martedì 8 ottobre 2019

ETIMOLOGIA E PRONUNCIA DI QUECHUA

La parola quechua indica la lingua ufficiale dell'Impero Inca (Tawantinsuyu), e ciascuna delle lingue che ne sono derivate, parlate attualmente da quasi 10 milioni di persone su un vastissimo territorio che include aree della Colombia meridionale (dipartimento di Nariño) e dell'Ecuador, il Perù e la Bolivia, fino alla regione di Santiago del Estero in Argentina e alla provincia di El Loa in Cile. Per estensione, la parola in questione è usata per designare ogni popolo che parla una lingua di origine incaica. Molti navigatori italici si domandano quale sia la corretta pronuncia di quechua, dato che sembrano trovare grande difficoltà a comprenderla a partire dalla sua ortografia, che è ispanica. Ebbene, si deve pronunciare /'ketʃwa/. Accento sulla prima sillaba, la prima consonante è una /k/ come la c nella parola cosa (qu è solo un artificio ispanico per trascrivere il suono davanti alle vocali e e i), la -ch- ha un suono palatale come la c nella parola cena. Per rendere comprensibili le cose a chiunque, basti dire che la -ch- di quechua ha lo stesso suono che ha nel nome del Che Guevara - che a quanto pare tutti pronunciano in modo corretto. Un tempo si usava un obbrorioso e fuorviante adattamento all'ortografia italiana: checiua. Una simile trascrizione può ingenerare gravi distorsioni e deve essere evitata.

Orbene, quechua è l'adattamento di qhichwa "valle temperata". La traduzione usuale è "valle di montagna", in spagnolo "valle de la sierra", "quebrada". Una traduzione più tecnica è "altezza andina compresa tra i 2.300 e i 3.500 metri". La pronuncia varia a seconda delle lingue quechua: quella originale ha una consonante iniziale particolarmente ardua, un'occlusiva uvulare aspirata /qh/. Questa consonante ha alterato il suono della vocale /i/ in molte varietà della lingua, facendolo diventare [e]. Nell'originale lingua incaica i fonemi vocalici sono soltanto tre, /a/, /i/, /u/; la vocale [e] è un allofono di /i/, la vocale [o] è un allofono di /u/. In altre parole, si può prevedere dal contesto dove si deve pronunciare [e] e dove [i], dove si deve pronunciare [o] e dove [u]. Si registrano forme come /qiswa/, /qiʃwa/, /qhiʃwa/, /qheswa/, /qeʃwa/, etc. 

Questa è la declinazione di qhichwa "valle temperata":

Nominativo: qhichwa
    pl. qhichwakuna "valli temperate" 
Accusativo: qhichwata "valle temperata"
    pl. qhichwakunata "valli temperate"
Dativo: qhichwaman "alla valle temperata"
    pl. qhichwakunaman "alle valli temperate"
Genitivo: qhichwap (qhichwaq)* "della valle temperata"
    pl. qhichwakunap (qhichwakunaq) "delle valli temperate"
Locativo: qhichwapi "nella valle temperata"
    pl. qhichwakunapi "nelle valli temperate"
Terminativo: qhichwakama "fino alla valle temperata"
    pl. qhichwakunama "fino alle valli temperate"
Ablativo: qhichwamanta "dalla valle temperata"
    pl. qhichwakunamanta "dalle valli temperate"
Strumentale: qhichwawan "con la valle temperata"
   pl. qhichwakunawan "con le valli temperate"
Comitativo: qhichwantin "assieme alla valle temperata"

   pl. qhichwakunantin "assieme alle valli temperate"
Abessivo: qhichwannaq "senza la valle temperata"

   pl. qhichwakunannaq "senza le valli temperate"
Comparativo: qhichwahina "come la valle temperata"
   pl. qhichwakunahina "come le valli temperate"
Causativo: qhichwarayku "a causa della valle temperata"
   pl. qhichwakunarayku "a causa delle valli temperate"
Benefattivo: qhichwapaq "per la valle temperata"
   pl. qhichwakunapaq "per le valli temperate"
Associativo: qhichwapura "tra le valli temperate"
   pl. qhichwakunapura "tra le valli temperate"
Distributivo: qhichwanka "valle temperata per ognuno"
   pl. qhichwakunanka "valli temperate per ognuno"
Esclusivo: qhichwalla "solo la valle temperata"
   pl. qhichwakunalla "solo le valli temperate"


*I genitivi in -q anziché in -p sono tipici della lingua di Cuzco.

Ci sono poi le forme possessive, a loro volta declinate, ma elencarle in questa sede sarebbe troppo lungo.

L'uso del vocabolo qhichwa per indicare la lingua incaica è ben documentato e non si deve a un'errata interpretazione ispanica. Ecco un esempio: 

Ñuqanchik qhichwata rimachanchik "stiamo parlando in quechua" 

Queste locuzioni sono degne di nota: 

qhichwa runa "uomo di lingua quechua"
qhichwa simi "lingua quechua"


Va detto che in genere è sufficiente dire runa "uomo" per indicare l'uomo di lingua quechua, in contrapposizione a wiraqhucha "uomo di lingua spagnola". La lingua stessa è chiamata runa simi (scritto anche runasimi), ossia "lingua dell'uomo": simi significa "lingua", (sia organo della bocca che linguaggio). Per contro, la parola runa è passata nello spagnolo andino colloquiale per indicare un "campesino indio", con accezione profondamente spregiativa, ad esempio in frasi come "es un verdadero runa", etc. 

Sappiamo che gli Incas stessi, ossia i regnanti dell'antico Perù, chiamavano la propria lingua qhapaq simi o qhapaq runasimi, ossia "lingua nobile". C'è chi traduce con "lingua imperiale", da cui discende in via diretta la nozione che così fosse denominata la lingua ufficiale del Tawantinsuyu. Ciò ha ingenerato molti equivoci. Infatti ho il fondato sospetto che con questa locuzione gli Incas non indicassero la lingua a noi nota come quechua, bensì la propria particolare lingua segreta, ignota al volgo e del tutto diversa da quella corrente. Alcuni credono che questa lingua segreta fosse il puquina, una lingua andina isolata e oggi verosimilmente estinta; ritengo del tutto inattendibile questa opinione. 


Il primo uso della parola quechua per indicare la lingua incaica risale al XVI secolo, per l'esattezza al 1540: si trova nella grammatica di Pedro de Aparicio. Non si può quindi nemmeno dire che si tratti di un'innovazione recente e artificiosa. 

Confutazione di un'etimologia alternativa 

Molti autori riportano una diversa etimologia per quechua, facendone risalire l'origine al vocabolo trascritto come kkechuwa e glossato con "ladrone, predone" (in inglese "plunderer, robber"). La parola, che non è usata nelle attuali lingue del ceppo quechua, deve essere un antico derivato del verbo qichuy "sottrarre, rubare, espropriare", trascritto come quechuy, kkechuy, etc. Così possiamo ricostruire kkechuwa come *qichuwa "ladro", anche se il suffisso -wa mi risulta piuttosto oscuro. Si noterà che l'accento deve collocarsi sulla seconda sillaba, ossia sulla vocale -u- (*qi-chù-wa), in netta opposizione con quanto visto per qhichwa "valle temperata", che ha l'accento sulla prima sillaba, ossia sulla vocale -i- (qhì-chwa). Ho notato che nel quechua degli Wanka (Perù meridionale) si dice qitruy "sottrarre, rubare", e questo ci permette di capire che la protoforma aveva una consonante originale -tr-, una retroflessa che si pronunciava come nel siciliano quattru, poi confusa con -ch-. Nella stessa lingua locale si ha qitrwa "valle temperata", con il medesimo fonema. Così possiamo ricostruire con sicurezza il seguente quadro per il proto-quechua: 

    *qhitrwa "valle temperata"
    *qitruy "sottrarre, rubare"


Appare chiaro che sono due radici totalmente distinte, che mostrano qualche somiglianza soltanto per omofonia. 

La wikipediana Mary Tania ha scritto quanto segue: 

    It is important to know that the word "Quechua" or "Qheswa" is not the real name of the language of the Incas. The proper title to their language given by the Incas was "Qhapaq Runasimi", "The Great Language of the people" (Qhapaq = great, Runa = People, Simi = language). The word Quechua was given by Dominican priest Pedro Aparicio in the times of the conquest in 1540 misundestanding the meaning. The root of the word 'quechua' means, taken away by force,"quechuanchis" were called the Spaniards by the Incas an expression that means all together, killers, thiefs.

    Quechuy = means, expropiar, robar by force.
    Quechuypa = is a verb wich it means = the action of stealing.


Ebbene: tutto ciò è viziato da gravi distorsioni. Ovviamente il fatto che gli Spagnoli fossero chiamati "ladroni" non desta scalpore; la confusione tra "ladroni" e "zona temperata" non attecchisce in chi ha qualche rudimento della lingua incaica e ne comprende la fonetica. Ecco qual è il funesto effetto del Web sulle Scienze: non solo ne rallenta lo sviluppo, ma lo ostacola nei modi più subdoli. Costringe gli studiosi a reinventare ogni volta la ruota. Ripropone costantemente etimologie errate e concetti superati. Diffonde assurdità di ogni genere, obbligando ogni volta a combattere contro chi le sostiene a spada tratta. Distorce ogni cosa, impedendo di formarsi opinioni chiare.

ETIMOLOGIA E PRONUNCIA DI ZUCKERBERG

Tutto noi conosciamo Mark Zuckerberg. Entrato di prepotenza nelle nostre vite, ne ha preso il completo controllo. Scandaglia le nostre menti in tempo reale tramite meccanismi di captazione telepatica e ha acquisito su tutti noi un potere superiore a quello esercitato da qualsiasi dittatore del passato. Molti però si pongono una domanda che potrà sembrare futile. Come si deve pronunciare il cognome Zuckerberg? Anche a costo di essere impopolare, affermo e affermerò sempre una sacrosanta verità. I cognomi ashkenaziti sono in gran parte composti formati a partire da parole della lingua tedesca, quindi appartengono ipso facto alla lingua tedesca. Mi si dirà che si tratta di adattamenti dallo yiddish. Benissimo, ricordo che lo yiddish è una lingua eminentemente germanica, per la precisione una varietà dell'alto tedesco. Reputo pertanto una aberrazione insopportabile qualsiasi pronuncia ortografica anglosassone di questi cognomi - e di ogni cognome tedesco in generale, quale che sia la sua origine. Tutti sappiamo che Frankenstein si deve pronunciare /'fɹaŋkǝnʃtaɪn/ e non /'fɹaŋkǝnsti:n/ (come se fosse scritto Fronkensteen) o addirittura /'fɹæŋkǝnstɪn/ (come se fosse scritto Frankenstin). Spero che lo abbiano imparato anche nella Terra dei Liberi, visto che l'acuto Mel Brooks ha pensato di insegnarlo a quella progenie incolta tramite il suo film Frankenstein Junior (1974). Allo stesso modo Zuckerberg è e sarà sempre da pronunciarsi /'tsʊkəɹbɛɹg/, non /'zʌkəɹbəɹg/ o simili, come invece fanno negli Stati Uniti d'America e in altre nazioni di lingua inglese. La prima sillaba del cognome ha una vocale -u- (persino la vocale /u/ italiana è un'approssimazione migliore di quella usata dagli anglosassoni!) e inizia con una consonante affricata sorda /ts/, come quella che si trova nelle parole italiane razzismo, tazza e cozza. Non ha la consonante fricativa sonora /z/, come quella che si trova nelle parole italiane rosa, cosa e casa, che in tedesco si trova anche in posizione iniziale in parole come Sonne "sole", Saft "succo", sein "essere" e Sieg "vittoria". Trovo assolutamente deprecabile e priva di senso l'abbreviazione Zuck, pronunciata /zʌk/ e oggi tanto popolare, dato che oscura completamente l'etimologia del cognome. Anche se gli Stati Uniti d'America hanno fatto una bandiera dell'ignoranza e dell'incapacità di comprendere l'etimologia dei nomi, bastano poche nozioni di tedesco per sapere cosa significa il cognome del plenipotenziario di Satana sulla Terra: Montagna di Zucchero. Non è un concetto troppo arduo. Né mi sembra impossibile memorizzare parole semplici come Zucker "zucchero" e Berg "montagna". Seguendolo, si comprende che questi cognomi sono trasparenti, ossia traducibili. Così come Zuckerberg significa "Montagna di Zucchero", possiamo tradutte all'istante moltissimi cognomi ashkenaziti: Weinstein "Pietra del Vino", Goldberg "Montagna d'Oro", Goldblum "Fiore d'Oro", Goldstaub "Polvere d'Oro", Goldstein "Pietra d'Oro", Goldschmiedt "Orafo", Rosenberg "Montagna della Rosa", Schwartzkopf "Testa Nera", etc. Perché queste ovvietà vengono bellamente ignorate?

Qualcuno mi dirà che persino lo stesso Mark Zuckerberg pronuncia in modo anglizzato il proprio cognome come /'zʌkəɹbəɹg/, favorendo tra i suoi dipendenti l'abbreviazione /zʌk/ e andando volentieri contro la fonetica stessa della lingua tedesca. La cosa è irrilevante. La natura di una lingua non cambia per l'arbitrio di uomini tirannici. Altri mi diranno che è un fatto politico: moltissimi Ashkenaziti hanno favorito l'anglizzazione della pronuncia dei loro cognomi per reazione contro il Reich. Ciò è una pura e semplice assurdità: la lingua tedesca non è un'invenzione di Adolf Hitler e della NSDAP! Una persona che deturpa il proprio cognome, quale ne sia il motivo, si fa servitrice della Menzogna. Lo stesso Mel Brooks ha fatto allusione a questa tendenza: il discendente di Victor Frankenstein pronunciava stizzosamente il proprio cognome come Frankenstin a causa di un senso di vergogna, per dissociarsi da un passato per cui provava un'invincibile ripugnanza. Riacquistato l'orgoglio dell'appartenenza ai propri Padri, ecco che lo scienziato ripudiava Frankenstin per tornare a farsi chiamare Frankenstein. Perché Mark Zuckerberg non fa lo stesso? Per una lingua non c'è maledizione peggiore dell'ortografia storica, generatrice di storture e di errori a non finire. A questo punto, alterazione per alterazione, pronuncerò il cognome Zuckerberg in un nuovo modo, inedito: Zuckerborg. La logica soggiacente è chiara. Se una persona ha un account su Facebook, significa che è stata assimilata. Ogni resistenza è futile.

domenica 6 ottobre 2019

ALCUNE NOTE SULLA LOCUZIONE 'FAR VEDERE I SORCI VERDI'


Ero poco più che un moccioso quando sentii per la prima volta la locuzione "far vedere i sorci verdi". Mia madre (R.I.P.) stava parlando a un'amica di problemi scolastici e di una insegnante terribile. Credo che la belva umana di cui si discorreva insegnasse matematica: nel mio immaginario tale ostica materia era una vera punizione da Inferno di Dante! Così mia madre disse che la docente vessava e perseguitava i poveri scolari. "Gli fa vedere i sorci verdi!", commentò. Subito si destò in me la curiosità di sapere perché si dicesse così. Raffazzonai prontamente una spiegazione. Com'è ovvio le parole erano più rozze, ma la sostanza era più o meno questa: "Quando un'insegnante-aguzzina tiene sotto pressione un alunno, quello va in uno stato di estrema confusione, al punto da sviluppare una vera e propria febbre; a questo punto, incalzato da continue domande e rimproveri, minacciato da urla, brutti voti e infiniti ricatti, la povera vittima ha le allucinazioni, come quando la temperatura sale troppo, oltre i 40 °C, tanto da vedere guizzi di luce verde ai margini del campo visivo." Ecco spiegati i sorci verdi. Non era poi tanto male. Al giorno d'oggi qui in Lombardia uno scolaro non saprebbe nemmeno dire cosa sono i sorci. Sembra che sorcio sia una parola ormai uscita dal vocabolario della lingua italiana, al massimo considerata un termine dialettale romano quasi sconosciuto al di fuori dell'Urbe. Perché un giovane della Generazione Z capisca di cosa si sta parlando, sarebbe necessaria la traduzione sorcio = topo


Ecco, con grande stupore, che qualche anno dopo lessi su un libro l'origine attribuita alla locuzione "far vedere i sorci verdi", a cui sono attribuiti molteplici significati, da "provocare un estremo spavento" a "fare una sorpresa non molto gradita". Fui molto sorpreso da quanto appresi, perché mi sembrava qualcosa di controintuitivo. Stando all'opinione corrente degli accademici, gli amabili roditori non c'entrerebbero nulla con le allucinazioni indotte dalle vessazioni scolastiche o da altro! "Sorci Verdi" era infatti la denominazione della 205a Squadriglia da bombardamento della Regia Aeronautica, appartenente al 41° Gruppo BT (Bombardamento Terrestre) del 12° Stormo inquadrato nella III Squadra aerea. Piuttosto complicato, non è vero? Proprio per questo nel linguaggio comune si diceva Squadriglia "Sorci Verdi" per spirito di sintesi.

Correva l'Anno del Signore 1937, mese di marzo, nel pieno del Ventennio fascista che tante polemiche continua a suscitare a babbo morto da più di settant'anni. Guerra civile spagnola. Il sottotenente Aurelio Pozzi avrebbe udito un sottufficiale, romano de Roma, sbottare: "Domani annamo su Barcellona e je famo vede li sorci verdi!" Preso dall'ispirazione, lo stesso Pozzi avrebbe quindi disegnato i tre fatidici topi color menta, ritti sulle zampe posteriori. Due degli allegri animaletti erano intenti a conversare, mente l'altro dava loro le spalle; tutti e tre avevano un'espressione allegra. L'effigie fu dipinta dapprima sulla fusoliera dell'aereo del Pozzi, un trimotore Savoia-Marchetti S.M. 79, poi il suo uso fu esteso all'intera squadriglia, divenendo ben presto sinonimo di terrore e di devastazione, ma anche di strepitosi successi nelle competizioni. Nell'agosto del 1937 il capitano Bruno Mussolini, figlio di Benito, conquistò i primi tre posti nella gara aerea Istres-Damasco-Parigi, diffondendo la fama dei Sorci Verdi nel mondo intero. Sembra che in quell'occasione lo stesso Duce abbia esclamato: "Abbiamo fatto vedere i sorci verdi al mondo intero!" Ignorando l'aneddoto su Aurelio Pozzi e sul suo sottufficiale romano, alcuni attribuiscono l'origine del modo di dire proprio all'esclamazione mussoliniana - sulla cui origine sembrano però non interrogarsi. Questo è a mio avviso un controsenso, dato che i sorci verdi erano già l'emblema degli otto aerei della 205a Squadriglia portati alla vittoria dal capitano Bruno Mussolini. Il 7 settembre 1937 il generale Giuseppe Valle stabiliva con apposita nota che "il distintivo dei Sorci Verdi [con i tre topi in posizione eretta] contrassegnante i velivoli che parteciparono alla gara aerea internazionale Istres-Damasco-Parigi venga adottato come distintivo ufficiale del 12º Stormo B.T."

Benissimo. Appurati questi fatti sui famigerati "Sorci Verdi", resta una domanda profonda che i romanisti non considerano - a quanto pare per incompetenza e ignoranza essenziale. Perché diamine il sottufficiale romano avrebbe detto quanto disse? Senza questa domanda, tutto il ragionamento fatto dagli etimologi della Crusca è un mero circolo vizioso. Ebbene, il sottufficale romano usò i sorci verdi come allegoria di un estremo spavento per un motivo semplicissimo. La locuzione "je famo vede li sorci verdi" esisteva già! Non deriva dal simbolo della 2o5a Squadriglia da bombardamento, semmai è l'esatto contrario! È proprio il simbolo della 205a Squadriglia da bombardamento che deriva dalla locuzione. Questo perché si trattava di un modo di dire che doveva esistere già da tempo ed essere ben radicato a Roma. Le imprese belliche e sportive dei "Sorci Verdi" lo hanno semplicemente reso popolare dovunque. Quando tentai per la prima volta di dare un senso a questi benedetti roditori, non avevo quindi tutti i torti! 

Cosa possiamo dedurre da quanto esposto? Una cosa su tutte: forse non è infondato il sospetto che persino tra gli accademici siano ben rappresentati i coglioni!

venerdì 4 ottobre 2019

LA RÜGA, IL MISTERIOSO GERGO DELLA VAL SOANA

Il ricordo di A. resta vivo in me. Era uno degli ultimi parlanti della Rüga, un bizzarro linguaggio criptico della Val Soana che gli studiosi considerano un gergo. Dalla viva voce di A., in un pub a Torino, ho appreso un certo numero di parole e ho avuto conferma di altre che già conoscevo, avendole viste attestate nell'opera del Biondelli (Studi sui dialetti gallo-italici, Milano, 1857) - ben datato ma pieno di dati interessantissimi. Purtroppo, date le circostanze della serata in cui ho conosciuto A. (ricordo ancora le pinte di ottimo sidro da me ingurgitate avidamente), non ho avuto occasione di ottenere maggiori informazioni. Mi sembrava di infastidirlo ed ero molto soddisfatto di quanto avevo raccolto, così ho mollato la presa. Dopo qualche mese ho saputo, con grande dolore e tristezza, che A. era stato sedotto da una laidissima carampana, una cougar ben più matura di lui. Posso cercare di ricostruire in qualche modo la dinamica degli eventi. Questa donna libidinosa deve averlo fellato, ingurgitandogli il materiale genetico e conducendolo poi alla follia. Questo mi è stato riferito da comuni amici: una volta abbandonato dall'avida Messalina, A. aveva potuto trovare conforto soltanto in Dioniso, finendo in condizioni molto preoccupanti. A quel punto le notizie si sono interrotte. A tutt'oggi non so nulla di cosa ne sia stato di lui, se sia tuttora in vita o se si trovi nel paese che i Sumeri chiamavano Urugal. Se fosse stato ghermito dal Tristo Mietitore, esiste la fondata possibilità che la Rüga sia morta con lui.

Queste sono alcune delle glosse di A.: 

ÀIMA "fuoco"
BÓMBA "cane"
DAÙR "camoscio"

DÜRBI "padre"; "anziano" 
FÀIMA "gatto"
GÒRI "uomo"
LÜFA "acqua"
SANSÌGAR "testardo"
TÒUFA "stambecco"
TRI "figlio"; "piccolo"
TRILA "ferro" 

ÀIMA "fuoco" sembra puntare a una protoforma *aid-ma(n), che ha la stessa radice del nome degli Edui (Aedui), dal protoceltico *aidu- "fuoco", a sua volta dall'indoeuropeo *aidh- "ardere". Il dittongo /ai/ è conservato. Senza dubbio questo è a un relitto di un sostrato preromano (ligure o celto-ligure). 

DAÙR "camoscio" richiama subito alla mente l'inglese doe "cerva", dall'anglosassone "cerva", termine oscuro preso da un idioma di sostrato, con ogni probabilità celtico. In antico irlandese si trova daṁ "bue" (< *damos), mentre in gallese abbiamo dafad "pecora" (< *damatā). Si può ricostruire una base *dam- che doveva significare "animale (domestico)". Il latino ha preso dāma (variante damma) "daino" da una lingua di adstrato, con ogni probabilità il ligure, anche se c'è chi ritiene questa voce di origine berbera. Si tratterà in altra sede il problema. La -m- intervocalica deve aver subìto una lenizione come nelle lingue celtiche per dare DAÙR, il cui suffisso è alquanto oscuro.  

LÜFA "acqua" rimanda subito al latino lympha "acqua; liquido puro; fonte limpida"; "ninfa delle acque". La parola deve essere entrata nella lingua dotta dell'Urbe dall'etrusco: nella lingua dei Rasna dovette esistere *lumφa "acqua, liquido puro", adattamento del greco νύμφη (nymphe) "ragazza, giovane sposa", ma anche "ninfa delle acque", il cui uso poetico come "acqua" è ben documentato. Probabilmente i due significati di "ragazza" e di "acqua" puntano a parole distinte e omofone, poi associate per etimologia popolare. Il professor Guido Borghi, come gli ho trasmesso anni fa questa mia ipotesi sull'origine di LÜFA "acqua", mi ha scritto che effettivamente la derivazione della voce valsoanina è verosimile.

TÒUFA "stambecco" sembra puntare a una protoforma *tolfa, che ha singolari riscontri nella toponomastica dell'Italia centrale: nel panorama del centro abitato di Tolfa (anticamente Tulphae) si vede un grande sperone roccioso.  Il toponimo deve aver avuto origine da una radice *tul- / *tol- "sporgenza, corno", che nel linguaggio alpino è passato a indicare l'animale cornuto per eccellenza.

A. mi ha fatto notare, mentre stavo abbeverandomi al grosso bicchiere di sidro, che SANSÌGAR "testardo" è un vocabolo comune a un gergo della Bergamasca. Tale gergo è stato poi da me identificato nel Gaì, una parlata criptica dei pastori delle valli bergamasche. Il professor Guido Borghi mi aveva a suo tempo inviato del materiale sul Gaì, che purtroppo è andato smarrito.  Ipotizzo che il significato d'origine fosse "testa dura come la pietra", con -GAR che rimanda al ligure carris, glossato con "nomen saxi", ben documentato nella toponomastica e presente anche in basco come harri "pietra".

Oltre alle parole da me selezionate come antiche, ve ne sono anche alcune di ben diverso tipo. Di notevole interesse antropologico sono ad esempio i vocaboli LUMBARDA "mattina" e BURGÒGNA "sera", di chiara origine furbesca: come A. mi ha spiegato, per le genti della Val Soana è in Lombardia che nasce il sole ed è in Borgogna che tramonta. Chiaramente queste forme sono molto più recenti rispetto a quelle attribuibili a un sostrato preromano. 

Scarne le note grammaticali fornite da A., anche se appare chiara la natura romanza della morfologia. L'articolo è LU, che non conosce variazioni di genere per il lessico nativo, non romanzo: LU BÓMBA "il cane", LU FÀIMA "il gatto", etc. La cosa è interessante: a quanto pare tutti i sostantivi in -A di questo genere sono considerati maschili, non si ha traccia di una loro assimilazione al genere femminile. Questa caratteristica mi è stata fatta notare espressamente da A.; i vocaboli di questo tipo sono invariabili al plurale: BÓMBA traduce sia "cane" che "cani", etc. Un fatto a cui finora non è stato dato il giusto rilievo dagli studiosi.  Il lessico di origine furbesca o romanza funziona diversamente: LA LUMBARDA "la mattina", LA BURGÒGNA "la sera". A. non mi ha fornito alcun esempio di verbo coniugato. Non sono riuscito ad avere da lui saggi di frasi complete, per quanto elementari. Ero sicuro che avrei rivisto A. in altre occasioni e che avrei avuto tempo di approfondire ogni questione. Beh, mi sbagliavo. 

Queste sono alcune interessanti glosse raccolte dal materiale di Bernardino Biondelli, sia dal già menzionato volume sui dialetti galloitalici che da Studi sulle lingue furbesche (Milano, 1846): 

BASORDA "fame"
BERO "anno"
CAMU "amico; compagno"
CHEZA "porci, maiali" (z = /ts/
COSPA, COSBA "casa"
CRÜINA "scrofa"
CUCÀR "mangare"
DÜRBI "padre"
FAMÀUT "servitore"
GHÈISI "fame"
GORI
"uomo"
GÒRIA "scrofa; prostituta"
LOMBARD "sole"
MURCÀR "mangiare"
PIERLO "Dio" 
TABURNA "villa" (dimora di campagna)


Si noterà che il Biondelli fallisce nell'intento di dare una precisa definizione della Rüga, che a dire il vero non menziona nemmeno con questo nome. Non sembra che la considerasse un linguaggio criptico distinto dal locale dialetto, da lui definito piemontese canavesano - anche se in altre fonti è invece considerato franco-provenzale come l'arpitano. Le parole prive di corrispondenza romanza, presenti nel lessico di base, le evidenzia come bizzarrie, comprendendone però soltanto in parte l'estrema importanza. Nel suo volume si trova anche una versione in valsoanino della Parabola del Figliol Prodigo, in cui compaiono alcuni dei vocaboli sopra riportati. La lingua in cui è redatta è a tutti gli effetti piemontese, ha soltanto alcune caratteristiche morfologiche franco-provenzali, come le uscite -t  della III persona singolare e -unt della III persona plurale dei verbi (es. ho hat avü "ha avuto", l'est fuièit "è fuggito", j'avansunt "gli avanzano"). 

BASORDA "fame" doveva in origine significare "carestia; morte per fame". Ho subito riconosciuto in questa voce un'etimologia celtica, comparandola all'antico irlandese bás "morte", dal protoceltico *bāθθon, a sua volta da un precedente *bāstom. La terminazione è confrontabile con il suffisso -red che si trova in gallese, derivato da -*reton. Così da *bāθθo-retā (con l'accento su -o-), con una variante femminile del suffisso, abbiamo direttamente BASORDA. Nel gergo dei minatori di Usseglio si trova bazir "morire", formato dalla stessa radice celtica, diffusa anche negli argot francesi.

BERO "anno" è una forma molto criptica, ma alla fine sono riuscito a carpirne il mistero. Tra i ladri si usavano forme gergali come longo, longano "anno" (in Lombardia longon, lungagnen), la cui spiegazione è ovvia: un anno in carcere non passa mai. Siccome tali codici tendevano a filtrare tra i profani, per via della loquacità femminile, nelle conventicole furbesche si cominciò a dire serpente "anno": il serpente è lungo come l'anno, inoltre l'Ouroboros, che si morde la coda, allude al tempo ciclico. Orbene, BERO significava in origine "serpente". Siamo abituati a questa parola. Chi non conosce la Vipera berus? Si tratta di una parola celtica che indicava la vipera e la lancia. L'origine indoeuropea è la stessa del latino veru "spiedo; giavellotto" < *gweru- "spiedo".

CAMU "amico; compagno" presenta qualche problema già a livello di pronuncia. Non è infatti segnato alcun accento. Suppongo che la pronuncia corretta sia CAMÙ, con l'accento sull'ultima sillaba: una vocale /-u/ atona e finale di parola è scritta costantemente -O dagli autori. Viene la tentazione di ritenere questa parola di origine gitana: in Romaní abbiamo kamel "amare", dalla stessa radice del sanscrito kāma- "desiderio", che ha dato origine al famosissimo Kāmasūtra. Il punto è che il verbo in questione indica l'amore tra uomo e donna, la concupiscenza sessuale e il corteggiamento, non l'amicizia tra uomini. Il terminie Romaní per dire "amico" è invece prieten (sanscrito pri- "amare", in senso platonico). Nonostante i parlanti della Rüga fossero calderai come molti Rom, non notiamo alcuna traccia di commistioni lessicali. Il problema rimane dunque aperto, ma credo che la parola sia antica e non gitana: mi è subito venuto in mente il nome dei Camuni. La questione, molto complessa, andrà approfondita in altra sede.

COSPA, COSBA "casa". Una parola antica e di vasta diffusione nel furbesco, con diverse varianti. Già nel toscanissimo Cecco Angiolieri troviamo cosco "casa". Nel mafiese si ha il tristemente noto cosca. La parola potrebbe essere imparentata con il latino casa "capanna", di origine preindoeuropea e con ogni probabilità etrusca, oltre che con le forme germaniche: inglese house "casa", tedesco Haus "casa", dal protogermanico *χūsan - senza credibili paralleli indoeuropei. 

CRÜINA "scrofa" somiglia a crin "maiale", un vocabolo preromano assai diffuso in Piemonte (a Finestrelle curìn e a Giaglione carrìn). In basco si ha kurrinka "grugnito".    

FAMÀUT "servitore" è chiaramente derivato dal latino famulus. La cosa è abbastanza sorprendente, visto che non mi sembra che abbondino gli esiti romanzi della parola latina (a parte qualche forma dotta rammento soltanto l'italiano famiglio). 

GHÈISI "fame" sembra connesso con una gran varietà di forme diffuse in Piemonte (sgösia), in Lombardia e persino in Emilia (sghessa). Non è tuttavia facile risalire a una protoforma solida. Si nota però la sorprendente somiglianza con il basco gose "fame". 

LOMBARD "sole" corrisponde chiaramente alla sopracitata glossa di A., LUMBARDA "mattina". Il sole era chiamato così perché si pensava che nascesse in Lombardia. 

PIERLO "Dio" è sempre citato con l'aggettivo preposizionale BON "buono": nel lavoro sui furbeschi si ha EL BON PIERLO "Il buon Dio". L'articolo usato pare in contrasto con quanto comunicatomi a suo tempo da A., che aveva LU, non EL. Si noti però che nella versione valsoanina della parabola del Figliol Prodigo si ha LO BON PIERLO "il buon Dio" e LO BON DÜRBI "il buon padre".

TABURNA "villa" somiglia molto al latino taberna "osteria, locanda", ma anche "capanna" - a sua volta prestito da una lingua non indoeuropea, con ogni probabilità dall'etrusco. Il diverso significato e il suffisso -URNA mi spingono a ritenera la voce valsoanina imparentata col latino taberna, ma non un prestito. 

Diverse parole fornite da A. non si trovano nelle opere di Biondelli (es. DAÙR "camoscio", TÒUFA "stambecco", TRILA "ferro"). 

Costantino Nigra (1828 - 1907), che fu definito l'Ultimo Vate, scrisse diffusamente su questo linguaggio singolare, compilandone anche un dizionario. Sono venuto a conoscenza di questo autore durante un convegno a Torino. Ricordo ancora la buffa excusatio non petita di R., che presentò la sessione: "Certo, Costantino Nigra era un massone, ma chi non lo era a quei tempi?" Siccome la presentazione precedente era stata su Don Bosco e sul cattolicesimo sociale piemontese, R. provava un certo imbarazzo, forse temeva che qualche vandeano si levasse dal pubblico e gli rimproverasse l'improvvida commistione. 

Riporto alcune interessanti glosse tratte dal dizionario di Nigra, pubblicato in Archivio glottologico italiano, vol. III, Roma, 1878, pagg. 53-60. L'ortografia, razionalizzata da Albert Dauzat, si basa su quella italiana, ma con alcune peculiarità (J = I semivocalica); noto che dove Biondelli ha Z, Nigra usa in modo sistematico TH per esprimere un suono interdentale. 

BÁLJO "soldato"
BÉJRO
"anno"
BIMA
"sale"
BÓMBA "cane", "cagna"
BÓNGA "bottiglia"
BÓRNA "forno"
CHÉTHA "maiale"
CRÜ'JNA "porco"
DÁLJO "sciabola"
EMME "miglio" (misura di lunghezza)
FÁJMA "gatto"
FÁPER "bastone"
FÍRFA "porco"
GÁJNA "gatto"
GHISÓRBA "lupo"
GÓRLA "vacca"
IPORÍGE "Ivrea"
LAP "latte"
L
ÓPA "orecchio" 
L
Ü'FA "pioggia" 
LÜ'RNA "re"
MANDÓCA "vacca"
MARGÓJNA "pastore"
MORÉJNA "lardo"
M
ÓSSA "vino"
NICO "naso"
PÉLJO "pietra"
PIC "argento"
RÜF "fuoco"
RÜLL "mela"
TÁMPA "porta" 


Diverse parole fornite da A. non si trovano nell'opera di Nigra (es. DAÙR "camoscio", TÒUFA "stambecco", TRILA "ferro").  

BÁLJO "soldato" rimanda all'istante al nome dei Balari, antica popolazione della Sardegna, il cui significato è "esiliati, fuggiaschi, predoni, banditi". Anche le isole Baleari devono il loro nome agli antichi abitanti, che avevano grandissima fama di pirati.

BÓRNA "forno" è sorprendente e di certo antico: è un corrispondente ligure del latino furnus, con /b-/ dall'indoeuropeo *gwher- "caldo; ardere". Il latino furnus è corradicale di formus "caldo" e in celto-ligure abbiamo una radice molto simile proprio con /b-/ iniziale, che sopravvive nella toponomastica: basti pensare al fiume BORMIDA "Caldo", ossia "Ribollente", oltre che a BORMIO "(Luogo) delle Acque Calde". 

DÁLJO "sciabola" deriva da un'antica parola ligure, *daklom, il cui significato è "falcetto". Il latino ha preso daculum "falcetto" proprio dal ligure.

EMME "miglio" (unità di lunghezza) parrebbe una forma abbastanza banale, se così si può dire: è infatti la pronuncia del nome della lettera M, che caratterizzava le pietre miliari. 

IPORÍGE "Ivrea" è una diretta evoluzione della forma celtica Eporēdiā "(Luogo) della Cavalleria" (cfr. gallese ebrwydd "rapido", da *epo-rēdos; antico irlandese echraḋ "cavalli (coll.); cavalleria; cavallo da corsa", da *ekwo-rēdos), avvenuta di certo in modo indipendente dal piemontese Ivrèja. Queste forme toponomastiche devono essere il risultato di tardi esiti del gallico parlato, piuttosto che di forme assimilate dal latino volgare: l'usura fonetica è più "corrosiva" di quella del lessico latino avvenuta nel romanzo e presenza mutamenti anomali - ovviamente trascurati dai romanisti. 

LÜ'FA "pioggia": A. traduce questa parola con "acqua". Chiaramente il significato di "pioggia" è secondario e si è sviluppato da quello più generale. Nigra cita anche la forma verbale LÜ'FET "piove".

MANDÓCA "vacca". La radice preindoeuropea di questa parola si trova nel basco mando "mulo" e nel paleosardo, ma anche nel celtico mandu- "cavallino" (passato in latino come mannus "cavallino", da un dialetto che aveva -nd- mutato in -nn-, forse il leponzio). Con ogni probabilità nella lingua neolitica di origine significava "animale domestico (bovino o equino)".

MORÉJNA "lardo" ha vasti paralelli in moltissime lingue nostratiche ed afroasiatiche. Tra questi derivati si annovera la radice indoeuropea *smeru- "grasso, unto", tipica del germanico e del celtico, che però non sembra essere la diretta origine della forma valsoanina.   

MÓSSA "vino" lo associo al basco ozpin "aceto", dal protobasco *boz-bin "idromele acido": la radice d'origine, *boz-, da un precedente *moz- (-z- trascrive una sibilante sorda laminale), doveva essere lontanamente imparentata con l'indoeuropeo *medhu- "idromele; miele". Parole simili si trovano anche in altri argot e devone essere residui di lingue antiche.

PÉLJO "pietra" è da una radice di sostrato *pel(l)-, tuttora ben viva in diverse parlate dell'arco alpino. In Trentino (Agordo, Livinallongo) si ha pelf "roccia durissima". In Savoia si ha peilevo "roccia", dalla stessa radice. Persino in greco antico si ha un relitto preindoeuropeo πέλλα (pella) "roccia", tramandatoci da Esichio. Abbiamo poi la variante apofonica *pal-, che è ben documentata nell'idronimo ligure Vindupale "Pietra Bianca" (che attualmente porta il nome romanzo di Prealba, dalla traduzione latina Petra Alba), oltre che nel leponzio epigrafico pala "lapide".

Mi sono accorto che Nigra non riporta nulla di simile a BURGÒGNA "sera", ma oltre a LOMBART "sole" ha anche LOMBARDA "luna". Una singolare contraddizione con le glosse di A., spiegabile supponendo che la Rüga non sia mai stata un linguaggio monolitico e che avesse numerose varietà locali, spesso con divergenze lessicali anche notevoli.   

Molte simili parole, attribuite all'argot di Locana in Val Soana, sono riportate nell'opera di Arturo Aly-Belfadei, Archivio di psichiatria, scienze sociali e antropologia criminale (Torino, 1900). L'autore, rappresentante moralista delle mostruosità dello Stato-Moloch e del suo insopportabile paternalismo, riteneva ogni argot come una manifestazione criminale da sopprimere - previa schedatura per finalità poliziesche. L'ortografia usata per trascrivere i vocaboli è molto simile a quella già adottata dal Dauzat nel riportare i dati del Nigra.  

BASÔRDA "fame"
BRÍA
"guerra"
CRÒJNA "scrofa"
DÖRBI "padre"
DÖRBJA "madre"
GÀUNA "gatto"
GRÍA "carne"
GÖRBA "paese natio"
LIMA "camicia"
LÖRNA "re"
MÖRCH "ricco"
MOSA "vino"
RÜGA "calderaio"
TAMPA "finestra"


Si noterà che Aly-Belfadei glossa PIÉRLO con "monsieur, seigneur": ËL BÔN PIÉRLO è glossato con "Dieu" (alla lettera "Il Buon Signore"). Nigra ha invece LO BON PJÉRLO "Dio" e cita una forma femminile PJERLÜ'A "signora". Secondo Dauzat, che riporta i dati di Nigra, il significato originario del termine sarebbe "padre" nel dialetto locale e avrebbe una variante PIRLO

RÜGA "calderaio" spiega il nome stesso del gergo di cui ci stiamo occupando. Con ogni probabilità è un derivato di RÜF "fuoco". 

Infine faccio notare una cosa singolare che mi ha molto stupito. Oltre a parole molto peculiari e dall'aspetto antico, sia nel lavoro di Nigra che in quello di Aly-Belfadei ne troviamo moltissime deludenti. Si tratta di parole romanze dotate di suffissi. Questi sono alcuni esempi: 

AGNELÁRRO "agnello"
AUTRÉNC
"altro"
AVILJÓCA "ape"
BINÉNC "bene"
CAVAGNÓCA "cavagna"
DOVANTÉNC "davanti"
FJATÁRRO "soffio"
FJEURÓCA "fiore"
GABJÓCA "gabbia"
GIOANÁRRO "giovane"
GIOVENÓCA "giovane"
MELÜ' "miele"
MESÁRRO "mese"
NOVÁRRO "nuovo"
ORSÁCO "orso"
ORSÜ' "orso"
OSSÁCO "osso"
PONTÁRRO "ponte"
SANGÁRRO "sangue" 


La Rüga ha un lessico che comprende sia forme antichissime, sopravvivenze di sostrati preromani, che forme più recenti (in taluni casi addirittura banali, es. BEC "capra", cfr. italiano becco; BROC "cavallo", cfr. italiano brocco; MÜCA "vacca", cfr. italiano mucca). Sembra di ravvisare una strana tendenza a sostituire forme criptiche antiche con forme moderne più trasparenti, prossime all'italiano o al piemontese, o addirittura ottenute da parole italiane aggiungendo suffissi - cosa che appare un controsenso, essendo la finalità di un gergo quella di risultare incomprensibile agli estranei. In molti casi due o più forme convivono (TARGA "bene" rispetto a BINÉNC; MANDÓCA "vacca" rispetto a MÜCA, etc.), come se fosse avvenuto un imponente processo di rilessificazione. Le forme celto-liguri o di origine ignota sembrano essere sfavorite nella competizione.