < lat. disco:
ffydd "fede" < lat. fide(m)
gwydr "vetro"
 < lat. vitru(m)
gwyrdd "verde" < lat. viride(m)
llyfr "libro" < lat. libru(m)
llythyr "lettera"
 < lat. littera(m)
myrdd "diecimila"
 < lat. myrias
pysg "pesce" < lat. pisce(m)
sych "secco" < lat. siccu(m)
syml "semplice"
 < lat. simplex

Se è sparita una consolante mediana, si forma un dittongo: 

gŵyl "giorno di festa" < lat. vigilia(m)

Se anticamente seguiva -a, e in qualche altro contesto, diventa e:

saeth "freccia" < lat. sagitta(m)
senedd "parlamento"
 < lat. synodu(m)

Un importante caso di vocale i breve rimasta immutata è dovuto all'analogia col diffusissimo suffisso -ig, di origine celtica: 

Nadolig, Nodolig "Natale" < lat. Na:ta:licia

6) La vocale i lunga latina in sillaba tonica rimane i:

gwin "vino" < lat. vi:nu(m) 
lladin "latino" < lat. lati:nu(m)
melin "mulino"
 < lat. moli:na(m) 

mil "mille" < lat. mi:lia
prif "principale" < lat. pri:mu(m)
selsig "salsiccia"
 < lat. salsi:ciu(m)
trist "triste"
 < lat. tri:ste(m)

7) La vocale o breve latina in sillaba tonica rimane o:

abostol "apostolo" < lat. apostolu(m)
cloff "zoppo"
 < lat. cloppu(m)
corff "corpo"
 < lat. corpus
modd "modo"
 < lat. modu(m)
pobl "popolo"
 < lat. populu(m)

pont "ponte" < lat. ponte(m) 

ysgol "scuola" < lat. schola(m)

In caso di metafonia, si muta in y [ɨ]: 

myfyr "studio, meditazione" < lat. memoria(m)
ystyr "significato"
 < lat. historia(m)

8) La vocale o lunga latina in sillaba tonica diventa u [ɨ(:), i(:)], più raramente aw

awdur "autore" < lat. aucto:re(m)
awr "ora"
 < lat. ho:ra(m)
ffurff "forma"
 < lat. fo:rma(m) 

henadur "assessore" < lat. sena:to:re(m) 
nawn "mezzogiorno" < lat. <ho:ra(m)< no:na(m)
urdd "ordine (religioso)"
 < lat. o:rdo:

9) La vocale u breve latina in sillaba tonica diventa w [ʊ]

cwmwl "nube" < lat. cumulu(m)
ffwrn "forno"
 < lat. furnu(m)
(dydd) Sadwrn "Sabato" < lat. <die(m)> Saturni:

Se è sparita una consonante mediana, si forma un dittongo:

Awst "Agosto" < lat. <me:nse(m)> Augustu(m)

Se anticamente seguiva -a, diventa o: 

boch "guancia" < lat. bucca(m)
fforch
"forchetta" < lat. furca(m)
porffor "porpora"
< lat. purpura(m)

In caso di metafonia, si muta in y [ɨ(:)]

cŷn "scalpello" < lat. cuneu(m)
pydew "pozzo"
 < lat. puteu(m)

10) La vocale u lunga latina in sillaba tonica diventa i nei prestiti più antichi, u [ɨ(:), i(:)] in quelli più recenti: 

cib "tazza" < lat. cu:pa(m)
dir "acciaio"
< lat. du:ru(m) 
nifer "numero"
< lat. nu:meru(m)  

astud "diligente" < lat. astu:tu(m) 
(dydd) Llun "Lunedì" < lat. <die(m)> Lu:nae
mesur "misura"
 < lat. me:nsu:ra(m)
mur "muro"
 < lat. mu:ru(m)
pluf "piuma" < lat. plu:ma(m)
pur "puro" < lat. pu:ru(m)
segur "inattivo"
 < lat. se:cu:ru(m)
(dydd) Sul "Domenica" < lat. <die(m)> So:lis

sabato 24 ottobre 2015

FONOLOGIA DELLA LINGUA LATINA: QUANTITÀ VOCALICA E SUA DECADENZA

Nel latino dell'epoca classica la quantità delle vocali non era una mera masturbazione mentale dei poeti, come si tende ad insegnare nel sistema scolastico italiano, ma qualcosa di vivo e vitale: esistevano realmente vocali lunghe e vocali brevi nella lingua parlata.

Riporto alcuni interessanti brani tratti da Introduzione allo studio del latino volgare, di C.H. Grandgent (traduzione di N. Maccarone, edito da Hoepli), che trattano della quantità delle vocali e di alcuni importantissimi cambiamenti nel sistema vocalico che la lingua latina parlata subì nel corso dei secoli. 


C. - Quantità

    159. Bisogna far distinzione tra quantità vocalica e quantità sillabica. Ogni vocale latina poteva essere per natura lunga o breve; quanto grande fosse la diffrenza noi non sappiamo, ma possiamo congetturare che nel linguaggio comune fosse maggiore nelle vocali toniche che nelle atone.
Una sillaba era lunga se comprendeva 1) una vocale lunga o un dittongo, 2) una vocale breve e una consonante seguente. Se, tuttavia, la consonante era finale e la parola seguente cominciava con vocale, la consonante, nel discorrere fitto, era senza dubbio trasportata nella sillaba seguente o non faceva posizione: vedi § 133. Per la divisione della sillaba formata di muta + liquida, vedi §§ 132, 134.

...

2. QUANTITÀ VOCALICA. 

    165. Originariamente, forse, le vocali lunghe e brevi erano distinte soltanto dalla durata, cioè le vocali avevano, per es., lo stesso suono in lātus e lătus, in dēbet e rĕdit, in vīnum e mĭnus, in nōmen e nŏvus, in ūllus e mŭltus. Sia o non sia stato così, il fatto è che in latino e, i, o, u lunghi e brevi differivano in ciò, che erano aperte le vocali brevi, chiuse le lunghe: vẹndo sęntio, pịnus pįper, sọlus sǫlet, mụlus gųla. Ossia, la lingua per le vocali di breve durata non si sollevava tanto quanto per quelle più lunghe. Più tardi, nella maggior parte dell'impero, į e ų si pronunciarono sempre più basse, e divennero e : vedi §§ 201, 208. Per a, che è pronunziato colla lingua giacente piatta sul suolo della bocca, non vi fu tale differenziazione.
Secondo il Meyer-Lübke, Lat. Spr., 467, la diversità di timbro delle brevi e delle lunghe si sentiva chiara circa il primo secolo della nostra era. In Vok., I, 461, II, 146, III 151, 212, è addotta la testimonianza dei grammatici, tutti di età più tarda; in Vok., II e sgg. la prova delle iscrizioni. Mario Vittorino, verso il 350 dell'era volgare, distingue due suoni di e (S. 175, 182); Pompeo, verso il 480, cita Tertulliano per un e simile ad i, e parecchi grammatici del quinto secolo distinguono nettamente
da ę (S. 176, 182); sin dal secondo secolo ae fu spesso usato per ę nelle iscrizioni (S., 183-184). Terenziano Mauro, verso il 250, distingue da ǫ (S., 175, 211) e così fanno altri grammatici (S., 211). Scrttori che distinguano chiaramente e į, non si trovano fino a Consenzio, nel quinto secolo (S., 193); e, tuttavia, è spesso usato per i nelle iscrizioni, come menus, ecc., e i per e, come minses, ecc. (S. 195, 200-201). Nessuno dei grammatici, come sembra, distingue e ų, ma o è usato per u nelle iscrizioni, come ocsor, secondus, ecc. (S., 216-217).

...

c. Scomparsa dell'antica quantità.

   173. La differenza di quantità fu probabilmente più grande e più costante nelle vocali accentate che non nelle disaccentate. Le distinzioni di qualità, che derivano dalla quantità originale, perdurarono, nelle sillabe toniche, durante il periodo latino e si svilupparono di più nelle lingue romanze; nelle sillabe atone le distinzioni furono senza dubbio più lievi, e furono spesso soppresse.
    174. L'antica quantità si andò anch'essa perdendo, in massima parte durante l'impero. Pare che sia scomparsa dalle sillabe atone verso il terzo o quarto secolo; ma si avverte la confusione fin dal secondo. Il nomin. singol. -ĭs e il plurale -ēs andarono confondendosi verso il 150 dell'era volgare (S., 75), e ae fu spesso usato per e nelle iscrizioni (S., 183-184: benae, ecc.). Terenziano Mauro, circa il 250, ci dice che au è breve in sillabe disaccentate, come in aut (S., 66). Altri grammatici ci mettono in guardia contro una quantità di errori. Commodiano, nel terzo e quarto secolo, pare che osservi la quantità nelle sillabe toniche ma la trascuri nelle atone, e troviamo numerosi errori metrici in altri poeti seriori: cfr. J. Cornu, Versbau des Commodian in Bausteine, 576.
   D'altra parte, le parole latine prese a prestito dalla lingua brettone, massimamente nel terzo e quarto secolo, mostrano, attraverso un ambiamento d'accento, conservata la quantità nelle sillabe postoniche: Loth, 72, 65. Inoltre, le parole latine prese a prestito dall'antico alto tedesco attestano la conservazione di i e u lunghi davanti all'accento: Franz.
   È possibile che la quantità delle vocali atone si sia meglio mantenuta nelle provincie che in Italia.
   175. Nelle sillabe accentate appaiono esempi sporadici di confusione verso il secondo secolo, come aeques per eques nel 197 (S., 225); ma probabilmente la scomparsa dell'antica distinzione non fu generale prima della fine del sesto. Servio, nel quarto secolo, critica Rŏma (S., 106). S. Agostino dichiara che «Afrae aures de correptione vocalium vel productione non judicant» (Lat. Spr. 467). Pompeo e altri grammatici biasimano la confusione di aequus e ĕquus (S., 107, 178). Molte poesie tarde non osservano affatto la quantità.
   D'altra parte, le parole latine prese a prestito dal brettone dal secondo al quinto secolo, ma massimamente nel terzo e quarto, mostrano conservata la quantità delle vocali lunghe: Loth, 64. Le parole latine dell'anglo-sassone, tolte a prestito nel quinto e sesto secolo, conservano la quantità dellevocali su cui sta l'accento: Pagatscher. Le parole latine nell'antico alto-tedesco distinguono pure quantitativamente ī e ĭ, ē e ĕ, ō e
ŏ, ū e ŭ; ŏ, ĕ si distinguono anche qualitativamente, cioè ē > î sta di contro ĕ > e o i; ō > û o ô sta di contro a ŏ > o: Franz.

domenica 18 ottobre 2015

SPIEGAZIONI DEL DITTONGO SPURIO AE PER E BREVE IN LATINO

I nostri avversari, riportando casi di scambio del dittongo -ae- con il monottongo -e- in numerose parole latine, pretendono di dimostrare che lo stesso dittongo sia sempre stato meramente grafico, anche nelle epoche più antiche. In particolare sembrano non badare alla quantità vocalica, visto che nelle loro liste di vocaboli ambigui includono anche alcune forme con vocale -e- breve.

Ne ho trovate due:

aequus per equus
caedrus per cedrus

Questi doppioni non sono affatto assimilabili a quelli del tipo ceterus per caeterus, in cui la -e- tonica era invece sicuramente lunga: devono quindi essere trattati e interpretati a parte. 

Dal punto di vista etimologico, è chiaro che la scrittura caedrus è priva di significato, essendo la parola cedrus dotata di una vocale -e- breve, come dimostra in modo incontrovertibile la sua provenienza dal greco κέδρος. In latino esisteva anche un'altra forma, citrus, dotata ovviamente di -i- breve, che proveniva dalla stessa parola greca κέδρος, ma tramite la mediazione della lingua etrusca:

greco κέδρος > etr. *citre /'kitrə/ > lat. citrus

La presenza di simili doppioni non è infrequente, data l'influenza che la lingua etrusca ebbe in epoca antica su quella di Roma. La variante caedrus è invece sicuramente tarda e volgare, essendo attestata nelle Glossae Placidi Grammatici. Di per sé non prova nulla: quando si produsse, ormai il dittongo etimologico /ae/ si era già da tempo monottongato: deve trattarsi di un caso di vocale breve divenuta lunga sulla bocca di parlanti incolti, in un'epoca in cui la lingua latina stava rapidamente scadendo.

Ugualmente tarda è la variante aequus per equus, stigmatizzata da Pompeo grammatico (V secolo d.C.): 

"Plerumque male pronuntiamus et facimus vitium, ut brevis syllaba longo tractu sonet aut iterum longa breviore sono: si qui velit dicere Ruoma aut si velit dicere aequus pro eo quod est equus, in pronuntiatione hoc fit." 

Stando alle parole del grammatico africano, in equus la vocale tonica era erroneamente prolungata da parlanti che mostravano scarsa dimestichezza col latino, producendo così una vocale aperta /ɛ:/, che veniva scritta naturalmente servendosi del dittongo ae, essendo diversa dalla e lunga ereditata, che aveva invece un suono chiuso. La forma aberrante Ruoma invece era nata da una pronuncia erronea con /ɔ/ breve e aperta anziché con /o:/ lunga e chiusa, tipica dell'Africa. Doveva così essersi sviluppato un dittongo ascendente: /'rwɔma/ anziché /'ro:ma/. Lo stesso Agostino di Ippona ci parla delle difficoltà delle genti africane a intendere la quantità vocalica. Allego alcuni interessanti link a documenti che trattano di questi affascinanti argomenti: 



Diversa è invece la precoce comparsa della grafia -ae per -e breve nella parola bene, scritto erroneamente benae: è naturale che la monottongazione dell'originario dittongo ae sia iniziata nelle sillabe atone e solo in seguito abbia colpito anche le sillabe toniche.

Anche a questo è possibile trovarne una spiegazione logica. Nella parola in questione il dittongo ae era spurio, ossia meramente grafico. Serviva ad esprimere una vocale -e- molto aperta e diversa dalla comune -e- breve simile a quella dell'italiano tetto. Doveva invece suonare come una a anteriore /æ/ (simile alla pronuncia americana dell'inglese bat).

Verso l'inizio dell'Impero certi parlanti incolti dovevano aver cominciato a pronunciare in certi contesti la vocale /ɛ/ breve più aperta del normale, fino a spingersi ad /æ/. Un po' come certi ragazzi d'oggi che sono arrivati a pronunciare "vabbane" anziché "va bene". È assai verosimile che questi soggetti usassero la grafia ae come ipercorrettismo, a causa della loro ignoranza e della loro bassa condizione sociale. Questo comporta anche la mancata distinzione tra vocali brevi e lunghe da parte di questi parlanti difettosi.

mercoledì 14 ottobre 2015

L'ENIGMA DELL'ETIMOLOGIA DI SCRAUSO: UNA SOLUZIONE

Nel dialetto di Roma esiste il termine scrauso "brutto; scadente", ben attestato anche con la variante sgrauso. Da dove proviene questa strana parola? Intanto cominciamo a tracciare a grandi linee la sua documentazione. Sembra essere emersa verso la fine del XX secolo nel gergo dei coatti, con i significati sopra riportati. Ad esempio ricorre nel film Amore tossico di Claudio Caligari (1983), con riferimento a droga di pessima qualità (robba scrausa). Se andiamo indietro nel tempo, ci imbattiamo in un'unica attestazione nota risalente al XVI secolo, per la precisione all'anno 1527: nella confessione autografa di una strega, Bellezze Ursini da Collevecchio, la parola scrauso sembra avere il senso di "sciocco". Non si può quindi trattare di un'insostanziale invenzione giovanile moderna. 

La mia ipotesi è che la parola risalga alla lingua longobarda: si tratta della radice germanica *graus- "terribile, orribile; orrore", attestata grazie agli antroponimi GRAUSO e GRAUSULUS. Abbiamo anche ADELGRAUSUS e ALDEGRAUSUS, sempre con l'aggiunta della terminazione latina -us. Il termine non è di per sé enigmatico: ancora nel tedesco attuale troviamo il sostantivo Graus "terrore, orrore" (poetica), e il verbo  grausen "inorridire". In medio alto tedesco abbiamo griusig "orribile", in antico inglese abbiamo gréosan "spaventare". La forma longobarda, pur essendo omofona della forma tedesca attuale, ha il dittongo /au/ ereditato dal protogermanico, mentre il tedesco Graus è invece dalla variante *gru:s-, col dittongo regolarmente sviluppato dalla vocale lunga /u:/.

La parola romanesca non può essere nativa, dato il ben strano dittongo -au-, che non può del resto risalire ad epoca troppo remota, o sarebbe stato ridotto a un monottongo. La s- iniziale non è un problema così insormontabile. Basti citare l'italiano sguattero, che viene da un precedente guattero "inserviente di cucina", di origine longobarda e corrispondente all'antico alto tedesco wahtāri "guardiano".

All'inizio la parola doveva significare "terribile; orribile", donde "brutto" e "scadente", detto di cosa o di persona. Ipotizzo che esistesse un tempo una locuzione del tipo "scemo scrauso", qualcosa di simile a "brutto scemo", donde lo slittamento semantico documentato nel processo alla strega romana del XVI secolo. O forse, da "scadente" nel senso di "minorato" (all'epoca non esisteva alcun rispetto per le persone con qualche problema, e neppure pietà o misericordia). Altri significati attestati nel gergo dei coatti sono "escremento" e "matto", tutti con forte connotazione negativa.

I romanisti sembrano impotenti di fronte a questo vocabolo, e farfugliano frasi prive di senso. Non sembrano tenere conto dell'attestazione del XVI secolo e tentano di derivarlo dalla voce scausa "scaglia", per inserimento di una fantomatica -r- peggiorativa che pare generata dai loro sogni, per poi dire che il significato originale della parola dovesse essere "prostituta", dato che in molti gerghi italiani scaglia indica la peripatetica. Tutto molto fumoso, mi pare, in netto contrasto con la chiarezza cristallina dell'origine longobarda.

In ogni caso, dai tempi di Bellezze Ursini la parola se ne sarebbe rimasta a covare sotto la brace per conoscere fortuna soltanto qualche secolo dopo, spargendosi come un meme. Oggi è ben diffusa nel linguaggio colloquiale su vasti territori, tanto che la si ritrova anche a Milano, a Genova e altrove. A quanto pare, a Genova sono attualmente chiamati così i camalli. Nessuno pare accorgersi che si tratta di un articolo di importazione.

Queste sono alcune sorprendenti attestazioni ritrovate nel web:


Palermo. Riferito a oggetti: scadente, taroccato; riferito a persone: antipatico, arido. Es: se qualcuno si rifiuta di uscire la sera, si dice 'non fare lo scrauso'. 

Friuli. Indica qualcosa che costa poco e non è di alto livello. Es: un computer con windows95 senza prese usb è considerato scrauso. 

Olbia. Qua si dice per indicare qualcosa di bassa qualità. 

Bologna. Aggettivo spregiativo. Es: hai un cellulare strauso (rotto, vecchio). 

Il Corriere di Bologna dà scrauso come vocabolo del gergo giovanilese, al pari di sciallo e di fighettismo


A questo punto dovremmo porci come una parola longobarda sia giunta a Roma, visto che l'Urbe non è mai stata sotto il potere dei Longobardi. Probabilmente il termine vi fu portato da un longobardo che vi si era trasferito, e per ventura è piaciuto al volgo locale, finendo con l'essere adottato all'inizio da un gruppo di conoscenti dell'esule, poi da sempre più persone, finendo così con l'avere esiti incontrollabili - doffondendosi per effetto boomerang anche in terre di lunga tradizione longobarda, dove la radice germanica *graus- era caduta in un oblio profondo, rimanendo tuttavia ben documentata nei cognomi. Abbiamo infatti Grauso e un più raro Crauso.

UN ANNOSO PROBLEMA: L'ETIMOLOGIA DI FROCIO

Il termine romanesco frocio "omosessuale; effeminato, arga", variante froscio - ormai bandito dal politically correct e per paradosso tollerato più dagli omosessuali che dai buonisti - è da sempre una crux per gli etimologi. Le proposte escogitate per spiegarlo sono numerose, ma nessuna è davvero convincente. Hanno tutte le caratteristiche delle paretimologie. Le riporto sinteticamente: 

1) Da feroci, donde froci, con allusione ai violentissimi saccheggi operati dai Lanzichenecchi. La tradizione riporta che i Lanzichenecchi avrebbero sodomizzato la popolazione di Roma senza distinzione tra i sessi, guadagnandosi l'epiteto di Feroci. Da froci si sarebbe poi formato un singolare analogico frocio anziché *froce, così come in romanesco da ceci si è retroformato cecio, da bruci si è avuto brucio e da buci si è avuto bucio. Obiezione: la parola frocio è connessa soprattutto con comportamenti passivi e vale "effeminato", non è quindi molto adatta a descrivere forme di violenza carnale. 

2) Dalla voce precedente, ma con interpretazione sarcastica, per satirizzare la mancanza di virilità e di aggressività in una persona. Non è difficile immaginarsi un bullo romano sfottere un effeminato apostrofandolo: "Anvedi che ferocione!" Di qui la frase si sarebbe sincopata in "Anvedi che frocione!" 

3) Da frogia "narice" (parola di origine celtica, cfr. gallico *frogna "naso"), con allusione ai nasi paonazzi degli Svizzeri ubriachi che si inchiappettavano. Le varianti frocia e froscia sono effettivamente documentate a Roma e altrove. Anche se i Lanzichenecchi hanno accusato da sempre gli Svizzeri di sodomia e persino di intrattenere rapporti carnali con le loro pecore, la cosa appare poco probabile; per altri le froge rubizze sarebbero invece state proprio quelle dei Lanzichenecchi. In ogni caso le difficoltà semantiche sono notevoli. Non si capisce perché gli ubriaconi autoctoni non dovessero essere etichettati come "frocioni", visto che il troppo vino rende rubicondo il naso di tutti i bevitori. Non si spiega neppure come mai l'omosessuale non sia chiamato *frogio o *frogione: tali forme dovrebbero invece essere le più comuni. 

4) Dalla fantomatica Fontana delle Froge, ossia Fontana dei Nasoni, dove i sodomiti si sarebbero dati convegno. Non soltanto non si capisce il perché della denominazione della fontana, ma di essa non si trova menzione alcuna nella toponomastica romana, presente o passata. Si presentano inoltre gli stessi problemi che rendono improbabile la summenzionata derivazione da frogia.

5) Da *francio "francese", voce sarcastica, pronunciata dapprima *froncio o *fronscio con vocale nasale, ad imitazione dei suoni della lingua francese, donde direttamente frocio o froscio. Il termine avrebbe avuto almeno all'inizio il senso di "francese; straniero" e sarebbe solo in seguito passato a significare "sodomita passivo": tale abitudine sessuale sarebbe stata attribuita ai Francesi per via dei loro modi, raffinati in confronto a quelli del volgo romano. In uno stornello antifrancese un padre geloso minaccia uno straniero che gli corteggia la figlia, e dice:

"Fiore de pera;
quer frocio che a mi fija fa la mira,
ha voja de cenà l'urtima sera".
 

Qualcuno argomenta che se lo straniero fosse stato omosessuale, difficilmente avrebbe ronzato intorno a una donzella. Questo però non è secondo me necessario: se qualcuno impreca dicendo "cornuto" a un cane che lo ha morso, questo non implica affatto un nesso causale con l'incapacità dell'animale di imporre la monogamia alle sue femmine: si tratta dell'espressione di un'ira eruttiva e anteriore alla logica. 

6) Dal tedesco Frosch "rana", rivolto ai francesi come epiteto insultante o derisorio. Questo singolare uso sarebbe stato comune agli inglesi, che a loro volta chiamavano i francesi frogs. È una riedizione della tesi di coloro che ritengono il termine frocio un epiteto indicante genericamente gli stranieri. Li indicava sì, ma per schernirli, per insultarli, perché erano odiati. Se un siciliano di oggi chiamasse i continentali "cornuti", cosa bisognerebbe dedurne? Che nella Sicilia dei primi del XXI secolo "cornuto" significa "straniero"? No di certo. 

7) Dal tedesco Friese "frisone", passato poi a indicare tutti gli stranieri. Il Belli ad esempio chiamava Frocioni i Frisoni. È tuttavia possibile che il Belli abbia voluto fare un gioco di parole sagace per denigrare i Frisoni di cui parlava, e che già fosse sottinteso un doppio senso incentrato sulla sodomia. Va riportato che esisteva una famosa scuola di cantori Frisoni a Roma: i ragazzi potrebbero essere stati inclini a subire pederastia, ma anche di questo non esiste documentazione alcuna. 

8) Da floscio, con fl- mutato regolarmente in fr- (ad esempio in Belli si trova fraggello per flagello). L'origine ultima è lo spagnolo flojo "uomo senza carattere o volontà" (da cui deriva l'italano floscio). L'allusione sarebbe a una pretesa incapacità erettile di chi non ama il genere femminile, credenza popolare molto diffusa fino a tempi abbastanza recenti e forse non ancora del tutto spenta tra il volgo. Resta però difficile spiegare come si sia prodotta la forma frocio, che è di gran lunga la più diffusa. In Brianza quando ero giovane ho sentito molto spesso floscio anziché frocio, ma si sarà trattato del risultato di una falsa etimologia popolare.


Si segnala a questo punto la presenza dei cognomi rari Frocione e Frocioni, che menziono in questa sede per motivi di conoscenza e senza alcuna intenzione di scherno verso chi li porta (un'ottantina di persone circa in tutta Italia). A quanto pare esisteva anche una variante Froscioni, che oggi risulta estinta. Per ovvi motivi, questi cognomi sono ritenuti imbarazzanti. Quale ne è l'origine?

Sono connessi a frocio o non lo sono? Si tratta forse di una mera assonanza generatasi per una sorte beffarda? Erano forse i Frocione chiamati un tempo Frisone, e i Frocioni chiamati Frisoni? Devo ammettere che al momento non ne ho idea. Se i cognomi Frocione e Frocioni derivassero davvero dalla voce frocio, potrebbe essere l'indizio di una maggior antichità della parola, la cui origine permane oscurissima. Riporto un'interessante discussione sull'argomento, che ho trovato in un forum nel corso delle mie ricerche nel Web.


Un'audace ipotesi

Non posso evitare di menzionare l'esistenza dei cognomina Fraucus e Fraucius nell'Antica Roma: ci è noto ad esempio un Lucius Fraucus. Questi cognomina erano di origine etrusca e corradicali del gentilizio maschile Fraucni, varianti Frauχni, Frauni, Farauni, femminile Fraucnei, ben documentato tra i Rasna. Esiste una voce latina fraucus, citata dal Pittau e tradotta con "campo non lavorato", e quindi incolto o sterile (con ogni probabilità una glossa o un termine tecnico). A partire da questi dati si ricostruisce in etrusco un termine *frauc, *frauχ "campo improduttivo". Il senso centrale della radice doveva essere proprio "improduttivo, sterile", donde "persona dappoco, spregevole". Di qui un aggettivo *fraucius, che evolvendo in romanzo sarebbe diventato regolarmente frocio. Formalmente sarebbe come l'aggettivo saucius "ferito" < etr. *sauci, formato dalla radice sauc-, sauχ- "ferita" presente nel teonimo Savcne-s (gen.) e nel gentilizio Saucni. Se questa fosse davvero l'origine di frocio, la parola sarebbe dunque antica, anche se non attestata nei secoli ed emersa come un fiume carsico; la varante froscio dovrebbe essersi prodotta in seguito per via di una pronuncia analoga a quella di Gigi Proietti, che parlando di un caffè in una pubblicità diceva "me piasce", oppure per l'influenza di froscio "floscio".

La catena di deduzioni mi pare impeccabile fino alla ricostruzione della forma etrusca per "campo improduttivo", e altamente probabile per quanto riguadra un aggettivo col senso di "improduttivo, sterile". Prima di affermare per certo che il romanesco frocio ne è la prosecuzione diretta, attendo che siano trovate attestazioni più antiche rispetto a quelle che possediamo.

martedì 13 ottobre 2015

ALCUNE NOTE SULL'ETIMOLOGIA DI FINOCCHIO E DI INFINOCCHIARE

Tutti conoscono la parola finocchio "omosessuale", ma sulla sua etimologia si sono detti i più grandi spropositi. Alcuni affermano ad esempio che gli omosessuali fossero chiamati "finocchi" perché quando venivano bruciati sul rogo sarebbero stati mescolati alle fascine semi di finocchio in gran quantità, allo scopo di rendere l'agonia dei malcapitati più lenta. Per altri i finocchi aggiunti al rogo servivano invece a mascherare l'odore di carne bruciata. Orbene, non so se i semi di finocchio abbiano queste proprietà, che sono incline a ritenere fantomatiche e forgiate ad hoc dall'ignoranza del popolino per giustificare la falsa etimologia.

In un sito ho letto una larvata critica a questa paretimologia: la si riteneva improbabile perché le streghe non erano chiamate "finocchie", e non erano "finocchi" nemmeno gli eretici. La combustione sul rogo era in ogni caso una delle tante forme di pena capitale applicata ai sodomiti, non qualcosa di esclusivo. Non era l'Inquisizione ad applicare queste pene, ma l'autorità civile, il Principe. Si può anche citare il fatto che i roghi di omosessuali non dovettero essere molto comuni, specalmente dopo il Basso Medioevo. Ad esempio agli inizi del XVII secolo Campanella si lamentava dell'impunità degli atti sodomitici, tanto che nella sua Città del Sole ne auspicava una punizione congravescente: all'uomo còlto per la prima volta in flagranza di sodomia si doveva appendere una scarpa al collo, a mostrare a tutti che aveva violato l'ordine della Natura (con buona pace di cani e di altri animali che si inchiappettano dalla mattina alla sera), mentre le punizioni sarebbero state aumentate ad ogni successiva caduta, fino ad arrivare alla pena capitale.


Un'altra proposta pseudoetimologica fa riferimento a una maschera popolare. Finocchio era un personaggio della Commedia dell'Arte con caratteristiche affini a quelle di Arlecchino - di cui tra l'altro non si conosce l'attribuzione di attitudini sodomitiche. Questa è una descrizione tratta da "Opere di Pierjacopo Martello: Seguito del Teatro italiano" (1723):

"Finocchio è un rigiratore, prontissimo ad attaccarsi ancora alle paglie, per non sommergersi, ed intanto comparisce egli malizioso, ed astuto, in quanto creduli troppo color si dipingono, a quali ardisce di vendere le sue frottole; e il suo Dialetto da Montagnaro di Bergamo non è dei più belli d'Italia; arroge poi l'abito bianco, e verde, e la schiacciata Beretta, e la Maschera sua da Marmotta, cose tutte, che ajutano a riderne."


Avanzo l'ipotesi che finocchio sia semplicemente da un latino *fe:miniculus, volgare *fe:mnuclus, con lo stesso cambiamento di suffisso che si riscontra in fe:niculus "finocchio" (il vegetale), diventato *fe:nuclus e quindi finocchio, con regolare mutamento di -u- breve in -o-. Così è accaduto che *fe:mnuclus si è presto confuso con *fe:nuclus, donde l'errata credenza che l'epiteto dato agli omosessuali sia derivato dal nome dell'ortaggio. L'etimologia vera di finocchio sarebbe molto simile quindi a quella del napoletano femminiello, ma con diverso suffisso e con radice contratta. In origine il termine finocchio doveva essere usato per indicare unicamente il soggetto passivo, che subisce la penetrazione anale. Solo in epoca successiva si è avuta una confusione che ha portato la parola ad indicare ogni soggetto omosessuale, anche quello attivo.

A chi farà notare che la parola finocchio "omosessuale" è abbastanza recente, dirò che spesso le parole sono come fiumi carsici che riaffiorano all'improvviso dopo secoli di silenzio. È possibile che il termine si sia formato in una zona ristretta e rurale della Toscana, passando a lungo inosservato, e che solo in seguito si sia diffuso fino a diventare comune in tutta Italia. La sua natura popolare è indubitabile. Chi non ricorda le furiose reazioni di Pacciani alle accuse di sodomia? "Finocchio io?" sbottò, "Io che ho avuto rapporti con più di 500 donne?"

Esiste un'altra parola a parer mio corradicale di finocchio: il verbo infinocchiare "imbrogliare". Anche qui non sono mancate etimologie fallaci. È diffusa l'idea di una derivazione di infinocchiare dalla supposta usanza (ovviamente priva di qualsiasi documentazione reperibile) degli osti di servire il vino cattivo con i finocchi, perché il finocchio avrebbe la proprietà - ancora una volta fantomatica - di far sembrare buono anche il vino più scadente. Non manca chi attribuisce al finocchio il potere di mascherare il sapore del cibo cattivo o non più fresco. Ad avere proprietà aromatiche sono i semi del finocchio, che trovano ad esempio impiego nella preparazione di alcuni salumi. Non è che abbiano la capacità di far rinvenire la carne rancida: il loro sapore è di anice ed è intensissimo, al punto che copre qualsiasi altro sapore. Non si imbroglia qualcuno propinandogli del cibo che sa di anice, perché l'aggiunta dell'aroma in questione è riconoscibile all'istante. 




In realtà infinocchiare è inseparabile da finocchio "omosessuale passivo": il significato d'origine è "sodomizzare" o meglio "rendere omosessuale passivo tramite intrusione anale": era diffusa l'idea che se un uomo viene penetrato nell'ano diventi automaticamente omosessuale - e penso che questo pregiudizio non sia ancora del tutto estinto. Un parallelo è il verbo inculare usato col senso di "imbrogliare", particolarmente diffuso in Lombardia. Anche buggerare ha la stessa semantica: in origine alludeva alla penetrazione anale. In gran parte della Romània, dal subire l'intrusione di un fallo nel retto all'essere ingannati il passo è breve. Se infinocchiare ha trovato spazio nei dizionari mentre finocchio nell'accezione di "effeminato" è stato a lungo ignorato, è perché i compilatori pensavano che il verbo derivasse dal nome della pianta senza avere connotazioni sessuali di sorta, e non coglievano quindi nel suo uso alcunché di sconveniente - mentre la menzione dell'omosessualità era ritenuta sconveniente. Del resto i benpensanti non hanno mai capito che cappellata "errore madornale" deriva da cappella nel senso di "glande", non dalla cappella da cui esce il Papa.

Ricostruisco così una forma verbale *infe:mnucla:re "rendere effeminato, sodomizzare", derivata da *fe:mnuclus, *fe:miniculus. Vediamo così che *fe:miniculus spiega in modo chiaro due parole: finocchio e infinocchiare. Invece le false etimologie popolari non riconoscono l'origine unica delle due parole e si inventano storielle mirabolanti che non rendono conto di nulla.

giovedì 8 ottobre 2015

I RINOGRADI, ANIMALI FANTASTICI CHE CAMMINAVANO CON IL NASO




Titolo: I rinogradi di Harald Stümpke e la zoologia fantastica
Autore: Massimo Pandolfi 
Anno: 1992
Lingua: Italiano
Genere: Zoologia
Sottogenere: Fantazoologia, fantabiologia
Editore: Franco Muzzio Editore
Collana: Scienze Naturali Testi
Data uscita: 01/1992
Pagine: 152 pagg.
Formato: Illustrato
Curatore: Massimo Pandolfi
Altri contributi: Stefano Benni, Giorgio Celli, Marco Ferrari,
     Alessandro Minelli, Aldo Zullini 
Codice ISBN: 88-7021-485-0
Codice EAN: 9788870214857
Traduttore (fantomatico): A. von Hardenberg

Tutto ebbe origine dall'impresa dello svedese Einar Pettersson-Skämtkvist, prigioniero di guerra dei Giapponesi, che nel 1941 riuscì a fuggire e raggiunse un arcipelago sconosciuto del Pacifico Meridionale, sbarcando sull'isola chiamata dagli indigeni Hiduddify (Aidadaifi). Queste isole, le Hi-iay (il cui nome è a volte trascritto Hi-yi-yi o Aiaiai), erano state completamente separate dalle più vicine masse continentali fin dal Cretaceo, e per questo avevano evoluto una fauna priva di connessioni con alcunché di noto. La scoperta sensazionale di Pettersson-Skämtkvist fu un ordine di mammmiferi fino ad allora del tutto sconosciuto: i Rinogradi (Rhinogradentia), detti anche Nasuti, così battezzati per via del naso, sviluppatissimo e fornito di tutta una serie di funzioni mai viste in altri organismi viventi. Tra questi usi non convenzionali del naso, si menzionano la deambulazione e la caccia. L'ordine dei Rinogradi fu diviso in due grandi generi, corrispondenti a due diverse linee evolutive: da una parte i Monorrini (Monorrhina), provvisti di un'unica appendice nasale, dall'altra i Polirrini (Polyrrhina), provvisti di molteplici appendici nasali. L'antenato comune, speculò lo studioso svedese, doveva essere un minuscolo mammifero affine al toporagno. 


Nell'introduzione scritta da Gerolf Steiner agli scritti di Harald Stümpke, che trattano in dettaglio questi argomenti, si legge:

"L'ordine dei Rinogradi ha particolare importanza poiché in esso compaiono principi strutturali, moduli comportamentali e tipi ecologici a noi sconosciuti non solo per i mammiferi ma per i vertebrati in genere."

Questi sono i generi dei Rinogradi:

Monorrhina:

Archirrhinos
Rhinolimacius
Emunctator
Dulcicauda
Columnifax
Rhinotaenia
Rhinosiphonia
Rhinostentor
Rhinotalpa
Enterorrhinus
Holorrhinus
Remanonasus
Phyllohoppla
Hopsorrhinus
Mercatorrhinus
Otopteryx
Orchidiopsis

Liliopsis

Polyrrhina:

Nasobema
Stella
Tyrannonasus
Eledonopsis
Hexanthus
Cephalanthus
Mammontops
Phinochilopus
Larvanasus
Rhizoidonasus
Nudirhinus

I Rinogradi non erano tra l'altro le uniche meraviglie della fauna locale: esistevano numerosi insetti endemici, vere e proprie reliquie del Paleozoico, e persino un bizzarrissimo uccello-megafono.


L'arcipelago delle Hi-iay era abitato da una piccola e pacifica popolazione umana, gli Hooakha-Hutchi. Sulle loro lingua non si sa nulla: a parte gli impenetrabili e complessi toponimi non risulta nemmeno una lista di parole del lessico di base che possa valere a spiegarne misteri ed eventuali parentele; dato l'assoluto isolamento di quelle genti, c'è da aspettarsi che parlassero una lingua del tutto priva di somiglianze con qualsiasi altra. È scritto che la popolazione aborigena fu colpita da una spaventosa epidemia di raffreddore dopo i primi contatti con Pettersson-Skämtkvist, estinguendosi in breve tempo senza lasciare tracce. Trovo a dir poco sorprendente che gli etnologi e i linguisti non abbiano potuto raccogliere alcun dato utile, né abbiano mostrato a quanto pare alcun interesse a farlo. Lapidario il commento dello stesso Steiner su questi misteriosi aborigeni: 

"Gli abitanti dell'arcipelago - scrive ancora lo zoologo Stümpke - sono ormai estinti per colpa del raffreddore, introdotto involontariamente dall'evaso svedese."

In pratica, oltre al nome dell'arcipelago e all'endoetnico delle genti aborigene ci restano quasi soltanto i nomi delle diciotto isole, scritti in una rudimentale ortografia anglosassone: 

Annoorussawubbissy 
Awkoavussa 
Hiddudify 
Koavussa 
Lowlukha 
Lownunnoia 
Mara 
Miroovilly 
Mittuddinna 
Naty 
Nawissy 
Noorubbissy 
Osovitissy 
Ownavussa 
Owsuddowsa 
Shanelukha 
Towteng-Awko
Vinsy. 

I dati sono davvero troppo scarsi per cercare di ricostruire qualcosa di sensato: evidentemente lo scopritore (e involontario sterminatore) della popolazione locale non ebbe nemmeno il tempo di raccogliere informazioni sensate prima che accadesse l'irreparabile. Si nota che diversi nomi di isole terminano in -issy o in -ussa, ma non sappiamo attribuire una funzione a questi morfi. Oltre ai toponimi di cui sopra, sono stato in gradi di reperire nel Web il nome nativo di un rinogrado, il Nasobema lyricum: honatata.

 

Per 16 anni, le Hi-iay furono visitate in gran segreto da biologi specializzati nello studio dei Rinogradi, tanto che vi venne fondato un nuovo ramo della zoologia: la Rinogradologia. Allo scopo di studiare in modo approfondito i bizzarri animaletti, furono create istituzioni scientifiche in gran numero, ovviamente in un tale clima di riservatezza che in nessuna parte del mondo il pubblico ha potuto usufruire della benché minima fuga di notizie. 

Nel 1957 una catastrofe improvvisa si abbatté sulle isole Hi-iay, spazzandole via e cancellandone ogni traccia: l'esplosione di un ordigno nucleare di inusitata potenza, esploso a centinaia di chilometri di distanza, ha provocato uno tsunami imponente. Come per coincidenza, tutti i rinogradologi del pianeta Terra si trovavano nell'arcipelago proprio in quel frangente per un congresso internazionale, perendo nel modo più misero assieme all'intero ecosistema locale. Un'unica testimonianza dell'esistenza dei Rinogradi riuscì a scampare allo spaventoso disastro: si tratta di un manoscritto dello zoologo tedesco Harald Stümpke, ex curatore del museo dell'Istituto Darwin di Hi-iay. Il prezioso testo è stato rielaborato e pubblicato dal dottor Gerolf Steiner, professore di Zoologia dell'Università di Heldelberg. In Italia è stato pubblicato col titolo "I Rinogradi di Harald Stümpke e la zoologia fantastica". Oltre allo stesso Steiner, il volume contiene interessanti interventi sulla zoologia alternativa, ad opera di personaggi di spicco del mondo accademico e della narrativa: Stefano Benni (scrittore), Giorgio Celli (professore ordinario di Tecniche di lotta biologica, Università di Bologna), Marco Ferrari (biologo e giornalista scientifico), Alessandro Minelli (professore ordinazio di Zoologia, Università di Padova), Massimo Pandolfi (professore incaricato di Ecologia, Università di Urbino), Aldo Zullini (professore ordinario di Zoologia, Università di Milano). 

Qualcuno si chiederà a questo punto come mai non gli sia mai giunta voce dei Rinogradi e delle isole Hi-iay. Ebbene, riporterò la verità in modo molto semplice: si tratta di parti della fantasia, creati proprio dal professor Gerolf Steiner da Heidelberg. L'arcipelago delle Hi-iay non è mai esistito, così come non sono mai esistiti i Nasuti, e neppure gli aborigeni Hooakha-Hutchi. Non c'è mai stato nessun maremoto provocato da un folle esperimento nucleare americano all'origine dello sprofondamento in stile atlantideo dell'arcipelago immaginario. Eppure sappiamo che alcuni membri del mondo accademico hanno abboccato e hanno creduto alla veridicità delle creazioni di Steiner. Nonostante i dettagli anatomici dei Rinogradi siano assolutamente improbabili, la cosa non ha impedito a qualcuno di prendere tutto molto sul serio. Se vogliamo, possiamo dire di trovarci di fronte a una vera e propria truffa scientifica. Poco importa che le intenzioni dello stesso Steiner fossero bonarie, goliardiche e persino edificanti, volendo egli sensibilizzare le genti sul tema del drammatico declino della biodiversità: il meme dei Rinogradi e delle isole Hi-iay è stato inoculato nell'immaginario del genere umano. 

Mettiamoci ora nei panni di un complottista. In tempi in cui si parla tanto di Rettiliani, in cui riemergono antiche teorie sulla Terra piatta, sulla Terra cava di hitleriana memoria, e addirittura sulla Terra cubica dei Monty Python, non sorprenderà se qualcuno si metterà ad elucubrare, producendo una razionalizzazione di questo tipo: "Le Hi-iay e i Rinogradi sono davvero esistiti, il Governo degli USA è davvero responsabile della loro distruzione e ha insabbiato tutto, mettendo poi in giro la voce che sia stata tutta un'invenzione". Come confutare questo meme? Sarò molto schietto: richiederebbe uno sforzo ciclopico e non convincerebbe nessuno. Mostrare che i geni coinvolti nella formazione del naso del toporagno non potrebbero mai produrre appendici nasali tanto specializzate e in alcuni casi fornite persino di scheletro e di articolazioni, trascende le mie conoscenze di genetica e richiederebbe uno studio che non ho il tempo di intraprendere. Anche se riuscissi nell'impresa, a che servirebbe? Farebbe desistere qualcuno dalla propagazione memetica? No, perché nessun lettore convinto dell'esistenza dei Rinogradi acquisirebbe le necessarie conoscenze di genetica solo allo scopo di leggere una confutazione. Allora è meglio lasciar perdere, tanto si tratta di una masturbazione mentale abbastanza innocua. 

Intanto vengo a scoprire la possibile esistenza di rinogradologi annidati nell'Unità di Analisi e Gestione delle Risorse Ambientali dell'Università dell'Insubria, come parrebbero mostrare i seguenti documenti:


giovedì 1 ottobre 2015

ALCUNE RIFLESSIONI SULLA NATURA DELL'INFINITO

Riporto in questa sede un breve estratto di un interessantissimo articolo, Il destino ultimo dell'universo, pubblicato da Marco Marchetti sul sito del Planetario di Ravenna, planet.racine.ra.it

"Una definizione dell'infinito afferma che l'infinito è sempre più grande del più grande numero che noi riusciamo ad immaginare. Secondo lo scrivente questa definizione è un po' fuorviante perché l'infinito non è semplicemente qualcosa di molto grande, immensamente grande o talmente grande da sfidare qualsiasi immaginazione: l'infinito è qualcosa di concettualmente diverso."

"Immaginiamo un tempo infinito; qualunque evento abbia una sia pur minima probabilità di avvenire prima o poi avverrà. Per esempio, avendo a disposizione un tempo infinito, una scimmia che batta a casaccio i tasti di una tastiera di un personal computer finirà con lo scrivere tutte le opere di Manzoni; inoltre ciò non avverrà una sola volta bensì infinite volte." 

"Immaginiamo adesso un universo spazialmente infinito. La probabilità che esista un'altra Terra con una copia di noi stessi è incredibilmente bassa ma non nulla. Quindi, in un universo di estensione infinita, esiste sicuramente una copia della Terra con una copia di tutti noi che, in questo momento, stanno facendo esattamente ciò che stiamo facendo noi. Ma di queste copie non ne esisterà una sola bensì infinite. Ma non è finita qui perché, continuando il ragionamento sulle probabilità, dovranno esistere sì infinite copie della Terra con infinite copie di noi stessi che stanno facendo esattamente le stesse cose che stiamo facendo noi ma anche inifinite copie della Terra con infinite copie di noi stessi che stanno facendo tutto ciò che avremmo potuto o voluto fare e non abbiamo mai fatto."

"C'è davvero da perderci la testa. Purtroppo c'è chi l'ha persa (sic) sul serio poiché il primo grande studioso dell'infinito, il matematico tedesco George Cantor (Georg Ferdinand Ludwig Philipp Cantor, 1845 - 1918), ha chiuso i suoi giorni in una clinica psichiatrica." 

Sembra tutto perfetto, ma in realtà non lo è. Analizziamo dunque la questione.

1) Le battiture della scimmia non sono casuali.

La conformazione anatomica della mano della scimmia, la natura degli impulsi elettrici nella corteccia cerebrale che danno inizio ai movimenti dell'animale, così come la distribuzione dei tasti sulla tastiera con lo schema usuale "qwerty", fanno sì che non possa sussistere una distribuzione di lettere compatibile con la fonotattica di una qualsiasi lingua del globo terracqueo. La stringa "esfwefefwefgefewfew" è un caratteristico esempio di produzione quando a premere i tasti è un umano, secondo uno schema apparentemente casuale, ma in realtà indotto dalla natura degli impulsi motori, della mano e della tastiera. I movimenti della mano utili a produrre testi sensati o comunque leggibili sono talmente complessi che le probabilità di applicazione in caso di battitura casuale sono nulle. In altre parole, per produrre testi come "afaweffaedfgadsfaw" e per produrre testi come "la luna sorge all'olimon e i palmipedon neppur" si applicano schemi drasticamente diversi e incompatibili. Se prendiamo un qualsiasi intervallo di tempo t contenuto nell'eternità numerabile, e dividiamo ognuno di questi intervalli di tempo t in un numero n di sottointervalli ti (con 1 ≤ i ≤ n) contenenti, mettiamo, cento battute ciascuno, le probabilità di ottenere un testo sensato in un numero sufficiente di questi sottointervalli t sono nulle. Se anche ammettessimo che una parola breve come "con", "naso" possa con bassissima probabilità uscire, le probabilità che due o più sottointervalli ti contigui possano contenere un testo sensato in una qualsiasi lingua formato a partire da quelle parole decrescono in modo drastico fino ad azzerarsi. La ripetizione di simili risultati anche per l'intera eternità non porterà così ad alcuna sequenza razionale. Non soltanto non ne usciranno tutte le opere del Manzoni, ma non ne uscirà nemmeno l'imprecazione di un guappo. 

2) Le battiture realmente casuali danno risultati incompatibili con la struttura di una lingua sensata. 

Ammettiamo adesso che si riesca a far sì che le battiture della scimmia siano davvero casuali. Ebbene, le cose non cambierebbero poi tanto. Ogni battuta sarebbe infatti priva di correlazione con la precedente e con la seguente, così le probabilità che ne possa uscire un lumgo testo anche solo di apparenza articolata - per non dire sensato - è non soltanto prossima allo zero, ma esattamente nulla. La causa è la sproporzione tra consonanti e vocali, unita all'assenza di un legame tra le successive occorrenze delle lettere: se anche una serie di estrazioni desse come risultato qualche parola sensata in qualche lingua, questa modalità di formazione delle parole non potrebbe essere mantenuta abbastanza a lungo per produrre una frase, figuriamoci l'opera di un qualsiasi autore. La probabilità di un testo sensato crollerebbe drasticamente al crescere delle parole sensate contigue, fino a diventare zero.

L'inganno della mente, come mostrato tra gli altri anche da Steven Pinker, porta gli esseri umani a ritenere casuali sequenze che hanno una causa precisa, e per contro a ritenere dotate di causa le sequenze casuali. Paradigmatico è il caso delle larve luminescenti che vivono sulle pareti di una grotta o la distribuzione delle stelle nel cielo. Una sequenza casuale di lanci di una moneta, in cui "testa" ricorre quattrodici volte e "croce" soltanto due è ritenuta truccata, mentre una sequenza composta da una o due occorrenze "testa" e di "croce" che si alternano con regolarità, causata da monete truccate, è ritenuta casuale. 

Nel famosissimo e meritorio libro La Storia Infinita di Michael Ende, è descritta la Città degli Imperatori, un luogo dove umani svuotati di ogni volontà lanciano dadi sulle cui facce ci sono lettere anziché punti, sotto la direzione di una terribile scimmia che non li fa smettere mai, pretendendo di ottenere, in un tempo infinito, tutte le storie concepibili da mente umana. Così argomenta la Scimmia (strano caso che ci sia sempre un primate coinvolto nei ragionamenti sull'Infinito), che dopo migliaia di anni il lancio continuo dei dati porta alla composizione di qualche parola articolata. Non cose dotate di grande senso, ma perlomeno comprensibili: parole come SALAMEDIPERE, e via discorrendo. Si può capire che la Scimmia è una grande ingannatrice.

Teorema della Città degli Imperatori
   a) Enunciato. Se si associa l'estrazione di una lettera dell'alfabeto a un evento casuale, come il lancio di una serie di dadi sulle cui facce sono incisi caratteri, gli accostamenti delle lettere prodotte da una serie di eventi danno origine a sequenze che riflettono la preponderanza delle consonanti rispetto alle vocali e non la struttura fonotattica di una qualsiasi lingua umana.  Non soltanto: stando alla scimmia della Città degli Imperatori, dovremmo vedere, in un tempo successivamente lungo, tutti i testi concepibili in qualsiasi lingua. Quindi anche in lingue le cui parole hanno una struttura semplicissima ma fortemente peculiare, come il giapponese antico e il protobasco. Peccato che i vincoli fonotattici di tali lingue siano talmente rigidi da azzerare le probabilità. 
   b) Dimostrazione. Il risultato di un'estrazione è scorrelato da quello del lancio successivo, e questo impedisce la formazione di schemi nelle sequenze generate. Lo stesso principio vale anche nel gioco d'azzardo: non esiste alcuna correlazione tra due lanci di dadi. In altre parole il detto "più giochi più vinci" è una deplorevole baggianata. Naturalmente, uno può sempre cercare un testo in una sequenza sufficientemente lunga di lettere estratte. Per esempio, se voglio trovare la parola EKUPETARIS, che ricorre sulla tomba di un principe dei Veneti di epoca preromana, non dovrò fare altro che prendere la prima E in cui mi imbatto, procedere scartando tutte le lettere seguenti finché non trovo una K, reiterare la procedura cercando una U, e così via. Questo però non è esattamente ciò che la scimmia della Città degli Imperatori intende: sono io ad avere già in mente un testo e a cercarlo, non l'azione di estrazione dei dadi a produrlo. Allora posso fare lo stesso prendendo una copia della Bibbia, fissando una raccontino pruriginoso su Moana che pratica la fellatio all'intero Collegio Cardinalizio e procedere scartando lettere fino a ritagliarla.

3) La storia di un pianeta non è un semplice giochetto con la macchina da scrivere o con i dadi. 

Si dimostra che la formazione e l'evoluzione di un pianeta, e la sua storia nel corso delle epoche, non sono il semplice prodotto di operazioni elementari come la battitura di un testo o l'estrazione di dadi con lettere. è il prodotto dell'azione di un numero immenso di particelle atomiche e subatomiche e delle loro distribuzioni probabilistiche. La "spaventosa azione a distanza", che terrorizzava Einstein, si è dimostrata un dato di fatto scientificamente provato. Pensare che ogni singolo organismo possa duplicarsi in una storia parallela, con gli stessi movimenti, identici, che defechi allo stesso identico modo stronzi identici nel corso di milioni di anni, per arrivare a una storia umana identica in cui ogni atto sessuale è avvenuto allo stesso identico modo, è una palese assurdità. Si tratta di eventi di una tale impressionante complessità che la loro ripetizione ha probabilità nulla. Così non si daranno mai due fiamme identiche, due vortici identici, due genomi identici in persone che non siano cloni o gemelli omozigoti. L'autore del testo sull'Infinito è a quanto sembra un meccanico classico che non è in grado di comprendere il concetto di Caos.

venerdì 25 settembre 2015


LO SPECCHIO E LA PISTOLA

Regia e Sceneggiatura: Alberto Rizzi
Montaggio: Luigi Recanatese
Regista: Alberto Rizzi
Produttori: Seautòs Produzioni 
Sceneggiatore: Alberto Rizzi 
Fornitore: Alberto Rizzi
Interprete: Riccardo Braggion

Anno: 2009
Durata: circa 4 min.
Tratto dall'omonimo racconto di Alex Tonelli.


Trama e recensione: La spettrale narrazione post mortem di un suicida quantistico, che come l'ombra di una distribuzione probabilistica aleggia nella stanza e rivede continuamente quel colpo di pistola che perfora il cranio del suo corpo che fu - atto che ha reso possibile la transizione a qualcosa che non è cessazione dell'essere, ma non è neppure vita. A parer mio non si tratta una forma di rinascita o di una seconda possibilità, come potrebbe credere chi è legato a un'ottica materialistica, ma di qualcosa di gran lunga peggiore della pura e semplice scomparsa nel Nulla. Immaginate lo sfarfallio di un segnale audio disturbato da un fruscio di fondo, che riverbera senza fine parvenze di pensiero...    

Punti oscuri: L'autore del racconto è un carissimo amico, che colgo l'occasione di salutare. Ho assistito alla presentazione del corto a Stienta, nel 2010. Sono rimasto molto sorpreso quando ho appreso che secondo altri il racconto da cui è stato tratto sarebbe invece "Creature del buio e del silenzio" di Mauro Ferrari. Non sono mai riuscito ad appurare a cosa si debba questa singolare confusione. 

Una considerazione: La cosa che più mi ha innervosito quando ho visto il corto la prima volta è stata di certo quella bottiglia di whisky non finita.