sabato 23 gennaio 2016

IL MITO MEMETICO DELLE CENTINAIA DI PAROLE ESCHIMESI PER INDICARE LA NEVE

Chi non ha sentito parlare del gran numero di parole usate dagli Inuit, noti anche come Eschimesi, per indicare la neve? La cosa non sorprende nessuno: del resto è del tutto naturale pensare che un popolo costretto a vivere nelle desolazioni artiche abbia un lessico specializzato per descrivere l'elemento più comune del proprio ambiente. Tuttavia si tratta di un grande inganno. L'antropologa americana Laura Martin nel 1986 ha fatto una ricerca per cercare di tracciare l'origine e la diffusione del mito. Ha scoperto che ha le sue radici in un lavoro etnologico degli inizi del XX secolo.

Le parole citate da Franz Boas nel 1911 sono le seguenti:

aput = neve al suolo
qana = neve che cade
piqsirpoq = neve che scivola
qumusuq = frana di neve

Esse sono genuine, anche se in realtà le radici originali del lessico di base sono soltanto le prime due. Per il proto-Eskimo gli studiosi hanno ricostruito tre radici: *qaniɣ- "neve che cade", *aniɣu- "neve caduta" e *apun- "neve al suolo". Parole derivate da queste radici si trovano in tutte le lingue degli Inuit: soltanto in quella della Groenlandia mancano discendenti di *aniɣu-.

Cinque parole sono riportate da Benjamin Lee Whorf (1940), senza però citare la fonte. Perniciosa è la mancanza di distinzione tra parole, radici, composti, termini indipendenti. Infatti le lingue degli Inuit sono polisintetiche, ossia concentrano i concetti di un'intera frase in una singola e lunga parola. Questo non è concepibile per gli anglosassoni, che tendono inoltre a proiettare le loro categorie su tutti gli altri popoli del pianeta, credendo stolidamente che tutte le lingue debbano per forza funzionare come la loro. È così accaduto che una stessa radice con un diverso suffisso fosse interpretata dagli studiosi come una parola del tutto dissimile da quella di partenza. Questa è una cronistoria sintetica degli errori e dei fraintendimenti:

1) Edward Hall, 1959: menziona Boas, ma i dati riportati sono erronei. I termini appaiono tutti come "sostantivi".
2) Roger Brown, 1959: fa riferimenti vaghi a "parole", mostrando totale mancanza di conoscenza anche rudimentale della grammatica della lingua degli Inuit.
3) Carol Eastman, 1975: Influente documento sul linguaggio e sulla cultura basato su una cattiva elaborazione di Brown. Solo 6 righe dopo aver affermato che gli Eschimesi possiedono 3 parole, quindi assicura che essi usano "molte parole per indicare neve".
4) Enciclopedia delle Trivialità, 1984: 9 termini con una spiegazione: "Gli Eschimesi possono solo parlare soltanto di un ambiente molto limitato, per cui devono inventare un mucchio di parole per riempire le loro conversazioni".
5) New York Times, 9 febbraio 1984, editoriale: 100 parole.
6) Programma di WEWS Cleveland, 1984: 200 parole.
7) Si è ormai diffuso il meme, assieme ad altri miti egualmente infondati: da quattro che erano, le parole eschimesi per "neve" arrivano a quattrocento. 

Alle conclusioni della Martin giunge anche Geoff Pullum, che pochi anni dopo ha pubblicato il libro The Great Eskimo Vocabulary Hoax and Other Irreverent Essays on the Study of Language (1991).

La leggenda metropolitana ha dato origine a una vera e propria tradizione, che vive di vita propria. Il tutto è stato causato non soltanto dall'ignoranza delle masse e dalla loro sete di esotismo, ma anche da un mondo accademico essenzialmente frivolo.  

Una volta che il contagio memetico è diventato globale, ecco che compare un elenco parodistico di "parole eschimesi" per "neve" riportate da Phil James e presentato come satira. Ne riporto un breve estratto, rimandando alla fonte originale per la lista completa:


Ho aggiunto dei punti esclamativi per contrassegnare le trovate più assurde e guittesche. 

tlapa "powder snow"
tlacringit "snow that is crusted on the surface"
kayi "drifting snow"
tlapat "still snow"
klin "remembered snow" (!)
naklin "forgotten snow" (!)
tlamo "snow that falls in large wet flakes"
tlatim "snow that falls in small flakes"
tlaslo "snow that falls slowly"
tlapinti "snow that falls quickly"
kripya "snow that has melted and refrozen"
tliyel "snow that has been marked by wolves"
tliyelin "snoW that has been marked by Eskimos"
blotla "blowing snow" (!)
pactla "snow that has been packed down" (!)
hirula "snow in beards"
wa-ter "melted snow" (!!)
tlayinq "snow mixed with mud"
quinaya "snow mixed with Husky shit"
quinyaya "snow mixed with the shit of a lead dog"
slimtla "snow that is crusted on top but soft undereath"
kriplyana "snow that looks blue in the early morning"
puntla "a moutful of snow because you fibbed" (!)
allatla "baked snow" (!!)
fritla "fried snow" (!!)
gristla "deep fried snow" (!!)
 

Si tratta di colossali stronzate goliardiche la cui propagazione andrebbe contrastata con ogni mezzo, dato che spesso i lettori che si imbattono in simili pagine non ne comprendono la natura interamente fittizia. Queste false informazioni, che nulla hanno in comune con gli Inuit e con le loro lingue, alimentano ulteriormente il contagio memetico: non è difficile immaginare che finiranno col diffondersi voci su quattromila parole per indicare la neve. 



domenica 17 gennaio 2016

Lyle Campbell - American Indian Languages.
The Historical Linguistics of Native America.
Oxford University Press, New York, 1997

Capitolo 7. Relazioni genetiche lontane: I metodi

Eliminazione dei prestiti

La diffusione è una ben nota sorgente di somiglianze non genetiche tra le lingue, e può rendere complicata la determinazione di parentele remote. Molti studiosi, che sono ben consapevoli di questo problema, hanno ciononostante errato non identificando né eliminando i prestiti (vedi Campbell e Kaufman 1980, 1983; Campbell 1988b). Menziono pochi casi di prestiti non identificati (che sfortunatamente prevalgono in molte proposte di parentele genetiche remote). Greenberg (1987:108) ha citato tra le sue "etimologie Chibcha-Paezan" forme da quattro lingue in sostegno della sua proposta etimologia della parola 'ascia', includendo il Cuitlateco navaxo 'coltello' (che è un prestito dallo Spagnolo navajo 'coltello, rasoio') e Tunebo baxi-ta 'machete' (che è anch'esso un prestito, dallo Spagnolo machete).20 Così, metà delle forme citate in sostegno di questa cosiddetta etimologia sono prestiti non riconosciuti. Le connessioni proposte da Swadesh (1966) tra Tarasco e Maya includono diversi prestiti: Tarasco tu-pu / Maya tuch 'ombelico' (la forma Maya è un prestito dal Nahuatl *toš 'ombelico'(i) - presa a prestito allo stesso modo da diverse lingue dell'area); Tarasco šan-tu 'fare mattoni' / Maya šan 'mattone' (entrambi sono prestiti dalla forma Nahuatl -šan 'mattone'(ii)).
Nel raggruppare le lingue Tacanan, Paonan, Mosetén, Chono e Fueghine, Key (1978), non è riuscito ad eliminare numerosi prestiti. Per esempio, Mapudungu čallwa 'pesce' è dal Quechua čalywa; la maggior parte delle forme per 'gallina' (Mapudungu ačawaly; Mosetén ataua, atavua; Chama waipa, waɁipa; Reyesano walípa; Tacana warípa) sono dal Quechua atawalypa, walypa 'pollo'(iii), che fu largamente diffuso dopo l'arrivo degli Spagnoli, attraverso regioni finitime del Sud America (vedi Carpenter 1985); e le forme per 'maiale' (Mapudungu kuchi, Cavineña koči, Chama kweči, Tacana koči) sono tutte dallo Spagnolo coche 'maiale'(iv). Simili esempi potrebbero essere moltiplicati, ma questi sono sufficienti a dimostrare che i prestiti non rilevati sono davvero un serio problema in molte proposte di parentela genetica lontana.
È stato spesso suggerito, come visto nell'afermazione di Swadesh, che "il fattore prestito può essere ridotto a una percentuale molto piccola di parole non culturali" (1954b:313, vedi anche Ruhlen 1994:42) - ossia, se non si può determinare se una particolare parola è o meno un prestito, si deve attribuire un maggior credito al lessico di base, alle forme non culturali, perché esse hanno meno probabilità di essere prestiti.21 Così, per esempio, Jacobsen (1993) raccomanda di separare dal lavoro di Sapir (1915c) novantotto comparazioni lessicali, poiché gli oggetti tangibili sono potenzialmente soggetti a prestito": 'gru', 'freccia[asta]/arpione', 'streghe/erba', 'piuma'; 'piatto/mettere in piatto', 'suocera', 'abete/abete rosso/cedro', e 'oca/anatra selvatica'. Questa è una buona pratica, ma - come menzionato in precedenza - anche le parole del lessico di base e non culturali possono talvolta essere prese a prestito. Il Finnico ha preso a prestito dai suoi vicini Baltici e Germanici vari termini di parentela stretta e di parti del corpo, incluse 'madre',
'figlia', 'sorella', 'dente', 'ombelico', 'collo', 'coscia' e 'pelliccia' (Anttila 1989:155). Simili esempi possono essere citati per le lingue americane native: Aleuto braata-X 'fratello' dal Russo brat (Bergsland 1986:44) e Pipil manu 'pratello' dallo Spagnolo hermano (Campbell 1985b). Pierce ha mostrato che circa il 15% delle 3.000 parole più comuni in Turco e in Persiano sono di origine araba,22 notando che "se Arabo, Persiano e Turco fossero separati adesso e studiati per 3.000 anni da linguisti senza documenti storici, si potrebbero facilmente trovare liste di parenti, si potrebbero stabilire corrispondenze di suoni, e sarebbero postulate erronee parentele genetiche" (1965:31). Egli considera tutto ciò istruttivo sul modo in cui si dovrebbero considerare alcune proposte che mettono in relazione gruppi di lingue native Americane:

   Suggerirei che se l'Athapaskan primitivo, il Tlinglit e l'Haida avessero avuto un periodo di stretto contatto prima dell'espansione del gruppo Athapaskan, e noi conoscessimo poco o nulla delle grammatiche dei tre gruppi, sarebbe altamente probabile che Sapir avrebbe dato il quadro che ha dato come risultato del prestito. 

    Considerando questa evidenza, tutte le classificazioni più ampie di Sapir e persino alcune delle connessioni tra famiglie necessitano di essere riesaminate per essere sicuri che le connessioni non siano state stabilite sulla base di un numero di parenti che potrebbero facilmente essere stati prestiti. Se essi sono stati postulati sulla base di dati insufficienti, allora si dovrebbe fare molto lavoro prima di poter assumere con sicurezza che queste conclusioni siano corrette. (Pierce 1965:31, 33)  

L'Inglese ha preso a prestito dal Francese o dal Latino stomach, face, vein, artery e intestine; ancora nel regno dei concetti di base, ma non necessariamente del vocabolario di base, sono i prestiti inglesi animal, anus, arrive, beautiful, defecate, excrement, female, finish, flower, forest, fruit, grand- [in grandfather, grandmother], large, male, mosquito, mountain, navel(v), pain, penis, person, river, round, saliva, testicle, trunk (tronco di albero), urine, vagina e vein, per menzionarne qualcuno.23

(Traduzione del sottoscritto, 2016) 

Note dell'autore:

20 Si noti che in Tunebo [x] alterna liberamente con [š], che le consonanti nasali non ricorrono prima delle vocali orali, e che le vocali della forma Tunebo sono i sostituti prevedibili dello Spagnolo e
21 Suarez ha ragione nel dire che "il pericolo di somiglianza casuale nei prestiti è altrettanto grande che nelle voci imparentate" (1985:574). È davvero una pratica tipica quella di sollevare ogni possibile ammonimento nel valutare potenziali parenti, trattando per contro i prestiti in modo meno rigoroso, come se fossero in grado di spiegarsi da sé. In ultima istanza, si dovrebbe impiegare la stessa attenzione nel determinare i prestiti e nell'accertare i parenti. Tuttavia, quando la forma in discussione è propagandata come potenziale prova per una relazione genetica lontana non ancora dimostrata, si dovrebbe prendere seriamente in considerazione la reale possibilità del prestito come spiegazione. Nel caso in cui sono analizzate le rivendicazioni su un prestito, potrebbe anche valere l'inverso—ossia la possibilità che forme simili siano antichi parenti dovrebbe essere investigata con cura come potenziale controprova della rivendicazione sul prestito.
22 Espresso con un diverso calcolo: "In Turco almeno 20 su 150 delle radici più frequentemente usate dai contadini analfabeti sono condivise con alcune lingue del tutto prive di parentela [l'Arabo]" (Pierce 1965:27).
23 I diversi casi di prestiti non rilevati che complicano le ipotesi di parentela genetica remota presentati in questa sezione (molti altri potrebbero essere presentati) sono sufficienti a dimostrare l'inaccuratezza dell'affermazione di Ruhlen secondo cui "i prestiti possono in quasi tutti i casi essere scoperti, e quindi non costituiscono un serio impedimento" (1994b:43). Egli crede che "solo certi tipi di parole sono particolarmente suscettibili di essere prese a prestito" e che "il prestito avvenga solo in certe speciali circostanze, quasi sempre quando due le lingue in questione sono in contatto intimo e quotidiano," e che questi due fattori "rendano il prestito soltanto un modesto impedimento" (1994b:42). Certo, quando non si sa se le lingue confrontate siano realmente imparentate, non si sa nemmeno se esse un tempo hanno preso a prestito parole l'una dall'altra—ossia, se esse sono state nelle "speciali circostanze" che producono il prestito. Inoltre, come discusso in questa sezione, mentre certi termini del vocabolario sono più passibili di altri di essre presi a prestito, di fatto ci sono chiari casi che dimostrano che virtualmente ogni tipo di lessico può essere prestato, inclusi i pronomi, i nomi delle parti del corpo, e simili.

Note del traduttore: 

(i) Dalla mia conoscenza della lingua Nahuatl classica, che ho appreso nei primi anni di università, non risulta una simile radice, l'unica parola nota per esprimere il concetto di 'ombelico' essendo xictli, con la variante xīctli (nell'ortografia classica x = š). Nel mio materiale di studio non ho trovato alcun composto contenente una radice *tox- con questo significato. Forse si tratta di una radice residuale presente in alcuni composti fossilizzati. In ogni caso sarebbe utile sapere da quale fonte Campbell ha tratto questa agnizione. 
(ii) Nahuatl xāmitl 'mattone', allo stato possessivo -xān, es. noxān 'il mio mattone'. Si noti che Campbell, così come gli autori da lui criticati, riporta le forme di svariate lingue in modo estremamente approssimativo, spesso tralasciando tratti fonetici importanti come la lunghezza vocalica.
(iii) Il termine, che è un nome del gallo, si trova come antroponimo dell'ultimo Inca, Atahuallpa. Prima del contatto con gli Spagnoli indicava un gallinaceo selvatico.
(iv) Un termine di sostrato molto popolare, cfr. francese cochon. I romanisti lo considerano un "ipocoristico", stratagemma da essi spesso usato per negare termini preromani la cui ricostruzione si presenta difficile.
(v) Un marchiano errore del Campbell: il termine navel 'ombelico' ha infatti chiara etimologia germanica e non è un prestito. Potremmo tuttavia avere a che fare con un semplice refuso: navel al posto di naval 'navale', di chiara origine latina. L'articolo resta tuttavia ben valido nella sua sostanza: il discorso, che reputo della massima importanza, non è certo inficiato dalla presenza di un refuso e di qualche dato di dubbia origine.

Questo è il link da cui si può scaricare l'opera in formato pdf:

sabato 16 gennaio 2016


NICHILISMO GNOSEOLOGICO 

Ormai è appurato che il Web diffonde la demenza: ne ha fatto una malattia altamente contagiosa, dando origine a una spaventosa pandemia. Ha ridotto il cervello di centinaia di milioni di persone a una densa zuppa prionica. A causa di Zuckerberg la gente ha smesso di credere all'esistenza di dati oggettivi. Contestano ogni cosa, anche il numero di lati di un triangolo o il fetore dello sterco: uno diventa dogmatico e insopportabile anche se afferma realtà di per sé evidenti, come il fatto che se si beve un bicchiere di acido cianidrico si muore. La gente fa dell’ignoranza un fatto positivo, cerca di imporre con ogni mezzo i propri giudizi dissennati, al punto di arrivare a negare la matematica, la fisica e la stessa grammatica della lingua latina. Per colmo del paradosso questo accade proprio quando il Web rende possibile reperire in poco tempo qualsiasi informazione. Questa è l’ironia della sorte. Il Diavolo ride di tutto ciò.

CORSO DI LATINO
PER METALLARI

Se l'abbacinante luce dello schermo non mi privasse delle forze, riprenderei un'idea che mi era venuta qualche anno fa: organizzare un corso di latino per metallari e simili. Una cosa senza troppe pretese, non troppo approfondita, con una semplice pronuncia scolastica e senza complessi discorsi sull’origine della lingua e sui suoi cambiamenti nei secoli. Lo scopo è infatti uno solo: porre fine a uno scempio che dura ormai da troppo tempo. Mi sono stancato di vedere frasi in uno pseudolatino con parole fornite di desinenze casuali. Si deve smettere di credere che le declinazioni siano un'opinione!

mercoledì 13 gennaio 2016

WEIRD 

Per ragioni che nessuno, nell’ambito della comunità scientifica, seppe mai chiarire, nel mese di febbraio del 2016 si verificò un fenomeno inaudito: la merda prese vita.
Dalle condotte fognarie iniziarono ad uscire delle figure antropomorfe composte interamente di feci. Il loro numero crebbe giorno dopo giorno: nel giro di un mese, le strade delle grandi città erano percorse da torme di manichini escrementizi. La gente cacava, come aveva sempre fatto, solo che questa volta gli stronzi, una volta pervenuti in fogna, si aggregavano, compattandosi, sino a formare corpi dotati di gambe e braccia. Le autorità municipali corsero ai ripari sigillando i tombini nelle vie del centro, ma fu tutto inutile: gli organismi fecali trovarono altre uscite.
Quando fui chiamato dal Questore a riferire sulla situazione, questa era ormai ampiamente fuori controllo: gli stronzi avevano preso possesso della città.
“Avete effettuato un censimento della popolazione di stronzi?”
“Non servirebbe: ogni giorno ne spuntano di nuovi.”
“Sarebbe utile, tuttavia, sapere quanti sono, ad oggi, gli stronzi presenti in città. L’avevo pregata di provvedere.”
“Dottore, non se ne viene a capo: sono tutti uguali, non hanno una fisionomia ben definita. Mica possiamo prendergli le impronte digitali.”
“Non faccia dell’ironia che non è aria.”
L’aria era in effetti satura di miasmi, vista la quantità di stronzi in circolazione.
“Ne avete interrogato qualcuno?”
“Ci abbiamo provato: sono muti come pesci.”
“Ma camminano e spargono lezzi pestilenziali. Le autorità sanitarie sono preoccupate. Il ministero della Salute ha diramato un’ordinanza.”
“Ne abbiamo arrestati un po’, ma gli agenti vomitano, i cellulari puzzano come latrine.”
Fui congedato senza troppi complimenti.
In piazza c’era un assembramento di stronzi tale da togliere il fiato. Gente in giro se ne vedeva pochissima, in compenso gli stronzi erano ovunque. Scantonai immediatamente, imboccando una viuzza poco frequentata. Anche lì, tuttavia, incrociai degli stronzi, uno dei quali per poco non mi urtò. Da un portone uscì una coppia di stronzi a braccetto. Era la prima volta che vedevo una cosa del genere e ne fui alquanto sorpreso.
Arrivato a casa, corsi al cesso a cacare. Prima di tirare lo sciacquone, osservai con timore il prodotto dei miei intestini: sentivo che presto o tardi l’avrei rivisto sulla pubblica via. 

Pietro Ferrari, gennaio 2016

domenica 10 gennaio 2016


HIMMELSKIBET
(LA NAVE DEL CIELO)
La prima attestazione di memi New Age
in Occidente

Anno: 1918
Paese: Danimarca
Titolo danese: Himmelskibet (La Nave del Cielo)
Titolo inglese: A Trip to Mars
Aka: L'Astronave; Viaggio verso Marte
Regia: Holger-Madsen
Fotografia: Friederik Fuglsang, Louis Larsen
Scenografia: Carlo Jacobsen
Direttore artistico: Axel Bruun
Sceneggiatura:
Sophus Micha
ëlis
Adattato da: Himmelskibet, romanzo di Ole Olsen
Genere: Fantascienza
Produzione: Nordisk Film
Lunghezza: 1993 metri (6 bobine)
Formato: Bianco e nero, muto
Sottotitoli: danese e inglese
Cast:
  Gunnar Tolnæs (Avanti Planetaros)
  Zanny Petersen (Corona)
  Nicolai Neiiendam (Professor Planetaros)
  Alf Blütecher (Dottor Krafft)
  Svend Kornbeck (David Dane, l'Americano)
  Philip Bech (Il Grande Saggio marziano)
  Lilly Jacobson (Marya, la Principessa di Marte)
  Frederik Jacobsen (Professor Dubius)
  Birger von Cotta-Schønberg (compagno di
      viaggio orientale)
  Alfred Osmund (sacerdote marziano)
  Nils Asther (cittadino marziano ferito)

Trama e recensione (da mymovies.it):
Il capitano di marina Avanti Planetaros viene spinto dal padre astronomo a viaggiare nello spazio interstellare per raggiungere nuovi mondi. Diventa così aviatore ed è, insieme col giovane scienziato dottor Krafft, tra coloro che premono per costruire una navicella spaziale. Nonostante l’opposizione del beffardo professor Dubius, Planetaros mette insieme un equipaggio di intrepidi e parte. Durante il lungo viaggio, l’equipaggio diviene inquieto e per poco si sfiora l’ammutinamento. Alla fine raggiungono Marte e scoprono che il pianeta è abitato da un popolo che ha raggiunto un più alto stadio di sviluppo, senza malattia, dolore, violenza, cupidigia, pulsioni sessuali né paura di morire. Avanti si innamora di Marya, figlia del principe della Saggezza, capo dei marziani. Marya, che lo ricambia, decide di partire con lui per portare la saggezza dei marziani agli arretrati terrestri.Quest’ambiziosa produzione su un viaggio nello spazio è, in un certo senso, una pietra miliare nel genere fantascientifico. Il fascino dell’epoca per l’aviazione è evidente: la navicella spaziale ha ali e propulsore e i membri dell’equipaggio indossano divise da aviatore in pelle. Anche se i marziani, simili a druidi, possono sembrare involontariamente comici, dal punto di vista della storia culturale le idee del film su un mondo utopico sono affascinanti. Ole Olsen, menzionato nei credits come coautore della sceneggiatura, sperava, insieme col noto scrittore Sophus Michaëlis, che il film avrebbe parlato ai cuori degli spettatori ispirando loro “sentimenti ideali”, specie il pacifismo. Ma i critici danesi dell’epoca derisero la seriosa stupidità del film ed indicarono senza esitare i suoi molti difetti rispetto a The Birth of a Nation, proiettato per la prima volta a Copenaghen un mese dopo Himmelskibet.
(Casper Tyberg)

N.B.
Il film non va confuso con l'omonimo Himmelskibet (2014), che parla di tutt'altro.

Recensione e considerazioni antropologiche: 
Questo film è stato proiettato al Cineforum Fantafilm nel settembre del 2009: proprio in quell'occasione l'ho visto per la prima volta. Quello che mi ha sorpreso è stata una cosa che nessuno sembra finora aver notato. La popolazione di Marte descritta nel film non era formata da semplici pacifisti: erano veri e propri Hippies ante litteram. E non basta. Vi erano già definiti, uno per uno, tutti i temi di quella pandemia memetica che decenni più tardi sarebbe stata chiamata New Age. In altre parole, non mi convince affatto la vulgata corrente, che nella sua banalità vuole i Marziani di Himmelskibet una semplice reazione agli orrori della Grande Guerra. Si tratta piuttosto della prima documentazione in assoluto di un movimento di cui all'epoca nessuno poteva ancora avere sentore. Un seme che si sarebbe sviluppato appieno soltanto in seguito, generando un albero mostruoso. Si deve notare che putacaso la New Age non ha origini chiare e ben documentate: ho letto diverse e contrastanti versioni a proposito della sua formazione. C'è chi la vuole nata nella California dei tardi anni '60.
Solo per fare un esempio, questo è quanto riporta Wikipedia (10/01/2016): 

"Il termine "New Age" (letteralmente "nuova era") iniziò a essere diffuso dai mass media statunitensi nei tardi anni sessanta, per descrivere le forme di controcultura spirituale interessate a pratiche e concetti come la meditazione, il channeling, la reincarnazione, la cristalloterapia, la medicina olistica, l'ambientalismo e numerosi "misteri" di difficile interpretazione come gli UFO o i cerchi nel grano, o anche i bambini indaco.
Questa corrente di pensiero esiste certamente già dagli anni settanta, e probabilmente deriva almeno in parte dalla controcultura degli anni sessanta. Le generazioni precedenti erano già arrivate a interessarsi ad alcuni (ma non a tutti) degli elementi principali del "sistema di sistemi di credenze" (o paradigma) della New Age, per esempio a pratiche come lo spiritualismo, la teosofia, l'antroposofia o la medicina alternativa." 


Altri parlano di gruppi operanti nell'Inghilterra degli anni '50, ma in genere non si va molto indietro. Soltanto Massimo Introvigne intuisce che il fenomeno ha radici più antiche, arrivando ad attribuirne l'origine alla teosofa Alice Bailey (anni '20). Si rimanda al sito del CESNUR per approfondimenti. Gli antropologi che si occupano del fenomeno dovrebbero tenere conto anche della testimonianza di Himmelskibet e spostare indietro la cronologia. Evidentemente il nucleo di tutto ciò che sarebbe seguito è stato una comunità di cultori della Teosofia formatasi in Danimarca già prima del 1918, tutta intrisa di dottrina swedenborghiana e di suggestioni pseudo-induiste. Di quella stessa setta dovevano far parte proprio Holger-Madsen, Sophus Michaëlis e Ole Olsen. Il nome Sophus, corradicale del greco Sophia, è ben evocativo. Orbene, risulta che tale antroponimo fosse proprio il primo dei suoi nomi di battesimo (gli altri sono August Berthel), e questo è a parer mio un indizio del fatto che i suoi genitori fossero teosofi. Essendo nato a Odense nel 1865, si può dedurre che il virus attivo dai tardi anni '60 del XX secolo era già definito nel suo corredo memetico un centinaio di anni prima. Si arriva così a concludere che la New Age è nata da una semplice mutazione memetica della Teosofia. Peccato che il mondo accademico non compia indagini davvero approfondite su questi argomenti. 

La Teosofia non era cosa da operai. Era in grado di sussistere e di svilupparsi soltanto tra gente ricchissima che conduceva esistenze dorate, che poteva permettersi di passare la vita a baloccarsi in elucubrazioni esoteriche ingarbugliatissime. La percezione degli orrori che devastavano il mondo, come la Grande Guerra, giungeva in tali cenacoli soltanto per interposta persona. Dubito fortemente che un solo teosofo abbia mai visto i campi del massacro di Verdun con i propri occhi. La soluzione a tutto ciò che rende la vita degli esseri umani un inferno veniva così definita in un modo del tutto nuovo, ossia nel vivere la Nuova Era utopica come se questa fosse già reale, dando origine a una trasmissione infettiva dei memi. Nel film questa idea è ben illustrata dall'unione tra Avanti Planetaros e la bellissima Marya, figlia del Grande Saggio di Marte. Questi accetta di concedere Marya al capitano terrestre e di farla partire con lui, a patto che i due piccioncini si impegnino in un'opera capillare di diffusione del sentire marziano tra le genti della Terra. Ecco il concetto di "cambio di paradigma" già espresso alla perfezione in Himmelskibet. Che poi la Principessa di Marte debba accettare il piccolo sacrificio di soggiacere alla libidine di Planetaros è un dettaglio in sostanza irrilevante.  


Per fortuna il film non è soltanto melensaggine e baggianate New Age marziane. Non mancano i momenti di sano e divertente grottesco. In particolare è memorabile il finale, in cui il Professor Dubius (nomen omen), reso folle dall'ira e dall'odio, sale su una montagna e invoca Thor affinché con un fulmine schianti la Nave del Cielo. Tuttavia l'Aso dalla barba rossa non solo non ascolta le preghiere di Dubius, ma rivolge contro di lui il Mjöllnir, folgorandolo e facendolo precipitare in un baratro.

mercoledì 6 gennaio 2016


L'ULTIMO TRAMONTO
SULLA TERRA DEI McMASTERS

Titolo originale: The McMasters
Paese: USA
Anno: 1970
Genere: Western, Blacksploitation
Durata: 97 min (originale) / 89 min
Regia: Alf Kjellin
Sceneggiatura: Harold Jacob Smith
Musiche: Coleridge-Taylor Perkinson
Cast:
   Richard Alden (Lester)
   R.G. Armstrong (Watson)
   Marion Brash (Sig.ra Watson)
   David Carradine (Penna Bianca)
   John Carradine (Predicatore)
   Dane Clark (Spencer)
   Neil Davis (Sylvester)
   Paul Eichenberg (Jud)
   Alberto Hockmeister (Sceriffo)
   Burl Ives (McMasters)
   L.Q. Jones (Russel)
   Nancy Kwan (Robin)
   Jack Palance (Kolby)
   Brock Peters (Benjie)
   Frank Raiter (Grant)
   Lonnie Samuel (Bull)
   Alan Vint (Hank)

Trama (da filmtv.it):
Benjie, soldato di colore arruolato nell'esercito nordista, ritorna nella cittadina di Ironwood nel Sud degli Stati Uniti dopo la guerra civile. Il vecchio proprietario terriero Mc Masters lo accoglie come un figlio e lo prende come socio nella sua fattoria. Purtroppo però la maggior parte dei cittadini, che parteggiavano durante il conflitto per i sudisti, si dimostrano ostili nei suoi confronti e anche dei Mc Masters, che gli hanno dato ospitalità. Benjie reagisce, ma le cose si complicano quando sposa una giovane pellerossa. Narrazione robusta e ritmo sostenuto, con qualche forzatura di troppo.

Recensione: 
Lo hanno definito più volte un film ideologico, ma a parer mio tratta una realtà di fatto che fino a non molto tempo fa era viva e vitale negli Stati del Sud. A chi in Italia continua a cianciare di razzismo, per lo più senza cognizione di causa, consiglio vivamente di guardare questo film crudo e disturbante. Un tempo veniva trasmesso spesso su reti televisive private: ricordo ancora di averlo visto diverse volte, reagendo alla sua visione come se avessi ricevuto un pugno nello stomaco. Ai nostri giorni questo costume di mandare in onda film salutari è purtroppo andato smarrito. Sarebbe opportuno ripristinarlo: l'auspicio è che di fronte alla violenza delle scene di razzismo autentico, saltino agli occhi le sudicie manipolazioni di chi vorrebbe attribuire l'etichetta di "razzista" a tutti coloro che non condividono le storture del politically correct


Guerre razziali nel culo del mondo

Guardando le tristissime sequenze di The McMasters si ha un'impressione cruda e sgradevole: se l'Universo avesse un orifizio anale, il desolato villaggio di Ironwood sarebbe collocato al suo interno, nel bel mezzo di una massa di emorroidi. Un microcosmo desertico abitato da forme di umanità degradata e insignificante, che pure si danno mazzate sul cranio di santa ragione per motivi di una futilità infinita. La lotta si articola in una specie di triangolo razziale: il primo vertice è costituito dai possidenti di Ironwood, tutti di origine anglosassone; il secondo vertice è formati dagli Indiani, che vivono in condizioni abiette nel deserto, sopravvivendo grazie ai furti di bestiame; il terzo vertice consiste nell'unico afroamericano presente nella narrazione, l'ex schiavo Benjie. Si nota una spaventosa sproporzione in questo spinoso problema a tre corpi: è come se un solo uomo, in virtù delle sue lontane origini nel Continente Nero, fosse dotato di un potere destabilizzante assoluto, che manda in frantumi ogni precedente equilibrio, come un singolo sassolino in grado di far ghiacciare all'improvviso un lago che si trova in condizioni di metastabilità. A far precipitare gli eventi è il matrimonio tra Benjie McMasters e una donna indiana, Robin, celebrato proprio nella chiesa del paese. Infatti i proprietari terrieri vedono questo evento non soltanto come un affronto, ma anche come un concreto pericolo, dal momento che sancisce l'alleanza tra un nero - corpo estraneo nel tessuto del paese - e la tribù indiana, sempre pronta ad insorgere in armi. In realtà l'alleanza tra i McMasters e gli Indiani non è così scontata: nonostante tutti i benefici ricevuti, Penna Bianca fa sapere che i suoi non hanno alcun interesse a difendere la proprietà di un nero che si comporta come un bianco, mettendo steccati e confini sulla terra. Persino quando la moglie di Benjie viene violentata dai visi pallidi, Penna Bianca non fa una piega. Gli anziani della tribù fanno anzi capire che per loro è una cosa normale. "Conosciamo i bianchi", fa sapere lapidario il capo. Alla fine Penna Bianca e i suoi uomini aiuteranno l'afroamericano ferito, uccidendo i suoi nemici a fucilate. Il protagonista non riuscirà a riprendersi dall'annientamento del suo mondo e dal fallimento dei suoi progetti. Rifiuterà di stare tra gli Indiani e, cocciuto all'ennesima potenza, aggrappandosi al dorso di un cavallo si trascinerà verso le ceneri del suo ranch. "Non hai più una casa!", è l'urlo finale che gli viene rivolto dall'indiano, che rimbomba fino all'orizzonte di terra arida e di sterpi.  

Il Dio dell'Odio e della Vendetta 

Il maggiore Kolby, interpretato dal disturbante Jack Palance, è un feroce pretoriano del Dio del Male, che in Persia era chiamato Ahriman. L'aspetto del reduce confederato è terribile: occhi piccoli e neri, ma in cui arde un'inestinguibile luce di odio, il braccio sinistro amputato ben sopra il gomito e ridotto a un moncherino. La manica dell'uniforme grigia del Sud, cucita per nascondere il residuo dell'arto mutilato, crea un effetto straniante, di innaturalità. In occasione del funerale di alcuni dei suoi uomini, uccisi nel corso di un'incursione al ranch di Benjie McMaster, ecco che Kolby prende la parola. Non soltanto egli difende il discutibile operato di quelli che or della fine sono soltanto stupratori e assassini, ma si impegna in argomentazioni teologiche. Finito il sermone del prete, il mitissimo Spencer, che prova nausea per la violenza imperante a Ironwood, invoca il Dio che ha come essenza l'Amore e la comprensione. Subito il maggiore mutilato si scaglia contro di lui, invocando il Dio della Spada Vendicativa. Marcione di Sinope non avrebbe avuto dubbi, se solo avesse potuto vedere il film di Kjellin. Veterotestamentaria nell'essenza più profonda, l'America menziona spesso Cristo, ma di fatto lo espellerebbe volentieri dalla propria esistenza per affermare il più belluino culto del Signore degli Eserciti, padre di ogni genocidio e di ogni persecuzione. Marcione distingueva in modo nettissimo tra il Dio dell'Amore, Padre di Gesù, e il Dio della Legge, ossia la spietata divinità dell'Antico Testamento, le cui opere sono interamente malvagie. Ecco, tra gli americani abbondano i fanatici che rivolgono le loro invocazioni al Dio della Legge, sempre inclini a benedire le impiccagioni. Senza saperlo, Kjellin ha scritto un'interessante pagina di Dualismo moderno, facendo scontrare due uomini che possono essere visti come emissari delle due Divinità. Questa ispirazione si perde nel Nulla di Ironwood, mentre il becchino getta palate di terra molle sui corpi dei morti.

Doppio finale  

Il film fu rilasciato in due versioni, di cui una più breve e nota come The McMasters... Tougher than the West Itself. In questa versione alternativa l'assalto finale vede il trionfo del maggiore Kolby e dei suoi mirmidoni, che freddano Benjie. Come si può ben capire, la natura dei due finali è profondamente diversa. Non che la cosa abbia avuto una qualche rilevanza, dato che la pellicola di Kjellin fu comunque un insuccesso. Secondo la critica, la duplicità del finale è un problema, perché oscura gli intenti morali del regista. Nel Web ho trovato ben poche informazioni; sembra in ogni caso che le due versioni si siano originate dall'impossibilità di decidere tra l'etica e il botteghino. Il pubblico americano, che vede l'etica in termini unicamente sessuali e che ama i linciaggi, avrebbe di certo preferito The Macmasters... Tougher than the West Itself. Nel resto del mondo, ci sarebbe stata invece una certa ripugnanza per un simile trionfo dei malvagi, così agli eventi è stato dato un corso che appare appena più favorevole al protagonista. Appena più favorevole, perché in ogni caso la vicenda di Benjie McMasters si conclude con una catastrofe.

I SUPERSTITI DEL WYOMING

Titolo originale: The Hunters
Autore:
 Jack Lovejoy
Anno: 1982
Pubblicazione in Italia: Urania 963 (5/2/1984)
Copertina: Karel Thole

Sinossi (da MondoUrania): 
Ai confini del Wyoming, dell'Idaho e del Montana, il Parco Nazionale di Yellowstone proteggeva fino a ieri orsi e coguari e altre specie minacciate di estinzione. Oggi protegge rari superstiti umani, dopo il fulmineo e mortale attacco alla Terra da parte di alieni mostruosi. Ma domani sarà di li che i sopravvissuti partiranno al contrattacco. Un lungo romanzo tutto d'azione di cui Andre Norton ha scritto che "ha il solo torto d'essere troppo breve". 
   

Recensione:
Condivido appieno l'opinione di Andre Norton su questo piccolo capolavoro. Pur essendo datato,
brilla ancora di una luce inestinguibile. In realtà è molto di più di un romanzo di SF: è un interessantissimo studio antropologico sulla fine di una civiltà tecnologica e sulla riorganizzazione dei sopravvissuti in nuove forme di società, spesso brutali e abiette. Il mondo all'indomani dell'arrivo degli invasori extraterrestri inizia ad assumere caratteri sempre più simili a quelli della più remota preistoria. Protetta da un'anomalia magnetica che respinge le astronavi, una sparuta comunità lotta per la sopravvivenza. Il loro capo, un giovane irrequieto, decide di intraprendere un viaggio nelle pericolose terre esterne, dove si imbatterà in pericoli spaventosi e vedrà innumerevoli orrori. L'autore ci rivela mondi incredibili e ci porta a capire infine la natura degli alieni, che renderà conto di molte cose a prima vista inspiegabili. Non proseguo oltre per non rovinare il piacere della lettura a chi si accinge ad immergersi in questo desolato mondo futuribile. 
 
Mi limiterò a poche note su un paio di particolari che trovo di grande interesse, la cui breve trattazione può solo invogliare i navigatori a leggere il romanzo di Lovejoy.

Corsi e ricorsi di Grendel

Uno ienodonte colossale terrorizza gli abitanti di un distretto, che sono piccoli e rachitici come Hobbit. Queste strane genti vivono nel sottosuolo in condizioni precarie, ma hanno alcuni costumi singolari. Ad esempio bevono idromele. Parlano in modo incomprensibile e chiamano Grendel il mostro che li perseguita. Il giovane protagonista scopre che questo Grendel non è davvero una reminiscenza della creatura della stirpe di Caino descritta nel Beowulf: si tratta invece di una pronuncia consunta ed evolutiva di Grey Devil "Diavolo Grigio". Anche l'idromele non è qualcosa di tramandato dalla remota antichità. Si tratta soltanto del dono di un benefattore che ha trovato in qualche documento la ricetta della bevanda e l'ha utilizzata per rendere potabile l'acqua, con grande successo.

domenica 3 gennaio 2016

ALCUNE NOTE SULLE ISCRIZIONI DELLA TOMBA DEGLI ANINA

Coloro che identificano i numerali etruschi huθśa con "quattro" e "sei" rispettivamente, non paghi dell'estrema fragilità logica dell'argomento Hyttenia, si rivolgono alle iscrizioni della Tomba degli Anina, nel vano tentativo di portar acqua al loro mulino.



"Questa tomba, nota per essere appartenuta alla famiglia aristocratica degli Anina, che ebbe per capostipite Larth Anina, si trova a poca distanza dalla necropoli di Monterozzi nella cosiddetta Necropoli Scataglini ed è stata scoperta nel 1967. E' composta di un'unica grande camera quadrangolare con soffitto piano e grezzo ed ai lati della porta sono dipinte le figure dei due demoni etruschi della morte: Charun, rappresentato con un martello in mano, per infliggere pene alle anime, e Vanth, il principale demone femminile, alato ed a seno nudo, con in mano la torcia per rischiarare il cammino verso gli abissi dell'oltretomba. Siamo evidentemente al tramonto della civiltà etrusca, quando apparve agli etruschi ormai inarrestabile il declino della loro civiltà ed il sottosuolo di Tarquinia si riempì di figure demoniache sconvolgenti (Fine III secolo a.C.)"

Le iscrizioni della Tomba degli Anina utilizzate dai nostri avversari sono etichettate come TLE 880 e TLE 882 nel Testimonia Linguae Etruscae. L'iscrizione TLE 882 comprende due diverse redazioni sovrapposte. Riporto in questa sede i testi in lingua etrusca, tratti da un backup del sito di Adolfo Zavaroni, ora scomparso dalla Rete. 

TLE 880
aninas : larθ : velus : arznal : apanes : śurnus : scunsi : cates : an : vacl : lavutn : [---]e : travzi : sam śuθi : ceriχun[ce] : θui zivas avils LXXVI

TLE 882 (prima redazione) aninas : vel : velus : apanes : śurnus travzi : scunsi : cates : zivas : ceriχu avils XXXXIII

TLE 882 (seconda redazione) aninas : vel : velus : apanes : śurnus : </s/c/an/> /? travzi : scunsi : cates : <tev> : <sacu> : svalce avils XXXXIII . sa śuθi ceriχunce saniśa θui puts

Le parole tra parentesi <> nella seconda redazione di TLE 882 sono restaurazioni compiute dallo stesso Zavaroni. Ho riportato tali letture, non potendo al momento compiere approfondimenti. Per quanto possa sembrare assurdo, non è facile reperire i testi online.  

I fautori dell'identificazione di huθ con 4 e di śa con 6, come ad esempio Carlo D'Adamo, sembrano usare queste iscrizioni come prova definitiva delle loro tesi. Infatti, constatato che la Tomba degli Anina contiene sei loculi, essi sostengono ad esempio che la sequenza sam śuθi ceriχunce di TLE 880 vada tradotta con "e sei tombe fece costruire". Invece significa "ed egli stesso la tomba fece costruire". Questo è quanto:

1) I lemmi sam (TLE 880) e sa (TLE 882) non hanno nulla a che fare con il numerale śa. In iscrizioni con i caratteri s e ś distinti a Tarquinia, ś esprime il suono palatale /ʃ/ dell'italiano scena e si distingue da s. Così nella sequenza sa(m) śuθi si vede chiaramente che mentre la parola śuθi è scritta correttamente con ś, il preteso numerale avrebbe la consonante sbagliata.
2) È chiaro che il termine
śuθi "tomba" si riferisce all'intero ambiente sepolcrale e non a ciascuno dei loculi. L'autore avrebbe scritto śa hupni se avesse voluto indicare le sei sepolture.

In letteratura si trova un lavoro su questo raro pronome personale sa

K. Wylin, Un terzo pronome/aggettivo dimostrativo etrusco sa
(Studi Etruschi, MMIV - Vol. LXX, Serie III, pubblicato nel 2004. Pagg. 255-267)

Detto questo, le argomentazioni del D'Adamo e dei suoi seguaci archeologi si possono dire neutralizzate.

LA SOLUZIONE DEL MILLENARIO ENIGMA DI HYTTENIA 'TETRAPOLIS'

Ancora oggi il greco Hyttenia (Ὑττηνία), antico nome di Tetrapolis, è usato come argomento per assegnare al numerale etrusco huθ il valore di "quattro", immaginando che il toponimo più recente traduca alla lettera il più antico. Ho già espresso una serie di opinioni sull'argomento, ma ora, approfondendolo, aggiungo qualche nota ulteriore. 

Quello che è sfuggito finora a tutti è che secondo la tradizione a fondare la lega Hyttenia è stato l'eroe Hyttenios (Ὑττήνιος). Ne emerge la somma improbabilità di una traduzione letterale Tetrapolis, visto che non si può interpretare l'eponimo pre-greco servendosi di un toponimo ellenico: si tratta di due categorie concettuali disomogenee.

Non si può nemmeno pensare a una creazione artificiale, un eponimo fittizio inventato per spiegare un toponimo: questo Hyttenios svolgeva un ruolo di primo piano nelle tradizioni locali. Così si legge nel Calendario dei Sacrifici di Maratona (American Journal of Archaeology 10, 209-226):

Nel mese Skiraphorion, prima della <festa> Skira. A Hyttenios, frutti di stagione, una pecora, dodici dracme. A Kourotrophos, un maiale, tre dracme, una porzione sacerdotale, due dracme, un obolo. Ai Tritopateres, una pecora, una porzione sacerdotale, due dracme. Agli Akamantes, una pecora, dodici dracme, una porzione sacerdotale, due dracme.  

Come risulta ovvio, nessuno si sognerebbe mai di fare offerte sacrificali in memoria di un eroe fittizio inventato da un dotto per spiegare un nome di luogo. Qui si tratta addirittura di una figura divinizzata. Che i sostenitori dell'argomento Hyttenia se ne facciano una ragione: Hyttenios è reale e ben fondato nella tradizione attica.

Come mai finora questo eponimo Hyttenios non era mai saltato fuori in nessuna trattazione etruscologica? Queste sono le risposte:

1) Disonestà intellettuale di colui che per primo ha proposto l'argomento;
2) Copiatura pedissequa da parte di coloro che hanno ripetuto l'informazione (un vizio insidioso che può colpire chiunque e che non mi ha certo risparmiato);
3) Inerzia mentale di chi non ha mai approfondito la questione cercando le notizie disponibili, foss'anche nel Web (anche questa è un'insidia sempre in agguato, da cui nessuno è immune).

Di fronte a Hyttenios dovremmo porci allora la seguente domanda: da dove viene questo antroponimo?

Data la natura dell'aspirazione che in greco classico precede sempre la vocale υ e le impedisce di iniziare la parola, e data la trasformazione di un'originaria sibilante in aspirazione, ci sono tre possibilità:

1) *UTTE:NIO- / *UTTA:NIO- 
2) *HUTTE:NIO- / *HUTTA:NIO-  
     (con h- confrontabile con lo stesso suono in tirrenico)
3) *SUTTE:NIO- / *SUTTA:NIO-

Quale delle tre? Come si vede, l'argomento Hyttenia - Tetrapolis è a dir poco labile.
Se valesse la ricostruzione 2) e la radice fosse tirrenica, allora sarebbe addirittura possibile che un antroponimo *HUTTENI- significasse "Sesto Nato" (in etrusco abbiamo hutni- "sesta parte, un sesto", attestato nel Liber Linteus).

Questo è un buon metodo: diffidare delle assonanze, sempre, e approfondire ogni suggerimento. Occorre attuare procedure di verifica che integrino dati linguistici ed extralinguistici. Curioso che i "seminatori di dubbi" tanto diffusi nel Web mostrino poi una fede cieca proprio nelle assonanze e nelle baggianate cabalistiche.