mercoledì 31 ottobre 2018

LETTERATURA ONIRICA

L’apertura della sessione pomeridiana del convegno era prevista per le 14 e 30. Un quarto d’ora prima dell’inizio l’aula era già gremita, in gran parte di studenti iscritti al corso dell’oratore, il professor Canestracci - l’uomo che ero pagato per pedinare.
Mi sedetti in una posizione defilata, da cui potevo controllare agevolmente la sala e, all’occorrenza, allontanarmi senza dare nell’occhio.
Ero reduce da una notte insonne, l’ennesima. Quando si dorme poco, o non si dorme affatto, i processi mentali subiscono un rallentamento non dissimile da quello prodotto dagli oppiacei. Ciò nonostante, gli stimoli sensoriali non giungono attutiti, ma amplificati. Una condizione tutt’altro che piacevole.
Alla mia destra, poco lontano, un giornalista sudaticcio, collaboratore della Gazzetta dei Sottomessi, il quotidiano locale, si gingillava freneticamente con il tablet. Lo conoscevo di vista e di fama: era un assiduo frequentatore di strip club e bische clandestine. Spandeva intorno a sé un scia olfattiva greve e inconfondibile, un misto di profumo dozzinale, sudore rancido e whisky.
Il microfono diede uno di quei fischi acutissimi per cui i microfoni paiono essere appositamente progettati. Il moderatore, dopo una breve introduzione infarcita di omaggi servili ai notabili presenti in sala, diede la parola a Canestracci. Questi esordì facendo una panoramica sui precursori dell’onirismo: Macronio, Eustachio, Filemone d’Alicarnasso, sino a giungere agli esponenti tardo rinascimentali di quel singolare genere letterario. Si soffermò con particolare attenzione sulla figura di Ermenegilda da Brescia, la monaca-veggente autrice di un trattato sulla scrittura automatica e il sonnambulismo. Alle 16 l’uditorio cominciò a dare segni inequivocabili di cedimento. Gli studenti, stremati, boccheggiavano come pesci fuor d’acqua; un’anziana docente di pedagogia si accasciò al riparo di una tenda ed ivi giacque, esanime. Canestracci, eccitato dalla vista delle sofferenze che andava infliggendo al pubblico, si gettò a capofitto in un’analisi degli epigrammi di Giulebbe da Orvieto. La conclusione del discorso fu salutata da un applauso scrosciante, liberatorio. Mai in vita mia avevo desiderato tanto aprire il fuoco su un accademico.
Il moderatore ringraziò calorosamente il Canestracci per il “pregiatissimo intervento”, dicendosi certo che sarebbe “entrato negli annali dell’ateneo di Elissinia per la straordinaria limpidezza dell’esposizione e la sapienza dottrinale profusavi”.
Fu in quel preciso istante che giurai a me stesso che non avrei dato tregua a Canestracci sino al suo completo annientamento.
Prima di abbandonare la sala, versai nella borsa del giornalista – intento a congratularsi con l’oratore - il contenuto di una busta. Si trattava di una polvere ricavata dai semi dell’Anaurabo, un arbusto che cresce sulle pendici delle Ande, utilizzato dagli indigeni per provocare paralisi temporanee dei muscoli facciali.
Guadagnai una panchina nei giardinetti prospicienti la sede del convegno. Per ragioni inesplicabili, una studentessa che passeggiava da quelle parti con aria svagata venne a sedermisi accanto e attaccò bottone.

 -    Quanti pappagallini.
 -    Già, ce n’è una colonia.
 -    Lei è un ricercatore?
 -    In un certo senso.
 -    Le piace Elissinia?
 -    Si e no.
 -    A me piace molto, ma solo a ottobre.
 -    E negli altri undici mesi dell’anno?
 -    Non la sopporto.
 -    Dev’essere dura.

La ragazza vestiva in modo finto trasandato: la scelta degli abiti e il trucco rivelavano una sapiente cura dei dettagli. Aveva una chioma di capelli biondi di una lunghezza rara a vedersi. Distolsi rapidamente lo sguardo per non dare adito a malintesi.

 -    Dunque è un ricercatore.
 -    Ostinato.
 -    E le sue ricerche sono fruttuose?
 -    A volte. E lei che fa di bello?
 -    Studio.
 -    A quale facoltà è iscritta?
 -    Mi sto specializzando in criptozoologia.

Non riuscii a trattenere un sorriso.

 -    Che c’è, la cosa la diverte?
 -    Diciamo che è una disciplina di nicchia.
 -    Ma ho altre aspirazioni.
 -    Quali, se posso?
 -    Lavorare per una compagnia aerea.
 -    In bocca al lupo.

All’uscita della sala convegni si materializzò Canestracci. A fargli strada, due portieri dall’aspetto patibolare. Era attorniato da un nugolo di lacchè di entrambi i sessi.
Mentre mi alzavo dalla panchina, da sotto la mia giacca fece capolino la fondina della pistola. La studentessa se ne avvide, colsi lo stupore nel suo sguardo, ma non fece parola.

 -    Arrivederci –, le dissi.
 -    Arrivederci. Giulia. – disse a sua volta, porgendomi la mano.
 -    Marco.

Aveva una stretta di mano decisa. Ne dedussi che praticava una qualche disciplina sportiva, forse un’arte marziale. Lasciai defluire il corteo di Canestracci e, quando fu a una certa distanza, presi a seguirlo.

Il barista doveva aver assunto qualche sostanza psicotropa: da alcuni minuti era come pietrificato dietro al bancone, con gli occhi sbarrati, un sorriso ebete impresso sul volto. Nel locale, a parte me, c'era un solo avventore, un vecchio ubriaco che pareva anche lui in stato di trance catatonica. Lasciai una banconota da dieci euro nel piattino ed uscii. Nonostante fosse mezzanotte, il centro di Elissinia era una fornace.
Mi incamminai verso casa, imprecando a bassa voce. Giunto all'altezza di via dei Catafratti vidi sbucare dall'androne di un palazzo un grosso topo di fogna. Fui sul punto di sparargli, ma dopo un attimo di esitazione riposi la pistola nella fondina. Il roditore si rifugiò in un vicolo buio. 

Giunto a casa, mi buttai sul divano. Era stata una giornata pesante. Avevo dovuto seguire Canestracci a Milano, sin nei pressi di Galleria Buenos Aires. Vi si era fatto portare dall'autista, Casimiro Carella. Costui era una mia vecchia conoscenza:  un individuo rozzo ma provvisto di intuito animalesco e di una certa astuzia. Godeva dell'amicizia di più di un professore ordinario, grazie alle sue doti di procacciatore di mignotte. Ciò gli aveva garantito una vera e propria immunità all'interno dell'ateneo, la licenza al cazzeggio permanente e sistematici trattamenti di favore.

Scivolai in un sonno senza sogni. Poche ore dopo fui svegliato dallo squillo del telefono: un invito in questura.

 -    Deuterio: come si fa a chiamare così un figlio?
 -    Beh, meglio Deuterio che Stronzio.

I nomi insoliti mi hanno sempre affascinato. Certo dev’esserci un limite. Deuterio pareva effettivamente un po’ eccessivo, ma forse il padre era un chimico, vallo a sapere.
Il brigadiere Marostica invece era di diverso avviso.

 -    Solamente un cretino poteva scegliere un nome del genere.
 -    In effetti.

Ero stato convocato in questura in seguito al ritrovamento, lungo un sentiero nel parco, del cadavere di Canestracci. A fare la macabra scoperta, un podista che di nome faceva Deuterio. Marostica era nervoso, la morte violenta di un illustre docente universitario non era una rogna da poco. 

 -    Da quant’è che lo pedinavi?
 -    L’ho pedinato per una settimana.
 -    E come mai lo hai perso di vista proprio domenica?
 -    Perché ero pagato per pedinarlo fino a sabato.
 -    Ma guarda che coincidenza.
 -    Chiedi in agenzia: è tutto nero su bianco.
 -    Adesso mi riferisci quello che hai visto quando lo pedinavi.
 -    No problem.

Riferii. Marostica ascoltava e, di tanto in tanto, prendeva appunti su un taccuino. Mi lasciò terminare senza mai interrompermi, quindi se ne uscì dicendo:

 -    E’ una grave perdita per la città.
 -    Hai voglia di scherzare?
 -    La pietà non si nega a nessuno.
 -    Ma non si impone neppure a comando.
 -    Non cambierai mai.
 -    Nessuno cambia: né tu, né io. Tutt’al si più peggiora.
 -    Al tuo professore piacevano gli ortaggi?
 -    Perché?
 -    Il medico legale gli ha trovato una carota nel culo. Bella grossa, con un ciuffetto di foglioline.
 -    Qualcosa mi dice che non è morto per overdose di beta carotene.
 -    No: qualcuno gli ha stretto troppo un laccio al collo. Arrivederci, Marco.

Lo salutai con un cenno del capo e me ne andai. La morte di Canestracci mi lasciava indifferente, umanamente parlando, ma provavo un interesse di carattere professionale per le circostanze del decesso. Ora non restava che attendere i ritratti encomiastici del defunto sulla Gazzetta dei Sottomessi, le dichiarazioni fintamente affrante dei colleghi, i necrologi sul cancello principale dell’ateneo. Le acque sulla superficie paludosa di Elissinia si sarebbero agitate un poco, per riprendere poi l’immobilità limacciosa di sempre.

Il titolare dell’agenzia mi guardò storto da dietro la scrivania.

 -    Ha telefonato Marostica.
 -    Davvero?
 -    Mi ha chiesto di te.
 -    E quindi?
 -    E quindi preferirei non ricevere certe chiamate.
 -    Se è per quello, io preferirei non essere convocato in questura, però capita.
 -    L’unica cosa positiva di questa storia è che la moglie ci ha pagato in anticipo.
 -    L’hai sentita?
 -    Naturale.
 -    E…?
 -    Non mi è parsa particolarmente addolorata.
 -    Come biasimarla. C’è altro?
 -    Si: potremmo tornare in pista, se le indagini dovessero andare per le lunghe o non approdare a nulla. Tu che hai detto a Marostica?
 -    Una sintesi di quel che è scritto nel fascicolo consegnato alla vedova dell’illustrissimo.
 -    Ho la sensazione che ci sarà ancora del lavoro per noi. La moglie non può fare la figura di quella che se ne fotte del perché e del percome della morte del marito, dopo averlo fatto pedinare fino a ventiquattr’ore prima.
 -    Immagino l’abbiano iscritta nel registro degli indagati.
 -    Immagini bene. Tu tieni occhi ed orecchie ben aperti.
 -    Come sempre.

Era il momento di andare a trovare il Lello. Benché, dopo l’ultima scarcerazione, conducesse vita ritirata, rimaneva uno degli uomini più informati su tutto ciò che di losco fermentava a Elissinia. Lo conoscevo da una vita e mi doveva più di un favore.
Abitava nel sottotetto di un condominio dirimpetto al teatro cittadino. Usciva solo di notte, e non sempre. Per incontrarlo, bisognava conoscere le sue abitudini, e io sapevo di poterlo trovare, a metà settimana, al bar notturno di Viale Custoza. Fu proprio lì che lo incontrai, quella notte stessa.

 -    Guarda chi si vede -, disse quando mi sedetti al bancone.

Era più grigio e male in arnese del solito.

 -    Ti trovo bene –, replicai.
 -    Respirare respiro. Bevi qualcosa?
 -    Vodka.

Fece un cenno al barista e questi di lì a poco ci servì due bicchieri appannati dal gelo.

 -    Salute.
 -    Salute. Come mai da queste parti?
 -    Non lo indovini?
 -    Passeggiavo. E’ più salutare passeggiare in città che nel parco, ultimamente.
 -    Con tutti quei pollini, se uno è allergico, rischia grosso.
 -    Allo strangolamento siamo tutti quanti un po’ allergici.
 -    Un genere di allergia che si manifesta anche in assenza di graminacee.
 -    Magari in un appartamento.
 -    Anche.
 -    Certo che è strano: con una crisi allergica di quel genere, uno che fa? Va al parco. Non ti sembra curioso?
 -    Magari ce l’hanno accompagnato.
 -    Non a riprendere fiato, però.
 -    Media vita in morte sumus.
 -    Perbacco, Lello, mi sorprendi.
 -    Il tempo per leggere ed apprendere non mi è certo mancato.
 -    Ecco, allora rendimi edotto in merito a quel genere di allergia. Ti risulta che il luminare soffrisse di avitaminosi?
 -    Che io sappia, la vitamina A si assume per via orale, non rettale.
 -    Infatti. Grazie per la vodka.
 -    Da svidànja.

Al funerale di Canestracci non mancava un solo direttore di dipartimento. Oltre ai notabili di Elissinia, erano presenti parecchi curiosi. Nei tanti articoli dedicati dalla Gazzetta e dai quotidiani nazionali alla morte dell’accademico non si faceva alcuna menzione della carota. La notizia tuttavia era filtrata non si sa come, e in città non si parlava d’altro. I volti dei presenti, a cominciare dalle massime autorità dell’ateneo, tradivano un certo imbarazzo. Il rettore magnifico pronunciò un panegirico del defunto, ostentando insincera commozione. Al termine del discorso, un piccione planò sul cortile dov’era in corso la cerimonia, e sganciò uno schizzo di feci che andò a stamparsi con precisione millimetrica sull’abito blu dell’oratore.

Sul volto del Magnifico, che fino a pochi istanti prima appariva disteso, si dipinse una smorfia truce. Il piccolo inconveniente fece emergere il suo essere autentico, fosco e stizzoso. Tale fu la sua rabbia che, con un morso, frantumò il microfono, quindi, imprecando, scese dal podio e si allontanò respingendo in malo modo portieri, commessi e segretarie accorsi servilmente a confortarlo, manco fosse stato colpito da una scheggia di mortaio, anziché da uno schizzo di merda.

Mi congratulai in cuor mio con il piccione.

La cerimonia era a un passo dal naufragio, un rischio che l’Ateneo doveva ad ogni costo scongiurare. Così, il professore ordinario di arti divinatorie, Jacopo Guagliardi, detto lo Zoppo a causa della sua andatura claudicante, guadagnò faticosamente il podio e tentò di rimediare al disastro.

Tanto impacciato era nei movimenti quanto agile nel parlare: il suo fu un intervento dignitoso, privo di toni enfatici. La cosa mi sorprese non poco. Purtroppo, ultimato il discorso, mise un piede in fallo e si abbatté rovinosamente al suolo. Accorsero due portieri: il poveretto fu sollevato da terra come un fagotto di stracci e deposto su una panchina. Aveva un colorito cereo, gli occhi strabuzzati ed emetteva deboli lamenti simili a guaiti.

Si ritenne opportuno porre termine alla cerimonia.

Il pubblico defluì celermente, io mi soffermai ad osservare i capannelli di accademici che cicalecciavano nel cortile, indifferenti alla presenza della bara.

Me ne andai. Nell’uscire dal tetro edificio, udii una voce femminile pronunciare il mio nome. Mi voltai e vidi, sul marciapiede opposto, Giulia. Indossava un abito in maglina lungo, a balze, che le donava molto. Traversai la strada e le andai incontro.

  -    Buongiorno Giulia, come sta?
  -    Bene. Lei, le sue ricerche?
  -    Se ne parlassimo in tutta tranquillità davanti a una tazza di caffè?
  -    Perché no?

Entrammo al Samarcanda, locale frequentato dai vitelloni di Elissinia. Giulia ordinò una caipiroska alla fragola, io un Jameson.

 -    E’ andato al funerale?

Annuii.

 -    Conosceva il morto?
 -    Non personalmente. Lei?
 -    Ho dato il suo esame l’anno scorso.
 -    Ah. Che tipo era?
 -    Molto preparato, grande oratore. Però…
 -    Però?
 -    Niente. Parce sepulto.
 -    Non è ancora stato sepolto.
 -    Faceva un po’ troppo il piacione, mi spiego?
 -    Capito.
 -    Non sto dicendo che l’abbia fatto con me.
 -    Con altre studentesse, invece?
 -    Si, insomma, allungava le mani.
 -    Ci sono state lamentele?
 -    Non che io sappia.
 -    Quindi con lei non ci ha provato?
 -    Le ho già detto di no.
 -    Sorry.
 -    E’ solo che  non amo le domande troppo dirette.
 -    Io invece tendo a evitare le perifrasi, gli eufemismi. Poco fa lei mi ha fatto capire che il defunto era uno sporcaccione.
 -    Non ho detto questo.
 -    Non ha usato quel termine, ma il senso delle sue affermazioni era chiarissimo.
Inoltre…
 -    Inoltre?
 -    Ho la netta sensazione che le abbia fatto delle avances, che lei ha respinto.

Giulia tacque e distolse per un istante lo sguardo.

 -    Se anche fosse, la cosa non ha più alcuna importanza.
 -    Ne convengo.
 -    Sa cosa faceva quel porco? – disse fissandomi dritto negli occhi.
 -    No.
 -    Invitava le studentesse carine nel suo studio e...
 -    …e?
 -    Se la convocata stava al gioco, chiudeva la porta dello studio a chiave e si spogliava. Poi si sdraiava sul tappeto e chiedeva alla ragazza di togliersi le mutandine e sederglisi in faccia.
 -    E chi non ci stava veniva punita in sede d’esame?
 -    No, in tal caso una denuncia lui se la sarebbe beccata di sicuro, ma le accondiscendenti avevano il 30 assicurato.
 -    Ecco, ora il quadro della situazione è nitido. Un altro drink?
 -    Ma non dovevamo parlare davanti a una tazza di caffè?

Sorseggiando la seconda caipiroska, Giulia si sciolse ulteriormente.

 -    Cos’è questa storia della carota?
 -    Gliene hanno trovata una nel culo. Ne spuntava un’estremità, con tanto di foglioline.

Si mise a ridere, e faticò non poco a smettere.

 -    Che figuraccia! Ma se l’è meritata.
 -    Credo che il suo assassino, con quel gesto,  avesse in mente proprio di fare uno sfregio alla figura di uno stimato docente.
 -    Perché assassino? E se fosse stata una donna?
 -    Non penso. Canestracci aveva una bella stazza. Non escludo però il coinvolgimento di una donna, come mandante del delitto. Poi c’è un particolare curioso.
 -    Quale?
 -    La carota era una deep purple.
 -    Sarebbe a dire?
 -    Una varietà ibrida di colore viola scuro.
 -    Mai sentita!
 -    E’ stata immessa di recente sul mercato.
 -    Ma lei come fa a sapere queste cose? Non c’erano sui giornali.
 -    Anche lei sapeva della carota, di cui i giornali hanno taciuto.
 -    Ma non sapevo fosse viola.
 -    Me le ha dette un uccellino.
 -    Un pappagallino, magari?

Quella ragazza m’intrigava.

 -    E se passassimo al tu? -, le dissi.
 -    Di già? Siamo appena al secondo bicchiere.

Si, era decisamente un bel tipo. Restammo ancora un po’ a chiacchierare del più e del meno. O per meglio dire straparlammo entrambi, per via dell’alcol.

Al terzo whisky la mia lucidità mentale cominciò a vacillare. Giulia mi guardava ad occhi sgranati, ridendo alle mie battute. Tre caipiroska non sono uno scherzo. 

 -    Abiti in centro?
 -    Dietro alla stazione.
 -    Ti accompagno, se vuoi.
 -    Ok.

Uscimmo. Fatti pochi passi, mi squillò il cellulare. Era Lello.

 -    Che mi dici?
 -    Ho fatto il giro degli ortolani.
 -    E quindi?
 -    Quando posso trovarti?
 -    Ti trovo io solito posto solita ora.

Riagganciai.

 -    Appuntamento galante?
 -    Tutt’altro.

Giulia camminava appoggiandosi al mio braccio, e nonostante ciò la sua andatura era tutt’altro che stabile.

 -    Direi di evitare il corso, - suggerii -  c’è troppa gente a quest’ora.

Imboccammo Via Sarfatti, una via laterale scarsamente frequentata. All’improvviso, una decina di metri avanti a noi, vidi un corpo precipitare dall’alto di un edificio sul marciapiede sottostante, lanciando un grido terribile. Giulia sobbalzò per lo spavento.

Mi avvicinai per capire se l’uomo che giaceva al suolo fosse ancora vivo. Lo osservai, dal cranio rotto si andava allargando una pozza di sangue. Lo riconobbi subito: si chiamava Sastri, era nel giro dello spaccio.

Composi il 112 sulla tastiera del cellulare.

 -    Giulia, tra poco saranno qui i carabinieri. Ce la fai ad andare a casa da sola?
 -    Mi gira la testa.
 -    Vatti a sedere al bar di fronte alla Feltrinelli, prenditi un caffè. Appena mi libero, ti raggiungo.
 -    E tu che fai?
 -    Aspetto i caramba.

Giulia si diresse verso Via dei Catafratti. Io rimasi dov’ero, poco distante dal cadavere. Una piccola folla di curiosi si venne radunando sul post. L’ululato delle sirene si faceva sempre più acuto. Dopo poco giunsero un’ambulanza e due-diconsi-due vetture dei carabinieri. Da una di esse scese Marostica.

 -    Marco, ma tu sempre in mezzo ai casini stai?
 -    Ne farei volentieri a meno.
 -    Che è successo?
 -    L’ho visto venir giù come un sasso.
 -    Ma guarda – disse il brigadiere dopo aver osservato attentamente il morto –, una vecchia conoscenza. Tu che ci facevi qua?
 -    Passeggiavo.
 -    Se passeggiavi più svelto ti cadeva in testa.

I caramba si fiondarono nel palazzo prospiciente il tratto di marciapiede su cui giaceva il cadavere, io invece nel cesso del bar più vicino perché mi stavo pisciando addosso.

Raggiunsi Giulia alla Feltrinelli e l’accompagnai a casa. Non dissi di no quando mi chiese se volevo salire da lei. Mi aspettavo il classico appartamentino per studenti e invece mi trovai di fronte a un signor trilocale elegantemente arredato. Giulia si accorse del mio stupore.

 -    E’ di mio padre, un investimento. Mettiti comodo, ti raggiungo subito.

Mi sedetti sul divano, un ampio divano a isola. Giulia riapparve dopo una decina di minuti con indosso un accappatoio e si sdraiò lunga distesa sul divano, alla mia destra.

 -    Non è che mi faresti un favore?
 -    Dimmi.
 -    Mi massaggeresti i piedi? E’ una cosa che adoro, mi rilassa tantissimo.
 -    Ok.
 -    Non ti ho detto tutto.
 -    Cos’hai tralasciato?
 -    Premi con più energia. Sai che i vari punti della pianta del piede sono collegati ad alcune parti del nostro corpo?
 -    La chiamano riflessologia plantare. Stavi dicendo?
 -    Ho preso 30 e lode all’esame di Letteratura onirica.
 -    Ah.
 -    Ora mi giudicherai una troia.
 -    Tendo a non giudicare in modo affrettato.
 -    Sapessi che razza di maiale era Canestracci, un vero pervertito.
 -    Non sei costretta a parlarmene.

Lei però non chiedeva di meglio che spiattellare tutto quanto, fin nei dettagli.

 -    Faceva schifo a vedersi. Te lo immagini tutto nudo, con le palle penzoloni? Gli arrivavano quasi alle ginocchia.
 -    Oh la miseria!
 -    Non ridere. Il suo corpo flaccido mi disgustava, aveva un colorito cadaverico.

Hai presente i corpi degli annegati che riemergono in superficie quando sono gonfi di gas? Ecco, così.

 -    Che bella immagine.
 -    Si masturbava di continuo ma non gli si rizzava. Voleva che gli strizzassi le palle e l’uccello con una cordicella di cuoio. Poi mi faceva indossare uno strap-on...
 -    E bravo il professore.
 -    Tutto sommato me la sono cavata a buon mercato. Un paio di incontri e nient’altro.
 -    E non ti ha più cercata?
 -    No cioè, sì, ma ho preso tempo. L’ho rivisto all’esame, ed è stato di parola.
 -    Buon per te. Ora ti devo proprio salutare.
 -    Cos’è, ti ho scandalizzato?
 -    Figurati, è che ho da fare.
 -    Ti lascio il mio numero se vuoi.

Presi nota. Si alzò per accompagnarmi alla porta. Non la baciai: l’idea di lei con Canestracci mi procurava un certo disgusto.

Si chiamava Maurizio, ma tutti si divertivano a storpiarne il nome. Così, c’era chi lo chiamava Malizio, chi Novizio, chi invece Mestizio. E ogni volta il poveretto si affrettava a correggere con voce stridula il proprio interlocutore: “Non mi chiamo Solstizio, mi chiamo Maurizio!”, suscitando l’ilarità dei presenti.
Io non l’avevo mai sfottuto, ogni tanto però gli intimavo di levarsi dai coglioni, quando era troppo insistente nel chiedere uno spicciolo o una sigaretta (a me che non fumo).
Quel giorno lo vidi stravaccato su una panchina nei giardini del Castello.

 -    Uèh Maurì.
 -    Ciao Marcone.
 -    Sei già pieno a quest’ora?
 -    Ho bevuto solo un goccetto.
 -    Seee.
 -    Giuro.
 -    Meglio che non giuri. Ciao!

Il suo alito puzzava di vino che potevi sentirne l’odore a tre metri di distanza. Allungai il passo e dopo una decina di minuti giunsi in agenzia. La segretaria era al telefono e mi fece segno di entrare nell’ufficio del titolare.

 -    Eccoti finalmente! Da’ un’occhiata alla prima pagina del giornale.

Sulla prima pagina della Gazzetta spiccava un titolone: “Tragica caduta dal balcone”. Sastri non era uno sputapalline qualunque ma il pusher ufficiale dei rampolli della borghesia locale.

 -    La vedova Canestracci ha chiamato. Vuole vederti.
 -    Ti farò sapere.
 -    Presto però!
 -    Il tempo di passare in questura per testimoniare.

Negli uffici della questura notai una certa animazione.

 -    Brigadiere, ultimamente ci vediamo spesso.
 -    Persino troppo, direi. Tu che parere ti sei fatto sulla morte di Sastri?
 -    L’ho visto venir giù urlando. Non credo sia scivolato mentre stava annaffiando i gerani sul balcone.
 -    Tanto più che quella non era casa sua.
 -    Ah. E di chi?
 -    Perché me lo chiedi, lo sai già, sta sul giornale.
 -    Non l’ho ancora letto.
 -    Ci abita un avvocato, che però in quel momento era assente.
 -    Ah. E in merito al carotone, novità?
 -    L’indagine è in corso. Hai firmato la deposizione?
 -    Certo che sì. Ciao brigadiere, buon lavoro!
 -    Altrettanto a te.

Tutto si può dire di Elissinia tranne che sia un posto dove non succede niente. In pochi giorni, due morti ammazzati. Di Canestracci in città non si parlava più, la vicenda della carota era così imbarazzante per le autorità accademiche che nessuno, nei corridoi dell’università, osava fare il minimo cenno al docente. La vedova tuttavia non aveva alcuna intenzione di stare al gioco. Mi ricevette nel tardo pomeriggio.

 -    Se credono che resterò muta in disparte, si sbagliano! Mandria di ipocriti!
 -    Signora, le posso parlare con assoluta franchezza?
 -    Certo.
 -    Se fossi al suo posto non so se agiterei più di tanto le acque. Lei ha letto il mio rapporto…
 -    L’ho letto. So perfettamente che razza di porco fosse mio marito ma non è questo il punto. Non mi sta bene che i suoi “cari colleghi” passino agli occhi di tutti per dei galantuomini e lui per l’unica pecora nera dell’ateneo.
 -    Capisco.
 -    Quindi non starò zitta. Continui ad indagare.
 -    Neppure se questo significasse scoperchiare una sentina?
 -    In quella sentina di sicuro non ci sono soltanto le zozzerie di Ulderico!
 -    Ma ci sono anche quelle.
 -    Non mi importa. Tanto peggio di così… La sua immagine non potrebbe essere maggiormente infangata di quel che già è.
 -    In tutto questo il mio compito sarebbe?
 -    Incida il bubbone di questa città sino a farne uscire tutto il marcio.
 -    Signora, lei mi affida un compito per il quale non basterebbe una brigata di chirurghi.

Trovai Lello che leggeva un libro, seduto al solito tavolo, al solito bar, alla solita ora.

 -    Che leggi di bello?

Mi mostrò la copertina, logora.

 -    Rigodon? Passa il tempo ma non la tua passione per Céline, vedo. Che mi dici dell’allergico?
 -    Non ti sembra strano il volo di Sastri a pochi giorni dal ritrovamento del cadavere del prof? Ammettiamo, in via del tutto ipotetica, che Sastri fosse al corrente di qualcosa. Hai idea della quantità di lordume che scorre in questa tranquilla città di provincia?
 -    Ne ho idea. L’allergico avrà pestato i calli sbagliati?
 -    Non aveva debiti con cravattari.
 -    E allora?
 -    E allora bisogna cercare altrove.
 -    Resta da capire cosa leghi i due delitti.
 -    La risposta sta nella vita privata dell’allergico.
 -    Era un depravato con la passione per le studentesse troie.
 -    Sai che rarità.
 -    Oggi ho parlato con la moglie. Pare intenzionata a non lasciar posare la polvere sulla faccenda.
 -    E tu credi che le convenga?
 -    Per niente.

Le sale autoptiche erano posizionate nei sotterranei dell’istituto di medicina legale, situato a poche centinaia di metri dalla camera mortuaria. Appena entrato, fui investito da lezzi talmente mefitici che dovetti appoggiarmi alla parete del corridoio per non perdere l’equilibrio.

 -    Sentito che puzza? Ne è arrivato uno brutto!

Conoscevo Valerio da anni. Lavorava all’istituto, anzi, si può dire che quella fosse la sua seconda casa: era sempre lì, in mezzo ai morti.

 -    Cazzo Vale, che tanfo!
 -    Te l’ho detto, è di quelli brutti. L’han trovato chiuso nel bagagliaio di una macchina, doveva essere lì da giorni. Avessi visto che matasse di cagnotti!
 -    C’è Manelli?
 -    Ha finito adesso l’autopsia del puzzone.
 -    E’ nel suo ufficio?
 -    Aspetto che lo avverto.

Il medico settore mi ricevette dopo poco.

 -    Marco, hai scelto il giorno sbagliato per venirmi a trovare.
 -    Me ne sono accorto. Che ci faceva quel tizio nel bagagliaio?
 -    Si riposava dopo aver assunto del piombo tetraetile.
 -    Minchia, e con questo fanno tre morti ammazzati in sette giorni. Mica male per una città di provincia.
 -    Già.
 -    L’avete già identificato?
 -    Non ancora.
 -    E del prof che mi dici?
 -    Non posso dirti nulla di più di quel che già sai.
 -    Fai un piccolo sforzo.
 -    Credo che avesse dei vizietti.
 -    Tipo?
 -    Bdsm. Si faceva legare e frustare.
 -    Capito. Senti, ti lascio perché questa puzza è veramente atroce.
 -    Grazie tante, pensa che io invece devo restare qui ad annusarla.

Mi allontanai dal sotterraneo a passo spedito e una volta fuori camminai a lungo per togliermi dalle narici l’odore nauseabondo della putrefazione. Sapevo già che avrei dovuto portare in lavanderia ogni singolo capo di abbigliamento che avevo indosso. Il cellulare diede uno squillo. Era Giulia su Whatsapp: “Sei bravo a fare i massaggi”. Che gran puttana!

L’indomani, Elissinia si ritrovò sui tigì nazionali. C’era da immaginarlo: tre morti misteriose in una settimana non sono uno scherzo.  Il disagio della borghesia locale era palpabile, lo si respirava quasi, nelle vie del centro. I portieri dell’ateneo sfoderavano espressioni più truci del solito, parevano sul punto di mordere chiunque si avvicinasse all’ingresso del rettorato. Ce n’era uno cui anni prima era accaduto un incidente curioso: era stato inghiottito da una voragine spalancatasi nel manto stradale. Purtroppo ne era uscito vivo. Me lo trovai di fronte mentre traversavo il cortile della biblioteca centrale universitaria. Mi lanciò un’occhiata ostile.

 -    Beh?, gli domandai a muso duro.

Ero sul punto di tirargli un cazzotto sul grugno. Per sua fortuna abbassò lo sguardo e scantonò. Quell’individuo mi dava tremendamente sui nervi.

Nelle vicinanze della trattoria I Tre Fiumi vidi sbucare da un vicoletto una figura nota. 

 -    Ciao Marco.
 -    Lello, che ci fai in giro a quest’ora?
 -    Hai due minuti?
 -    Certo.
 -    Bene, allora facciamo due passi.

Ero davvero sorpreso di trovarlo in giro prima di mezzogiorno, di solito dormiva sino a tardi e usciva dopo il tramonto. Ci dirigemmo verso la basilica di San Simeone Salos.

 -    Marco, senti, te lo dico senza girarci troppo intorno: ti stai infilando in una cisterna piena di merda. Siamo amici da una vita, se ti parlo così significa che ne ho motivo. Lascia perdere questa storia.
 -    Cos’hai saputo esattamente?
 -    Quanto basta per dirti di mollare il colpo e alla svelta. Non è uno scherzo: rischi di finire anche tu in un bagagliaio.
 -    Questa città comincia a piacermi sempre meno.
 -    Purtroppo è così. Né tu né io possiamo farci niente.
 -    Mi resta la curiosità di capire quale sia, ammesso che esista, il rapporto fra queste morti. Oddio, un’ipotesi ce l’ho, ma è basata su delle semplici supposizioni, anzi su delle sensazioni.
 -    E quale sarebbe?
 -    Il prof aveva messo le mani sulla ragazza sbagliata. Che so, la figlia o la nipote di un santista.
 -    E Sastri?
 -    Sbaglierò ma secondo me Sastri è stato punito per lo stesso motivo. Del tipo nel bagagliaio non ho idea.
 -    Fuochino. Ora capisci perché è bene che tu te ne stia fuori? Chi li ha uccisi è ancora a piede libero.

Camminammo senza più parlare, sinché non giungemmo nei pressi della basilica.

 -    Sai cosa disse Simeone Salos al fratello Giovanni prima di abbandonare il deserto?
 -    No.
 -    Vado a prendermi gioco del mondo.

Lello si accese una sigaretta.

 -    Che ne diresti invece se noi andassimo a berci un bianchino?

Pietro Ferrari, agosto 2018

domenica 28 ottobre 2018


L'ENIGMATICA SESSUALITÀ
DI PHILIP K. DICK

Ogni grande ingegno di questo mondo ha i suoi lati oscuri, i suoi segreti inconfessabili, che in ogni caso nulla tolgono al valore delle sue opere. In questi tempi di molestiadi imperversa il movimento MeToo, con torme di Erinni furiose che urlano, sbraitano e accusano ogni uomo sulla Terra di spaventose nefandezze. Per questo motivo ho molto riflettuto prima di pubblicare queste mie note su Philip K. Dick e sul suo modo di vedere la sessualità: il mio timore era che il materiale raccolto potesse nuocere alla reputazione del grande scrittore californiano (d'adozione, in realtà nacque a Chicago), attirandogli contro le ire delle femministe. Infine mi sono convinto della necessità di vincere ogni remora, e questo per merito dei carissimi amici Pietro, Sergio, Samuele e Daniele, che ringrazio per il loro prezioso sostegno. Ho messo ordine in ciò che avevo scritto e lo ho integrato con nuove osservazioni. 

Philip K. Dick era tutto fuorché liberale in materia di sessualità. Per lui la sessualità era pura penetrazione: disprezzava profondamente ogni preliminare e in particolare odiava la fellatio, che riteneva una cosa abominevole. Associava inoltre l'atto sessuale alla procreazione con il massimo coinvolgimento emotivo, arrivando al punto di essere un fiero antiabortista. Al giorno d'oggi le sue posizioni sarebbero viste come arretrate persino dalla media dei membri del Ku Klux Klan. Dei membri superstiti, occorre precisare, visto che la setta non gode di buona salute, con buona pace dei buonisti isterici che vedono un incappucciato sotto ogni sasso e che scambiano un cerino acceso per una croce in fiamme. Come non mi stanco mai di ripetere, bisogna resistere sempre alla tentazione di dare giudizi al di fuori del contesto, altrimenti si rischiano grotteschi anacronismi. Gli Stati Uniti in cui Dick crebbe e si formò non furono certo un ambiente favorevole all'esaltazione edonistica della sessualità e del suo libero esercizio al di fuori del matrimonio. 

Facciamo una panoramica, enucleando e discutendo brevemente le attestazioni più scabrose trovate nelle opere dickiane, quelle che più hanno colpito la mia immaginazione.

Un cadavere nell'armadio?  

Nel romanzo mainstream Voci dalla strada (Voices from the Street), scritto nel 1952 circa e pubblicato soltanto nel 2007, si descrive in modo molto crudo uno stupro. Il protagonista è Stuart Hadley, soprannominato "Mezza Sega", un giovane uomo biondiccio e segaligno (mi si perdoni il gioco di parole) che fa il commesso in un negozio. Questi viene stuzzicato da Marsha Frazier, una donna fulva col doppio dei suoi anni, ma ancora dotata di libidine e di potere seduttivo - in un'epoca in cui una quarantenne era ritenuta vecchia e vicina alla pace dei sensi. Lui è sposato, ma si lascia incantare dalle moine della maliarda. I due noleggiano un cottage per trascorrervi la notte. Solo che al momento della resa dei conti, lei si nega: è soltanto un'allumeuse, non una vera fornicatrice. Ormai il giovane è arrapato come un mandrillo, così le punta il glande sulla vulva e senza tante cerimonie le caccia dentro l'asta turgida, non badando al fatto che lei non vuole saperne. La immobilizza e sfoga la propria libidine dentro di lei, riempiendola di sperma. Non contento, ripete l'operazione una seconda volta, tal quale, per niente intenerito dal trauma inflitto alla donna. La casetta è isolata, nessuno può sentire la donna urlare. Dopo gli atti violenti, lei si calma, lui lascia la casa al mattino e nessuno viene a sapere nulla. Sorge in me un dubbio atroce. Questa descrizione potrebbe benissimo essere autobiografica. La lettura mi ha lasciato con l'amaro in bocca: da allora nulla ha potuto togliermi il sospetto che si tratti di uno scheletro nell'armadio di Philip K. Dick. Anche se non è facile a questo punto identificare la donna e accertare se l'episodio narrato sia reale o se sia mera finzione, sono convinto che la mia ipotesi potrebbe non essere poi così peregrina. Per quanto la cosa possa apparire scabrosa, esiste la concreta possibilità che Dick, veemente  penetratore, abbia fatto così il suo ingresso nel giardino della sessualità, "un mondo pieno di magia e di misteri". (cit.).

Riporto qui l'estratto dal romanzo giovanile dickiano: 

Hadley la ignorò, si sfilò la cravatta, poi la camicia. Le appoggiò sul bracciolo della poltrona e si mise a sedere per slacciarsi le scarpe. Accanto al letto Marsha si fece passare lentamente la maglietta sopra la testa. Se ne liberò dimenandosi e la gettò sulla cassettiera, poi cominciò a slacciarsi la gonna. Un pezzo dopo l'altro, i due si tolsero tutti i vestiti. Nessuno disse nulla, nessuno guardò l'altro; quando Hadley ebbe finito di spogliarsi vide Marsha in piedi accanto al letto, nuda e con un'aria patetica: il suo corpo magro era una pallida macchia bianca nella penombra della stanza.
«Posso... fumare una sigaretta prima?» chiese lei.
«No.» Hadley la prese e la tirò verso il letto; lei incespicò e venne giù, cercando qualcosa a cui aggrapparsi.
«Andiamo, non perdiamo tempo.»
Marsha scostò le coperte con il corpo e scivolò verso il lato più lontano, quello addossato al muro; lui la seguì e per un attimo la squadrò con aria impassibile. Sotto
quell'esame freddo la donna si ritrasse impaurita, con le gambe ben strette, le spalle incurvate, le braccia rigidamente conserte. Alla fine, visto che Hadley non diceva
niente, non riuscì a trattenersi. «Stuart, per l'amor del cielo, piantala, ti prego. Per favore, lasciami in pace!»
Metodicamente, lui si abbassò e cominciò ad accarezzarla. Sotto la sua mano la carne di Marsha fremette e si increspò; sul ventre e sui fianchi si formò la pelle d'oca. Lei emise un piccolo gemito e si allontanò, schiacciandosi contro la parete, finché Hadley non la prese e non la riportò a sé con decisione.
«È troppo tardi per tirarsi indietro» disse. «Hai fatto il letto tu; adesso vedi di sdraiarti.»
Lei emise un grido stridulo quando Hadley le allargò le gambe e la penetrò; le sue unghie si appoggiarono tremanti sulla schiena di lui e vi affondarono. Con una spinta brutale del ginocchio Hadley le sollevò la schiena, la costrinse a piegare il corpo e inarcare le cosce, comprimendole le natiche fino a farla ansimare di terrore. Proprio sotto di lui, con la faccia deformata e stravolta, gli occhi chiusi, le labbra contratte fino a mostrare il bianco delle gengive, Marsha rantolava e boccheggiava, voltando la testa di qua e di là; il sudore le scorreva lungo il collo in grosse gocce gelate. Hadley drizzò il petto quanto più possibile: fissandola impassibile da quell'altezza cominciò a mettere in atto con puntualità gli intricati spasimi muscolari del sesso, con intensità crescente, fino a quando le dita che gli artigliavano la schiena lo costrinsero a ritrarsi da lei.
Si mise a fumare e attese, guardandola. Marsha respirava pesantemente, con gli occhi sempre chiusi e le lenzuola tirate su. Spossata, spaventata, si girò di fianco e si portò le ginocchia allo stomaco assumendo una strana, impressionante posizione fetale che gli diede da pensare mentre attendeva. Dopo un po' accese una seconda sigaretta e gliela porse. Lei la prese con le dita intorpidite e riuscì a mettersela fra le labbra. Quindi si tirò su un poco, debole e svuotata, fissandolo in silenzio e sollevando pateticamente il lenzuolo a coprire i seni piccoli e appuntiti.
Senza capire lo vide spegnere la sigaretta, prendere la sua e spegnere anche quella. Solo quando la sospinse di nuovo giù e le tolse di dosso il lenzuolo Marsha capì che stava ricominciando. Lottò con tutta la forza che aveva, lo colpì al petto, gli graffiò la faccia, lo morse, urlò e imprecò e gemette, nel tentativo vano di allontanarlo da sé. Senza emozione, con la mente distaccata e remota, Hadley le allargò le gambe e per la seconda volta fece entrare il suo ego smisurato in quel corpo che protestava disperatamente. Nella sua cavità palpitante riversò tutto l'odio, l'infelicità, il risentimento che alloggiavano dentro di lui come una pozza di acqua stagnante.

I dettagli bizzarri sono numerosi. Marsha Frazier aveva idee precorritrici della New Age e mostrava dichiarate simpatie neonaziste - cosa che non le impediva di gustare il gigantesco fallo del profeta mandingo Beckheim (è chiamato "the huge Negro"). Per quanto la cosa possa sembrare scabrosa, Dick frequentò anche neonazisti e nazisti veri e propri: non dimentichiamo che l'epoca in analisi distava nel tempo pochi anni soltanto dalla caduta del Reich Millenario. La sua biografia include un fatto ben strano, che molti considereranno indigesto. Egli aveva un amico che non si limitava a professarsi nazionalsocialista: lo era. Era tedesco e aveva fatto parte della NSDAP. Una sera fu portato con sé da Dick per una serata a casa di un ebreo. Quando venne a conoscenza del cognome dell'ospite, ebbe paura e scappò via a gambe levate. La cosa lasciò lo scrittore basito. Queste sono le sue parole, riportate nel saggio Il nazismo e The Man in the High Castle (1964)

"A un mio amico nazista, che vive negli Stati Uniti da quando è finita la guerra, mentre stavano entrando in casa di una persona, dissi: "Sai, questo mio amico si chiama Bob Goldstein". È sbiancato in volto (e se n'è andato): aveva letteralmente paura di mettere piede in quell'appartamento e, per giunta, provava un'orribile repulsione fisica. Perché? Chiedetelo a Hannah Arendt, che io considero la "massima critica moderna della Germania", anche lei ebrea. Ho la sensazione che neppure lei lo sappia, pur essendo cresciuta tra loro."

Forse la Arendt non avrebbe saputo trovare una risposta all'interrogativo dickiano, ma io so per certo spiegare come stanno le cose. In realtà è tutto perfettamente chiaro a chi abbia qualche nozione della mentalità hitleriana: per un autentico nazionalsocialista gli Israeliti sono "Ein Volk von Dämonen", ossia "un popolo di demoni". Persino gli Einsatzgruppen, che li massacrarono a decine e decine di migliaia, li consideravano "pericolosi": ritenevano che fossero patogeni esiziali da neutralizzare con ogni mezzo. Stanti gli antefatti esposti, ci sono sufficienti motivi per pensare che il passato di Dick fosse alquanto torbido. Poi, anni dopo, in seguito a un uso smodato di anfetamine e di allucinogeni, si rivoltò contro i suoi vecchi amici. Quando nel 1971 il suo archivio fu distrutto da ignoti, reagì attribuendo lo scempio a un gran numero di gruppi settari, e tra questi i neonazisti. All'improvviso etichettò un amico dalle idee destrorse come infiltrato e "pericoloso parassita". Le responsabilità non sono mai state chiarite, ma in realtà fu proprio l'estroso autore a distruggere di suo pugno l'archivio per sviare da qualche punto dolente. Lascia perplessi anche la patetica sceneggiata del suo sostegno a Martin Luther King come Presidente degli States. Intanto la domanda rimbomba nel mio cranio, cupa: "E se Marsha fosse ispirata a una donna in carne ed ossa?" Una donna reale, di idee antisemite, che con le sue riflessioni avrebbe ispirato a Dick l'idea portante del famoso romanzo ucronico La svastica sul sole (The Man in the High Castle). Ma anche una donna fragile, il cui destino non è certo stato roseo.

Un oscuro scrutare

Dal celebre romanzo fantascientifico Un oscuro scrutare (A Scanner Darkly), pubblicato nel 1977, emerge con la massima nitidezza l'idea che l'autore aveva della fellatio. Ho subito notato il dettaglio scabroso in un dialogo allucinato tra due personaggi, Charles Frack e Barris, che sparlano del loro amico Bob Arctor e commentano le abitudini voluttuarie di una ragazza da lui concupita, Donna. A un certo punto il perfido Barris fa un gesto per mimare l'ingestione di pasticche di ecstasy, che la decerebrata ingurgita a quattro palmenti fino a friggersi le sinapsi. Charles Freck capisce tutt'altro. Crede che l'amico voglia affermare che la ragazza vada in giro a succhiare falli e a ingoiare avidamente lo sperma che le è stato scaricato in bocca. Così sbotta, indignato, chiedendosi che razza di sesso sia mai quello. Quando capisce che la ragazza i pompini non li fa a nessuno e che è semplicemente una tossica terminale e una spacciatrice, subito si rasserena. Ecco la conversazione:

"Oh, la ragazza di Bob."
"Già, la sua ganza" disse Charles Freck, annuendo.
"La sua ganza no. Non le è mai finito fra le cosce. Ci tenta però."
"È una di cui ci si può fidare?"
"In che senso? A cosce aperte o..." Barris fece un gesto: portò la mano alla bocca e prese a deglutire.
"Ma che tipo di sesso è questo?" Poi comprese, illuminandosi. "Oh, certo. Nel secondo."
"Abbastanza affidabile. Un po' sventata, a volte. Com'è lecito attendersi da una pollastrella, specialmente dalle more. Ha il cervello fra le cosce, come molte di loro. Probabilmente lì tiene anche il nascondiglio per la roba." Ridacchiò. "Il nascondiglio per tutta la roba da spacciare."
Charles Freck si sporse verso di lui. "Quindi Arctor non se l'è mai fatta, Donna? Parla di lei come se glielo avesse già..."
Barris rispose: "Così è fatto Bob Arctor. Parla di molte cose come se le avesse già fatte. Ma non è così, per niente."
"Be', com'è che non se l'è mai trombata? Non gli si rizza?"
Barris rifletté con aria esperta, continuando a giocherellare col suo pasticcio; l'aveva ormai ridotto in piccoli pezzi. "Donna ha qualche problema. Probabilmente si fa con roba pesante. La sua avversione per il contatto fisico in generale... Quelli strafatti perdono interesse per il sesso, per il fatto che i loro organi si dilatano per vasocostrizione. E Donna, l'ho potuto osservare, mostra un'incapacità eccessiva a reagire agli stimoli sessuali, a un livello assolutamente innaturale. Non solo nei confronti di Arctor ma anche..." Fece una pausa stizzita. "Degli altri maschi in generale."
"Merda, vuoi semplicemente dire che non vuole aprirle."
"Le aprirebbe," disse Barris "se fosse maneggiata nel modo giusto. Per esempio..." Levò lo sguardo al cielo con fare misterioso. "Io posso mostrarti come metterla a gambe all'aria per novantotto centesimi"
"Io non voglio metterla a gambe all'aria. Da lei voglio soltanto comprare."
  

A Dick il sesso orale faceva schifo, soprattutto se praticato dalla donna all'uomo. Lo riteneva un'aberrazione contro natura, un'invenzione diabolica alla cui diffusione sempre più capillare assisteva sgomento, un contatto ripugnante che avrebbe volentieri estirpato ricorrendo a misure draconiane. Interpretava la natura di quell'atto in modo non dissimile da Daniel Balint, l'ebreo nazista del film The Believer (Henry Bean, 2001): il pompino è uno strumento con cui la donna manipola l'uomo e ne annienta la volontà, spingendolo a fare tutto ciò che lei vuole e facendolo poi sentire in colpa, atteggiandosi a "vittima di un porco". Per il nostro californiano preferito, l'atto sessuale doveva essere la pura e semplice affermazione del maschio sulla femmina, uno strumento di dominio in cui era la volontà della donna a dover essere annullata. Il dialogo tra Charles Freck e Barris lo dimostra in modo lampante. Per consumare l'atto con una ragazza desiderata, secondo Dick era sufficiente che il cazzo si rizzasse. All'erezione conseguiva la penetrazione, come al giorno segue la notte. C'è un piccolo particolare: perché tutto ciò si compia, basta la fisiologia, visto che l'opinione della ragazza concupita è irrilevante. Che lei ci stia o meno, se il maschio è infoiato, per l'esuberante scrittore ha il diritto di consumare l'atto. Se la consumazione non avviene, è perché la donna serra le gambe in modo talmente stretto che l'uomo non riesce ad aprirle, o perché i suoi genitali, congestionati dalla droga, oppongono all'asta turgida una formidabile resistenza. Sono convinto che la massima parte dei lettori e delle lettrici riterrebbe tutto questo vomitevole. Ci rendiamo conto che per molto meno al giorno d'oggi si è accusati di "femminicidio"?

Un racconto antiabortista

Non piacerebbe affatto agli umanitari e ai liberali il racconto fantascientifico Le pre-persone (The Pre-persons), pubblicato per la prima volta nell'ottobre del 1974 sulla rivista Fantasy and Science Fiction. A dire il vero non piace nemmeno a me, che non sono né umanitario né liberale, essendo un notorio estimatore di Ezzelino III da Romano, di Hulagu Khan e dei Tokugawa. Lo scritto dickiano in questione è fondato su un surreale ma efficace presupposto. In una futuribile società statunitense in declino, per un cavillo legale i bambini possono essere messi a morte anche dopo la nascita, anche quando ormai camminano e parlano, e l'atto viene assimilato a un semplice aborto. Infatti la legge stabilisce che l'anima entri nel corpo quando un bambino ha la facoltà di eseguire semplici operazioni algebriche, quindi all'età di dodici anni circa - questa è la linea di demarcazione che separa un umano da un non umano. Prima di allora, può essere soppresso e la sua uccisione non è tecnicamente considerata omicidio. Il metodo di esecuzione è a dir poco raccapricciante: viene infilato un tubicino metallico nei polmoni della vittima e tramite una pompa pneumatica viene aspirata tutta l'aria, fino ad indurre il soffocamento tra atroci convulsioni. Ogni bambino deve essere provvisto di un "documento di desiderabilità": non appena diventa indesiderabile viene chiamato l'apposito camion degli aborti, che si occupa dell'eliminaizone dei bambini scomodi e dello smaltimento dei loro corpi. L'ipocrisia burocratica impone di sostituire in questo contesto il verbo "uccidere" con "mettere a dormire". Non per niente, Philip Dick è molto amato dai movimenti cosiddetti "Pro Life". Lo stomachevole racconto è stato preso come un vessillo dagli embriolatri anche in Italia. Abilissimi nel presentarsi come vittime, questi farisei ingannatori descrivono la Chiesa Romana come un esercito di "difensori della vita" che mette i bastoni tra le ruote al potere, alle istituzioni che vogliono eliminare esseri umani indifesi come gli embrioni. Sfugge a questi malfattori un fatto molto semplice. La Chiesa Romana, pur essendo teologicamente morta e lontana dal sentire delle masse, fa parte del potere ed è un'istituzione a tutti gli effetti. I suoi ministri non sono e non potranno mai essere annoverati tra gli oppressi - non in Occidente. Essi vogliono che siano prodotte sempre nuove vite per poterle abusare a loro piacimento: non provengono da Cristo, ma dal paese di Sodoma e Gomorra! Detto questo, Dick non era affatto cattolico. In America i "Pro Life" non sono affatto necessariamente cattolici: i lettori italiani si dimenticano che esistono numerosissime Chiese protestanti ben più attive e motivate di quella di Roma. Cosa ha spinto lo scrittore a sostenere con tanto radicalismo posizioni "Pro Life"? Elementare: la sua rivendicazione del diritto del maschio a penetrare la femmina indipendentemente dall'assenso di lei, di iniettarle lo sperma nel ventre e di far sì che tale iniezione desse origine a una nuova esistenza destinata ad essere stritolata dal mondo. Probabilmente il suo sentire era più affine a quello di uno xenomorfo che a quello di un cattolico, proprio perché aveva le sue salde radici nel genoma e nei suoi sommovimenti. C'è poi un dettaglio che gli italici "difensori della vita" non considerano: la tirannia che emerge dalla narrazione è matriarcale. Il racconto è anche e soprattutto un atto di guerra nei confronti del movimento femminista, colpevole di reificare il maschio, ossia di ridurlo a una cosa, a un oggetto puramente materiale e manipolabile, ora della fine a una nullità insignificante su cui infierire. Donne snaturate, che mettono a nudo il cervello dei loro schiavi per spegnere sigarette nella materia grigia o per bucarla con i tacchi a stiletto!  

Un grave problema col mestruo 

Nel romanzo mainstream Confessioni di un artista di merda (Confessions of a Crap Artist), scritto nel 1959 e pubblicato solo nel 1976, è descritto un episodio bizzarro quanto notevole. Il protagonista è Jack Isidore, in sostanza uno sballato con l'ossessione dell'ufologia. Suo cognato Charley Hume viene costretto dalla moglie ad andare in farmacia e a comprarle gli assorbenti intimi. L'incarico è vissuto dall'uomo come qualcosa di sommamente degradante. Così quando rincasa viene colto da un raptus e massacra di botte la moglie. A causa del parossismo di furia, Charley ha un infarto e viene ricoverato in ospedale. Alla fine la sua dignità è talmente compromessa dall'atteggiamento della moglie, che non gli resta altra alternativa che il suicidio. La sua autolisi mentale è stata scatenata dal contatto con una scatola di assorbenti, dall'umiliazione di chiedere al farmacista quel genere di prodotto, apparendo così ai suoi occhi come svirilizzato. Nell'Africa subsahariana sono diffuse idee molto simili, così un uomo non può neppure avvicinarsi a una toilette femminile: se questo tabù viene violato, ne consegue l'impotenza! Ecco la scena, di una brutalità inaudita:

"Guarda che cosa ti ho portato," le disse, tirando fuori il vassoio di ostriche affumicate.
Fay disse "Oh…" E prese il vassoio, accettandolo in modo da dimostrargli che capiva che lui lo aveva fatto per uno scopo molto serio, per il desiderio di esprimerle i propri sentimenti. Sapeva accettare i regali come nessun altro. Sapeva comprendere che cosa provava lui, o le bambine o i vicini di casa o chiunque altro. Non diceva mai più del necessario, non esagerava mai con le manifestazioni di entusiasmo, e sapeva sempre mettere in rilievo gli aspetti significativi del dono, far capire perché fosse importante per lei. Lo guardò, e la sua bocca si atteggiò ad un fugace sorriso simile ad una smorfia… poi piegò la testa da un lato e continuò a fissarlo.
"E questi," aggiunse lui, tirando fuori i Tampax.
"Grazie," disse lei, prendendo il pacco. In quel mentre lui si ritrasse e, sentendosi emettere un rantolo, la colpì in pieno petto. Fay barcollò all'indietro, allontanandosi da lui, e lasciando cadere il vassoio di ostriche affumicate; allora le corse appresso - lei stava scivolando lungo il fianco del tavolo e mentre cercava di aggrapparsi a qualcosa per non cadere fece cadere a terra la lampada - e la colpì di nuovo, e stavolta le fece volare via gli occhiali dal viso. Lei si crollò di schianto, tirandosi addosso tutto quello che c'era sopra il tavolo. 

La seconda moglie di Philip K. Dick, Anne, aveva la consuetudine di mandarlo in farmacia a comprare gli assorbenti intimi. Lui riteneva questo compito umiliante e incompatibile con il proprio orgoglio di maschio. Così, dopo aver sopportato la cosa per un po' di volte, una sera è tornato a casa e ha cominciato a picchiare selvaggiamente la moglie, assestandole pugni nel ventre, al petto e in faccia, rischiando di procurarle seri danni. Questo episodio è menzionato nella biografia dickiana Divine invasioni: La vita di Philip K. Dick (Divine Invasions. A Life of Philip K. Dick), di Lawrence Sutin, che è stato anche biografo del Perdurabo: 

"Nel capitolo 3, Charley aggredisce Fay, perché lei lo ha umiliato, mandandolo a comprare - e chiedendoglielo in pubblico - dei Tampax all'emporio del posto. Nella vita "reale" Phil andava a comprare i Tampax per Anne senza fare alcun commento. Quando lesse il romanzo, Anne domandò a Phil perché non le avesse detto che gli dava fastidio andarli a comprare. Negli anni Settanta, Phil avrebbe poi parlato ai suoi amici del giorno in cui saltà addosso ad Anne e la picchiò, dopo averle dovuto comprare i Tampax. Nel 1963, quattro anni dopo che era stato scritto Artista di merda, si verificarono sporadici atti di violenza fisica sia da parte di Phil che di Anne. Artista di merda annunciava già che ci sarebbero stati. Precognizione: sempre negli anni Settante, Phil sostenne di averne avuta, in alcuni dei suoi romanzi. Ascoltiamo Nat: Mi chiedo se prima o poi le metterò le mani addosso, si disse. In vita sua non aveva mai picchiato una donna eppure già sentiva che Fay era il tipo di donna che portava un uomo a picchiarla. Certamente lei non se ne rendeva conto, non aveva nessuna convenienza a farlo... "

Ma quale precognizione? A mio avviso egli era un marito manesco che nel corso degli anni ha assestato alle sue consorti innumerevoli raffiche di sganassoni. Picchiare una donna fuori dal matrimonio è peccato, avrà pensato di certo, ma nel matrimonio cambia tutto. La moglie Anne, santa donna, lo difese per parargli il culo e impedire che questi fatti scabrosi compromettessero in modo irreparabile la sua reputazione. 

Dialoghi con un sockpuppet

Nel romanzo mainstream In questo piccolo mondo (Puttering About in a Small Land), scritto intorno al 1957 e pubblicato postumo nel 1985, sono contenute alcune conversazioni sconcertanti. Sembra che l'autore lotti contro se stesso, dando origine a stringhe verbali convulse, ben oltre i confini della schizofrenia. Riporto qualche brano in questa sede: 

Olsen domandò con la sua voce aspra, "Da quant'è che non si fa una scopata?"
"Dipende da che cosa intendi."
"Sa benissimo cosa intendo." Olsen infilò il pollice nella birra poi lo estrasse per esaminarlo. "Non sto certo parlando del salotto buono."
"Due anni" disse Roger. Nel 1950, l'ultimo dell'anno, ero andato a letto con una ragazza incontrata durante una traballante festa etilica. Virginia se ne era andata presto, offesa per qualcosa, e l'aveva lasciato solo.
"Forse è questo che non va."
"Al diavolo."
Olsen scrollò le spalle. "È così per un sacco di gente. Senza, stanno male. Quello che passa la casa non conta."
"Non sono d'accordo. Bisognerebbe starsene a casa propria, e basta."
Il sorriso rotto ricomparve. "Dice così perché non sa dove trovare qualcuna su cui mettere le mani?"
"No" negò con forza. "Perché ne sono convinto."
"Non è stato felice di quel che ha avuto due anni fa?"
"Avrei preferito non averlo." disse lui. Dopo si era pentito e non aveva più neanche tentato di ripetere l'esperienza. "Che senso ha sposarsi? E tua moglie? Approveresti se anche lei si desse da fare?"
"È diverso"
"Certo. Due pesi, due misure."
"Perché no? Per un uomo è naturale correre la cavallina. Ed è altrettanto naturale per una donna non farlo. Se mia moglie mi tradisse, l'ammazzerei. Lei lo sa." 
"E tu la tradisci?"
"Ogni volta che posso. Ogni volta."
 

In sintesi, la donna era ritenuta da Dick un essere inferiore e privo di qualsiasi autosufficienza incapace di esistere senza la protezione del marito, suo padrone assoluto. Si noterà che le sue idee in materia non sembrano poi così diverse da quelle professate dai Wahabiti e dai miliziani dello Stato Islamico.

"Le donne non ricavano niente dal sesso. Per lo più lo odiano. Si sottomettono per compiacere noi uomini."
"Che cazzate. Alle donne piace quanto a noi."
"Solo a quelle da poco" ritorse violentemente Olsen. "Senta cosa le dico: una vera signora da amare, di cui essere fieri al punto di volerla sposare, non si divertirebbe e non dovrebbe permetterti di toccarla. Mi trovi una donna che venga a letto con lei e io le mostrerò che è una puttana."
"Anche dopo il matrimonio?" Olsen si torturò una vescica sul pollice. "Lì è diverso. Bisogna fare i figli. Ma il sesso fuori dal matrimonio è peccato. Noi non siamo
stati creati per avere rapporti matrimoniali che non servano per far nascere i bambini."
"Mi pareva avessi detto che non perdi occasione." Olsen lo guardò in cagnesco.

"Non sono affari suoi."

La conversazione oscilla tra due posizioni contrapposte e inconciliabili. Quella dell'uomo liberale moderno, per cui "non c'è niente di degradante nel sesso", è enunciata soltanto per dare maggior risalto a quella radicale, che da una parte idealizza la donna e dall'altra la annienta. Così l'autore ci fa sapere quello che fa il sesso alle donne: "Le deruba della verginità. Il bene più prezioso che possiedono." Abbiamo un paradossale miscuglio in cui una misoginia febbrile e violenta quanto l'antisemitismo di Streicher si unisce a una sorta di senso cavalleresco. Sono opinioni che aprono squarci sull'universo interiore dickiano, ma che ai nostri giorni sarebbero considerate pertinenti alla psicopatologia. "Lei farebbe una cosa del genere a una donna che ama? Scommetto che ammazzerebbe chiunque stuprasse la donna che ama; lo castrerebbe. Penso che se davvero ami una donna, devi proteggerla.", afferma Olsen con autentico zelo puritano. Lo stesso identico Olsen che poi non esita a reclamare il diritto di fare ad altre ciò che non vorrebbe facessero a sua moglie! La sostanza è questa: impedire che la donna amata conosca un altro uomo, arrivando a ucciderla assieme all'amante in caso di trasgressione, secondo il più genuino diritto degli antichi Germani, ma al contempo avere rapporti anche violenti con donne altrui ogni volta che è possibile farlo. Certo, c'era un bel calderone di sofferenza e di rabbia nel cranio dell'uomo che fu invaso dalla Luce Rosa di Valis! Concludo qui il mio trattatello, invitando alla riflessione chi ha avuto la pazienza di leggere fino alla fine. 

mercoledì 24 ottobre 2018

LA CHICHA: STORIA, CULTURA ED ETIMOLOGIA


Il nome chicha è attribuito a una tipologia di bevande lievemente alcoliche prodotte dalla fermentazione del mais o di altri ingredienti, tipiche dell'America Latina e di origini precolombiane. Talvolta come sinonimo di chicha si usa birra di mais, anche se le somiglianze con la birra a noi ben nota sono scarse. In pratica stiamo trattando di un caso singolare di uso culinario della saliva. La più antica ricetta per la produzione della tradizionale bevanda degli Indios dell'America meridionale e centrale prevedeva una lunga masticazione del mais: il pastone ottenuto veniva sputato in un vaso che veniva sotterrato, per far sì che le forze vive della fermentazione alcolica agissero decomponendo gli amidi in zuccheri semplici, dando origine a molecole di etanolo e producendo un liquido torbido e denso. Questo veniva cotto, filtrato e lasciato riposare al buio per un certo periodo prima di essere pronto per il consumo. Non oso immaginare i retrogusti, ma è chiaro che nel contesto il pur blando effetto inebriante era molto più importante delle proprietà organolettiche. Dato il basso tenore alcolico (dall'1 al 3% in volume), l'unico modo per ottenere una bella sbronza consisteva nel bere quantità immani di questo intruglio. Si vede chiaramente che numerose ricette che si trovano nel Web sono in gran parte recenti e fantasiose, prevedendo l'utilizzo di ingredienti - come ad esempio lo zucchero di canna - che in tempi precolombiani non si potevano trovare su suolo americano. Approfondendo le nostre conoscenze sull'argomento, apprendiamo che nel corso dei secoli coloniali la masticazione è stata in gran parte sostituita da un processo più compatibile con i gusti degli Spagnoli: la germinazione, che trasforma il cereale in malto, seguita dalla bollitura. Esistono anche varianti non fermentate, come la chicha morada. Tuttavia si trova anche la prova inconfutabile che la ricetta antica non è del tutto caduta in disusso. Anzi, nelle regioni andine questa produzione casereccia è ancora abbastanza fiorente, pur essendo vietata dalla legge per motivi igienici. Esistono anche denominazioni specifiche per indicarla: chicha de muco, dove muco indica la farina di mais masticata (dal Quechua muku), oppure taqui (parola nativa ma non Quechua). Il procedimento tradizionale è descritto in una pagina del sito Soundsandcolours.com, in cui si vede una ragazza nell'atto di masticare la farina di mais per poi sputarla: si spiega che il prodotto di questa discutibile operazione acquista un sapore simile a quello dello yogurt, anche se trovo difficile credere che la questione sia così anodina. 


Altre immagini esplicite si trovano in una sezione del sito ecuadoregno Planv.com, il cui titolo è Museo de la corrupción. Ne riporto una abbastanza significativa: 


I Diaghiti, fierissimo popolo del Nordovest dell'Argentina, offrivano al dio uranico Kakanchig grandi quantità di liquori che i cronisti spagnoli definivano nauseabondi (asquerosos) per via del loro procedimento di lavorazione, che comportava masticazione della materia prima da parte di donne, che secondo la tradizione dovevano essere anziane. Con ogni probabilità era temuto il potere magico e maligno del mestruo, per questo il poco piacevole incarico non era dato a donne in età fertile. 


En Santiago del Estero (1586) en el tiempo de la recolección de los frutos se reunían para adorar a Cacanchic- “á quien /.../veneraban, y ofrecían en sacrificio sus asquerosos licores y gran cantidad de aves muertas: llevabanle sus enfermos, para que los curasse y dedicaban a su servicio algunas doncellas de catorce, ó quince años, de quienes se aprovechaban para abominables torpezas los Hechiceros sus Ministros, por cuya boca sus oráculos, con palabras tan amphibologicas, que pudiessen rara vez convencerlos de engañosos. Apareciaseles á estos, en forma visible /.../”
(Hist.Comp., t.primero, lib.primero, cap.IV, p.16).

Lo storico Pedro Lozano riporta che Viltipoco, valoroso capo degli Omaguaca, popolo imparentato con le genti di Atacama e con i Diaghiti, donò a un prete un gran vaso di chicha, e l'ecclesiastico non ne voleva bere, perché riteneva tale bevanda impura (sucia). Questo non per astrusi pregiudizi religiosi, ma per un dato di fatto incontrovertibile, ossia perché era stata fermentata per mezzo della saliva. Come il prete vide che il collerico Viltipoco si offendeva, fu costretto a fare buon viso a cattivo gioco e a trangugiare il poco attraente beverone. 


Viltipoco y los suyos llegaron a dominar gran parte del Tucumán, aislándolo del resto del virreynato del Perú. El padre Gaspar Monroy hizo esfuerzos para incorporarlo a la fe cristiana. Pedro Lozano, en su "Descripción Corográfica" narra un episodio entre el Padre Monroy y Viltipoco: "El cacique le ofrece un vaso de chicha al sacerdote y éste intenta rechazarlo por la (suciedad) que implicaba su fabricación, pero luego al ver que el indígena se ofendería, tomó el brebaje. Fue tal la alegría que sintió Viltipoco que a partir de aquí trocóse en otro hombre y se mostró más benigno".

Le bevande "sporche" sono ben note anche in Amazzonia, dove vengono preparate dalla masticazione della manioca o della frutta. In un caso se ne è visto il consumo in un film di grande popolarità. Sean Connery nel film Mato Grosso (Medicine Man) di John McTiernan (1992) - un autentico capolavoro - è uno studioso talmente alcolizzato da non potersi rassegnare alla sobrietà nemmeno per pochi giorni, finendo così con l'ubriacarsi alla festa della bevanda di palma, fermentata dalla frutta grazie alla ptialina contenuta nello sputo delle donne. Una cosa talmente disgustosa che renderebbe astemio più di un bevitore. Per ulteriori informazioni, si rimanda al sito di Giorgio Samorini, che è oltremodo interessante: 


Note etimologiche

Oscurissima è l'etimologia della parola chicha. Si tratta di una parola della lingua dei Taino, di ceppo Arawak, la prima popolazione con cui Cristoforo Colombo è entrato in contatto. Insoddisfatti di una spiegazione tanto semplice, gli accademici continuano a brancolare nel buio, delirando senza sosta. Per la Real Academia Española (RAE) deriverebbe invece da un supposto vocabolo della lingua Kuna (Guna) di Panama, chichab "granturco" (non è in ogni caso Maya, come ho letto in un'occasione). La glossa è comunque poco attendibile, dalle risorse reperite risulta oba glossato "maíz" e sisa glossato "licor". Secondo Luis Cabrera chicha proverrebbe dal Nahuatl chichia (chichiya) "essere acido, aspro o amaro" e da atl "acqua". Questo Cabrera è definito studioso di cultura azteca e dovrebbe essere un esperto, anche se le informazioni non si trovano. Eppure dalle mie conoscenze della lingua Nahuatl, che ho appreso in gioventù, non risulta affatto che sia possibile un composto *chichiatl o *chichiyatl "acqua acida" a partire da un verbo e da un sostantivo. Stando a un gran numero di siti nel Web, anche un certo Don Luis G. Iza avrebbe approvato questa proposta etimologica. Non va però nascosto che di tale autore non si riesce a trovare notizia: i siti che riportano l'informazione copiano le stesse parole da un'unica fonte non recuperabile e sospetta di essere un fake. Anche di Luis Cabrera ce ne sono parecchi, si sospetta trattarsi di un pacchetto memetico. Altrettanto inattendibile è la derivazione da un supposto verbo *chichiani "sputare" riportato da Gonçalves da Lima (1990). Una parola chichiani in realtà esiste, ma indica una sorta reggiseno ("apollador de teta"). Nel senso di "sputare" è una fabbricazione a partire dal corretto verbo Nahuatl chicha, chihcha "sputare", che ha un'occlusiva glottidale, quasi un piccolo colpo di tosse, prima della seconda -ch-. Il sostantivo derivato da questo verbo è chichitl, chihchitl "sputo". Non solo fonetica inadatta, ma anche semantica inadatta: gli Indiani ritenevano sacra la bevanda, non l'avrebbero chiamata da un dettaglio della sua produzione. Questa è la caratteristica di quasi tutte le paretimologie: i loro fabbricatori ignorano la struttura delle lingue a cui si appellano per spiegare qualcosa. Tra l'altro la chicha non era (e non è tuttora) la bevanda tipica delle genti di lingua Nahuatl, che usavano un fermentato di succo d'agave chiamato octli /ukλi/: la locuzione octli poliuhqui /'ukλi pu'liʍki/ (dal verbo polihui "essere rovinato") indicava una bevanda troppo fermentata, donde ne derivò il ben noto pulque /'pulke/ (con accento retratto), tuttora molto diffuso in Messico. Esistevano ed esistono ancor oggi in Messico anche bevande a base di mais, ma a quanto pare erano già nell'antichità fermentate tramite i lieviti selvatici e non tramite la saliva. In Nahuatl si chiamava teooctli /teu:'ukλi/ "pulque divino" una forte bevanda prodotta dal mais e data alle vittime destinate ad essere immolate a Huitzilopochtli, allo scopo di intorpidirle. G. Edward Nicholson (ONU) ha scritto un articolo, Chicha Maize Types, and Chicha Manufacture in Peru, le cui prime due pagine sono consultabili al seguente sito: 


Nell'opera in questione sono contenute diverse inconsistenze. Questo è un estratto:

«The origin of the word chicha is not clear, but it appears to be of Caribbean (Arawak) origin, as a derivation of chichal or chichiatl. In the latter case, the two voices, chichilia and atl mean "to ferment" and "water" respectively; while in the former case chi means "with" and chal means "saliva." and, together, "to spit" or "spit".»

Innanzitutto Nicholson confonde la lingua Nahuatl con le lingue Caribe e con quelle Arawak, cosa già di per sé assurda quanto deprecabile. Il verbo citato, chichilia, è in realtà transitivo: tlachichilia "inacidire qualcosa, renderla aspra o amara". Così si può dire: nicchichilia in atl "rendo aspra l'acqua". Quello che non si può fare con questo verbo è formare composti da cui la parola chicha sia derivata. Per quanto riguarda la forma chichal che lo studioso riporta, è un'alterazione del verbo Nahuatl chihcha (vedi sopra), ma la sua analisi è farneticante e incompatibile con la lingua degli Aztechi. Ancora più stravaganti sono le altre proposte etimologiche reperibili, fatte a partire dalla lingua Maya (quale delle tante derivate dal Maya classico?): autori sudamericani citano forme non verificate (es. chiboca "masticare", chichaá "riempire d'acqua", zicha "acqua fresca"), non attribuite con precisione e prive di una semantica attendibile. In pratica si tratta di fantalinguistica amerindiana. Emerge un fatto di per sé stupefacente: una lingua importante come il Nahuatl non è conosciuta nemmeno da persone che dovrebbero esserne specialiste. Anziché studiosi seri, troviamo labili menzioni di personaggi fantomatici come Luis Cabrera e Don Luis G. Iza. Manca il costume di cercare informazioni corrette, anche in questi tempi in cui il Web dovrebbe rendere le cose più facili rispetto al passato pre-Internet.

Il nome Quechua della chicha

La forma più antica documentata del nome Quechua della chicha è aswa. Era così che gli Incas pronunciavano la parola: /'aswa/, ovviamente con la sibilante /s/ sorda come in sale. Nelle varietà locali di Quechua si sono tuttavia prodotte alcune importanti evoluzioni: la sibilante /s/ a contatto con l'approssimante /w/ ha prodotto un suono aspirato /qh/, /x/ o /h/. Così vediamo che nella stessa lingua della città di Cuzco, que è ritenuta la più nobile e tradizionale varietà di Quechua, la chicha è attualmente chiamata aha o aqha. Questa è stata l'evoluzione fonetica: 

aswa > aqha > aha

Alcuni autori di epoca coloniale usano ortografie singolari come aka e acca per trascrivere /aqha/, /aha/, ma occorre fare estrema attenzione, perché in Quechua esiste la parola aka /'aka/, che significa "merda, escremento umano" e che non deve dare origine a confusioni. La forma antiquata aswa non è del tutto estinta, probabilmente è stata reintrodotta come dottismo ed è la sola usata nel Quechua di Ancash (Perù settentrionale) e in quello di Imbabura (Ecuador). Nel Quechua di Huánuco è accaduta una cosa assai singolare: la radice nativa per indicare la chicha è scomparsa, rimpiazzata da chiicha, prestito dallo spagnolo, mentre la parola aswa significa "pus". Non sappiamo se si tratti di uno slittamento semantico o se sia un lemma di sostrato, omofono per puro caso. Propendo per la seconda ipotesi. Faccio poi notare che nel Quechua di Santiago del Estero (Argentina), noto come Quichua, ogni traccia della radice aswa / aqha è scomparsa.

In epoca incaica si chiamava yamur, o meglio yamur aswa, una chicha speciale che l'Inca offriva al Sole nel corso di una speciale cerimonia. A quanto mi risulta, questo vocabolo si è completamente estinto in tutte le varietà di Quechua attualmente parlate e non sono riuscito a risalire al suo significato originario.     

Il composto aqhawasi "chicheria" (< aqha + wasi "casa") indica un locale dove si produce e si serve la chicha. Abbiamo poi aqhallanthu "indicatore di una chicheria" (< aqha + llanthu "ombra"): si tratta di un'insegna, di una bandierina o altro contrassegno posto in cima a un'asta che sporge dalla parete di una chicheria per permettere ai nativi di capire dove poter ingurgitare ettolitri di bevanda fermentata. Lo slittamento semantico deve essere stato "ombra" => "che fa ombra" => "tendina" => "insegna", cfr. llanthuna "parasole". Gli interessanti composti aqhawiksa e aqharapi significano entrambi "ubriaco", "ubriacone". All'epoca dell'Impero esisteva un ufficiale incaico chiamato aqhapaq kuraka, letteralmente "signore della chicha". Il nome strumentale aswana significa "pentola di chicha" nel Quechua di Imbabura. Nel Quechua di Huanca aswap ñawin è la prima chicha estratta dall'anfora in cui è fermentata. Infine abbiamo il verbo aqhay "produrre la chicha", con la variante asway. Tramite un comune suffisso si forma poi nella lingua di Huanca il verbo aswakuy "produrre la chicha". Non mi risultano formazioni simili dalla variante aqha diffusa in altre varianti della lingua.

La lingua Aymará non mostra alcuna concordanza col Quechua sul nome della chicha: la bevanda è chiamata k'usa (scritto anche kusa). Questo vocabolo, si noterà, è riportato erroneamente da G. Edward Nicholson come *kufa per un fraintendimento ortografico: una -s- allungata è stata da lui letta come -f-, errore non da poco. Si noti che in Aymará non esiste il suono /f/. Nella lingua dei Mochica, purtroppo ormai spenta, la bevanda era chiamata kuiċho (trascrizione di Ernst Wilhelm Middendorf, 1892). Così abbiamo attestate le seguenti frasi: tiñ mān kuiċho "io bevo la chicha"; ako eiš funo, mananchi llollek villōs kuiċho "dopo il pasto bevono un vaso di chicha". Forse l'idea che la forma Aymará e quella Mochica discendano da una protoforma comune non è poi così peregrina, o forse si tratta di un antichissimo prestito culturale.

Una citazione nell'opera di Houellebecq

La chicha è citata da Michel Houellebecq nel romanzo Sottomissione, con riferimento a un tè alla menta servito nel bar di una moschea di Parigi. Questa bevanda aromatizzata è ritenuta abominevole dall'autore, che considera la parola chicha, pronunciata a denti alti, come se fosse un'onomatopea per indicare lo sputo. Una schifiltosità alquanto strana da parte di un autore che nello stesso volume descrive un atto di sodomia su una prostituta magrebina, senza protezione alcuna, seguito dalla fellatio del membro sporco di residui fecali.

sabato 20 ottobre 2018

UN RACCONTO GROTTESCO DI EDGAR ALLAN POE E LA GRANDE BEFFA DELLA LUNA


Un racconto grottesco e protofantascientifico di Edgar Allan Poe, poco noto ai lettori italiani, è senza dubbio L'incomparabile avventura di un certo Hans Pfaall (The Unparalleled Adventure of One Hans Pfaall), pubblicato per la prima volta nel 1835. La città di Rotterdam venne sorvolata da un grande pallone aerostatico, che destò lo stupore generale. Nella Piazza della Borsa si radunò una densa folla per osservare il prodigio. A un certo punto, emerse dall'aeronave un bizzarro omino che lanciò una missiva alla gente sotto di lui. Il manoscritto narrava le gesta di Hans Pfaall, un riparatore di soffietti, oberato dai debiti e scomparso cinque anni prima senza lasciare tracce. La cittadinanza apprese così che l'uomo, ormai dato per morto, aveva preso a prestito somme consistenti, da lui utilizzate per fabbricarsi l'aeronave. Quindi, con un'astuzia degna di Olaf Tryggvason, radunò tutti i suoi creditori e li fece saltare in aria per mezzo di polvere da sparo e di una miccia, uccidendoli sul colpo. L'unica via che gli rimaneva per evitare la punizione del Leviatano legale era la fuga. Abbandonò la terraferma a bordo della navicella attaccata al suo pallone, ascendendo fino a quote inimmaginabili, raggiungendo la Luna in diciannove giorni di viaggio. La sua permanenza sul satellite durò cinque anni. In quell'ambiente inesplorato scoprì i Seleniti, che erano una specie razionale come gli esseri umani. Alla fine del manoscritto, le genti di Rotterdam lessero che l'omino stranissimo da loro avvistato sulla navicella era proprio un abitante della luna. Le condizioni che Hans Pfaall dettava per il proprio ritorno erano semplici: prima di atterrare avrebbe dovuto ottenere la grazia per l'uccisione dei creditori. Tuttavia nel frattempo l'omino lunare era scomparso nella navicella e nessuno era capace di comunicare con lui. Il pallone aerostatico risalì nell'atmosfera, tornando verso il satellite. L'accaduto destò molto clamore, ma cominciava già a circolare tra i presenti l'idea che tutto l'accaduto fosse soltanto il frutto di una colossale burla.


La Grande Beffa della Luna

Sentii parlare della Grande Beffa della Luna (Great Moon Hoax) per la prima volta molti anni fa, quando lessi il saggio di Isaac Asimov Civiltà extraterrestri (Extraterrestrial Civilizations, 1979). Rimasi stupito dalla narrazione dell'accaduto. Il figlio del patriarca ashkenazita Judah sosteneva una tesi che mi parve assai singolare e in contrasto con la mia pur limitata esperienza: il genere umano avrebbe avuto uno straordinario desiderio di credere all'esistenza di intelligenze aliene. Mi domandai come questo fosse possibile, dato che le persone che mi circondavano non credevano all'esistenza degli extraterrestri e tendevano a ritenere pazzo chi prestava fede a ogni fantasia sull'argomento. Non avevo ben compreso le affermazioni asimoviane. Le intelligenze in cui l'umanità ha sempre prestato fede non devono per necessità essere antropoidi generati su altri pianeti: può benissimo trattarsi di angeli e di demoni. Ogni comunità umana giudica pazzia le credenze delle altre comunità, ma afferma come sacrosante le proprie. Proseguendo nella lettura, la descrizione della Grande Beffa della Luna mi ha lasciato il segno. Riporto in breve i fatti. Il 25 agosto dell'Anno del Signore 1935, accadde qualcosa che avrebbe dovuto segnare un punto di rottura col passato. Il quotidiano di New York The Sun riportò una notizia sensazionale: nel suo osservatorio al Capo di Buona Speranza, il celebre astronomo inglese John Herschel aveva puntato il suo telescopio sulla luna, riuscendo a osservarne la superficie con una precisione fino ad allora inconcepibile. In una serie di sei articoli firmati dall'assistente fantomatico di Herschel, Andrew Grant, veniva descritto con sconcertanti dettagli un mondo lussureggiante e abitato da una specie intelligente affine all'Uomo. Valli fertili, sconfinate foreste di abeti in cui correvano enormi bisonti e unicorni azzurri, mari interni di acqua blu, grandi fiumi pieni di pesci, di creature anfibie e di uccelli acquatici. Asimov rimase molto colpito dalla descrizione dei bisonti lunari, da lui definita "un pezzo di bravura" per via dell'ingegnosa trovata di un'aletta carnosa e mobile sulla fronte dei grossi mammiferi, che permetteva loro di ripararsi gli occhi dagli sbalzi di luce. I Seleniti avevano l'aspetto di esseri umani dal pelo rossiccio, dotati di ali simili a quelle dei pipistrelli. Si riunivano e gesticolavano, dimostrando di possedere un linguaggio articolato. Costruivano piramidi di quarzo lilla e si radunavano in un grande tempio d'oro, dove adoravano chissà quali divinità. La specie appena scoperta fu addirittura battezzata con un nome scientifico: Vespertilio homo. Esisteva anche un'altra specie senziente, una tribù primitiva di castori bipedi che vivevano in capanne e conoscevano l'uso del fuoco. La narrazione si concluse con un brillante escamotage: il telescopio di Herschel era andato a fuoco per via di un malfunzionamento che lo aveva trasformato in uno specchio ustorio. Gli articoli di Grant conobbero un successo strepitoso, tanto che furono tradotti in molte lingue. Nel 1836 a Napoli fu pubblicato un opuscolo intitolato Delle scoperte fatte nella luna del dottor Giovanni Herschel, che conteneva estratti di questo materiale. Il mondo fremeva e persino nel mondo scientifico molti davano credito alle fantasie seleniche. Già gli ecclesiastici bramavano di raggiungere la luna per evangelizzare gli uomini-pipistrello! Se il loro tempio d'oro fosse stato dedicato a un Dio invisibile e astratto, lo avrebbero identificato col Dio cristiano, limitandosi a imporre la croce e i sacramenti. Se invece vi fossero stati adorati degli idoli, li avrebbero abbattuti, combattendo per debellare il paganesimo. Gli speculatori bramavano di raggiungere la luna per sfruttarne le immense ricchezze. Questi sogni di gloria furono ben presto interrotti quando accadde l'inevitabile: Sir John Herschel, di ritorno da un viaggio in Sudafrica, venne a sapere delle mirabolanti favole che gli venivano attribuite dai quotidiani! All'inizio trovò la cosa divertente e commentò che le sue vere osservazioni non potevano certo essere così eccitanti come gli articoli dell'inesistente Andrew Grant. Non tardò tuttavia ad accorgersi che la gente credeva davvero alla burla, cosa che lo mise in grande imbarazzo. Rimando al sito Hoaxes.org per approfondimenti: 



Poe e l'Imbroglio Lunare 

L'autore del Great Moon Hoax risultò essere proprio un reporter del quotidiano The Sun, Richard Adams Locke (1800-1871), diretto discendente del filosofo John Locke (1632-1704), che era stato il padre del liberalismo classico e dell'empirismo moderno. Il giornale newyorkese, anche noto come New York Sun, era stato fondato da Moses Yale Beach nel 1833 e fu uno dei primi a cercare di incrementare le vendite facendo pagare un penny per copia. Era un azzardo: se non si riusciva ad attirare l'attenzione dei lettori, si rischiava di finire in una spirale il cui unico esito era il fallimento. Altri avevano tentato l'ardito esperimento, fallendo miseramente. Occorreva per forza di cose mettere le mani su una trovata sensazionale, in grado di far crescere in modo esponenziale le vendite. Ecco quindi che entra in scena Edgar Allan Poe, che col suo racconto sul viaggio lunare di Hans Pfaall fornì a Locke l'ispirazione cercata! Lo scrittore di Boston, non appena venne a sapere delle descrizioni della flora e dalla fauna selenica firmate da Andrew Grant, comprese subito l'origine della truffa e reagì accusando Locke si essere un plagiario. Il primo articolo truffaldino comparve in agosto, ma soltanto tre settimane prima il racconto di Poe avente per protagonista Hans Pfaall era stato pubblicato su un nuovo giornale, The Southern Literary Messenger, dove si assicurava ai lettori che quello era il resoconto di una storia realmente accaduta. Poe non poteva sopportate tutto questo. Quello che gli faceva digrignare i denti dallo sdegno era che un fatto molto semplice: in pratica la sua opera era passata inosservata, ma l'idea gli era stata rubata da Locke, che con grande abilità l'aveva portata al successo. A quanto pare gli sfuggiva un particolare non irrilevante: The Southern Literary Messenger era una pubblicazione con pochi lettori, oggi diremmo "di nicchia", mentre The Sun di lettori ne aveva moltissimi, anche complice il suo basso prezzo e l'efficiente rete di strilloni. Così le peripezie di Hans Pfaall non destarono alcuna attenzione, mentre le meraviglie lunari dello pseudo-Herschel raggiunsero in una sola settimana 100.000 persone nella sola New York, che all'epoca aveva 300.000 abitanti.  Nel suo scritto polemico del 1846 I literati di New York City (The Literati of New York City), Poe dà prova di grande acume e lucidità, purtroppo ex post facto. Le considerazioni sull'opera di Locke sono riportate in questa pagina del sito Eapoe.org:   


Questo è un estratto significativo, da me tradotto:

«Capiti correttamente i singolari svarioni cui ho fatto riferimento, avremo il miglior motivo di meravigliarsi del prodigioso successo della beffa. Non una persona su dieci la screditò, e (punto più strano di tutti!) i dubbiosi erano soprattutto quelli che dubitavano senza essere in grado di dire perché - gli ignoranti, quelli non informati in astronomia, persone che non avrebbero creduto perché la cosa era così nuova, così completamente "fuori dal solito modo". Un austero professore di matematica in un college virginiano mi ha detto seriamente che non aveva dubbi sulla verità dell'intera faccenda! Il grande effetto operato sull'opinione pubblica è riconducibile, in primo luogo, alla novità dell'idea; in secondo luogo, al carattere eccitante e razionale delle presunte scoperte; in terzo luogo, al perfetto tatto con cui l'inganno è stato condotto; in quarto luogo, alla raffinata eleganza della narrazione. La mistificazione è stata diffusa in misura immensa, è stata tradotta in varie lingue - è stata persino oggetto di discussioni (quizziche) nelle società astronomiche; ha attirato su di sé la grave denuncia di Dick, ed è stata, nel complesso, decisamente il più grande successo nella sensazione - di una semplice sensazione popolare - mai fatto da una finzione simile né in America né in Europa.» 


Intenti denigratori 

A quanto pare, la motivazione che spinse Locke a sfruttare l'idea di Poe non fu soltanto economica: era anche animato dal desiderio di mettere in satira le dottrine del Reverendo Thomas Dick (1774-1857), conosciuto come "il filosofo cristiano", convinto sostenitore della pluralità dei mondi abitati e della loro estrema abbondanza nel Cosmo. Costui in un suo stravagante contributo si era addirittura spinto a stimare il numero di abitanti del sistema solare, che a sua detta avrebbero superato i 21 trilioni. Poe lo cita ne I literati di New York City, accennando al fatto che la sua reazione alla Grande Beffa della Luna è stata a dir poco scomposta. Forse l'ecclesiastico era ben consapevole del fatto che le proprie elucubrazioni erano indifendibili e buffe, così non ha retto alla loro diffusione. Altro studioso preso di mira da Locke era il medico e astronomo bavarese Franz von Paula Gruithuisen (1774-1852), che aveva creduto di osservare tracce di civiltà sulla superficie lunare, attribuendo le variazioni di colorazione delle rocce alla presenza di vegetazione. Certo, a quei tempi il mondo accademico era ben vario e strano! C'è quasi da provarne nostalgia.   

Confusione on line

Girando per il Web, si ha l'impressione che il passato non sia mai un quadro perfettamente nitido, che molte informazioni siano perdute e che non ci sia totale accordo sulle fonti. C'è chi sostiene che Richard Adams Locke nel 1935 fosse il nuovo direttore del The Sun. Ecco un link a un articolo del blog indipendente L'Angolo di Jane, che contiene l'informazione errata:


A quanto ho infine potuto reperire, Locke era invece un reporter, come dimostrato dal sito Hoaxes.org; ho trovato la stessa informazione sulla pagina in italiano dedicata al Great Moon Hoax. Ho faticato non poco prima per trovare una biografia dettagliata del discendente di John Locke. Mentre scrivo questo articolo, noto che esiste una rudimentale pagina a lui dedicata sulla Wikipedia in italiano ma non su quella in inglese, cosa senz'altro curiosa e non facile a spiegarsi.   


Una singolare ucronia

A quanto pare Poe confondeva in qualche misura l'olandese con il tedesco, complice l'antico significato della parola dutch che indicava entrambe le lingue. Così riteneva che la seconda rotazione consonantica arrivasse fino in Olanda. Va detto che all'inizio egli pubblicò il racconto come Hans Phaall, A Tale: lo ribattezzò soltanto nel 1842 col titolo definitivo. Comparve quindi sette anni dopo la prima edizione il bizzarro cognome Pfaall con la sua consonante affricata iniziale, una cosa decisamente insolita per i Paesi Bassi. Questo è una caratteristica che risulta chiaramente incompatibile con la fonotassi dell'olandese, una varietà di francone le cui occlusive sorde sono rimaste indenni. Potremmo supporre che lo scrittore abbia disegnato una specie di linea temporale ucronica - o più probabilmente onirostorica - in cui la seconda rotazione è avvenuta persino a Rotterdam. Data però la stranezza delle leggi della fisica esposte nel racconto, direi che è più verosimile pensare che Poe abbia descritto scientemente una burla a tutti gli effetti. Inutile proseguire a cavillare. 

Considerazioni finali

Se devo essere franco, ho trovato molto pesante la lettura de L'incomparabile avventura di un certo Hans Pfaall. Tra le opere di Poe che ho letto, questa è tra quelle che mi sono piaciute meno. Senz'altro mi ha dato più piacere analizzarla e scrivere questo contributo.