domenica 7 gennaio 2018


I RE DI TARTESSO E LA NASCITA
DELL'INGIUSTIZIA SOCIALE

Forse non tutti sanno di quale terra gloriosa era figlio il grande filosofo stoico Seneca. La Turdetania, parte della Betica, ora nota come Andalusia, era stata un tempo la sede di una civiltà millenaria che purtroppo ci ha lasciato poche vestigia. Tartesso ne era il centro culturale e politico, quella stessa città rifulgente di ricchezze di ogni sorta che è citata anche nell'Antico Testamento con il nome di Tarshish: gli antichi Israeliti vi giungevano per fare commercio e ne importavano beni di lusso, soprattutto metalli come l'argento, lo stagno e il piombo. Nell'antichità le genti della Spagna si dividevano in molti popoli dalle lingue diverse: c'erano i Celtiberi, che parlavano un idioma di tipo celtico, i Lusitani, che avevano una lingua indoeuropea preceltica, i Vasconi e gli Aquitani, il cui idioma era l'antenato dell'odierno Basco, oltre naturalmente agli Iberi, la cui lingua non indoeuropera era diversa dal Basco e tuttora quasi del tutto incomprensibile(1). I Tartessi erano più antichi di tutti questi popoli, e già nel secolo VI a.C. erano probabilmente già scomparsi come entità etnica. Non erano Indoeuropei ed erano già stanziati in loco molto prima dell'arrivo degli Iberi(2). Nessuno ha mai potuto capire la loro lingua, anche se sono state ritrovate molte iscrizioni(3). La sola cosa che si sa con una certa probabilità è che BARE NABE KEENTI dovrebbe significare "in questa tomba giace"(4). Gli Autori ci dicono che in quel centro commerciale della Turdetania fossero custodite tavole che riportavano leggi vecchie di ben settemila anni. Esistevano anche cronache storiche che parlavano degli antichi regnanti. Quel poco che possiamo conoscere sull'argomento va sotto il nome di Mitologia Tartessa.

È riportato che dopo la sconfitta dei Titani regnava su Tartesso il grande Gargoris(5) della stirpe dei Cureti, detti anche Cuneti, inventore dell'apicoltura. Egli diede all'umanità due immensi doni: la dolcezza del miele e l'ebbrezza dell'idromele che se ne imparò a ricavare. Il suo nome potrebbe essere in qualche modo collegato con quello di Gerione, che gli Autori ritengono il capostipite dei Tartessi.
Questo ci dice Giustino (II d.c.):
"Saltus vero Tartessiorum, in quibus Titanas bellum adversus Deos
genisse proditur, incolere Curetes, quorum rex vetustissimus Gargoris mellis colligendi usus primus invenit", ovvero "Nei boschi dei Tartessi, nei quali i Titani osarono muovere guerra agli Dei, abitavano i Cureti, il cui re antichissimo, Gargoris, per primo scoprì il modo di raccogliere il miele."
Si dice che il sovrano fece la sua scoperta in un modo molto strano: rinvenne dei
ricchissimi favi prodotti da api che avevano nidificato nella carcassa putrescente di un bue. Questo fatto è denso di significati simbolici, in quanto il migliore tra gli alimenti era ricondotto nella sua formazione a un processo di sfacelo nel corpo di un animale che era ritenuto sacro.

Il successore di Gargoris si chiamava Habis. A cominciare dalla definizione della parentela di questa stirpe vi sono stranezze non trascurabili: non ci si deve stupire se qualcuno definisce Gargoris padre di Habis e qualcun altro afferma che fosse suo nonno, perché egli era entrambe le cose. In altre parole, Gargoris aveva concupito carnalmente sua figlia e l'aveva ingravidata, cosicché era sia padre che nonno del bambino. Le cose andarono così, a quanto ci viene riferito. Una volta che Gargoris capì che sua figlia era incinta di un suo figlio, fu colto da un'immensa vergogna e la fece rinchiudere in un recesso appartato. Quando partorì, un uomo forte prese il bambino e lo portò al nonno-padre, che subito decise di metterlo a morte. Così ordinò che fosse abbandonato alle fiere perché lo sbranassero, ma quando mandò un servo per controllare trovò che il bambino godeva di ottima salute. Gli animali selvatici lo avevano nutrito con il loro latte. Allora lo fece gettare su una via di transito dei buoi affinché lo calpestassero e lo riducessero in poltiglia. Con grande stupore le bestie lo evitarono con cura, deviando dal loro cammino.
A questo punto Gargoris stabilì che il bambino fosse gettato ai cani,
che di certo l'avrebbero sbranato. Invece non accadde nulla. Era come se il piccolo fosse protetto da forze soprannaturali che impedivano alle fiere di nuocergli. Man mano che questi strani fatti accadevano, l'ira del sovrano cresceva e il suo cuore si colmava di crudeltà. Così decretò che lo scomodo infante fosse fatto dato in pasto ai maiali. Tuttavia ancora una volta si salvò, come Daniele nella fossa dei leoni. Neppure la precipitazione in mare da un burrone sortì gli effetti sperati: il figlio-nipote di Gargoris galleggiava allegramente come una barchetta. Alla fine fu lasciato nella foresta, in mezzo agli animali selvaggi. Non dovette faticare troppo a sopravvivere, perché una cerva gli permetteva di poppare il latte dai suoi capezzoli. In questo modo il giovane crebbe fino a diventare un ragazzo robusto. Un giorno i cacciatori di Gargoris lo videro e lo catturarono con una rete. Lo portarono nella reggia come dono. Quando Gargoris lo vide, riconobbe sul suo corpo i segni della regalità, verosimilmente dei tatuaggi che gli erano stati fatti poco dopo la nascita. Così, preso dai sensi di colpa per le persecuzioni terribili che gli aveva ingiustamente inflitto, si decise alla fine ad accoglierlo come proprio figlio. Lo chiamò Habis (Habidis secondo altri testi), nome il cui significato tramandato è "Colui che si è perso"(6). Habis imparò a parlare e quando il nonno-padre morì ebbe il Regno di Tartesso per sé.
La sua grandezza, è riportato, fu tale che tutti seppero per certo che
egli era stato salvato da un'infinità di pericoli per poter regnare per volontà degli Dei. Egli portò alle genti sottoposte al suo dominio doni molto innovativi.
Legando due buoi a un ramo adunco, inventò quasi per caso l'aratro,
seguendo una strana fantasia ispiratagli da chissà quali potenze soprannaturali. Con l'aratro venne quindi l'agricoltura, che permise alle genti di avere nuove fonti di cibo e di moltiplicarsi. Inventò le leggi e con esse sottomise i popoli, codificando ogni minimo dettaglio delle vite dei singoli. Stabilì che ognuno dovesse rifiutare la caccia e nutrirsi unicamente dei frutti dei campi, in odio verso gli stenti che egli stesso era stato costretto a subire quando viveva come un selvaggio. Con queste innovazioni introdusse anche ogni sorta di iniquità. Impose così le distinzioni tra classi sociali, decretando che i nobili dovessero essere mantenuti dal lavoro duro e servile di masse di schiavi afflitti senza possibilità di miglioramento sociale.
È spesso menzionata un'opera su questi due remoti sovrani, detta
Tragicommedia di Gargoris e Habis(7), il cui autore non è però specificato; non solo non si riesce a trovare alcun riferimento valido, ma tutto sembra far pensare che il testo sia andato perduto. Pare che si trattasse di una satira caustica del sistema di vita predatorio delle classi alte che sarebbe di certo piaciuta a Mikhail Bakunin e a Karl Marx. 

A parte le notevoli inconsistenze del mito di Gargoris e Habis, che dovrebbero saltare subito all'occhio (come l'uso dei buoi prima dell'aratro), il racconto insiste su un aspetto non da poco: la connessione di causa-effetto tra la scoperta dell'agricoltura e l'introduzione della diseguaglianza sociale nel mondo. Molti studiosi sono concordi sulla sostanziale democrazia paleolitica, che conosceva soltanto capi concepiti come primi inter pares. La necessità di cacciare per sopravvivere rendeva preziosi il contributo di tutti, e si sa per certo che già tra gli uomini di Neanderthal gli invalidi, i malati e gli anziani erano curati. Con la possibilità di ottenere una migliore nutrizione e accumulare eccedenze, molte cose sono cambiate in modo radicale: han fatto la loro comparsa la tirannia, la proprietà terriera, il lavoro servile e insostenibile, lo sfruttamento, la gonorrea, la carie. Mentre la leggenda tartessa ha come protagonisti di questi mutamenti due sovrani maschi, sembra che nella realtà la Rivoluzione Neolitica sia stata causata e portata avanti dalle donne. Le società del Neolitico erano a privilegio femminile. Mi scuso se semplifico un po' troppo un problema davvero complesso, ma la cosa ha un suo fondamento logico. La donna ha scoperto la semina, ha osservato a lungo come pianticelle utili germogliassero dai rifiuti e potessero essere coltivate. La donna ha spinto l'uomo a ottenere una posizione sociale migliore. La sua spietata ambizione opera sempre e rende la vita come un dente cariato. Il motore di tutto ciò è il più banale che si possa immaginare: la chiusura delle cosce femminili in caso di rifiuto del maschio a cooperare. Si possono fare alcuni esempi significativi. Con l'agricoltura è nato il concetto di prestito. "Queste piantine ci danno il cibo", disse la donna all'uomo, "Non devi perdere il tuo tempo ad andare a caccia, devi vivere con gli occhi sempre rivolti al suolo e con la schiena curva": era nato il lavoro. L'uomo, ingenuo, prestava le sementi ai vicini, accontentandosi di avere in cambio una parte del raccolto, finché la donna gli disse che doveva chiedere più dell'intero raccolto: era nata l'usura. "Devi avere di più e lottare per ottenere ciò che ti chiedo, o non avrai da me cosa che ti piaccia", disse la donna all'uomo: era nata l'avidità, era nato il ricatto. Una volta realizzato questo stato di cose, divenne naturale, divenne ineluttabile: ogni tentativo di vivere al di fuori della società sarebbe stato sempre più inaccessibile. Un sistema fatto apposta per far sì che chi si ribella non possa procacciarsi cibo sufficiente, deperisca e finisca così col morire ed essere dimenticato. Ci avrebbe pensato il Potere della Vagina a rendere eterne queste sofferenze, a permettere il trasmettersi del regno, della dominazione e della schiavitù. Un carissimo amico mi ricorda sempre che le donne stesse sono vittime di questi perversi meccanismi di iniquità, ma ciò non cambia la sostanza delle cose. Ogni piaga sociale ha la sua origine ultima nell'accoppiamento, nell'unione tra i sessi. Il maschio coglione bramoso che cade vittima della femmina dispensatrice usuraia: ecco il motore del progresso. Lo stesso affermarsi del patriarcato non fu che una vendetta illusoria: l'essere che ha il potere di mettere al mondo figli ha il potere assoluto, e anche i più valorosi guerrieri furono servi della vulva. Nessun dubbio quindi che se pure Gargoris e Habis non furono semplici parti della fantasia al pari di Ercole e di Wotan, dovettero essere soltanto burattini di donne ambiziose e malvagie che i Tartessi hanno per buona decenza depennato dalle loro cronache.

(1) La lingua iberica è con ogni probabilità un lontano parente del basco, come provato dalle concordanze dei numerali - nonostante il parere di molti accademici politicizzati. (2) Le infiltrazioni celtiche dovettero essere importanti: il primo re storico di Tartesso fu Arganthonios (670 a.C. - 550 a.C.), il cui nome è eminentemente celtico (< arganto- "argento").
(3) In tutto i testi sono più di novanta; ci sono inoltre antroponimi non indoeuropei e non iberici incorporati in iscrizioni latine. Questi sono caratterizzati da una fonetica davvero bizzarra (es.
Candnil, Icstnis, Ildrons, Insghana).
(4) John T. Koch ha ipotizzato che le iscrizioni siano redatte in una lingua celtica con segni di evoluzione precoce. Le sue tesi sono tuttavia assai opinabili, come avremo modo di approfondire in altra sede. In ogni caso, è possibile che nelle iscrizioni sia presente materiale onomastico di origine celtica.  
(5) Per l'antropoonimo Gargoris è stata proposta un'etimologia celtica: deriverebbe da gargo- "feroce" e da -rīx "re". Resta il fatto che il vocalismo di -rīx sarebbe anacronistico. 
(6) Il nome è di chiara origine semitica, con ogni probabilità fenicia. La forma ricostruita è /Ɂa'bi:d/, si confronti l'ebraico 'ābēd "perduto". La stessa parola esisteva anche in punico, varietà tarda del fenicio, ma il dominio di Cartagine su Tartesso risale al 500 a.C. circa ed è dubbio che possa aver contribuito al formarsi del mito. 
(7) Marco Giuniano Giustino ci fa un riassunto dell'opera di Pompeo Trogo, sulle cui fonti ultime ben poco si può dire.

giovedì 4 gennaio 2018

L'USO DEL LONGOBARDO MORGINCAP NELLA PUGLIA DEL XIII SECOLO

Il carissimo amico Rocco Zunino mi ha trasmesso un testo altamente significativo e di grande importanza, tratto dal Codice diplomatico terlizzese e risalente al XIII secolo. Lo riporto nel seguito: 



[Anno incarnationis Christi millesimo ducentesimo quadragesimo tertio] Imperii vero domini nostri Frederici [invictissimi Romanorum imperatoris semper augusti anno vigesimo tertio] et regni eius Ierusalem anno octavodecimo, [regno vero Sicilie anno quadragesimo sexto] eiusdem indictionis prime, ego Caro-Iohannes in nomine Iesu Christi ut puella nomine Pasca filia Riccardi Iohannis de Troia iugum sacrassem tunc alio die nuptiarum nostrarum, ante amicos, vicinos et parentes [sedundum ritus] gentis nostre Longobardorum ostendi et tradidi tibi hoc scriptum morgincap subscripto domino iudico et ydoneis testibus roboratum, et per ipsum tradidi [ei, videlicet] quartam partem omnium rerum mearum stabilium et mobilium, tam earum quas nunc [abeo] ubicumque, quam et illarum quas in antea diebus vite mee undecumque et quandocumque [acquisiero]. [Ita ut ipsa quarta pars in tue et tuorum heredum ait dominio et potestate, et quicquid inde feceris vel iudicaveris, semper firmum et stabile permaneat. Et hoc morgincap scriptum semper firmum et stabile permaneat, quod Nicolaus Notarius meis precibus [scripsit] 
(Signum) 
   Roggerius imperialis Barensium iudex
   Nicollay propontini Benedictus notarius
 
Bisantius

Salta subito all'occhio l'uso della parola longobarda morgincap, letteralmente "dono del mattino", che nel diritto delle genti germaniche indicava per l'appunto il dono fatto dal marito alla sposa la mattina successiva alla prima notte di nozze, al fine di sancirne l'onorabilità davanti ai parenti. L'etimologia del composto è di una chiarezza cristallina: senza entrare troppo nei dettagli, dirò che ancor oggi in tedesco Morgen è il mattino e Gabe è il dono. In italiano esiste l'aggettivo morganatico, che ha la stessa identica origine e definisce un tipo di matrimonio in cui la seconda moglie di un nobile riceveva una donazione ed era esclusa assieme ai suoi eventuali figli da ogni pretesa sull'eredità e sulle sostanze del marito. 

L'amico che mi ha segnalato il documento del 1243 mi ha anche riferito di aver sottoposto la questione ad alcuni romanisti. Questi, pieni di spocchia e di accademica sicumera, hanno subito liquidato la cosa come "una semplice memoria tradizionale", aggiungendovi con tono sprezzante l'etichetta "nulla di speciale". Per loro l'intero mondo germanico è da dichiararsi "inesistente" in quanto "barbarico". Una semplice memoria tradizionale? Sarà, ma essa dista da Alboino come questi dista da Cristo e da Augusto. Se stendessimo una corda ponendo a un capo Cristo e all'altro il documento terlizzese, Alboino verrebbe a trovarsi all'incirca nel mezzo. Una cosa che deve dare da pensare e che non può essere liquidata tanto facilmente come "nulla di speciale". Evidentemente ancora nel XIII secolo esisteva la consapevolezza dell'esistenza della lingua dei Longobardi ed era possibile studiarla, anche se non sappiamo con quale dettaglio. Le tesi dei romanisti possono essere descritte in un solo modo, come disonestà intellettuale.

PROVE DELLA TARDA SOPRAVVIVENZA DELLA LINGUA LONGOBARDA: IL LATINO AGRAMMATICALE

Nel terzo tomo della sua opera Dissertazioni sopra le Antichità Italiane, Ludovico Antonio Muratori (1672 - 1750) riporta il testo di un'interessante iscrizione veronese del VIII secolo, commentandolo e aggiungendo informazioni di grande utilità. Questo è quanto scrisse: 

"Figuratevi un uomo di bassa sfera oggidì, il quale abbia un po' di tintura della Lingua Latina, e impari da' Predicatori e Letterati molte voci di quella, quando gli venga in capo di parlar Latino, parlerà senza fallo; ma un Latino pieno di Solecismi e Barbarismi, e vi mescolerà voci della Volgar sua Lingua; nè osserverà regola alcuna di casi, numeri, verbi, e nomi. Altrettanto fecero gli antichi Notai, benchè si abbia a credere, che studiassero alquanto di Latino. Cioè per esempio scrivevano: Anno Lotharii &c. & Domni filio ejus Regem in Italia, come apparirà da una Carta, che ho quì data alla luce. In una Lingua vivente non si può immaginare tanta deformità. Così in altra Carta dell'Anno 839. (vedi la Dissert. XIII.) si legge: Post pœna composita, hos libelli convenience in sua permaneat firmitate. Non è differente la sottoscrizione di una Carta pubblicata quì nella Dissertaz. XXI. Ego Radeberto Presbitero rogatus ad Aliberto Presbiter manu meo subscripsi. Voglio quì aggiungere un'Iscrizion Veronese, rapportata dal Panvinio, Moscardi, Ughelli, Francesco Bianchini, Fontanini, e ultimamente dal Chiarissimo Marchese Maffei nella Verona illustrata. Circa l’anno 725 fu essa incisa in marmo; ed ecco le sue parole, testimonj autentici dell’ignoranza di allora:"

X  IN N ΔNI IHV XPI DE DONIS
SCI IVHANNES
BAPTESTE EDI
FICATVS EST HANG
CIVORIVS SVB TEMPORE
DOMNO NOSTRO
LIOPRANDO REGE
ET VB PATERNO
DOMNICO EPISCOPO
ET COSTODES EIVS
VV VIDALIANO ET
TANCOL PRBRIS
ET RELOF GASTALDIO
GONDELME
INDIGNVS DIACONNVS SCRIPSI 

"Nell’altra parte del Marmo si legge:"

+ VRSVS MAGESTER
CVM DISCEPOLIS
SVIS IVVINTINO
ET IVVIANO EDI
FICAVET HANC
CIVORIVM
VERGONDVS
TEODOAL
FOSCARI

Analisi dell'iscrizione di Verona

Iscrizioni di questo tipo ci mostrano la genuina evoluzione della pronuncia dei suoni del latino nel protoromanzo, che ha influenzato la stessa lettura del latino ecclesiastico. Ad esempio /i/ breve è diventata /e/ chiusa in BAPTESTE e in MAGESTER; /u/ breve è diventata /o/ chiusa in DISCEPOLIS e in COSTODES; altre volte è /o/ a diventare /u/, quando è a contatto con /v/, dando IVVIANO; /b/ intervocalica è diventata una fricativa /v/, scritta con la lettera V, ad esempio in CIVORIVS; si è avuta lenizione di /t/ in /d/ in VIDALIANO e via discorrendo. Come vedremo nel seguito, il problema principale non è la pronuncia.  

Questi sono i vocaboli e gli antroponimi latini con caratteristiche evolutive o con ortografia non conforme:

IVHANNES: Iohannis (gen.)
BAPTESTE: Baptistae (gen.)
EDIFICATUS EST: aedificatus est
HANG: hanc (solecismo; Orti Manara legge
    HANC)
CIVORIVS: ciborius
DOMNO: domino (abl.)
COSTODES: custodes

DOMNICO: dominico (abl.)

VIDALIANO: Vitaliano (abl.)
DIACONNVS: diaconus (Orti Manara legge
   DIACONHVS) 
MAGESTER: magister
DISCEPOLIS: discipulis
IVVINTINO: Iuventino (abl.)
IVVIANO: Ioviano (abl.)
EDIFICAVET: aedificavit
CIVORIVM: ciborium
VERGONDVS: Verecundus 

Questo possiamo dire sugli antroponimi longobardi incorporati nel testo:

1) LIOPRANDO: sta chiaramente per LIUTPRAND, dal protogermanico *leuði- "gente" e *branda- "tizzone" (> poet. "spada").
2) TANCOL: dal protogermanico *θanka- "grazie".  

3) RELOF: è oscurissimo. Studiando il documento avevo ipotizzato una cattiva grafia per *REOLF, a sua volta da *REIOLF, *RAIOLF "Lupo dei Cadaveri", dal protogermanico *χraiwa- "cadavere" e *wulfa- "lupo". Leggendo un altro studio sull'iscrizione (Orti Manara, 1840), noto che il nome è invece riportato come REFOL, non meno problematico di RELOF. Anche Meyer legge REFOL, senza proporre un etimo, mentre Bruckner si astiene addirittura dal parlarne. Forse il Muratori ha effettuato una metatesi? 

4) GONDELME: sta per GONDELM, varianti GONDELMUS, CONTELMUS, GUNTELM, GUNTELMUS (cfr. Bruckner, 1895; Meyer, 1877), è chiaramente dal protogermanico *gunθi- "battaglia" e *χilma- "elmo"
5) TEODOAL: immagino che sia scritto male per THEODOALD, varianti THEODALD, TEUDOALD, TEUDALD, THEUDUALDUS, etc. (cfr. Bruckner), dal protogermanico *
θeuðō- "popolo" e *walda- "dominatore, principe". Alcuni propongono di leggere *TEODOALF, che non potrebbe spiegarsi in alcun modo. 
6) FOSCARI: formato col suffissoide -ARI, dal protogermanico *χarja- "esercito", essendo il primo membro del composto l'aggettivo latino fuscus "scuro". È un nome ibrido latino-germanico. Simili formazioni onomastiche, non esclusive dei Longobardi, saranno trattate in dettaglio in altra sede.

Si nota un vocabolo longobardo:

GASTALDIO "amministratore regio"

Queste sono le abbreviazioni usate:

IN N ΔNI: In Nomine Domini  
IHV XPI: Iesu Christi (gen.)
SCI
: Sancti (gen.)

VB
: Viro Beatissimo (abl.)
PATERN
O: secondo Orti Manara sta per *Pater Nostro, seppur con una discordanza. Altri hanno pensato alla forma declinata di un antroponimo Paternus
VV: Venerabilibus (abl. pl.)
PRBRIS, a prima vista forma oscurissima, sta semplicemente per PRESBYTERIS, come documentato anche altrove. 

Spiegazione del latino agrammaticale

Questo è il commento del Muratori, che mi sembra molto utile riportare:

"Non so figurarmi, che il Volgo, se avesse usato allora la Lingua Latina, fosse caduto in sì grosse deformità, come è il dire: edificatus est hanc Civorius &c. Così nella Dissert. XIV. rapportai le Note Cronologiche di varie Carte Lucchesi dall'Anno 736. fino al 742. Ivi fra l'altre si legge: Regnante piissimi Domno nostro Liutprand & Hilprand vir excellentissimis Regibus &c. In un'altra: Regnante Domnos nostros Liutprand & Helprand viri Rex excellentissimis Regibus &c. Se questa fosse stata la Lingua Popolare d'allora, non si sa vedere, come nello stesso tempo, e nella medesima Città, que' Notai fossero così discordi fra loro; perchè, come anche oggidì ne' più corrotti Dialetti della Lingua d'Italia si può scorgere, tutti adoperano il medesimo ordine e struttura di parole. Voglio quì aggiugnere due antichissimi Contratti, ricavati dal ricchissimo Archivio dell'Arcivescovato di Lucca. Nell'uno, scritto l'Anno 740. regnando il Re Ratchis, si legge una vendita fatta da Tanualdo Prete. Chiunque ben considera le sconcordanze del Latino di esse Carte, meco verrà a confessare, che quella non potea essere la Lingua del Popolo, perchè quasi nulla v'ha di Gramatica, di cui nondimeno dicemmo servirsi ogni Lingua vivente; e però avere i Notai, siccome forzati a valersi del Latino, fatto un guazzabuglio di quella Lingua colla Volgare, commettendo perciò tanti Solecismi e Barbarismi. Qualora il Popolo avesse comunemente parlato quel Latino corrotto, quale Lingua materna, confrontando insieme molte Carte di quel tempo, noi troveremmo fra esse una sensibile uniformità di parole, frasi, costruzione, terminazion di vocaboli &c. Venti Notai Milanesi, per esempio, de' nostri giorni, che scrivessero un Contratto nel Dialetto corrente in quella Città, non discorderebbono mai nella Gramatica, e sintassi di Lingua tale: laddove nelle antiche Carte i Notai niuna regola osservano di Gramatica, niuna uniformità nelle costruzioni e declinazioni de' verbi e nomi, eccettochè dove si servono de' Formolarj comuni a ciascuno, ricorrendo essi al Volgare, dove mancava loro provvision di Latino. Rilessioni tali quelle in fine sono, che mi fan credere, essere stata, mille anni sono, la lingua del volgo Italiano diversa dalla Latina." 

Ritengo che da quanto esposto sia ben evidente che il latino usato dai notai e dagli scribi dei Longobardi era per loro una sorta di corpo estraneo la cui grammatica era quasi inassimilabile. La presenza di stridenti discordanze non è tipica di una popolazione di lingua romanza, bensì di una popolazione di lingua germanica che non ha quasi alcun contatto con parlanti romanofoni. Possiamo affermare senza timore di smentita che nessun parlante di una forma di latino tardo o di protoromanzo avrebbe mai detto hanc ciborius o manu meo: non dimentichiamoci che all'epoca non esistevano i metallari. Resta però il fatto che proprio manu meo per il corretto manu mea potrebbe ricalcare in qualche modo una forma longobarda, che possiamo ricostruire come *ANDU MINU o *ANDO MINO, al caso strumentale. La parola per dire "mano" doveva essere femminile anche in longobardo, come in tutte le lingue germaniche che hanno conservato il genere. Negli aggettivi forti, l'antico alto tedesco e l'antico sassone non hanno una forma strumentale femminile attestata, ma se in longobardo fosse esistita una forma residuale uguale per i tre generi, si capirebbe all'istante l'origine del solecismo attestato negli archivi notarili.

domenica 31 dicembre 2017

IL COSMO STERILE O LA MORTE DELLA FANTASCIENZA

Come Zarathustra ha annunciato la morte di Dio, così annuncio la morte della fantascienza.

"La fantascienza è morta! La fantascienza è morta! E noi l'abbiamo uccisa! Come potremmo sentirci a posto, noi assassini di tutti gli assassini? Nulla esisteva di più sacro e grande in tutto il mondo, ed ora è sanguinante sotto le nostre ginocchia: chi ci ripulirà dal sangue? Che acqua useremo per lavarci? Che festività di perdono, che sacro gioco dovremo inventarci? Non è forse la grandezza di questa morte troppo grande per noi? Non dovremmo forse diventare autori di fantascienza semplicemente per esserne degni?"

Come, non ve lo ha ancora detto nessuno che la fantascienza è morta? Eppure la voce del suo decesso avrebbe dovuto raggiungervi già da tempo. L'exitus era ineluttabile. Doveva accadere. Mentre i fantascientisti si crogiolavano masturbandosi le circonvoluzioni cerebrali nel vano tentativo di capire le ragioni del declino di quel nobile genere letterario, il paziente spirava senza che nessuno dei presenti al capezzale se ne accorgesse. Com'è stato possibile? La spiegazione è concettualmente semplice, eppure non banale.

Sono trascorsi decenni di osservazione delle profondità cosmiche alla ricerca di segni di vita intelligente. Un'osservazione che non ha sortito i risultati attesi: non si è trovato nulla che potesse dimostrare la presenza di una qualche civiltà là fuori, in quell'abisso di tenebra. Nel mondo scientifico ci si attendeva di trovare qualcosa da un momento all'altro e non appena qualcosa di anomalo giungeva dalle profondità siderali, subito fremevano tutti pervasi dalla febbre della speranza. Ogni volta le aspettative sono state disattese. Quando il segnale di una stella pulsante è stato captato, ecco che subito fu un fervere di voci sui "piccoli omini verdi" (Little Green Men). Non ci è voluto molto a capire che non si trattava di un radiofaro di origine intelligente: era un fenomeno del tutto naturale provocato dalla ciclica espansione e contrazione di gas stellari. A volte simili episodi hanno avuto risvolti comici e grotteschi. Ricordo il caso di un segnale anomalo proveniente da un'altra galassia, che dopo accurate analisi è risultato essere prodotto dall'interferenza di un forno a microonde usato dagli studenti del campus universitario per tostare il pane. In tempi a noi più vicini, il calo della luminosità di una stella ha fatto pensare a colossali opere di ingegneria spaziale costruite per captare energia. A un certo punto gli stessi scienziati davano questa interpretazone per verità assodata. Ciò ha portato masse di internauti a delirare come se tutti fossero stati aggrediti da una violenta febbre cerebrale. Si è poi scoperto che la luminosità della stella decresceva per via di masse di polveri e di materiale asteroidale. Da uno studio molto interessante è emerso che non esiste nessun impero galattici nelle galassie vicine, perché se esistesse saremmo in grado di captare le emissioni di radiazioni infrarosse prodotte dalla necessaria e immane massa di astronavi, basi, megalopoli planetarie, opere di ingegneria cosmica, congegni robotici, computer e via discorrendo. Nulla di tutto ciò è stato trovato. Nonostante questa desolante mancanza di riscontri, c'è sempre chi pensa che la vita intelligente sia molto comune nel cosmo. C'è chi parla di civiltà in grado di criptare i segnali, pensando poi che tutte si mettano d'accordo per farlo allo scopo di non farsi trovare da noi. Si sentono infinite assurdità di questo tipo, ingenue come la teodicea cattolica. Nonostante le elucubrazioni degli umani, il silenzio dell'Universo è isotropico. Assordante in ogni direzione!     

Quando ero uno studente del liceo, e ancora all'università, l'esistenza di sistemi planetari extrasolari non era affatto scontata. "Molto probabilmente ci sono altri sistemi planetari oltre al nostro", dicevano numerosi scienziati. Ovviamente con quel "molto probabilmente" intendevano dire di non credere affatto all'esistenza di quei pianeti: si trattava di un ipocrita eufemismo. Inizialmente vigeva una visione miracolistica della formazione del sistema solare, sostenuta in modo più o meno nascosto dalla Chiesa Romana: si insegnava nelle scuole che una cometa gigantesca passata vicino al sole avrebbe provocato un reflusso mareale di materia incandescente, dal cui raffreddamento si sarebbero formati i pianeti. Coprivo tale teoria di scherno e di ludibrio. I suoi assertori ritenevano che la materia rigurgitata dal sole si fosse modellata in forma di sigaro, così li irridevo soprannominavo i loro deliri "teoria del Sigaraio Cosmico". Un altro escamotage, molto usato a quei tempi era quello di postulare che le stelle doppie non potessero avere pianeti. A detta di un grandissimo numero di dogmatici, ogni eventuale pianeta di una stella binaria sarebbe finito stritolato e disgregato da interazioni mareali, oppure non si sarebbe nemmeno potuto formare. Il corollario era semplice: le stelle sarebbero state tutte binarie all'infuori del nostro sole e nessun pianeta sarebbe potuto mai esistere al di fuori del nostro sistema. Contro costoro ho combattuto a lungo e negli anni i fatti mi hanno dato ragione: si sono scoperti numerosi pianeti extrasolari in sistemi binari. I pianeti che ruotano attorno a una coppia di stelle doppie strette, tipo Tatooine in Guerre Stellari, non sono affatto una rarità. Adesso sappiamo che ci sono più pianeti nel cosmo che mosche in un merdaio, eppure la cosa non è di conforto alcuno. Si tratta infatti di pianeti estremamente diversi da quelli del nostro sistema solare e così inospitali che non potremmo nemmeno pensare di avvicinarsi ad essi, per non parlare di porvi piede. Ogni volta che qualche scienziato parla dell'ennesimo "gemello della Terra", si scopre che si tratta di un tale inferno da superare ogni immaginazione. Le nane rosse, di gran lunga le stelle più comuni, sono astri bastardi. Emettono spaventosi flares e flussi di radiazioni in grado di spazzar via l'atmosfera delle rocce che orbitano nell'ecosfera e di impedire alla vita di formarsi. Sempre più spesso si parla di "pianeti impossibili", perché ci appaiono al confine delle stesse leggi della fisica. Esiste un pianeta più nero dell'asfalto, che non lascia sfuggire un singolo fotone. Un altro pianeta, pur essendo rovente, è interamente ricoperto di ghiaccio e non si può avere evaporazione perché la gravità è fortissima: la locuzione "ghiaccio incandescente" non è più un ossimoro. Esistono sistemi i cui pianeti sono come piselli in un baccello, tutti quasi indistinguibili per massa e dimensioni. Moltissimi pianeti orbitano a una distanza così piccola dalla loro stella da far sembrare ampia l'orbita di Mercurio. Dovunque guardiamo, scopriamo soltanto una collezione di simili bizzarrie inspiegabili. Potremmo andare avanti all'infinito a scandagliare la galassia e oltre, troveremmo soltanto altri pianeti in cui nessuna forma di vita potrà mai allignare.  

Sono cresciuto divorando fantascienza. Ogni opera di fantascienza, fosse un libro, un film o un telefilm, è stata per me come una boccata di ossigeno. Languendo a scuola, provavo nausea e ribrezzo per porcate come i Promessi Sposi del detestato Manzoni, opere asfittiche che imprigionavano lo spirito in una cella angusta dalle pareti di solido piombo. Leggendo romanzi di fantascienza, evadevo da tale carcere obbrobrioso e mi libravo in volo, proiettandomi in lontane galassie, vivendo le gesta di eroi in lotta contro imperi interstellari, esplorando mondi sconosciuti. A un certo punto ho cominciato a scrivere fantascienza. Sono diventato un autore e ringrazio vivamente gli amici che hanno reso ciò possibile. Per anni è stato come un sogno. Poi a un certo punto qualcosa è cambiato. I miei sogni sono morti e sento in me una desolazione abissale, come se fossi passato dall'infanzia all'età adulta. Cos'ha determinato questo mutamento? È stata la consapevolezza della solitudine cosmica. La più radicale soluzione del Paradosso di Fermi: nello spazio nessuno può sentirci urlare per il lapalissiano fatto che non c'è nessuno

Ho passato anni a sperare che giungesse sulla Terra una spedizione genocidaria di alieni. Ho desiderato che uno spietato Hulagu Khan calasse dagli abissi per annientare il genere umano e porre fine al tormento di questa abietta schiavitù planetaria. Sono pian piano arrivato a pensare che ciò non fosse molto probabile, fino a capire che le possibilità di un simile evento sono irrisorie. Nel mio articolo Una semplice soluzione al paradosso di Fermi, pubblicato il 26/02/2016, già esprimevo un grande scetticismo, eppure la passione per la fantascienza mi impediva la completa obiettività. Fantasticavo volentieri sulla creazione della specie umana e degli altri ominidi da parte di alieni simili agli Ingegneri descritti nella saga di Alien. Ero ancora di un estremo ottimismo, quasi pari a quello di Pollyanna. Il carissimo amico Lukha B. Kremo, che è il mio editore, mi faceva notare in un suo intervento che una simile soluzione moltiplica i problemi e non porta soluzione alcuna ai nostri interrogativi. Se siamo l'opera degli Ingegneri, chi ha creato questi Ingegneri? Se rispondiamo che a farlo è stata un'altra specie aliena ancor più potente, arriviamo a creare sempre nuovi mondi e sempre nuove specie per spiegare la nostra origine, cosa che viola ogni principio di economia ontologica. Alla fine restiano con un'unica annichilente alternativa. Le probabilità che qualche altro pianeta adatto alla vita esista da qualche parte nelle vastità cosmiche sono irrilevanti, per non dire inesistenti: siamo ben oltre la celebre ipotesi della rarità della Terra.

L'equazione di Drake, anche nota come formula di Green Bank, dovrebbe servire a stimare il numero di civiltà in grado di comunicare presenti nella nostra galassia. Ebbene, essa suona immensamente ridicola e futile se si comprende a fondo il significato dei suoi parametri. Essa è così formulata: 

N = R* x fp x ne x fl x fc x L

dove:

 N è il numero di civiltà extraterrestri presenti oggi nella nostra Galassia con le quali si può pensare di stabilire una comunicazione;
 R* è il tasso medio annuo con cui si formano nuove stelle nella Via Lattea;
 fp è la frazione di stelle che possiedono pianeti;
 ne è il numero medio di pianeti per sistema planetario in condizione di ospitare forme di vita;
 fl è la frazione dei pianeti ne su cui si è effettivamente sviluppata la vita;
 fi è la frazione dei pianeti fl su cui si sono evoluti esseri intelligenti;
 fc è la frazione di civiltà extraterrestri in grado di comunicare;
 L è la stima della durata di queste civiltà evolute.

Il punto è che le stime storiche di tutti questi parametri sono rosee al di là di ogni immaginazione e del tutto irrealistiche. Diversi coefficienti devono tenere conto di un gran numero di fattori impliciti ma di importanza determinante. Per esempio, la frazione dei pianeti in condizione di ospitare forme di vita deve comprendere l'azione di un pianeta gioviano esterno, detto "Giove buono", in grado con la sua grande massa di attrarre asteroidi e comete, evitando così collisioni spiacevoli di tali corpi celesti con i pianeti interni. I fattori in gioco sono numerosissimi: se un pianeta con massa paragonabile a quella della Terra avesse una percentuale di acqua troppo alta sarebbe un pianeta oceanico, senza terre emerse, mentre se la percentuale di acqua fosse troppo bassa, sarebbe trattenuta nel sottosuolo e non ci sarebbero oceani. Per non parlare del fatto che il sistema Terra-Luna è il prodotto di una collisione primordiale tra due pianeti in orbite vicinissime e anomale, o addirittura posti in opposizione su una stessa orbita - un evento di una rarità impressionante, che avrebbe potuto sortire esiti ben diversi in ognuna delle sue fasi. Manca un parametro essenziale: quello relativo all'ecosfera galattica. Ai tempi si pensava che la vita potesse sorgere dovunque nella galassia, anche al centro. Oggi sappiamo che il nucleo galattico è un dragone infernale, un buco nero supergigante. Con le densità stellari nelle regioni del nucleo, l'intensità delle radiazioni sarebbe insostenibile. Sono regioni al cui confronto un soggiorno a Malebolge sarebbe una vacanza rinfrescante. Per contro nelle regioni periferiche della galassia le stelle sono povere di metalli e la formazione di pianeti terrestri non è certo favorita. All'aumentare della distanza dal centro galattico "la metallicità delle stelle diminuisce, e i metalli (che in astronomia corrispondono praticamente a tutti gli elementi diversi dall'idrogeno e l'elio) sono necessari per la formazione dei pianeti terrestri". Ma se la metallicità è troppo elevata, si formano gioviani caldi e superterre! Si moltiplicano troppe criticità che generazioni di fantascientisti non hanno nemmeno immaginato! Ricordiamoci sempre che un coefficiente probabilistico è un numero compreso tra 0 e 1. Lo zero indica l'impossibilità, l'uno indica la certezza. Se io moltiplico una probabilità di uno su mille per un'altra probabilità di uno su mille, ottengo una probabilità di uno su un milione: è proprio la misura della probabilità che i due eventi tra loro indipendenti si verifichino contemporaneamente. Se io moltiplico una probabilità di uno su un milione per un'altra di uno su mille, ottengo una probabilità di uno su un miliardo. Basterebbero ancora alcuni numeri di questo tipo da moltiplicare, e la probabilità di trovare qualcosa che soddisfa tutte queste condizioni in una galassia anche più grande della nostra sarebbe pari a ZERO

Se allarghiamo il nostro orizzonte e andiamo oltre la Via Lattea, troviamo che le cose sono anche peggiori. La nostra galassia si trova in una regione dove la densità galattica è abbastanza scarsa, in pratica siamo in una lacuna. Immaginiamo i superammassi galattici come serpenti fatti di scorie fuse e di plasma, luoghi violenti che irradiano morte in ogni direzione! La vita nel cosmo è stata uccisa dai buchi neri, la radiazione ad altissima energia la annichilisce. Anzi, per essere precisi, la vita è stata resa imposibile prima ancora dell'inizio dell'aggregazione di molecole sufficientemente complesse per trasmettere un codice genetico. Oltre a queste bellissime cose, si aggiunga che non è affatto scontato poter trovare un modo per spostarsi dal nostro sistema solare: le leggi fisiche ostacolano ogni nostro movimento e ci intrappolano. Se anche ci potessimo muovere, se potessimo aggirare la tirannia della relatività di Einstein, resta il fatto che non c'è nessun luogo in cui andare. No destination. 

Capite adesso che intendo dire? Come può la fantascienza resistere a un simile scenario? Come possiamo, dopo simili rivelazioni, continuarci a baloccarci con baggianate puerili come Guerre Stellari o come Star Trek? Come possiamo, dopo aver appreso che l'Universo è insensato, aver ancora voglia di scrivere? Spero infatti che lo abbiate capito, ormai, che l'Universo non ha alcun fine, la sua esistenza è un dato di fatto che non si piega alle confabulazioni umane. Non ha come fine la produzione di vita e di intelligenza, come voleva Teilhard de Chardin, quel pazzo drogato terminale. Ogni teleologismo è morto. Abbiamo costruito mondi plasmandoli a partire dal sembiante dei pianeti del nostro sistema, formandone in grandissima copia per mezzo della nostra fantasia, quindi li abbiamo proiettati assieme a un numero incredibile di specie senzienti, spesso umanoidi o umane, coi loro costumi, le loro religioni, le loro lingue. Cosa può restare di tutto questo, adesso che abbiamo capito che ci ingannavamo? Cosa possiamo fare adesso, che abbiamo capito che plasmavamo il noto per dar vita all'Ignoto? Certo, possiamo scrivere e leggere fantascienza per riflesso nervoso, come un pollo decapitato che continua a danzare e a eiettare sangue dal collo reciso! Tuttavia sappiamo che così come Dio è morto e non può più essere fonte di valori per nessuno, allo stesso modo la fantascienza è caduta nel Nulla e il suo essere è uscito dall'inventario ontologico!  

"Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto piú freddo? Non seguita a venire notte, sempre piú notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono la fantascienza, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della fantascientifica putrefazione? Anche gli autori di fantascienza si decompongono!" 

Ecco l'epitaffio, che chiude un'epoca:

"Che altro sono ancora questi libri, questi film, se non le fosse e i sepolcri della fantascienza?"

giovedì 28 dicembre 2017


LA MASCHERA DELLA MORTE ROSSA

Titolo originale: The Masque of the Red Death
Lingua originale: Inglese, latino*
    *pronuncia ibrida, restituta e accademica inglese
Paese di produzione: USA, Regno Unito
Anno: 1964
Durata: 85 min
Rapporto: 2.35 : 1
Genere: Orrore, propaganda laveyana
Regia: Roger Corman
Soggetto: Edgar Allan Poe, dai racconti The
    Masque of the Red Death
e Hop-Frog
Sceneggiatura: Charles Beaumont, R. Wright
    Campbell
Produttore: Roger Corman
Casa di produzione: Alta Vista Productions
Fotografia: Nicolas Roeg
Montaggio: Ann Chegwidden
Effetti speciali: George Blackwell
Musiche: David Lee
Scenografia: Daniel Haller
Trucco: Elsie Alder, George Partleton
Interpreti e personaggi:
    Vincent Price: Principe Prospero; Morte Rossa
        smascherata
    Hazel Court: Juliana
    Jane Asher: Francesca
    David Weston: Gino
    Nigel Green: Ludovico
    Patrick Magee: Alfredo
    Paul Whitsun-Jones: Scarlatti
    Skip Martin: Rospo (Hop Toad)
    Robert Brown: Guardia
    Julian Burton: Señor Veronese
    David Davies: Abitante del villaggio
    Gaye Brown: Señora Escobar
    Verina Greenlaw: Esmeralda
    Doreen Dawne: Anna-Marie
    Brian Hewlett: Señor Lampredi
    Sarah Brackett: Nonna
    John Westbrook: Morte Rossa mascherata
Doppiatori italiani:
    Emilio Cigoli: Principe Prospero
    Rosetta Calavetta: Juliana
    Vittoria Febbi: Francesca
    Massimo Turci: Gino
    Luciano De Ambrosis: Ludovico
    Giorgio Capecchi: Alfredo
    Vinicio Sofia: Scarlatti
    Sergio Tedesco: Rospo (Hop Toad)
    Mario Mastria: Guardia
    Manlio Busoni: Abitante del villaggio
    Flaminia Jandolo: Esmeralda

Trama:

Nell'Italia rinascimentale, una vecchia raccoglie legna in un bosco montano e si imbatte in un uomo mascherato e interamente vestito di rosso. Questi le dona una rosa rossa e la incarica di andare al villaggio per annunciare che il Giorno della Liberazione è vicino. Poco dopo giunge al villaggio il principe Prospero, tiranno del luogo, sulla sua lussuosa carrozza. Il fierissimo nobile umilia e tratta in modo sprezzante la popolazione, ridotta quasi allo stato bestiale: intende invitare i villici a una festa in modo che possano mendicare gli avanzi di cibo sotto i tavoli, come i cani. Due uomini, Ludovico e il giovane Gino, insorgono e destano le ire del principe, che li condanna a morte. La figlia di Ludovico, la fulva Francesca supplica Prospero di risparmiare il padre e Gino, che è il suo amato. Questi di rimando dice che ne grazierà uno solo, dando alla ragazza la scelta e mettendola così in una situazione insostenibile. In seguito a urla improvvise, si scopre che la vecchia tornata dal bosco è coperta di piaghe sanguinanti: la Morte Rossa ha raggiunto il villaggio. Prospero ordina di bruciare tutto, prende con sé Francesca e i due prigionieri, procedendo verso il castello. Qui fa gettare Ludovico e Gino nelle segrete, mentre porta la ragazza a corte e incarica la moglie Juliana di farle prendere un bagno, di vestirla con gli abiti migliori e di insegnarle l'etichetta. Notando che Francesca porta al collo un rosario, le ordina di toglierselo e le rivela di essere un adoratore di Satana. La stessa sera, Prospero dà una festa e annuncia ai convitati che finché saranno ospitati al castello non dovranno temere la Morte Rossa, poi annuncia che a breve si terrà un ballo in maschera, invitando tutti a indossare gli abiti più stravaganti, ma proibendo quelli di colore rosso. Il principe cerca di sedurre Francesca. Tutto è molto semplice: il suo intento è quello di convertirla a Satana e di sodomizzarla durante l'iniziazione. Sua moglie Juliana, è gelosissima. Per riconquistarlo si sottopone a rituali satanici, arrivando a marchiarsi a fuoco una croce rovesciata su un seno. Pur di distogliere il suo uomo dalla passione per la ragazza dai capelli rossi, cerca di aiutarla a fuggire e le dà le chiavi delle segrete. Il tentativo fallisce. Ludovico e Gino, portati a corte, sono sottoposti all'ordalia: devono ferirsi a turno con cinque pugnali, di cui uno avvelenato. Arrivati all'ultimo pugnale senza morire, Prospero li accusa di slealtà e trafigge Ludovico con la spada; tuttavia libera Gino, che fugge nei boschi. Juliana, fuori di sé, assume allucinogeni e sperimenta visioni spaventose. Rifiuta però di farsi penetrare nell'ano: tutto ciò che può fare non è sufficiente e a causa di questo incontra la morte. Prospero invita i cortigiani a continuare la festa. Arriva la notte del ballo in maschera. Francesca subisce il fascino del tiranno e gli si è affezionata, al punto da decidere di soggiacere alle sue voglie. Prima che il rapporto sodomitico si possa consumare, ecco che arriva tra i festanti l'uomo mascherato vestito di rosso. All'inizio il principe crede che sia un nobile provocatore, poi capisce che c'è qualcosa di strano. Pensa allora che quell'apparizione sia Satana in persona e si inginocchia in adorazione. L'uomo in rosso gli dice di non essere Satana né un suo inviato: egli è la Morte Rossa. Giunge così la nemesi di Prospero e di tutti i suoi vassalli, che periscono in modo atroce tra piaghe e copiose emorragie. Vengono risparmiati in sei: Francesca, Gino, una bambina e un anziano del villaggio, una coppia di nani. La Morte Rossa si riunisce ad altri suoi colleghi giunti da ogni parte della Terra: la Morte Violetta (la porfiria), la Morte Nera (la peste), la Morte Blu (il colera), la Morte Gialla (la febbre gialla), la Morte Dorata (la lebbra) e la Morte Bianca (la tubercolosi). Le Sette Morti si avviano in processione, quindi compare una scritta con le parole che concludono il famoso racconto di Poe: "And Darkness and Decay and the Red Death held illimitable dominion over all." 


Recensione:

Questo film, che reputo un assoluto capolavoro, in molti punti si discosta dall'omonimo racconto di Edgar Allan Poe. È estremamente interessante approfondire queste discrepanze, perché rivelano interi mondi.

Una coppia di nani morbosi

Notevole è l'innesto nella vicenda di un altro racconto di Poe: Hop-Frog. Quando Francesca fa il suo ingresso a corte, il principe Prospero intrattiene i suoi ospiti facendo esibire in danze una coppia di nani: Esmeralda e il suo compagno, Rospo. La nana, simile a una bambina con voce di adulta, attrae su di sé l'attenzione del lubrico Alfredo, che ne è visibilmente attratto proprio perché è un pedofilo. Le inclinazioni sadiane e sadiche del nobiluomo si palesano presto: come la nana-bambina urta una coppa versandone il vino, Alfredo reagisce con furia, colpendola con un manrovescio. Con questo atto di gratuita malvagità egli desta odio eterno in Rospo, che giura vendetta. Per poter realizzare il suo vindice intento, il nano si finge ammiratore di Alfredo, tanto che gli confida di voler passare al suo servizio, perché a sua detta la fortuna e il potere di Prospero sarebbero in declino. Quindi suggerisce all'aguzzino pedosadico un'idea geniale: al ballo in maschera dovrà indossare la pelle di un gigantesco gorilla, uno dei capricci presto dimenticati di Prospero. Questa è la proposta di Rospo: Alfredo dovrà irrompere tra gli invitati indossando la pelle ferina e recitando la parte dello scimmione inferocito. Il cortigiano perverso trova eccellente l'idea. Così al ballo in maschera Rospo riesce a issare Alfredo su un lampadario di ferro tramite una fune, lo cosparge di acquavite e gli dà fuoco, cremandolo e causandone la morte. Per questo, il nano riceverà una ricompensa in oro dal principe, felice di essersi liberato di un pericoloso rivale. Interessanti sono gli adattamenti compiuti dal regista. Nel racconto il nano si chiamava Hop-Frog: è diventato Hop Toad, tradotto in italiano con Rospo. La nana, che Poe aveva chiamato Trippetta (dall'italiano trippa) è stata ribattezzata Esmeralda. Al posto del re c'è Alfredo, mentre i sette consiglieri sono stati aboliti. Il re e consiglieri si travestono con pelli di orango (scimmia che compare anche altrove nelle opere di Poe), Alfredo si traveste da gorilla. Nonostante le migliori intenzioni di Corman, l'incorporazione di una trama derivata da Hop-Frog non è stata capita e ha destato reazioni abbastanza ostili negli spettatori. 


Il principe Prospero e la Rivoluzione Satanica

Il principe Prospero nel racconto è un giovane uomo dal carattere mite, mentre nel film è un uomo di mezz'età la cui follia sanguinaria non è da meno di quella di Caligola. In genere la critica liquida con poche parole quello che è il tema centrale della pellicola di Corman: il culto di Satana, mai menzionato da Poe. Intorno alla religione satanica di Prospero e della sua corte è stata costruita una complessa narrativa passata quasi inosservata. La famiglia del principe ha operato una potente rivoluzione che ha portato all'annientamento della Chiesa di Roma, sostituendola con la Chiesa di Satana. Alla fine di questo imponente processo storico, la religione cristiana è rimasta soltanto tra i villani, privati di un clero vero e proprio, mentre l'intera nobiltà adora il Maligno - anche se in essa permangono vestigia superstiziose dell'antica fede, che il principe afferma a un certo punto di voler eradicare. Compendiamo dai dialoghi del film, che la Rivoluzione Satanica si è imposta non soltanto in Italia, ma anche in Spagna, dal momento che a corte vi è almeno una nobildonna dal cognome spagnolo. Eppure, soltanto cento anni prima, un antenato di Prospero era un monaco cristiano dell'Inquisizione, reo di aver ucciso centinaia di persone in nome di ciò che chiamava "amore": così il nobile narra queste memorie del passato alla fulva Francesca, che prova una sorta di pudore di fronte al racconto, affermando di non voler sapere nulla di queste cose. Si deduce quindi che fatti di una grande violenza devono essere avvenuti in epoca non troppo remota. Notiamo qualcosa di realmente singolare: le genti del villaggio e la corte di Prospero vivono in stato di reciproca ignoranza e isolamento culturale quasi assoluto. Prospero chiede a Francesca se la croce che porta al collo sia soltanto un ornamento privo di significato oppure se lei sia davvero cristiana - come se non sapesse che nel villaggio perdura una forma di culto cristiano. Dal canto suo, Francesca si meraviglia molto nell'apprendere che il principe adora Satana, come se al villaggio la cosa fosse semplicemente ignorata. Non sappiamo fino a che punto Corman avesse chiare queste cose, in ogni caso è evidente che la sua opera è un'ucronia a tutti gli effetti. Per quanto la critica si ostini a ritenere che l'ambientazione sia medievale, risulta chiaro che le vicende si collocano agli inizi dell'età moderna. Solo per fare un esempio, Scarlatti invoca gli Dei - cosa che non sarebbe stata concepibile senza l'opera di Gemisto Pletone. Già questo prova che siamo in pieno Rinascimento. Abbiamo anche una prova del fatto che il Punto di Divergenza sia da collocarsi dopo la scoperta dell'America: l'allucinazione di Juliana, in cui compare un immolatore azteco armato di pugnale di ossidiana e intenzionato a strapparle il cuore dal petto. La stessa pozione allucinogena è a base di peyote.


Roger Corman, Vincent Price e Anton S. LaVey

Altra cosa che è passata inosservata è la dottrina esposta dal principe Prospero. Al massimo qualche critico ha affermato di trovare strane le allusioni teologiche che innervano il film, dato che Corman non era "persona particolarmente religiosa". Come sedersi su uno scoglio in riva al mare e farsi passare davanti un immenso cetaceo scambiandolo per un pesciolino. I princìpi fondanti di quello che potremmo chiamare Umanesimo Satanico guidano Prospero. Se il Maligno è visto come un essere reale, proclamato vincitore del vecchio Dio, è altresì vero che al contempo è affermata la sua natura di principio di intelligenza che muove l'uomo. Mentre Dio, ormai defunto, esigeva sottomissione e fedeltà, il rapporto tra questo Satana quasi astratto e il suo devoto è descritto come quello tra un maestro e il suo apprendista. È ben possibile affermare che in Prospero agisce quella che Anton Szandor LaVey chiamava Autoindulgenza. Anche il principio dell'Egoismo è ben mostrato all'opera. Quando il nobile Scarlatti chiede asilo a Prospero, essendo terrorizzato dalla Morte Rossa, si vede opporre un secco rifiuto. Infatti il principe, mosso da timore superstizioso, crede che un ospite che porta come cognome il colore della pestilenza possa attrarre disgrazia e contagio. Scarlatti supplica, piagnucola e arriva a offrire a Prospero la propria moglie. Visto che invocare la pietà di Dio non fa breccia in un satanista, ecco che invoca gli Dei, ingannandosi. Senza misericordia né barlume di umanità, Prospero trafigge Scarlatti con un dardo di balestra e induce sua moglie al suicidio. Anche gli estenuati esuli dal villaggio distrutto, sopravvissuti alla pestilenza, si ritrovano bersagliati dai balestrieri. Così vediamo Prospero festeggiare senza degnare di uno sguardo il cadavere della moglie Juliana, tacitando i cortigiani e inducendoli a non avere scrupoli nei confronti della morta. Con sarcasmo tagliente, afferma quindi che Juliana è davvero diventata sposa di Satana: ha pagato con la vita il fatto di non aver voluto subire sodomia. Domina l'esaltazione del forte e il disprezzo assoluto verso i deboli, già enunciato da Ragnar Redbeard. Guardando il film possiamo farci un'idea di come sarebbe la vita in una società laveyana. Notiamo ora un dettaglio a parer mio di estremo interesse. Si deve notare che il film - in assoluto il primo a parlare in modo esplicito di satanismo - è datato 1964, due anni prima dell'inizio dell'Era di Satana secondo il calendario della Chiesa di LaVey. La cosa non può essere priva di significato. Certo, Corman non era affatto un credente di una qualsiasi chiesa cristiana, ma a parer mio era un credente laveyano, come lo era lo stesso Price. Possiamo affermare senza dubbio che tra queste persone vi fosse una connessione profonda e che appartenessero alla più intima cerchia dei seguaci dell'organista di San Francisco, facendo propaganda dei suoi contenuti ancor prima che la sua religione venisse fondata ufficialmente.


Un finale spiazzante

Non sarebbe stato possibile per Corman fare apologia di una peculiare forma di satanismo senza doverne fare ammenda, dato che all'epoca la cosa avrebbe destato un grande scandalo in una nazione come gli Stati Uniti. Così escogitò un finale concepito apposta per sviare l'attenzione dai suoi contenuti propagandistici. Il principe Prospero doveva vedere la sua teologia crollare di fronte alla Morte Rossa, prima di morire a causa del contagio. Mentre nel racconto di Poe la Morte Rossa ha le sembianze di un cadavere putrefatto coperto di sangue, nel film vediamo qualcosa di completamente diverso. La Morte Rossa assume le sembianze della persona che è venuta a prendere. Così quando Prospero la vede senza maschera, scorge il proprio volto. In realtà, la Morte Rossa non sembra essere così amorale come afferma. Dice di non avere padroni, eppure salva pochi cristiani e la coppia di nani con ogni probabilità agnostici, facendo perire i satanisti e vanificando la Rivoluzione Satanica. Si è pensato a forti analogie con Il settimo sigillo, cosa abbastanza verosimile, anche perché Corman temeva che il suo film fosse ritenuto troppo simile all'opera di Ingmar Bergman, dominata da una personificazione della Morte del tutto indifferente alla fede cristiana o satanica degli umani. Che l'influenza bergmaniana ci sia è fuor di dubbio, anche se penso che questa sia stata un mero escamotage usato da Corman per mascherare le sue simpatie sataniste. Lo stesso Price mascherò la propria reale appartenenza religiosa, prima con una formale adesione alla Chiesa Episcopale, poi con l'altrettanto formale conversione alla Chiesa Romana quando sposò l'attrice australiana Coral Browne. 


Formule magiche in latino 

Nel corso dei suoi riti satanici, che risulteranno vani e non le daranno quanto richiesto, Juliana pronuncia un'invocazione in un latino ben peculiare e a tratti oscuro, in cui la pronuncia accademica inglese si mescola a tentativi di pronuncia restituta con fonemi articolati in modo tipicamente anglosassone. Si tratta di un'alterazione di Salmi 105:21: Constituit satanicum dominum domus suae et principem omnis possessionis suae. Si nota in particolare suae pronunciato con l'accento sulla desinenza e con le vocali separate in un netto iato, come /su-'a-e/. Per contro, principem suona /'prinsipem/, con l'assibilazione, mentre possessionis suona addirittura /poze'sjonis/, con la prima sibilante sonora. Il verbo constituit suona /'konstitjut/, con accento sbagliato, con il tipico /ju/ inglese per /u/ e senza alcuna traccia della -i- della desinenza. Infine, domus è ridotto a un farfugliamento, suonando in modo corrotto /'toma/.

La natura della Morte Rossa

Appare chiaro che la Morte Rossa è da identificarsi con Ebola o con una simile febbre emorragica letale, come ad esempio il morbo di Marburg. Vediamo ai nostri giorni quanto Edgar Allan Poe sia stato profetico!  

Altre recensioni e reazioni nel Web

Segnalo la recensione di Antonella Romaniello, comparsa su Horrormagazine: 


Riporto in questa sede un paio di commenti comparsi su Filmtv.it.

Alfatocoferolo scrive senza troppo entusiasmo: "Buona la regia, efficace Vincent Price (per quanto troppo spesso reciti da teatro e non da film), ottime le atmosfere. Si respira il clima del romanzo sebbene solo in alcuni frangenti (la festa in maschera su tutto) ed alcuni passaggi sono di notevole impatto (la possessione demoniaca di Juliana, il finale con gli emissari della morte) ma spesso il ritmo è basso e questa è forse l'unica pecca di una pellicola dal buon impatto estetico." 

Zombi fa propaganda delle solite stronzate del libero arbitrio: "film del filone soporifero di corman su poe. ci sono cose che invecchiano mantenendo un certo fascino ma che si sopportano a stento e solo perchè non si lavora e si ha dormito a dovere la mattina. un signorotto despota, praticamente schiavizza i propri sudditi. ne dispone come e quando vuole, sfruttandoli per come e quanto è possibile uccidendoli al minimo fastidio. sadico, si diverte anche molto as escogitare scherzetti divertenti per prolungare l'agonia dei poveretti in favore degli ospiti del proprio castello, mentre nella campagna intorno divaga la morte rossa. il signorotto è convinto che avendo rinunciato alla fede divina e avendo abbracciato in toto le perversioni umane spacciandole per appartenenti al diavolo di farla franca nei confronti del malefico morbo che fa strage nell'europa tutta. il ritmo lento(anche se il film dura poco più di 70 minuti)rende lento e lungo il film, appesantendolo con una recitazione barocca e ipnotica del mastro vincent mattatore della pellicola. l'atmosfera malsana di una rappresentazione teatrale in cui gli attori e i partecipanti sono destinati inconsapevolmente a soccombere al morbo che tutto falcia senza distinzioni di razza, ceto o credo religioso. bello il finale, dove la morte rossa che non obbedisce a nessun dio se non a se stessa o a moltiplicazioni colorate di se stessa, una volta radunate le variante cromatiche, s'incammina lungo un crinale a pretendere altro raccolto umano."

domenica 24 dicembre 2017


La pestilenza del 1348

"Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co' lor parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell'altro mondo cenaron con li lor passati!"

Giovanni Boccaccio, Decameron, Introduzione alla Prima Giornata. 

Premessa. Vuoi per l'entità del fenomeno, vuoi per la gravità delle sue conseguenze, sarebbe impossibile condensare in poche pagine la storia della grande epidemia di peste nera che travolse i paesi europei negli anni compresi tra il 1347 e il 1351. Questo articolo, dal carattere volutamente frammentario, ha il solo scopo di suggerire alcuni percorsi di ricerca. A coloro che desiderassero approfondire l'argomento, consiglio vivamente la lettura del saggio di Klaus Bergdolt "La peste nera e la fine del Medioevo" (Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1997), che offre un dettagliato quadro d'insieme dell'evento, e di "La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall'antichità all'età contemporanea" di William Hardy McNeill (Einaudi, Torino, 1982), per la parte relativa all'epidemia di peste detta, convenzionalmente, "del 1348". Da segnalare anche "La Grande Peste. Un flagello sull'Europa del Trecento" di Angel Blanco (Fenice 2000, Milano, 1994), un agile volumetto di taglio divulgativo.  

Cenni di patologia. La peste è una malattia epidemica causata da una batterio del genere Pasteurella. Si trasmette da roditore a roditore (sorgente dell'infezione), e da questi all'uomo, per il tramite delle pulci (vettori dell'infezione). Il principale vettore della Pasteurella pestis è la pulce del ratto indiana (Xenopsylla cheopis), diffusa nei paesi tropicali; in determinate condizioni anche la pulce dell'uomo (Pulex irritans) può propagare la malattia. Nel 1993, l'Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarava che "focolai naturali di peste" venivano segnalati in alcuni paesi dell'Africa subsahariana (Kenya, Madagascar, Mozambico, Uganda, Tanzania e Zaire), dell'America del Sud tropicale (Bolivia, Brasile, Equador e Perù) e dell'Asia sud-orientale (Myanmar - ex Birmania - e Viet Nam), raccomandando ai viaggiatori diretti verso aree dove la peste è endemica di "evitare ogni contatto con i roditori (topi e ratti)". L'OMS rilevava come, a fronte dell'assenza di epidemie di peste "negli ultimi anni", si fossero verificati "solo casi sporadici (...) nei cacciatori di roditori selvatici e in residenti in remoti villaggi andini che vivono in case infestate da ratti" ("Viaggi internazionali e salute. Situazione al 1° gennaio 1993", versione italiana a cura del Centro Collaboratore OMS per la Medicina del Turismo). Sono due le modalità di trasmissione del contagio: per via cutanea, in seguito al morso della pulce; o per via aerea, analogamente a quanto accade per il raffreddore. Nel primo caso il meccanismo patogenetico è il seguente: la pulce si nutre del sangue di un roditore infetto; i batteri si moltiplicano nel tratto digerente superiore della pulce, ostruendolo; quando la pulce si nutre di nuovo, pungendo per esempio un uomo, il blocco fa sì che il sangue appena ingerito sia rigurgitato nella morsicatura, che è di fatto una ferita aperta, insieme ai batteri della peste. Il ratto nero (Rattus rattus), giunto a quanto pare in Europa a bordo delle navi che riportarono i crociati dall'Oriente, diede un contributo determinante al dilagare della Grande Pestilenza nel 1347. La peste umana ha un periodo d'incubazione compreso fra 1 e 6 giorni e si manifesta clinicamente in tre forme: bubbonica, setticemica e polmonare. La forma bubbonica è caratterizzata dalla comparsa del cosiddetto bubbone (ingrossamento di un linfonodo) nella regione inguinale o, più raramente, ascellare. Se il batterio supera la barriera linfoghiandolare si diffonde in tutto l'organismo. La peste setticemica, contraddistinta da un pullulare di batteri nel sangue, può provocare emorragie cutanee, mucose e viscerali in seguito alle quali la cute dell'appestato si copre di macchie o croste nerastre (di qui il termine di uso popolare "peste nera"). La forma polmonare implica un interessamento dell'apparato respiratorio in forma di broncopneumopatia secretiva. L'escreato, terreno di crescita per i batteri, risulta fortemente contagioso.  

"Cominciossi nelle parti d'Oriente". Così si esprime Matteo Villani (1280,1363), nella sua Cronica, in merito alla provenienza geografica della "mortale pestilenzia" che assalì l'Europa intorno alla metà del XIV secolo. L'epidemia scaturì a quanto sembra ad Alma Ata, Kazakistan, nel 1336, e dagli altipiani dell'Asia centrale, lungo le piste carovaniere, raggiunse la penisola di Crimea. Si tramanda che proprio qui ebbe a verificarsi un evento destinato ad avere ripercussioni catastrofiche. Primavera 1347: Caffa, l'odierna Feodosiya, allora centro fiorente del commercio genovese, è cinta d'assedio dai tartari. Il contagio apre vuoti spaventosi tra le file degli assedianti, al punto da indurre il khan a ordinare la ritirata. Ma prima di abbandonare l'assedio i tartari compiono un gesto che rappresenta un vero e proprio atto di guerra batteriologica: servendosi di catapulte, scagliano decine di cadaveri di propri compagni morti di peste all'interno delle mura cittadine. Era fatale, tuttavia, che la Crimea dovesse fungere da "rampa di lancio" per il diffondersi dell'epidemia: da essa si dipartivano infatti molteplici linee marittime e vie commerciali. Il contagio viaggiò a bordo delle navi genovesi, e sbarcò là dove esse sbarcarono.   

"Sicilia porta d'Europa". Nell'ottobre del 1347, dodici galee genovesi attraccarono a Messina. L'equipaggio aveva contratto la malattia e molti marinai erano morti durante la navigazione. Assieme all'equipaggio umano le navi trasportavano, annidati nelle stive, i topi della peste. L'epidemia dilagò dapprima in Sicilia e, nel 1348, in tutta la penisola italiana: "L'inesorabile propagazione del contagio seguì sia le rotte che collegavano i porti principali, sia le direttrici della rete stradale e fluviale" (Angel Blanco). Alla fine del 1351, l'Europa, salvo alcune fortunate enclaves, era completamente colpita. Nel giro di cinque anni, la peste uccise un terzo della popolazione europea: una falcidie senza precedenti, favorita dalle disastrose condizioni igienico-sanitarie esistenti all'epoca. Ovunque regnava la sporcizia e i rifiuti si accumulavano nelle strade: una volta giunti a terra, i ratti trovarono un habitat ideale per moltiplicarsi.  

Umori e miasmi. Prima della scoperta dell'esistenza di agenti patogeni microscopici e dei loro cicli riproduttivi, il concetto di contagio, come sottolinea Giulio Preti nella sua "Storia del pensiero scientifico" (Mondadori, 1957), rimaneva assai misterioso e di difficile interpretazione. La medicina medioevale, non diversamente da quella antica, spiegava l'origine delle malattie infettive in base alla teoria umoralpatologica, fondata sulla tradizione ippocratico-galenica, che faceva derivare la malattia da una cattiva mescolanza dei quattro umori fondamentali; e alla teoria dei miasmi, secondo cui: "acqua stagnante, pantani, pozzi e laghetti corrompevano l'aria che diffondeva la putredine e attraverso la respirazione contagiava l'organismo umano" (Bergdolt). Va precisato che nel Corpus Hippocraticum sono presenti entrambi gli aspetti dottrinari: quello che fa discendere gli stati morbosi dalla discrasia degli umori nel corpo umano, e quello che li attribuisce a fattori atmosferici, o ai gas generati all'interno dell'organismo. Per capire meglio in cosa consistesse la teoria dei miasmi, si può far riferimento al De rerum natura di Tito Lucrezio Caro (98-55 a.C. circa). Il libro VI del poema scientifico-filosofico lucreziano contiene non solo un drammatico resoconto dell'epidemia (presumibilmente vaiolosa) che colpì la città di Atene e l'Attica nel 430 a.C., ma anche un'interessante dissertazione sulle cause del fenomeno. Il presupposto è la necessità che "multarum semina rerum", i semi di molte cose, siano vitali per noi, ed altri, al contrario, portatori di malattia e di morte. La mescolanza casuale di codesti differenti "semi" fa sì che l'aria divenga malsana ("fit morbidus aër"). Tutta la forza e la virulenza dei morbi scaturirebbero o "dall'alto, come nuvole e nembi" o "dalla terra", resa putrida dalle piogge e dal calore del sole. Sostiene Lucrezio che quando quest'aria infetta, muovendosi come una nube, giunge nel nostro cielo, "lo corrompe e lo rende simile a sé". Accade allora che tale pestilitas "cade immediatamente nelle acque, o si insinua nelle stesse messi o in altri alimenti degli uomini e nutrimenti degli animali", con le conseguenze che si possono immaginare, oppure la sua forza "rimane sospesa nell'aria" e, in questo caso, gli uomini respirando la introducono nel proprio corpo. Va detto che la teoria lucreziana venne ripresa dal medico Girolamo Fracastoro nell'opera "De contagione et contagiosis morbis et curatione" (1546), in cui le malattie contagiose venivano spiegate con la presenza di semi capaci di infettare per contatto, a distanza e mediante veicoli di contagio.  

"Nella egregia città di Fiorenza". In merito a un caso specifico, quello della città di Firenze, disponiamo di interessanti testimonianze d'epoca medioevale: mi riferisco, in particolare, alla Cronica dei fratelli Giovanni e Matteo Villani, al proemio del Decameron di Giovanni Boccaccio e alla Cronaca Fiorentina di Marchionne di Coppo Stefani. Tutti e tre gli autori sottolineano l'assoluta impotenza dei medici di fronte al flagello della peste. "A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto" sostiene Boccaccio. "Di questa pestifera infermità i medici in catuna parte del mondo, per filosofia naturale o per fisica o per arte d'astrologia, non ebbono argomento né vera cura" (Matteo Villani). Dal canto suo, Marchionne osserva che "non valeva né medico né medicina, o che non fossero ancora conosciute quelle malattie, o che li medici non avessero quelle mai studiato, non parea che rimedio vi fosse". Impossibilitati a debellare il morbo, i medici non trovavano di meglio che consigliare... la fuga dalle località minacciate dalla peste. A Firenze, essa prese ad imperversare nel mese di aprile del 1348, seminando la strage. I dotti e gli uomini di scienza non erano in grado di offrire una spiegazione adeguata del fenomeno né tantomeno di contrastarlo. Ciarlatani e fabbricanti di amuleti, ovviamente, facevano affari d'oro. Boccaccio osserva che la pestilenza "s'avventava" dagli infermi ai sani, e che "non solamente il parlare e l'usare cogli infermi dava a' sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata". Oggi sappiamo che la peste nella forma polmonare si trasmette tossendo, starnutendo o semplicemente parlando, mediante l'inalazione di goccioline emesse dalla bocca di persone infette. Che gli indumenti indossati da individui morti di peste potessero contagiare ed uccidere non solamente altri uomini, ma anche "un altro animale fuori della specie dell'uomo", è un fenomeno che costituiva motivo di sorpresa per l'autore del Decameron il quale riferisce il seguente episodio: "essendo gli stracci d'un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via pubblica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il loro costume prima molto col grifo e poi co' denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra". Marchionne di Coppo Stefani dichiara: "E non bastava solo gli uomini e le femmine, ma ancora gli animali sensitivi, cani e gatte, polli, buoi, asini e pecore moriano di quella malattia". Malattia che, ricordiamolo, infuriò a Firenze nei mesi caldi, in corrispondenza del periodo di maggior vitalità delle pulci. Circa le cause del flagello, Boccaccio affaccia due ipotesi: il malefico influsso degli astri ("per operazion de' corpi superiori") e la volontà punitrice di Dio (la pestilenza sarebbe "per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali"). Ritroviamo il medesimo schema interpretativo in Matteo Villani: una sfavorevole congiunzione astrale ("la congiunzione di tre superiori pianeti nel segno dell'Acquario, della quale congiunzione si disse per gli astrologi che Saturno fu Signore: onde pronosticarono al mondo grandi e gravi novitadi"), ipotesi cui peraltro Villani annette scarso credito ("ma simile congiunzione per li tempi passati molte altre volte stata e mostrata, la influenzia pealtri particulari accidenti non parve cagione di questa"); e l'ira divina ("ma piuttosto divino giudicio secondo la disposizione dell'assoluta volontà di Dio") Quello del castigo divino ("la sentenzia che la divina giustizia con molta misericordia mandò sopra gli uomini, degni per la corruzione del peccato di final giudizio") è un tema caro non solo a Matteo Villani, ma a molti suoi contemporanei: "il clero assicurava che Dio, a causa dei peccati degli uomini, si sarebbe adirato e avrebbe dunque deciso di annientarli" (Bergdolt). Convincimento fondato sui "precedenti" di cui narra la Bibbia: il diluvio (Gen 6-7), la distruzione delle città di Sodoma e Gomorra (Gen 19, 23-29), le piaghe d'Egitto (Es 7-12), la pestilenza che colpì i Filistei rei di essersi impadroniti dell'Arca dell'Alleanza (1 Sa 5, 1-12; 6, 1-6). La vicenda descritta nel Primo libro di Samuele risulta di particolare interesse: ad un'attenta lettura, si comprende come gli estensori di questo testo - annoverato dai cristiani tra i libri storici del Vecchio Testamento - avessero intuito l'esistenza di un nesso tra l' "eruzione di bubboni" che colpì gli abitanti della città di Ashdod "dal più piccolo al più grande", e la presenza dei topi, da cui la terra dei Filistei era infestata. Su tale intuizione gravava tuttavia l'impianto religioso dell'opera, in cui ogni fatto è visto nella prospettiva della fede, che identifica in Dio il centro motore degli avvenimenti. La religione offriva così agli europei del XIV secolo una collaudata chiave di lettura degli eventi, capace di renderli decifrabili, sia pure in termini sovrannaturali. L'immagine di una divinità avvezza ad infliggere punizioni esemplari alle proprie creature era fortemente radicata nell'immaginario collettivo, dunque già "pronta per l'uso". Tuttavia, per quanto corroborata dalla testimonianza della Auctoritas per eccellenza (il testo biblico), la tesi secondo cui fosse "l'ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza" (Boccaccio) non rendeva certo più sopportabile, per gli uomini e le donne di allora, la tremenda minaccia della peste. Ciò che ad essi premeva era, infatti, la salvezza dalla malattia e dalla morte. Di qui le aspettative riposte nella categoria tradizionalmente preposta alla mediazione fra l'umano e il divino: il ceto sacerdotale. Per placare il furore e impetrare il perdono della divinità adirata che si riteneva avesse scagliato il flagello della peste sull'umanità, si moltiplicarono le processioni e le "umili supplicazioni" ma, sottolinea Boccaccio, né queste né altre iniziative di carattere più concretamente profilattico (la rimozione, certo tardiva, delle immondizie dalla città) valsero ad evitare che la peste nella primavera dell'anno predetto cominciasse a dimostrare "i suoi dolorosi effetti" a Firenze. E non va dimenticato che essa non risparmiò cappellani e parroci. La confusione sulle cause dell'epidemia, la mancanza di terapie efficaci, l'inutilità acclarata delle cerimonie religiose propiziatrici generarono, in breve, un senso di insicurezza generalizzata che si tradusse nella risoluzione "di schifare e di fuggire gl'infermi e le lor cose" (Boccaccio). "Lo figliuolo abandonava il padre, il marito la moglie, la moglie il marito, l'uno fratello l'altro", afferma Marchionne aggiungendo che molti malati morirono di fame nei propri letti, abbandonati dai familiari timorosi di contrarre il morbo.  

Il trionfo dell'irrazionalità. Tra gli effetti collaterali dell'epidemia di peste nera che sterminò milioni di europei, merita di esser segnalata la ripresa della setta penitenziale-millenaristica dei flagellanti, fondata nella seconda metà del XIII secolo dal mistico Ranieri Fasani, che si richiamava alle profezie del monaco cistercense calabrese Gioacchino da Fiore. Sulla base di approfonditi studi biblici, Gioacchino aveva elaborato una visione escatologica della storia che introduceva un modello della temporalità nient'affatto collimante con quello stabilito dalla Traditio. Dall'osservazione della concordia Veteris et Novi Testamenti, ovvero della corrispondenza puntuale fra gli eventi accaduti prima e dopo Cristo, Gioacchino ricavò il convincimento che fosse all'opera nella storia una Legge di ripetizione, che riproduceva nella dimensione del tempo lo schema teologico trinitario. La storia del Nuovo Israele (la Chiesa), - ovvero la Seconda Età, l'Età del Figlio -, aveva visto la ripetizione degli avvenimenti verificatisi nel corso della Prima, l'Età del Padre. Secondo Gioacchino, l'Età del Figlio stava volgendo al termine: ad essa sarebbe succeduta l'Età dello Spirito, durante la quale si sarebbe riprodotta la catena di eventi compiutisi da Adamo a Malachia, ma per l'ultima volta. Essa, infatti, avrebbe posto fine alla storia e alla Chiesa istituzionale. Le profezie gioacchimite, benché sovente fraintese, esercitarono un profondo influsso sulla spiritualità medioevale, diffondendosi in ampi strati della società. L'annuncio della Fine ormai prossima dell'età presente suggestionò il promotore del movimento dei flagellanti, che da Perugia si propagò in tutta Italia e oltre i confini della penisola. Parallelamente alle processioni dei flagellanti, all'epoca della grande pestilenza, in alcune regioni d'Europa (Francia centrale e meridionale; gran parte della Germania) si assistette a un dilagare dei pogrom: la più brutale e sanguinosa ondata di persecuzioni antiebraiche verificatasi prima dell'Olocausto. In un clima di psicosi collettiva, "nell'intento di soddisfare il proprio bisogno di causalità, non di rado il popolo vedeva all'opera persone che diffondevano l'epidemia e assassini che andavano puniti" (Bergdolt). Constatato che le pratiche penitenziali non avevano alcun potere sulla peste, il popolo andò alla ricerca di un capro espiatorio su cui sfogare la propria aggressività e scaricare la propria ansia, e lo individuò negli Ebrei, accusati di avvelenare i pozzi e propagare la peste allo scopo di distruggere la Cristianità. Tale pretestuosa accusa si rivelerà talmente longeva da rieccheggiare ancora, due secoli più tardi, in uno degli scritti più veementi del riformatore sassone Martin Lutero: il celebre "Von den Juden und ihren Lügen", di cui esiste una splendida traduzione italiana (condotta sulla versione latina di Justus Jonas) ad opera di Vittorio Dornetti per i tipi dell'Editrice Terziaria di Milano ("Contro gli Ebrei", 1997). Il curatore del volume osserva, in Appendice III, che: "Oltre ad essere una sintesi pressoché completa della tradizione antigiudaica cristiana dai Padri della Chiesa fino alla teologia medievale ed oltre, il Von den Juden appare anche un catalogo ugualmente folto dei capi d'accusa che la cultura popolare e gli intellettuali, sia protestanti che cattolici, avevano formulato e poi diffuso in merito ai Giudei, ‘inviati di Satana’ e ‘male assoluto’."  

La Peste nella Rete. Nel mare magnum di Internet sono reperibili una gran quantità di testi, brevi e non specialistici, sull'argomento. Il materiale in lingua italiana presenta una certa uniformità di contenuti e va vagliato con cura. Tra gli articoli degni d'interesse segnalo: "La peste nera. Ma poi venne il Rinascimento" di Enrico Butteri Rolandi (www.cronologia.it/storia/aa1347.htm). 

Pietro Ferrari
(articolo pubblicato sul Nr. 4 della Fanzine Nihil