venerdì 25 dicembre 2020

NEOLOGISMI E LESSICO DOTTO DI GABRIELE D'ANNUNZIO

 
La figura enigmatica di Gabriele D'Annunzio (Pescara, 1863 - Gardone Riviera, 1938) desta tuttora in molte persone sentimenti forti e contrastanti. Alcuni provano nei suoi confronti un'antipatia viscerale. Altri invece nutrono per lui una vera e propria adorazione. Tutto questo a babbo morto dal 1938. Se ci pensiamo, è un caso abbastanza inconsueto, addirittura più unico che raro. A parte gli aspetti problematici di questo personaggio istrionico, bisogna riconoscere come dato di fatto innegabile il suo ruolo nel plasmare la lingua italiana. Pochi ne sono consapevoli, ma utilizziamo ancora non poche sue invenzioni lessicali, che hanno cambiato per sempre la lingua italiana. A volte capita di imbattersi in qualche articolo che cita a titolo di esempio una decina di creazioni del Vate. Le più conosciute e riportate ciclicamente nei media sono senz'altro le seguenti: 
 
1) Il sostantivo automobile di genere femminile
D'Annunzio ritenne che un'automobile fosse come una bella donna, sinuosa e ammaliante. Queste sono le sue parole: "L’automobile è femminile: questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità di una seduttrice e delle donne, ha la disinvolta levità nel superare ogni scabrezza." Ai suoi tempi l'uso generale imponeva che il sostantivo automobile fosse di genere maschile e che si dovesse usare l'articolo indeterminativo congruente. Si scriveva quindi un automobile, senza apostrofo. Questo uso fu cambiato. Oggi nessuno direbbe mai "questo automobile è molto bello".

2) L'idronimo Piave di genere maschile
In precedenza si diceva la Piave, non il Piave. D'Annunzio pensò che il fiume veneto dovesse trasmettere un'idea di forza, eroismo e virilità, tutte caratteristiche intrinsecamente connesse al genere maschile. Quindi il Fiume Sacro della Patria fu "promosso maschio per merito di guerra". A dire il vero già nel 1892 Carducci aveva usato la forma maschile nella sua ode Cadore, ma era stato severamente censurato dalla critica. Del resto era ben noto per il suo scollamento dalla realtà fisica geografica, lui che aveva fatto tramontare il sole dietro al Resegone. Ciò che non riuscì a Carducci, riuscì invece a D'Annunzio. L'antico idronimo Plavis è di origine venetica e deriva dalla radice indoeuropea *plew- / *plow- / *plu- "fluire", che ha dato anche il verbo latino pluere "piovere". Oggi nessuno ricorda più l'esistenza del femminile la Piave, a parte pochissimi anziani dialettofoni ormai prossimi a raggiungere i lidi plutioniani. È tuttavia ancora chiamato Piave Vecchia un ramo del fiume che accoglie parte della foce del Sile.
 
3) L'antroponimo femminile Ornella
Si chiama Ornella un personaggio della tragedia in tre atti La figlia di Iorio (1903). L'etimologia è considerata incerta e in genere ricondotta al fitonimo orno, ornello, nome popolare del frassino da manna (Fraxinus ornus). In toscano questo albero è detto avòrnio, in abruzzese è detto urnielle; si distingue per la forma sinuosa e il profumo dei suoi fiori. Nonostante l'avversione del Vate nei confronti dell'anglofonia, per me non si può escludere la possibilità che il nome Ornella sia invece derivato dall'inglese horny "sessualmente eccitata, arrapata". Questo significato, comune per entrambi i sessi, è attestato con certezza a partire dal 1889: non sarebbe un anacronismo. La cosa non mi stupisce: è ben risaputo che nella mente di D'Annunzio il sesso ricopriva un'importanza determinante. Avrebbe quindi mascherato un termine inglese, nascondendone l'origine. Comunque sia, si ha una misteriosa attestazione anagrafica: da documenti anagrafici risulta che a una bambina nata nel 1900 è stato attribuito il nome Ornella (Fonte: Dizionario Storico del Nomi Italiani, Utet). Molto raro il maschile Ornello, passaporto per un destino di soprusi ad opera dei bulli.

4) L'antroponimo femminile Cabiria 
Deriva dal punico kbr /ka'bi:r/ "grande" (cfr. ebraico כַּבִּיר kabbīr "enorme, immenso", arabo kabīr "grande, potente", akbār "grande"). La formazione con un suffisso -ia atono non è però tipica delle lingue semitiche, mentre è la norma in quelle indoeuropee. Il nome fu inventato da D'Annunzio per l'eroina protagonista dell'omonimo film muto del 1914 (Cabiria, di Giovanni Pastrone), di cui firmò anche la sceneggiatura. La pellicola, il cui sottotitolo è Visione storica del terzo secolo a.C., è ambientata nel contesto della Seconda Guerra Punica, a Cartagine. Ai nostri giorni il nome Cabiria è molto raro e si trova soprattutto a Roma e a Latina. Esiste anche la variante Gabiria. Si trova persino un maschile Cabirio, per fortuna ancora più raro.

5) L'antroponimo femminile Liala 
Nacque come pseudonimo della scrittrice Amalia Liana Negretti Odescalchi (1897 - 1995). Si dice che D'Annunzio volesse donarle un nome che contenesse ortograficamente un'ala. Così Amalia Liana divenne Liala. Si direbbe piuttosto una naturale evoluzione fonetica da /a'malja li'a:na/ a /li'a:la/, aiutata dall'assimilazione di -n- in -l-. 

6) L'arzente 
Proviene dallo spagnolo agua ardiente, che fu adattato in italiano come acqua arzente o acque arzenti (il plurale era più comune) e fu usato per indicare l'alcol prodotto dalla distillazione. Il passaggio da ardiente /ar'djente/ ad arzente /ar'dzente/ è una semplice e naturale assibilazione. Si è così creata l'allotropia arzente - ardente. In sardo l'assibilazione non si produsse e la locuzione spagnola agua ardiente dette origine per calco parziale alle forme eardenti (gallurese), abbardente (logudorese, nuorese) o acuardenti (campidanese). D'Annunzio, dovendo sostituire il francesismo cognac, estrasse l'aggettivo dalla locuzione acque arzenti, sostantivandolo. Produsse così un neologismo, arzente "cognac", che ormai è caduto in disuso. Credo che nessuno più lo ricordi. Nonostante sia creduto da molti, l'arzente non deriva dall'aggettivo arzillo: si tratta di un'etimologia popolare. 
 
7) Il tramezzino 
La creazione lessicale dannunziana dovrebbe risalire al 1926 (secondo alcuni all'anno precedente) e aver avuto luogo a Torino, al Caffè Mulassano di Piazza Castello. Pare quasi un calco del catalano entrepà "sandwich", ossia "in mezzo al pane". Non mancano leggende bizzarre: ad esempio si dice che i sandwich ricordavano al Vate i tramezzi (elementi architettonici) della sua casa di campagna. Il neologismo non sarà più di uso comunissimo, ma non si trova nessuno che non lo intenda. Qualche tempo fa ho scritto un trattatello sull'argomento, a cui rimando per maggiori informazioni: 

 
8) Il velivolo 
Nel corso di una conferenza sul Dominio dei cieli, tenutasi nel 1910, l'Imaginifico ebbe a dire: “La parola è leggera, fluida, rapida; non imbroglia la lingua e non allega i denti; di facile pronunzia, avendo una certa somiglianza fònica col comune veicolo, può essere adottata dai colti e dagli incolti”. Il vocabolo compare nel romanzo Forse che sì forse che no (1910). L'origine è dall'aggettivo latino vēlivolus, il cui significato è duplice: 
i) che naviga veloce con le vele (detto di nave);
ii) solcato da navi veloci (detto di mare).
Il neologismo non sarà di uso comunissimo, ma non si trova nessuno che non lo intenda.


9) La fusoliera 
Questo lemma tecnico del linguaggio dell'aviazione indica la parte dell'aereo allungata nel senso del moto. Nel romanzo Forse che sì forse che no (1910), l'Imaginifico scrisse: “… immaginò di ritrovarsi nella lunga fusoliera che formava il corpo del suo congegno dedàleo tra i due vasti trapezii costrutti di frassino di acciaio e di tela, a, dietro il ventaglio tremendo dei cilindri irti d’alette, di là dai quali girava una forza indicibile come l’aria: l’elica dalle curvature divine”. Deriva dal veneziano fisolera "barca di forma stretta e allungata", italianizzato in modo tale da somigliare a fuso (strumento per filare). Il neologismo non sarà di uso comunissimo, ma non si trova nessuno che non lo intenda.

10) Lo scudetto
Il simbolo della vittoria del campionato di calcio fu un'invenzione dannunziana, che scelse per designarlo una parola già in uso nel linguaggio dell'araldica. La prima squadra a giocare con lo scudetto cucito sul petto dei calciatori fu il Genoa, nel 1925. La locuzione è tuttora in uso vibrante. 

11) La Rinascente 
È una sorprendente creazione pubblicitaria. Nel 1917 andò a fuoco un grande magazzino milanese, che era stato fondato nel 1865 dai fratelli Luigi e Ferdinando Bocconi nell'angolo di via Santa Radegonda. Era il primo negozio italiano di abiti preconfezionati. Nello stesso anno dell'incendio, l'imprenditore Senatore Giuseppe Cesare Borletti rilevò l'attività, a cui D'Annunzio diede prontamente un nuovo nome che alludeva al mito dell'Araba Fenice. La catena di negozi La Rinascente è tuttora presente in 12 città italiane.
 
12) I Vigili del Fuoco 
La locuzione è tuttora in uso vibrante. Trae origine dalle Cohortes vigilum che nell'antica Roma si occupavano di proteggere la città dagli incendi. Nel 1935 D'Annunzio denominò Vigili del Fuoco i membri del Corpo Nazionale con funzioni antincendio e di protezione civile, sostituendo il termine di origine francese Pompieri. Anche se l'Autarchia culturale è finita da un pezzo e la parola pompiere è stata nel frattempo reintrodotta in italiano, resta comunque vitale anche la creazione dannunziana. Si noti che il nome ufficiale è tuttora Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco.       

13) Il Milite Ignoto 
Il Milite Ignoto è un caduto al fronte durante la Prima Guerra Mondiale, sepolto a Roma sotto la statua della dea Roma all'Altare della Patria al Vittoriano; è senza nome conosciuto, dato che il corpo fu scelto tra quelli privi di elementi che potessero permettere il riconoscimento. Tramite questo neologismo tratto dal latino (mīles ignōtus "soldato sconosciuto"), D'Annunzio intendeva sottrarre all'Oblio tutti i caduti italiani che sono morti senza poter essere identificati, rendendo loro pieno onore. La locuzione è tuttora in uso ufficiale. Ogni anno il Presidente della Repubblica depone fiori sulla tomba del Milite Ignoto.

14) Il marchio Saiwa 
È una sorprendente creazione pubblicitaria. Si tratta di un acronimo formato dal nome della Società Accomandita Industria Wafer e Affini. D'Annunzio aveva licenza di derogare dalle direttive che scoraggiavano l'uso di lettere considerate "straniere", come appunto la w. Tale lettera era pronunciata come una fricativa labiodentale /v/, proprio come in tedesco. Saiwa si pronunciava e si pronuncia anche ai nostri giorni /'saiva/, così come wafer è ancora pronunciato /'vafer/, pur venendo dall'inglese. Il marchio in questione esiste tuttora. Famosi sono gli Oro Saiwa, forse i più austeri tra tutti i biscotti, che però apparvero sul mercato negli anni '50. 
 
Un tentativo di classificazione
 
Il punto è che i neologismi sopra riportati e discussi sono soltanto una frazione piccolissima di ciò che D'Annunzio produsse come "operaio della parola". Egli si vantava di aver usato nelle sue opere ben 40.000 parole, di cui molte da lui inventate di sana pianta o in ogni caso mai viste prima in letteratura. Sarebbe di grande utilità pratica classificare le innovazioni linguistiche dannunziane secondo un criterio approssimativo. 
 
1) parole o locuzioni create di sana pianta;
2) parole italiane già esistenti, cadute in disuso e reintrodotte, anche con semantica differente da quella originale;
3) parole latine reintrodotte (latinismi solenni);
4) parole greche reintrodotte (grecismi solenni);
5) parole prese da altre lingue, romanze (inclusi i dialetti) e non romanze; 
6) motti e creazioni politiche 
 
Procediamo quindi ad analizzare alcuni esempi salienti per ciascuna di queste tipologie, senza la benché minima pretesa di essere esaustivi. Riporto il link a un interesante articolo apparso su Treccani.it, D'Annunzio, lessico e nuvole (Stefania Stefanelli, 2018), che tratta questi argomenti: 
 

Approfondisco per sommi capi quanto descritto, aggiungendovi altro materiale.

Parole o locuzioni create di sana pianta

1) Locuzioni (inclusi marchi pubblicitari)  

Oltre al Milite Ignoto e ai Vigili del Fuoco, abbiano le seguenti innovazioni poetiche:
 
Sangue Morlacco "cherry brandy"  
Nel 1919, in occasione dell'Impresa di Fiume, D'Annunzio battezzò così il liquore prodotto dalla distilleria Luxardo. Il colore rosso scuro della bevanda alcolica richiamava alla sua mente quello del sangue, mentre l'aggettivo fa riferimento ai Morlacchi, una popolazione di origine valacca stanziata nell'entroterra della Dalmazia e in altre aree balcaniche. L'etnonimo è giunto in italiano tramite il  greco bizantino Μαυρόβλαχοι (Mauroblákhoi), ossia Valacchi Neri. Il Vate scrisse queste parole: "il liquore cupo che alla mensa di Fiume chiamavo “Sangue Morlacco”." Certo che si trattavano bene!

Spirito d'avena "whisky" 
Durante l'Autarchia, il whisky non poteva essere chiamato col suo nome originale, che risale al gaelico. Essendo prodotto in Italia con malto di avena, fu chiamato per l'appunto spirito d'avena. Non ci sono dubbi: questo nome del whisky autarchico è una chiara creazione dannunziana. Caduto Mussolini, lo spirito d'avena scomparve dal sapere comune. 
 
Liquore delle virtudi "Amaro Montenegro" 
Una delle più riuscite trovate pubblicitarie dell'Imaginifico, la cui firma si trova ancora nel retro dell'etichetta. L'Amaro Montenegro nacque a Bologna nel 1885. Il suo artefice, il distillatore ed erborista Stanislao Colabianchi, lo dedicò alla Principessa Elena di Montenegro, che sarebbe poi stata Regina d'Italia. Ottenuto da 40 erbe aromatiche, la ricetta dell'elisir è tuttora segreta. In tempi più recenti, lo stramaledetto moralismo americano ha obbligato a scrivere ovunque che "si raccomanda un uso moderato". La mia risposta è questa: Me ne frego! 

Nepente di Oliena "tipo di vino sardo"
E un Cannonau di Sardegna, che fu così chiamato da D'Annunzio perché ritenuto degno della tavole degli Dei e capace di far obliare ogni affanno. Il nepente è infatti una bevanda che a detta dei Greci antichi era in grado di lenire il dolore e di farlo dimenticare. La pronuncia corretta di Oliena è Olìena, con l'accento sulla -i- (sardo Ulìana). Il toponimo, preromano e preindoeuropeo, è nuragico.
 
adunata oceanica "adunata immensa"  
folla oceanica "folla immensa" 
clamore oceanico "clamore immenso" 
Sono tipiche iperboli, in cui l'aggettivo oceanico sta per "immenso, enorme, grandioso" e allude a una vastità smisurata come quella degli oceani. D'Annunzio sapeva utilizzare freddi aggettivi scientifici (oceanico "relativo all'oceano) per farne uso poetico. La stampa fascista fece grande uso di queste iperboli. La locuzione folla oceanica è tuttora di uso comune. Ricorre in Untitled, una canzone dei Varunna, robusta band che suona musica Neofolk militarista: 
"Nei ranghi serrati, tra folle oceaniche, così ricordo la nostra giovinezza. Poi fuggono gli anni, e onore e bellezza fanno luce come fossero le nostre baionette!" 
Stupisce che simili parole di pura poesia siano state ferocemente censurate nel Web, come se avessero il potere magico di resuscitare un passato oscuro. 

2) Sostantivi (inclusi marchi pubblicitari) 
 
Oltre al tramezzino e al marchio Saiwa, abbiamo alcune significative innovazioni che in genere sono trascurate dai siti del vasto Web:   
 
Aurum "un liquore tipico di Pescara"
Fu proprio D'Annunzio a suggerire ad Angelo Pomillo il nome di un liquore a base di brandy e infuso di arance, che l'imprenditore produceva nella sua fabbrica a Pescara. Alla base di questa denominazione sta un gioco di parole tra il latino aurum "oro" e il latino moderno aurantium "arancio" (frutto), aurantius "arancione". L'origine di aurantium è dall'arabo نَارَنْج‎ nāranj, a sua volta dal persiano نارنگ‎ nārang, in ultima analisi dal sanscrito nagarañja "frutto prediletto dagli elefanti". L'aspetto fonetico è stato alterato a causa di un'associazione paretimologica con aurum "oro". 

parrozzo "tipo di dolce al cioccolato" 
La pronuncia corretta è /par'roddzo/, con -o- tonica chiusa e -zz- sonora ("dolce" secondo la denominazione della Crusca). Questo perché deriva dall'assimilazione di un originario pan rozzo. Si tratta di un dolce ricoperto di cioccolato, tipico dell'Abruzzo e prodotto dal 1920 dall'industriale Angelo D'Amico. Mi rendo conto che la cosa potrà sembrare scandalosa, eppure è così. L'ispirazione è venuta al Vate pensando ai monticoli di feci che Eleonora Duse gli deponeva sensualmente sul torace. Erano escrementi grassi e pastosi, abbondantissimi, che lui gustava con avidità ed associava nell'immaginazione al cioccolato. Era un genuino coprofago! La spiegazione ultima della creazione lessicale è questa: il pane rozzo è il cibo passato attraverso l'intestino di una amante ed espulso dal suo ano. In un'occasione il Vate ebbe addirittura a definirsi parrozziano: aveva coniato un aggettivo a dir poco bizzarro! Possiamo usare parrozziano come sinonimo eufemisitico di "coprofilo" e "dedito alla coprofagia in contesti erotici". 

Parole italiane reintrodotte  

Sono davvero numerose le parole ricercate e desuete riportate a nuova vita letteraria, seppur effimera. Nella massima parte dei casi non sono riconoscibili e comprensibili dai parlanti moderni. Se le si usasse in un discorso rivolto a una compagnia di escort e di fiutatori di bamba nella notte della Milano da bere, si sarebbe guardati come extraterrestri. I branchi di bulli che infestano le scuole riterrebbero di avere a che fare con parole giapponesi! 

abbertescare "rinforzare; difendere" 
In realtà il significato centrale è "difendersi, stare sulla difensiva". Alla lettera sta per "dotare o dotarsi di bertesca". La bertesca è un riparo di guerra, un'opera difensiva di fortificazione, in legno o in muratura, che serviva a combattere contro gli assedianti restando al coperto.
Varianti: bertresca, beltresca  
Altre attestazioni: baltresca "ingombro" (Pascoli)
Milanese: baltresca "altana" (ancora usato in Brianza nel senso 
     idiomatico di "uomo di dubbia moralità") 
Latino medievale: brittisca 
I romanisti credono che il termine in questione derivi da Brittus "bretone" e che significhi "torre costruita alla maniera dei Bretoni" In realtà si capisce subito che l'origine è germanica: tedesco Brett "tavola; bacheca". A mio avviso è possibilissimo che il latino medievale brittisca sia un longobardismo.
 
arrubinato "riempito di vino" 
Letteralmente significa "reso rosso come il rubino". Si tratta di un verbo ricercato, usato da Boccaccio. Caduto da lungo tempo in disuso, questo vocabolo fu recuperato e reintrodotto con scarsa fortuna. Oggi è completamente dimenticato.  
 
caleffadore "burlone"
Questo vocabolo fu usato da Boccaccio. Deriva dal verbo caleffare "farsi beffe degli altri, burlare" (coniugazione: io calèffo, etc.), esito del latino calefacere "riscaldare", che dovette essere usato a un certo punto in senso traslato.
Varianti: caleffatore
Ai nostri tempi il verbo caleffare e i suoi derivati non hanno alcuna speranza di essere usati o anche soltanto compresi dalla gente comune quanto dai dotti.

croio "rustico, zotico"
Vocabolo dantesco il cui significato attestato è quello di "duro, crudele, malvagio". La vocale tonica è aperta: cròio. La parola è di chiara origine cetica (gallica). Il gallico *croudios "duro, crudele" è passato in latino volgare come *crōdius, dando origine a cròio. Si noti che la trafila è poco compatibile con gli sviluppi romanzi (ci saremmmo aspettato *crozzo, con l'affricata -zz- sonora di mezzo). Per contro, in tardo gallico, il gruppo /dj/ si semplificava naturalmente in /j/: basti pensare a Milano da Mediolānum rispetto agli esiti romanzi di medius. Si noterà anche che in gallico il dittongo /ou/ era chiuso e in latino era spesso trascritto con -o- o addirittura con -u-. L'esito romanzo cròio con una vocale aperta è abbastanza oscuro. 
Peccato che questa bella parola celtica sia caduta nell'Oblio.
 
fortuna "tempesta (di mare)" 
Sinonimo di burrasca e simile a fortunale, questo vocabolo fu usato da Dante (Ond'el piegò come nave in fortuna) e si trova ancora in Manzoni (Quando ingrossa ruggendo la fortuna). Oggi intendiamo fortuna come una parola adatta a indicare soprattutto una coincidenza positiva, ma un tempo il significato era più esteso, potendo anche designare un disastro.
 
guidalesco "piaga" 
È voce longobarda, ricostruita come *widarrist "garrese" (regione del tronco dei quadrupedi corrispondente alle prime vertebre dorsali e ai muscoli che le ricoprono.), la cui pronuncia doveva essere *GUIDARRIST. E un composto di *widar-, *wider- "contro" e di *rist "giuntura". La liquida -l- si è prodotta da dissimilazione. In tedesco moderno sopravvive il vocabolo Widerrist "garrese", che in pratica è identico alla forma longobarda. Come si è prodotto lo slittamento semantico da "garrese" a "piaga"? Semplice: prima la parola guidalesco è passata a indicare una piaga che si produce sul garrese degli equini, poi la piaga stessa in senso lato, anche quella che a volte si forma sul piede di un povero mortale come me.
 
malfusso "maledetto"  
Nonostante l'apparenza, questa parola non ha nulla a che vedere con male, maledetto, etc.: si tratta invece di un prestito dall'arabo مَرْفُوض‎ marfūḍ. "rinnegato" (in origine "respinto, disprezzato", dal verbo رَفَضَ rafaḍa "lasciare, abbandonare; rifiutare, negare", da cui anche rāfiḍ "eretico", rāfiḍī "rinnegato"), giunto in italiano tramite lo spagnolo marfuz "rinnegato, traditore, ingannatore". 
 
muda "muta delle penne"
mudare "mutare le penne" 
Questi termini sono giunti in italiano antico dal provenzale mudar "mutare le penne", verbo tipico del lessico dei falconieri. Esempio: "Ma fa come sparvier in selvatica muda." (Pulci). Si vede subito che sono definite le coppie allotrope †muda - muta e †mudare - mutare. Ai nostri giorni nessuno ha la benché minima consapevolezza dell'esistenza delle parole in questione
 
rancura "affanno"
Vocabolo usato da Dante, da Guinizzelli e da Boccaccio, è una variante di rancore, con il suffisso -ura che sostituisce -ore, come in calura rispetto a calore. Priva di fondamento è l'opinione di coloro che reputano rancura una parola macedonia formata da rancore e da cura. I romanisti pensano di risolvere i problemi parlando di "incroci" anziché di "parole macedonia", ma si tratta di una strategia futile.
 
saccomanno "saccheggio" 
In origine questa parola significava piuttosto "saccheggiatore" e aveva come sinonimo saccardo. Deriva dal medio alto tedesco sackman, composto di sack "sacco" (tedesco moderno Sack) e di man "uomo" (tedesco moderno Mann). Questo vocabolo bellico è attestato a partire dalla seconda metà del XIV secolo. In origine indicava il servitore del cavaliere in battaglia, ma nel corso dei secoli ha acquisito il significato negativo di "brigante, predone". Interessante lo slittamento semantico da "uomo che compie il saccheggio" a "saccheggio, sacco".

sghignapappole "ridanciano" 
Dal verbo sghignare, derivato da ghignare, oggi sostituito da sghignazzare. La formazione è senza dubbio espressiva. Per la seconda parte del composto, confronta la locuzione cachinno spappolato. Verosimilmente si tratta di derivati di pappa (voce infantile) con un suffisso iterativo -olare e prefisso s-: spappolare, ossia "rendere informe, ridurre a pappa". 

squarquoio "lurido" 
La semantica è abbastanza vasta: oltre a "sudicio, schifoso", era usato nel significato di "vecchissimo, decrepito" e, per estensione, anche "rammollito, rimbambito". L'etimologia è sconosciuta. Non mi pare che i romanisti, tanto abili nel fabbricare costruzioni fantomatiche, siano riusciti a produrre qualche idea decente a questo proposito. Il vetusto vocabolario di Francesco Bonomi suggerisce una derivazione da squacquerare "avere il corpo sciolto", derivato da squacquera, squacchera "diarrea", oppure da contrazioni di improbabili composti mai attestati come *squarcia-cuoio o *squallido-cuoio. Cercando di spiegare Omero con Omero si giunge ad esiti folli, questo è il peccato originale dei romanisti. Non mi stupirei affatto se un giorno si riuscirà a dimostrare che sia squarquoio che squacquera provengono da parole del sostrato etrusco in toscano.

trambasciare "essere angosciato" 
Il verbo è un chiaro derivato di ambascia "grave difficoltà di respiro; oppressione dell'anima". L'origine di ambascia è chiaramente celtica (gallica): è derivata per aplologia da *ambi-baskiā "carico, equipaggiamento", dove ambi- è preposizione di origine indoeuropea che significa "intorno", ben attestata nell'onomastica gallica (cfr. latino ambi-, greco amphi-), mentre la radice *bask- significa "legare". Nel medioevo è avvenuta lo slittamento semantico che ha portato ambascia a significare "incubo, terrore notturno" e quindi "angoscia". Sorprende che gli accademici della Treccani si limitino a riportare "etimologia incerta", senza neppure abbozzare una discussione.
 
Latinismi solenni  
 
Numerosissime parole estremamente ricercate sono state tratte a viva forza dal latino aulico. In molti casi l'esperimento lessicale non era mai stato tentato prima nell'intera storia della letteratura italiana. Non stupisce che queste scelte siano apparse troppo stravaganti e che non abbiano avuto successo. Talvoltra D'Annunzio intese restaurare un'ortografia vicina a quella del latino, scrivendo ad esempio imagine anziché immagine
 
àvio "impervio, remoto".
In latino āvius ha un duplice significato: 
1) "impraticabile, inaccessibile, fuori della strada", 
2) "sviato, traviato, deviato, smarrito". 
Si tratta di una formazione dotta a partire da via "via" con l'aggiunta del prefisso ab- "da", che subisce assimilazione: *abvius > āvius. Questo latinismo solenne non si è imposto nell'uso corrente ed oggi è completamente dimenticato. 
 
caupona "osteria".  
In latino caupōna ha un duplice significato: 
1) "osteria, taverna", 
2) "ostessa". 
L'oste è chiamato caupō (genitivo caupōnis). In ultima analisi è un vocabolo di provenienza etrusca. D'Annunzio ha pensato di far rivivere la parola con il significato 1); non è tuttavia riuscito nel suo intento. Questo latinismo solenne non si è imposto nell'uso corrente ed oggi è completamente dimenticato. Secondo Giuseppe Lando Passerini,  questa voce non era mai stata usata prima nell'intera letteratura italiana.
 
clamoso "strepitante".  
In latino clāmōsus ha i seguenti significati: 
1) "urlante, schiamazzante" (detto di persone), 
2) "forte, risonante, fragoroso" (detto di voci), 
3) "affollato, rumoroso" (detto di luoghi), 
4) "brontolone".  
D'Annunzio ha pensato di far rivivere la parola con il significato 1); non è tuttavia riuscito nel suo intento. Questo latinismo solenne non si è imposto nell'uso corrente ed oggi è completamente dimenticato. 
 
cucurbita "zucca". 
In latino cucurbita ha i seguenti significati: 
1) "zucca", 
2) "zuccone, sciocco", 
3) "coppetta, ventosa, strumento per estrarre il sangue dalla testa". 
In italiano è un termine scientifico provienente dal linguaggio dei botanici. Questo latinismo solenne non si è imposto nell'uso corrente ed oggi è completamente dimenticato, salvo che nel linguaggio tassonomico.
 
illune "senza luna". 
Secondo Giuseppe Lando Passerini, la voce illune non era mai stata usata prima nell'intera letteratura italiana. Aggiungerò che non sembrano esistere esiti dotti o volgari del latino illūnis (variante rara illūnius) nell'intera Romània: il neologismo dannunziano è unico. Si noterà che la locuzione notte illune è tuttora in uso vibrante. Ben pochi sospetterebbero che la si debba proprio a D'Annunzio. Un latinismo in italiano non è necessariamente sempre antico. 
 
Sono presenti diverse parole la cui origine ultima è greca, che tratto in questa sezione perché sono state certamente mediate dalla lingua di Roma: 
 
camelopardo "giraffa"
Dal latino camēlopardus, a sua volta dal greco antico καμηλοπάρδαλις (kamēlopardalis). Per quanto sia diffuso il suo uso col significato di "giraffa", alla lettera "cammello screziato come un leopardo", non è affatto sicuro che si trattasse dello stesso animale. Il significato moderno si deve a Linneo. 
 
demònico "demone, demonio" 
Dal latino daemonicus, variante di daemoniacus, che ha dato il più comune demoniaco. D'Annunzio ha sostantivato questo aggettivo, che spesso usava per designare un genio benefico ben diverso dal Maligno della tradizione cristiana. L'origine delle parole daemōn "demone" e daemonium "demonio" è greca, da δαίμων (daímōn) e δαιμόνιον (daimónion) "divinità, potere divino" rispettivamente, ma si è avuta una trasformazione semantica profonda ad opera del linguaggio ecclesiastico. Va però notato che già lo stoico Crisippo (280 a.C. - 205 a.C.) aveva usato daimonion nel senso di "spirito maligno" 
"E mi comunicò infine la sua fede nel demònico; il quale non era se non la potenza misteriosamente significativa dello Stile non violabile da alcuno e neppur da lui medesimo nella sua persona mai."
(Le vergini delle rocce, 1895)
 
eremitico "di eremita, che si appartiene al romita o alla vita solitaria e devota" (cfr. Passerini) 
Un aggettivo dottissimo, che però ancor oggi gode di sostenitori, tra cui il sottoscritto. Deriva dal latino tardo erēmīticus, che a sua volta è stato formato dal greco ἐρημίτης (erēmitēs) "del deserto".
"Tutti i romori della vita d’una suburra infima salivano, in certe ore, a quella altezza e facevano tremare d’orrore le povere spose di Gesù, chine in umiltà su i tegami d'argilla pieni dell'eremitica innocenza dei legumi e delle verdure."
(Il libro delle vergini, 1884)
 
Nel Libro segreto, ultima opera del Vate, ricorrono parole inventate, che sono state formate sul modello di parole latine a partire da radici latine. Questo è un esempio:
 
ignispicio "divinazione fatta per mezzo del fuoco"  
Dal latino ignis "fuoco", con l'aggiunta di un derivato della verbo specere "guardare" . Il composto è formato in modo ineccepibile.  
 
Grecismi solenni 
 
In questa categoria di parole rientrano anche non pochi termini del linguaggio medico e più in generale scientifico, introdotti nel linguaggio letterario dannunziano. Troppo dotte, in genere queste parole non sono riuscite a diventare popolari, con alcune notevoli eccezioni. 
 
afasia "incapacità di parlare" 
Termine del lingaggio medico, dal greco antico φασία (aphasíā), da ἀ- (a-) "senza" e da φάσις (phasis) "voce". 
"Due disturbi cerebrali più terribili per un uomo di lettere, per un artefice della parola, per uno stilista: l'afasía e l'agrafía."
(L'innocente, 1892)

criselefantino "fatto d'oro e di avorio" 
Dal greco antico χρυσελεφάντινος (khryselephántinos), aggettivo composto formato a partire da χρυσός (khrysós "oro") e da ἐλεφάντινος (elephántinos "di avorio"). La pronuncia in italiano è criselefantìno, con l'accento sulla penultima sillaba, anche se stando al greco antico e al suo adattamento in latino, chrȳselephantinus, si dovrebbe dire invece criselefàntino, con l'accento sulla terzultima sillaba. Questo suffisso -inus ha infatti la vocale -i- breve e non è lo stesso che si trova in aggettivi latini nativi come lupīnus, canīnus, ursīnus, porcīnus, dove la vocale è una -ī- lunga. In ogni caso, questo grecismo solenne non è riuscito a imporsi nell'uso corrente e oggi è del tutto dimenticato. 
 
dipsomane "tormentato dalla sete" 
Retroformato da dipsomania, dal greco antico δίψα (dípsa) "sete" e μανία (maníā) "mania"
"Avevamo, come i dipsomani, due vite alterne : una tranquilla... l'altra agitata, febrile, torbida, incerta."
(L'innocente, 1892)

epopto "sorvegliante" 
Dal greco antico ἐπόπτης (epóptēs) "iniziato ai misteri; osservatore, ispettore", composto di ἐπί "sopra" e della radiec verbale ὀπ- "vedere". 
"L'ombra d'una nube curvata
era sul Callicoro, come
l'ombra del mietitore
indicibile che innanzi
agli epopti mieteva
la spiga di grano in silenzio."

(Laudi, 1903-1912)


ninfomane "donna d'insaziabili appetiti sessuali"  
Dal greco antico νύμφη (nýmphē) "ninfa, sposa" e μανία (manía) "mania". La parola ninfomania è stata coniata nel 1771 dal medico francese Jean Baptiste Louis de Thesacq de Bienville. D'Annunzio la trasse dall'ellenizzante linguaggio scientifico e la introdusse nell'uso quotidiano. Ancora oggi è ben nota a tutti Se il genere umano non si estinguerà presto, la fortuna di questo vocabolo durerà più dei monumenti dei Faraoni!
"Il matrimonio della sorella aveva avuto per auspice una ninfomane."
(Trionfo della morte, 1894). 

panoplia "armatura completa" 
Dal greco antico πανοπλία (panoplíā) "armatura degli opliti", composto di παν- (pan-) "tutto" e ὅπλον (hóplon) "arma". Attualmente la parola è usata con un significato del tutto diverso: ricordo che all'università chiamavano "panoplia" una specie di bacheca.
"Staccò da una panoplia due lunghe pistole d'arcione e le esaminò attentamente." 
(Le novelle della Pescara, 1884-1886)
 
pròtome "busto scultoreo"  
Dal greco antico προτομή (protomḗ) "parte anteriore; busto". Il sostantivo è un derivato del verbo προτέμνω (protémno) "taglio davanti". Come termine della nomenclatura artistica, la protome fu introdotta già nel XIX secolo per indicare un elemento decorativo antico costituito da una testa umana o animale, con o senza una parte del busto. Fu D'Annunzio a farne un termine lettario, con scarsa fortuna, a quanto pare. 

priapèa "discorso o canto in onore di Priapo" 
Dal greco antico Πριάπειος  (Priápeios) "di Priapo", il cui neutro plurale è Πριάπεια  (Priápeia), lett. "le cose di Priapo". Questo aggettivo è stato adottato dal latino aulico. I Carmina Priapēa sono una raccolta anonima di 95 carmi latini databili al I secolo d.C. e dedicati all'itifallico Priapo, divinità della fertilità. L'opera contiene attacchi violentissimi contro le donne vecchie e ancora libidinose: dubito che piacerebbe a certe porno-nonne che imperversano su Facebook!
"Le priapèe, le fantasie scatologiche, le monacologie, gli elogi burleschi."
(Il Piacere, 1889) 

teurgo "mago, stregone, facitore di miracoli" 
Dal greco antico ϑεουργός (theurgós), composto di ϑεός (theós) "dio» e ἔργον (érgon) "opera, attività". Il latino tardo ha theurgus.
"I pampini stillanti.... sembravano l'ultimo frammento visibile d'un mondo allegorico ideato da un teurgo, presso a scomparire."
(Trionfo della morte, 1894)
 
Nel Libro segreto, ultima opera del Vate, ricorrono parole inventate, che sono state formate sul modello di parole greche a partire da radici greche. Questo è un esempio:
 
myrionyma "che ha innumerevoli nomi"  
Dal greco antico μυρίος (myríos) "innumerevole, infinito" e ὄνυμα (ónyma) "nome", genitivo ὀνύματος (onýmatos). A mio avviso il composto è formato male, anche se è bellissimo. 

Si noterà l'uso della lettera y, ritenuto problematico dal Regime. Al contempo, il Libro segreto continene vocaboli scatologici come pisciare e smerdare, oltre al poco poetico coglione!
 
Parole da altre lingue e dialetti 
 
Alcuni interessanti contributi alla lingua italiana sono stati presi da D'Annunzio da svariate realtà locali. Altri sono stati importati da lingue diverse. 

ammammolarsi "avere gli occhi inumiditi dalla commozione" 
Parola toscana colloquiale che derivata da màmmolo "bambino, fanciullo". Non è riuscita a imporsi nell'italiano standard e la consideriamo dialettale.
 
falbalà "larga striscia di stoffa ornamentale" 
(variante: falpalà)
Dal francese falbala, che a sua volta è ritenuto un prestito male assimilato dal franco-provenzale farbella "frangia, merletto"". Questa parola è imparentata col francese antico felpe, feupe "tessuto vellutato", che ha dato l'italiano felpa. Si risale al latino medievale faluppa "paglia o rami minuti, scarti vegetali", parola di sostrato di origine non celtica e non indoeuropea che ha dato initaliano faloppa "bozzolo del baco da seta la cui crisalide è morta e putrefatta". Attualmente la parola falbalà è nota in Italia solo perché si chiama cosi l'amichetta di Asterix.

fraglia "fratellanza" 
Parola veneta, attestata anche come fragia, frala e frataglia deriva da un latino medievale fratalia, fratalea "fratellanza". Il vocabolo, attestato nel Veneto medievale e della prima età moderna, indicava sia le corporazioni di arti e mestieri che le confraternite religiose. Alcuni credono erroneamente che sia una parola macedonia: 
fratellanza + famiglia = fraglia
Questo accade quando si ignorano dati storici essenziali e si cerca di fabbricare un'etimologia a partire da evidenze insufficienti. Un'insidia sempre in agguato!
Oggi la parola fraglia sopravvive come tecnicismo per indicare un'associazione velistica. Esistono la Fraglia Vela Riva, la Fraglia Vela Desenzano, e naturalmente la Fraglia Vela D'Annunzio.   
 
galgo "levriero" 
Dallo spagnolo galgo "tipo di cane usato per la caccia alla lepre". Questa parola, che si trova anche in portoghese, secondo l'Accademia Reale di Spagna deriverebbe dal latino (canis) gallicus, ossia "cane gallico", perché si crede che in origine sia stato importato dalle Gallie. È possibile che l'etimologia  genuina sia invece celtica. Potremmo ricostruire una protoforma *gaslo-kū, dove il primo membro del composto ha dato origine al gaelico di Scozia galla "cagna" (< *gas-lijā) e al gallese gast "cagna" (< *gas-lijā), mentre il secondo membro è il nome celtico del cane, di chiara origine indoeuropea, che ha dato irlandese e gallese ci. Il galgo è un animale magrissimo, microcefalo e di ossatura assai gracile, spesso sottoposto dai suoi proprietari a trattamenti raccapriccianti. D'Annunzio ne aveva un'immagine un po' troppo idealizzata: se lo raffigurava come una bestia imponente! Così scriveva ne Il Fuoco (1900): 
"V'era il galgo spagnuolo, migrato co' Mori, quello magnifico che il nano pomposo regge a guinzaglio nella tela di Diego Velasquez." 
 
orbace "tipo di panno di lana grezza"
Dal sardo orbaci "tessuto artigianale di lana grezza", a sua volta dall'arabo البَزّ al-bazz "tela, stoffa, abito". In italiano esisteva la parola albagio "specie di grossolano panno di lana", che è però caduta in disuso. Il neologismo dannunziano è passato a indicare l'uniforme dei gerarchi fascisti, che era appunto fatta di orbace nero. 

stampita "composizone musicale ritmica" 
Molti ritengono che sia dallo spagnolo estampida "fuga disordinata" (passato in inglese come stampede), ma in realtà proviene dal provenzale estampida "componimento musicale ritmato dal battito dei piedi", che ha dato anche il francese estampie. In ultima analisi sia la forma spagnola che quella occitana derivano dal verbo gotico stampjan "calpestare", da cui anche l'italiano stampare, stampa.
 
Si notano due prestiti presi dall'ebraico e italianizzati nella morfologia:
 
bato "un'unità di misura" 
Dall'ebraico בַּת bat "recipiente e misura di capacità equivalente a circa 32,5 litri". In greco antico si hanno le forme adattate βάτος (bátos) e βάδος (bádos).
Isidoro di Siviglia dà questa spiegazione: "batus vocatur hebraica lingua ab olearia mola, quae beth apud eos vel bata nominatur, capiens quinquaginta sextaria." 
Si noterà che la forma latinizzata usata da Isidoro è batus, mentre beth trascrive la parola ebraica d'origine.
 
coro "un'unità di misura" 
Dall'ebraico כּוֹר kōr "recipiente e misura di capacità equivaente a circa 325 litri", tramite il greco κόρος (kóros) e il latino tardo corus. Dieci bati fanno un coro: il bato è la decima parte di un coro. 
 
Entrambe le unità di misura degli antichi Ebrei sono menzionate nella Parabola del figliuol prodigo riscritta da D'Annunzio:
"Venivano i debitori del padre portando bati d'olio, cori di frumento in gran numero, e il giovane Carmi, assiso su la più alta loggia, dopo aver considerato quella dovizia che adunavasi nei granai vasti e nelle cisterne profonde, mirava la potenza del fiume che spandevasi per la valle distribuendo la copia delle aque alle terre felici."  

Si trova almeno una voce araba: 

dirhem "una moneta d'argento" 
È dall'arabo دِرْهَم dirham "dracma", (pl. دَرَاهِم darāhim), in ultima analisi un prestito dal greco antico δραχμή (drakhmḗ). 
"Recavi a galla, nel pugno alzato fuor d’acqua, la medusa crinita color d’ametista nella coppa imperiale; e, quando la porgevi al soldano di Lucera, pensavi dentro te, nel rimirarlo così calvo losco rossigno, che al mercato degli schiavi non n’avresti dato dugento dirhem."
(Il secondo amante di Lucrezia Buti, 1907)

Persino il giapponese è stato una fonte d'ispirazione:

daimio "signore feudale giapponese" 
Dal giapponese 大名 daimyō "signore terriero", composto di dai ("largo") e myō "nome", che sta per myōden "terra del nome", ossia "terra privata". In ultima analisi questo titolo ha la sua origine nel medio cinese 大名 dàj-mjieng "eccellente, di grande fama" (in cinese mandarino moderno è dàming).
"Egli pareva un daimio cavato fuori da una di quelle armature di ferro e di lacca che somiglian gusci di crostacei mostruosi e poi ficcato ne' panni d'un tavoleggiante occidentale."
(Il Piacere, 1889) 

guesha "geisha" 
Dal giapponese 芸者 geisha "intrattenitrice", composto di 芸 (gei "arte, tecnica") e‎ 者 (sha "persona"), di origine medio cinese. D'Annunzio ha introdotto questo nipponismo usando una strana grafia spagnoleggiante, che avrà certamente generato pronunce ortografiche.

samouraï "samurai"
Dal giapponese 侍 samurai (anticamente anche saburai), dal verbo nativo samurau (anticamente anche saburau) "essere in servizio, servire". Nonostante le opinioni dei sedicenti esperti di Quora, il samurai è ben distinto dal ぶし bushi "guerriero", anche se per un occidentale non è facile afferrare questi concetti tanto sottili. 
Si noterà l'ortografia francesizzante usata da D'Annunzio. Sorprendente, ma sappiamo che all'epoca esistevano numerosissime eccezioni alle regole dell'autarchia linguistica.

Parole come geisha e samurai sono per noi scontate, tanto da apparirci banali, ma agli inizi del XX secolo erano estremamente ricercate: non erano conosciute al grande pubblico e non erano nemmeno usate dai media. 

Motti e creazioni politiche 
 
Molto feconda fu l'attività del Poeta nel coniare motti, di cui alcuni sono diventati capisaldi del Partito Nazionale Fascista e sono tuttora ben ricordati. 

A noi! 
Reso celebre da D'Annunzio a Fiume (festa di San Sebastiano, 1920), questo motto fu in realtà coniato un paio di anni prima da Luigi Freguglia, comandante del XXVII Reparto Arditi. Equivale a "hip hip hurrà!" ed è un'abbreviazione di "A chi la vittoria? A noi!"
 
Eia! Eia! Eia! Alalà! 
(variante più comune: Eia! Eia! Alalà
Il motto è nato dall'unione dell'urlo di guerra degli Ateniesi, Alalà!, con l'esclamazione Eia!, usata dal macedone Alessandro il Grande per incitare il suo cavallo Bufecalo. È un'innovazione: nessuno tra gli Elleni dell'antichità pronunciò mai Eia! accanto ad Alalà.

Me ne frego 
(variante: Me ne strafotto)
Il Maggiore Freguglia diede al Capitano Zaninelli un incarico suicida: attaccare il caposaldo austriaco di Casa Bianca. Zaninelli replicò: "Signor comandante io me ne frego, si fa ciò che si ha da fare per il Re e per la Patria". Andò incontro alla morte, con fierezza leggendaria. Quanto diversa è la semantica del motto da quella del moderno menefreghismo!

Memento Audere Semper 
"ricorda di osare sempre" 
È stato creato utilizzando le lettere dell'acronimo MAS (Motoscafo armato silurante). Tale imbarcazione militare fu usata nella celebre Beffa di Buccari, nella notte tra il 10 e l'11 febbraio 1918. Il motto è tuttora usato in alcuni ambienti. Ricordo una bottiglia di vino rosso la cui etichetta lo riportava, scritto Memento Audére Semper con tanto di accento per evitare pronunce errate. 

Il numero dei motti dannunziani è grande: difficile tenerli tutti a mente. Per ragioni di spazio, ci limitiamo a riportarne qualche altro senza commento. 
 
Bis Pereo 
"muoio due volte" 
 
E sul monte e nello stagno son qual fui falcon grifagno
 
Gravis dum suavis 
"grave benché soave" 
 
Nec recisa recedit 
"nenache spezzata retrocede"
 
O giungere o spezzare

Semper Adamas 
"sempre adamantino", "sempre duro come il diamante" 
 
Senza cozzar dirocco

Sufficit Animus 
"basta il coraggio"

Alcuni motti sono stati presi dalla letteratura antica e riadattati al contesto. Questi sono alcuni esempi:  

Habere non haberi 
"possedere, non essere posseduto" (Aristippo, trad. latina)

Hic manebimus optime 
"qui staremo benissimo" (Tito Livio)

Immotus nec Iners 
"fermo ma non inerte" (Orazio)
 
Quis contra nos?
"chi è contro di noi?" (San Paolo)  

Un motto è di ispirazione dantesca: 

Cosa fatta capo ha
 
Si segnalano poi alcuni aggettivi stravaganti, usati nella propaganda politica: 
 
gionittiano "di Giolitti e di Nitti"
È una parola macedonia formata dall'unione dei cognomi dei due politici.   

incaporettato "coinvolto nella vergogna di Caporetto" 
Di certo non è casuale l'assonanza tra incaporettato e incaprettato.

Labbrone "soprannome di Giolitti" 
È un epiteto di scherno che oggi sarebbe considerato razzista, dal momento che allude a caratteri somatici negroidi. 
 
Approfondimenti  
 
1) Lessico tecnico automobilistico e aeronautico 

Oltre al velivolo e alla fusoliera, di cui abbiamo già trattato, si deve a D'Annunzio l'introduzione dei molte altre voci nel lessico tecnico automobilistico e aeronautico. Questa è una lista senza dubbio incompleta:
 
accensione 
carlinga 
multiplano 
panna, panne  
radiatore 
rullìo 
sterzo 
trabiccolo 
traino
triplano
virata
volante 
volano 
 
Alcune erano già usate in altro contesto, ad esempio accensione e sterzo (in origine "manico dell'aratro", di origine longobarda). Forse anche monoplano e biplano, termini che compaiono in italiano per la prima volta nel 1909, devono la loro importazione a D'Annunzio, ma non ne sono sicuro. Derivano rispettivamente dal francese monoplan "che ha un solo piano alare" e biplan "che ha due piani alari". Esisteva persino il sesquiplano, che può essere definito come un biplano in cui l'ala superiore era lunga una volta e mezzo quella inferiore (latino sēsqui- "una volta e mezzo").
 
Questi tecnicismi sono nella maggior parte dei casi ancor oggi ben conosciuti da tutti. Anche i più convinti detrattori di D'Annunzio, non soltanto usano l'automobile (di genere femminile), ma sanno bene cos'è il volante, cos'è il radiatore, cosa vuol dire finire in panne. Nessuno si sognerebbe mai di abolire questi vocaboli e di proporne di nuovi. In concreto, cosa si potrebbe mai produrre di questi tempi? All'epoca c'era la poesia, mentre oggi entrano nell'uso quotidiano neologismi orripilanti che percolano senza sosta dai tentacoli dell'Idra del politically correct.
 
2) Il cromatismo dannunziano  

Particolarmente numerosi sono i vocabili ricercati usati per indicare colori e loro sfumature o combinazioni. Eccone alcuni:
 
biavo "azzurro chiaro"
moscavoliere "grigio mosca"
nerazzurro "nero con riflessi azzurrognoli"
nerobianco "nero e bianco; tra il nero e il bianco" 
olivigno "che ha carnagione olivastra" 
oltramarato "del colore di oltremare"
verdebiondo "verde oro"
verdecilestro "verde azzurro" 
 
L'aggettivo biavo è un chiaro germanismo (cfr. tedesco Blau, inglese blue), passato in italiano tramite il provenzale blau (femminile blava). Deve essere giunto in provenzale dalla lingua dei Franchi: dal vocalismo si può escludere con certezza che possa esservi giunto dalla lingua dei Burgundi o da quella dei Visigoti.
 
Il moscavoliere (o mosca voliere) in origine era un tipo di panno di colore scuro, importato dalla Normandia. Esisteva anche la variante mostavoliere. L'innovazione dannunziana consiste nell'aver trasformato un sostantivo in un aggettivo cromatico. Oggi è in completo disuso. 

Il termine nerazzurro è oggi usato per indicare i tifosi di squadre di calcio che hanno il nero e l'azzurro o il blu nei colori delle loro maglie. La più nota di queste squadre è senza dubbio l'Inter (FC Internazionale Milano), ma sono nerazzurri anche i tifosi dell'Atalanta (noti per essere temibilissimi hooligan) e del Pisa (stando al Vernacoliere si fanno schifo da soli). 

Leggendaria era l'abilità del Vate nel recuperare forme arcaiche ed obsolete: per plasmare verdecilestro ha utilizzato cilestro anziché celeste. L'allotropia †cilestro - celeste è molto interessante. Tuttavia verdecilestro, troppo ricercato e stravagante, non è mai divenuto popolare e oggi nessuno lo userebbe. 

Il lessico cromatico di D'Annunzio abbonda di formazioni in -iccio, -astro, -ognolo per indicare colori insaturi, malati. Così quando ho soprannominato "ceceno biondiccio" il feroce Kadyrov, ho applicato senza neanche rendermene conto una denominazione dannunziana. Prima che queste formazioni si diffondessero nell'italiano corrente, se ne usavano altre che sono state del tutto rimpiazzate. Così il dannunziano brunastro ha sostituito il precedente brunazzo, che oggi farebbe ridere. 
 
3) Transumanesimo dannunziano!  

Ecco un neologismo notevole: 
 
transumano "che trascende i limiti della condizione umana"; 
    "spirituale"
Si deve a D'Annunzio la creazione di questo cruciale vocabolo, che ha assunto una particolare importanza con la comparsa del Transumanesimo (o Transumanismo, abbr. H-plus, H+, >H), movimento volto ad affermare l'uso della tecnologia per ottenere il superamento della condizione umana, eliminandone gli aspetti indesiderabili come vecchiaia, malattia e morte. Pochi transumanisti immaginano che la loro stessa denominazione abbia le sue radici nell'opera di un bizzarro abruzzese. Già Dante aveva usato il verbo transumanare "elevarsi oltrre i limiti della natura umana per attingere la natura divina", ripreso poi da Carducci. 
"I vólti transumani raggianti dalle tavole di Giotto o dell'Angelico." 
(Terra vergine)
 
4) Appunti per una grammatica dannunziana 
 
Spesso non ci rendiamo conto di avere a che fare con un'innovazione dannunziana. Una caratteristica portante è la grande estensione dell'uso dei suffissi per formare aggettivi e nuovi sostantivi, e dei prefissi per formare nuovi verbi.  La stessa parola scultoreo proviene da questo calderone creativo ed è entrata presto nell'uso. La si ritrova ad esempio in un'opera di Mario Pratesi. Il linguaggio dannunziano era ricchissimo di formazioni di questo tipo: da aggettivi come scultoreo e marmoreo derivavano poi sostantivi astratti come scultoreità e marmoreità. Dal verbo saettare derivava il sostantivo saettìo. Molte di queste formazioni sono tuttora comuni o comunque non sono avvertite come bizzarre qualora qualcuno le usasse. Altre derivazioni, meno fortunate, sono scomparse, come l'aggettivo cuioioso "di consistenza analoga al cuioio", derivato da cuoio e a mio avviso formato male. 
 
Coprofagia e igienismo 

Coloro che negano l'esistenza della coprofagia di D'Annunzio, spesso adducono come motivazione il fatto che egli fu un igienista esasperato, cosa che sembrerebbe incompatibile con il contatto con materia fecale. Invece non è così. In Germania vivono moltissimi coprofagi che maneggiano e mangiano le feci dei partner come forma di gioco erotico. Ebbene, hanno tutti al contempo una vera e propria mania per l'igiene. Fanno filmati in cui infilano la lingua nelle emorroidi e si fanno defecare o urinare in bocca, eppure quando hanno finito le loro sessioni si lavano accuratamente. Pochi capiscono la vera natura della coprofagia. Non è amore per la merda in quanto tale: è una complessa forma di adorazione estrema del partner e di masochismo. Un escremento freddo e deposto da sconosciuti fa schifo ai coprofagi come a chiunque altro.

I massaggi dannunziani 

Con mia grande sorpresa, ho appreso che nel repertorio di alcune escort ci sono i cosiddetti massaggi dannunziani. A quanto pare le cose si svolgono nel modo seguente: la escort fa stendere il cliente nudo, gli defeca addosso e lo spalma con tale pasta brunastra fino a farlo sembrare un pupazzo coperto di nutella... o un grosso parrozzo! Sono rimasto ancor più esterrefatto quando ho saputo che anche persone abbastanza schifiltose si sentono attratte da questa pratica.

martedì 22 dicembre 2020

UNA TRADUZIONE IN GOTICO DELLE AVVENTURE DI ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE

 
Titolo originale: Balþos Gadedeis Aþalhaidais in Sildaleikalanda 
Descrizione: Alice's Adventures in Wonderland in Gothic 
Lingua: Gotico
Autore del testo originale: Lewis Carroll 
Autore della traduzione: David Alexander Carlton 
Affiliazione del traduttore: University of Western Ontario 
Illustrazioni: Byron W. Sewell, John Tenniel
Prima edizione: 2015 
Formato: Paperback 
Codice ISBN: 978-1-78201-097-5
Codice EAN: 1782010971
Peso: ‎ 181 g
Dimensioni: ‎ 13,97 x 0,86 x 21,59 cm
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Questo è un estratto del testo in gotico: 
 
"Jaindre," qaþ Katta, biwagjands taihswon pauta seinana, “bauiþ Hattareis: jah aljaþ,” wagjands pauta anþara, “bauiþ Martjuhasa. Gaweisos hvaþar saei leikaiþ þus: bajoþs woþs.”     
"Ak ni gairnja ei gaggau in wodam manam," qaþ Aþalhaids.
"O, ni manna mag biwandjan þata," qaþ Katta: "weis sijum her woda in allamma. Ik im woþs. Þu is woda."     
"Ƕaiwa witeis þatei ik sijau woda?" qaþ Aþalhaids.     
"Þu skalt wisan," qaþ Katta, "aiþþau ni iddjedeis hidre."  
 
Questo è il testo originale in inglese: 
 
"In that direction," the Cat said, waving its right paw around, "lives a Hatter: and in that direction," waving the other paw, "lives a March Hare. Visit either you like: they're both mad."  
"But I don't want to go among mad people," Alice remarked.  
"Oh, you ca'n't help that," said the Cat: "we're all mad here. I'm mad. You're mad."  
"How do you know I'm mad?" said Alice.
"You must be," said the Cat, "or you wouldn't have come here."  
 
Questa è la traduzione in italiano:   
 
"In quella direzione", disse il Gatto, agitando la sua zampa destra, "vive un Cappellaio: e in quell'altra direzione", agitando l'altra zampa, "vive una Lepre Marzolina. Visita chi vuoi: sono entrambi matti". 
"Ma io non voglio andare tra i matti", commentò Alice.  
"Oh, non puoi farci niente", disse il Gatto: "siamo tutti matti qui. Io sono matto. Tu sei matta."  
"Come sai che sono matta?" disse Alice.
"Devi esserlo" disse il Gatto, "o non saresti giunta qui."  
 
Sinossi (originale): 
 
"Gothic (Gutiska razda or Gutrazda) was a continental Germanic language spoken by the Visigoths and Ostrogoths in many areas (most notably Spain and Italy) throughout antiquity and the early Middle Ages; while Gothic appears to have become functionally extinct sometime in the eighth century, some form of the language may have continued to be spoken in the Crimea until the sixteenth or seventeenth century. The Gothic Bible, translated from a lost Greek exemplar sometime ca. 360 CE by the Gothic bishop Wulfila, represents the earliest substantive text in any Germanic language. Gothic itself remains the only significant representation of the East Germanic branch of languages, which have since died off completely. Other extant works in Gothic include an exegesis of the Gospel of John known as Skeireins, a partial calendar, and some minor fragments. Unfortunately, all extant texts are incomplete, so it remains unknown to what extent the extant fragments are written in idiomatic Gothic, as well as exactly what dialect of Gothic they might represent.        
This translation of “Alice’s Adventures in Wonderland” seeks to transport Carroll’s seminal work into the fourth-century Germanic world by Gothicizing both the language and environment of the original text.        
Why translate “Alice’s Adventures in Wonderland” into such an ancient and idiosyncratic language? In part, because Alice—itself a textbook of idiosyncrasies—lends itself well to linguistic flights of fancy, and in part because the dearth of available Gothic reading material has occasioned the production of new literature in this important East Germanic language.
“Aþalhaids” is to date the longest text written in Gothic in more than a thousand years." 
 
Sinossi (traduzione italiana del sottoscritto): 
 
"La lingua gotica (Gutiska razda o Gutrazda) era una lingua germanica contineltale parlata dai Visigoti e dagli Ostrogoti in molte aree (soprattutto in Spagna e in Italia) per tutta l'antichità e l'Alto Medioevo; mentre la lingua gotica sembra essersi funzionalmente estinta nel corso dell'VIII secolo, una qualche sua forma potrebbe aver continuato ad essere parlata in Crimea fino al XVI-XVII secolo. La Bibbia Gotica, tradotta da un esemplare greco perduto circa nel 360 d.C. dal vescovo gotico Wulfila, rappresenta il primo testo sostanziale in una lingua germanica. Il gotico stesso rimane la sola rappresentazione significativa del ramo delle lingue germaniche orientali, che da allora si è completamente estinto. Altre opere esistenti in gotico includono un'esegesi del Vangelo di Giovanni nota come Skeireins, un calendario parziale e alcuni frammenti minori. Sfortunatamente, tutti i testi esistenti sono incompleti, quindi non si sa fino a che punto i frammenti esistenti siano scritti in gotico idiomatico, così come non si sa esattamente quale dialetto del gotico potrebbero rappresentare. Questa traduzione di "Alice nel Paese delle Meraviglie" cerca di trasportare l'opera fondamentale di Carroll nel mondo germanico del IV secolo, goticizzando sia la lingua che l'ambiente del testo originale. 
Perché tradurre "Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie" in un linguaggio così antico e idiosincratico? In parte perché Alice, esso stessa un libro di testo di idiosincrasie, si presta bene a voli di fantasia linguistica, e in parte perché la scarsità di materiale di lettura gotica disponibile ha provocato la produzione di nuova letteratura in questa importante lingua germanica orientale. 
“Aþalhaids” è ad oggi il testo più lungo scritto in gotico in più di mille anni."
 
Il professor David Alexander Carlton ha commentato le difficoltà riscontrate nella sua opera di traduzione nell'introduzione al testo. Queste interessanti considerazioni sono disponibili nel Web e liberamente consultabili. Ne ho trovato una copia in formato pdf sul sito russo Bookvoed.ru:     
 
 
Esiste anche un file simile in Academia.edu, che presenta qualche discrepanza rispetto all'introduzione e contiene alcune inconsistenze: 

 
L'autore della traduzione ammette di aver operato cambiamenti e persino tagli nel testo di Carroll per poter rendere la narrazione più credibile per un ipotetico lettore del VI secolo d.C. 

Alcune riflessioni  
 
La mia filosofia è questa: quando si traduce un testo moderno in una lingua antica, bisogna innanzitutto porsi una domanda cruciale. Un parlante di quella lingua riuscirebbe a comprendere il testo tradotto? Se non ci riuscisse appieno, la traduzione fatta sarebbe etichettabile con una sola parola: fallimento.  
 
Il problema è che la lingua dei Goti a un certo punto è uscita dal corso storico del genere umano, e da quel momento ha cessato di avere un'evoluzione, proprio come un corpo morto e immerso nell'azoto liquido. Quando è stata riscoperta, è stata reintrodotta nella Noosfera umana. Nulla potrà mai eliminare la discontinuità. L'evoluzione di questa lingua recuperata in modo parziale, che possiamo definire neogotica, è indipendente da quella verificatasi nella lingua d'origine fino al punto terminale della sua esistenza. Non è cosa di poco conto. Il punto è che nessuno dei traduttori moderni sembra averne piena consapevolezza.  

Nel seguito indicherò le forme neogotiche (ricostruite) in caratteri maiuscoli, senza usare l'asterisco delle forme non documentate. Questo è senza dubbio lecito, visto che la lingua neogotica, oltre a non essere comunque identica a quella usata da Wulfila, è una lingua a tutti gli effetti e in essa sono stati composti testi letterari. 

Il problema della sintassi gotica 
 
Una tradizione molto diffusa vuole che Wulfila abbia cercato in modo quasi maniacale di adattare la lingua gotica alla sintassi greca per assicurare una traduzione davvero letterale delle Scritture. Tutto ciò ha un certo fascino, ma sono piuttosto scettico a questo riguardo. 
 
1) Se Wulfila avesse usato una sintassi artefatta e diversa da quella della lingua viva, non avrebbe assicurato una buona comprensione dei testi e non sarebbe riuscito nell'opera di evangelizzazione;
2) La stessa sintassi usata da Wulfila nella traduzione dei Vangeli è usata anche nel testo teologico Skeireins "Chiarimenti" e nei commenti ai frammenti dei calendari, per fare qualche esempio.  

Vero è che esistono tracce di una sintassi più antica, come la parola baurgswaddjus "mura della città", in cui il genitivo del possessore precede la cosa posseduta. Anche a costo di essere impopolare, enuncerò quanto penso. A mio avviso non sembrano esserci dubbi sul fatto che a un certo punto la lingua dei Goti abbia subìto profonde trasformazioni sintattiche, le cui cause sono ancora sconosciute ma in ogni caso indipendenti dall'opera di Wulfila.  

Il problema dei composti

Non so se sia il caso di abusare dei composti, come tendono a fare anche altri autori moderni. Già per motivi di comprensibilità, anziché MARTJUHASA "Lepre Marzolina" avrei usato HASA MARTJAUS "Lepre di Marzo". Anziché ǶEITAHASA "Bianconiglio" avrei usato HASA SA ǶEITA "La Lepre Bianca". Anziché SILDALEIKALAND "Paese delle Meraviglie" avrei usato LAND SILDALEIKE. Dall'aggettivo sildaleiks "meraviglioso", attestato nella traduzione di Wulfila, si ha la forma sostantivata del neutro plurale, sildaleika, usata col senso di "meraviglie, miracoli". La scelta di Carlton è perfettamente grammaticale, tuttavia non so bene che immagine mentale avrebbe trasmesso ai Goti.   

Il problema degli errori marchiani 

In gotico la parola bajoþs "entrambi" è plurale, non singolare. Questa è la sua declinazione, che vale sia per il maschile che per il femminile: 

nominativo: bajoþs 
genitivo: bajoþe
dativo: bajoþum 
accusativo: bajoþs 
vocativo: bajoþs  

Carlton traduce "embrambi matti" in modo agrammaticale: BAJOÞS WOÞS, come se bajoþs concordasse con il nominativo singolare maschile WOÞS "matto". Questo è uno strafalcione sesquipedale. Bisogna dire BAJOÞS WODAI. Perché? Semplice: in gotico il Cappellaio e la Lepre Marzolina sono entrambi di genere grammaticale maschile. La forma plurale da usarsi è quindi quella maschile WODAI. Se si trattasse di due persone di sesso diverso, si dovrebbe usare la forma femminile WODOS. Anche se si parlasse del Re e della sua consorte. Detto questo, la società dei Goti non era affatto "inclusiva", "femminista" o "matriarcale". Una cosa è il genere grammaticale, un'altra è il sesso! 
 
Il problema della semantica 

Esiste anche un piccolo problema semantico con l'uso della parola WOÞS per tradurre "matto". L'aggettivo gotico wods si traduce con "indemoniato, posseduto da uno spirito maligno" e ha un significato molto più forte di quanto possa avere in inglese la parola mad o in italiano la parola matto. Ormai questo aggettivo si è notevolmente indebolito: ai nostri giorni dare a qualcuno del matto non è poi una cosa tanto grave, può anche essere fatto in modo scherzoso (ad esempio in frasi come "sei proprio un mattacchione", etc). Riporto un un esempio dalla traduzione di Wulfila del Nuovo Testamento:

Marco 5: 15-18

jah atiddjedun du iesua jah gasaiƕand þana wodan sitandan jah gawasidana jah fraþjandan þana saei habaida laigaion, jah ohtedun. jah spillodedun im þaiei gaseƕun, ƕaiwa warþ bi þana wodan jah bi þo sweina. jah dugunnun bidjan ina galeiþan hindar markos seinos. jah inngaggandan ina in skip baþ ina, saei was wods, ei miþ imma wesi. 

"Giunti che furono da Gesù, videro l'indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura. Quelli che avevano visto tutto, spiegarono loro che cosa era accaduto all'indemoniato e il fatto dei porci. Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio.  Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo pregava di permettergli di stare con lui." 

Il Cappellaio Matto trae la sua origine da un fatto molto curioso. Nel XIX secolo, i cappellai inglesi e di altre nazioni facevano uso di una soluzione dei sali arancioni del mercurio per infeltrire i tessuti e lavorarli facilmente. Le esalazioni tossiche inducevano qualche problema mentale in questi artigiani. I cappellai farfugliavano, erano tremebondi e depressi, soffrivano di perdite di memoria e di spasmi. Inoltre i loro capelli, saturi di veleno, assumevano spesso un'irreale colorazione arancione. Questa è la radice del nonsense del Paese delle Meraviglie, dove tutto è stravagante come poteva esserlo un cappellaio in preda ai fumi idrargirici. Resta il fatto che una cosa è l'indemoniamento, un'altra la stravaganza.
 
Il problema delle lacune lessicali 

Il pipistrello è da Carlton chiamato MUSTRIGGS. Può sembrare un'ottima soluzione, dato che la parola appare formata a partire da MUS /mu:s/ "topo" (inglese mouse, tedesco Maus, norreno mús, etc.) - anche se la formazione non è chiarissima. Ora, il traduttore afferma di aver coniato questo MUSTRIGGS a partire da un vocabolo diffuso nella Penisola Iberica: spagnolo mostrenco, portoghese mostrengo, catalano mostrenc, che crede avere il significato di "pipistrello". Il suo riferimento è a un dizionario Gotico - Tedesco preparato dal professor Gerhard Koebler (Università di Innsbruck):  


Ecco quanto riporta Koebler: 
 
*mūstriggs?, got., st. M. (a)?: nhd. Fledermaus; ne. bat (2) (N.); Q.: port. mostrengo, span. mostrenco, kat. mostrenc, umherstreichend, Gamillscheg, RFE. P 1932, 236; E.: s. mūs 

Spagnolo mostrenco, portoghese mostrengo e catalano mostrenc significano "vagabondo, senza proprietario noto" (tradotto da Koebler con l'aggettivo umherstreichend, alla lettera "vagante"). Non sono certo che l'etimologia proposta sia corretta, dato anche l'enorme discrepanza semantica. L'origine potrebbe benissimo essere gotica, anzi, ne sono convinto, ma il significato non sarebbe quello di "pipistrello". Avremmo MUSTRIGGS "vagabondo" (agg.). La pronuncia sarebbe probabilmente /'mustriŋgs/, con una vocale -u- breve, come suggerito dall'evoluzione romanza che ha -o- e non -u-. Potrebbe non derivare dal nome del topo. Se queste mie considerazioni fossero corrette, la forma sostantivata MUSTRIGGA fornirebbe una traduzione plausibile di "clochard", non di "pipistrello". I romanisti credono che lo spagnolo mostrenco e simili derivino da un precedente mestenco, il cui significato originale è quello di "animale senza padrone conosciuto" (da mesta "riunione di proprietari di bestiame", a sua volta dal latino mixta). Questa parola sarebbe stata alterata per via di una supposta espressione mostrar el mestenco, che a quanto pare era usata per descrivere l'atto di rivendicare la proprietà di un animale senza padrone. Non amo questi ragionamenti contorti e improbabili dei romanisti, ma non ho ancora abbastanza dati per giungere a una conclusione solida.

Il problema dei neologismi 
 
Interessanti sono alcuni neologismi utilizzati nel testo. Come sempre, formazioni di questo genere sono alquanto capricciose e non è affatto detto che si rivelino utili. Riporto e discuto brevemente alcuni esempi concreti nel seguito. 
 
Il termine HATTAREIS è utilizzato per indicare il Cappellaio. Possiamo infatti ricostruire con sicurezza i seguenti vocaboli gotici: 
 
HATTUS "cappello" < protogerm. *χattuz
HOÞS "cappuccio" (gen. HODIS) < protogerm. *χōðaz
 
La prima forma è l'equivalente dell'inglese hat "cappello", la seconda dell'inglese hood "cappuccio" e del tedesco Hut. Carlton ha preso HATTUS e gli ha applicato il tipico suffisso -areis, che indica tra le altre cose la professione (deriva dal latino -ārius). Come bokareis è lo scriba, da bokos "libro", boka "lettera", allo stesso modo nel gotico di Carlton abbiamo HATTAREIS "cappellaio" da HATTUS "cappello". Non è molto chiaro se la procedura, a prima vista ineccepibile, sia legittima. Non mi vengono in mente derivati in -areis da sostantivi nativi col tema in -u-. Inoltre non sono certo che esistesse ai tempi di Alarico la professione del cappellaio. C'era tra i Visigoti e gli Ostrogoti un professionista tanto specializzato da essere adibito unicamente alla produzione di copricapi? Oppure i copricapi erano opera di professionisti che producevano anche altri capi di vestiario? Non so dare una risposta, anche se la seconda alternativa mi sembra più plausibile. Mi chiedo se Alarico avrebbe compreso il termine carltoniano. 
 
L'astrolabio è detto STAIRNONIMA, alla lettera "prenditore di stelle". L'orologio è detto STUNDOSWAIHTS, alla lettera "cosa del tempo". A parer mio sarebbe stato meglio importare le parole direttamente dal latino, che a sua volta le ha prese dal greco. Avremmo così ASTRAULABJUM dal latino astrolabium (greco astrólabos) e HORAULAUGJUM dal latino hōrologium (greco hōrológion), in cui il dittongo grafico -au- trascrive la vocale -o- breve. Altri adattamenti sono comunque possibili. Aggeggi di questo genere esistevano già ai tempi del Re Alarico, che avrebbe anche potuto capire le parole per designarli. Ovviamente non esistevano i Rolex, ma le clessidre e le meridiane esistevano eccome. Non si vede perché dover introdurre neologismi ardui come STAIRNONIMA e STUNDOSWAIHTS, che sarebbero stati comprensibili dai Goti solo nel loro significato letterale, ma che non sarebbero riusciti in alcun modo a comunicare il concetto.    

Il problema delle parole macedonia 

Le parole macedonia sono a mio avviso da rigettare. In primis perché sono arbitrarie e legate a un contesto noto soltanto al narratore. In secundis perché i popoli antichi non avevano il concetto di formazioni di questo tipo e non avrebbero potuto comprenderle facilmente. Se qualcuno ha pensato bene di trasformare Claudius Tiberius Nero in Caldius Biberius Mero "Bevitore di vino caldo e puro", non ha dato vita a  parole macedonia: ha soltanto alterato a scopo satirico nomi esistenti per produrre altri nomi dotati di senso. Le parole macedonia invece oscurano l'etimologia e la possibilità di analisi a partire da elementi morfologici noti. Se  si prende la parola breakfast e la si unisce a lunch per ottenerne brunch, si ha un vocabolo paradossale che non può essere analizzato. Il problema è che questo tipo di formazioni costituisce il cardine della letteratura nonsense inglese, di cui Lewis Carroll fu un esponente d'importanza capitale. Oltre a coltivare un'insana passione per le bambine, il matematico di Daresbury si divertiva a riassemblare il lessico inglese ottenendone stravaganti collage per esprimere un umorismo paradossale. Come rendere nella lingua di Wulfila uno scritto pieno di nonsense? Sono convinto che non si possa.  
 
Il ghiro in inglese è chiamato dormouse. Si tratta del prodotto di una falsa etimologia a partire dal francese antico dormeus, alla lettera "dormiglione", associato popolarmente al nome del topo, mouse, di chiara origine germanica, con parenti in latino, in greco e in sanscrito. Carlton, volendo rendere il nome del Ghiro della storia di Carroll, ha fatto ricorso a un nome che sembra proprio una parola macedonia: SLEMUS. Questo SLEMUS nasce direttamente da slepan "dormire" e da MUS "topo" (ricostruito a partire dalla protoforma germanica, comune a tutte le lingue del ceppo). Meglio sarebbe stato chiamare il simpatico roditore SLEPMUS, con un composto più razionale, dal momento che un suo nome olandese è propio slaapmuis. Non si capisce il motivo della scomparsa della consonante -p- dalla radice slep- "dormire", visto che non ci sono motivazioni di pensare alla riduzione del gruppo consonantico -pm- a una semplice -m-. Carlton, credendo erroneamente che dormouse sia una parola macedonia, ha voluto replicare in gotico qualcosa di simile. Un altro vocabolo olandese per indicare il ghiro è zevenslaper, corrispondente al tedesco Siebenschläfer. L'autore della traduzione avrebbe potuto usarlo per ricostruire SIBUNSLEPANDS, alla lettera "che dorme sette volte". Il participio presente slepands "dormiente" è attestato; il suffisso -er, corrispondente al gotico -areis, ha sostituito largamente formazioni più antiche in -nd-. L'origine di questo strano composto è da ricercarsi nella leggenda dei Sette Dormienti di Efeso, che doveva essere ben nota ai Goti. Giordane ci testimonia che si era diffusa persino tra popolazioni pagane della Scandinavia. Tutte queste denominazioni sono di origine tabuistica. Non sappiamo se esistesse in gotico un nome specifico del ghiro, del tutto indipendente. Notiano che in bavarese il ghiro è chiamato Greil o Gleir: la parola è di chiara origine latina (glīs, gen. glīris). Il ghiro manca nelle terre in cui si parlava norreno. Verosimilmente vi mancava anche al tempo dei Vichinghi. Eppure in svedese troviamo sjusovare "ghiro", che traduce alla perfezione il tedesco Siebenschläfer e rimanda esso stesso alla leggenda dei Sette Dormienti di Efeso. Non possiamo valerci dell'antico islandese per cercare altri lumi in un'oscurità più profonda.

Il problema della comprensibilità storica 

Come tutti sappiamo, ai tempi dei Goti il tè era sconosciuto in Europa. Non poteva dunque esistere la cosidetta ora del tè. Non esisteva alcun tea party. Non era possibile nemmeno immaginarlo. Si può quindi comprendere le difficoltà di Carlton nel rendere i concetti correlati a questo rituale tipicamente inglese. In epoca precedente alla prima Rivoluzione Industriale, l'usanza prevedeva di bere birra nel pomeriggio. Siccome gli incidenti in fabbrica si moltiplicavano a causa della continua ingestione di una bevanda pur lievemente alcolica, questa fu infine sostituita con il tè. Non ci sarebbe modo di spiegare tutto questo a un Goto redivivo. Carlton ha adottato una soluzione che a prima vista può apparire geniale. Ha semplicemente trasformato il tè in idromele! MIDUS "idromele" rende la parola "tè". Abbiamo quindi i seguenti composti: 

MIDUÞIGG "riunione dell'idromele"
    (traduce "party del tè")
MIDUAURKEIS "brocca dell'idromele"
   (traduce "teiera")
 
Nell'articolo su Academia.edu si trovano due forme diverse, in cui il composto ha il primo membro al genitivo: 

MIDAUSÞIGG "riunione dell'idromele"
    (traduce "party del tè")
MIDAUSAURKEIS "brocca dell'idromele"
   (traduce "teiera")
 
Questo modo di formare composti genitivali non sembra che fosse più molto vitale ai tempi di Wulfila: le forme con MIDU- sono di gran lunga preferibili a quelle con MIDAUS-, come Carlton stesso a un certo punto si è accorto. Il problema è tuttavia un altro. Tra i tutti Germani l'idromele aveva un importante ruolo di bevanda del Re, dei nobili e degli eroi. La prima domanda che Alarico si sarebbe posto, riguarderebbe proprio la tavolata riunita attorno alla bevanda inebriante. Perché un cappellaio, per giunta matto, avrebbe dovuto presiedere il rito? Come mai in questo contesto non si parla invece di un sovrano, della sua corte, dei suoi guerrieri? 
 
Il problema dei fraintendimenti 

Non comprendo la scelta di sostituire l'inglese treacle "antidoto" (dal latino thēriaca, dal greco thēriákē) con miliþ "miele" (non *milþis, come erroneamente riportato nell'articolo su Academia.edu). Una simile "traduzione" è senza dubbio fuorviante. Carlton reputa che sarebbe stato anacronistico parlare di antidoto ai tempi dei Goti. Non sono affatto d'accordo. Mitridate e il suo antidoto universale erano parte del sapere comune nell'antica Roma, ben prima che Wulfila iniziasse a predicare. Il nostro eroico Alarico avrebbe benissimo potuto essere in grado di comprendere ÞERJAKE come "antidoto, contravveleno". 

Il Dodo si è trovato trasformato in una Fenice: FAINIKS. A rigor di logica la fenice dovrebbe essere FWNEIKS o FWNIKS, dove -w- trascrive regolarmente il dittongo -oi- del greco, all'epoca pronunciato come la vocale -y-. La vocale -i- lunga è trascritta in gotico con -ei-, ma anche con -i-. È attestato l'aggettivo fwnikisks "fenicio". Detto questo, trovo che la "traduzione" di Carlton sia in ogni caso insoddisfacente. La Fenice è un uccello aggraziato che somiglia al fuoco vivo, mentre il Dodo è un piccione obeso, inabile al volo, strabico, beccuto e dotato di ali atrofiche: una figura grottesca e distorta, che non si presta a un paragone con il simbolo della Rinascita. 
 
Altre recensioni e reazioni nel Web  

Alcuni commenti significativi sono presenti nella pagina di Amazon usata per ordinare il libro di Carlton. Li riporto in questa sede perché li ritengo utili al fine di accrescere la Conoscenza.
 
 
Un anonimo "Cliente Amazon" ha scritto (in spagnolo): 
 
Es uno de los pocos textos escritos en godo fuera de la Biblia de Wulfila. El autor detalla las dificultades técnicas que ha tenido que afrontar para adaptar Alicia en el País de las Maravillas al godo siendo fiel a su sintaxis y lexico. La falta de vocablos modernos lo afronta introduciendo un número de neologismos mínimo. Prefiere derivar palabras empleando lexemas godos. Esperemos que más autores se animen a escribir en godo y se cree una comunidad de hablantes en godo 
 
Un anonimo "Amazon Customer", dal dente avvelenato, ha scritto (in inglese): 
 
Whoever takes Gothic seriously should not buy this book. Hardly anybody reads Gothic today, so a poor translation can easily slip under the radar, even for the translator himself. "Balþos Gadedeis Aþalhaidais in Sildaleikalanda" is very poorly translated and is full of both minor and major grammatical errors on every page. I attempted to correct the first chapter alone myself, but the errors became so numerous that I gave up. I'm convinced that the translator has never studied Gothic grammar in depth and just used a dictionary. I can't blame the translator, after all no native speakers are alive to correct his work.
Possibly the most common mistake made in "Balþos Gadedeis Aþalhaidais in Sildaleikalanda" (aside from case usage and verb tenses) is the usage of the clitic "-uh". -uh can only be placed on verbs and some indefinite pronouns, yet the translator uses it similarly to Latin "-que". This usage is incorrect: -uh can only join two or more main clauses. Here's an example where the author uses -uh to join two nouns : "stiklabridam bokobridam-uh". The word "jah" must be used here. 

Quanto l'utente fa notare corrisponde al vero: l'enclitica -uh è usata soltanto in alcuni contesti, con i verbi e con alcuni pronomi, mentre non può avere un uso analogo a quelo del latino -que. Quando si devono unire due sostantivi bisogna usare la congiunzione jah "e". Cosi anziché STIKLABRIDAM BOKOBRIDAMUH bisogna dire STIKLABRIDAM JAH BOKOBRIDAM "alle mensole dei bicchieri e alle mensole dei libri". Sempre ammesso che la parola BRIÞ (genitivo BRIDIS, plurale BRIDA) "mensola, superficie" si usasse effettivamente. Dal punto di vista fonetico è ben costruita dal protogermanico *bridan, che ha dato origine al tedesco Brett e all'antico inglese bred "superficie"; poi non sappiamo se esistesse davvero in gotico. Ho seri dubbi sulla validità di questi composti. Per quanto riguarda BOKOBRIDA, ho dubbi anche sulla correttezza grammaticale. Il gotico bokos "libro" è un plurale tantum formato a partire da boka "lettera (dell'alfabeto)"; non sono affatto sicuro che potessero formarsi composti in BOKO- "libro", mentre i composti in BOKA- sarebbero ambigui. Sarebbe meglio dire BRIDA BOKO.

Trovo in ogni caso esagerato il finale dell'intervento di questo "Amazon Customer", che avrebbe ben potuto firmarsi almeno con un nick: 

I originally wanted to give this book one star, but the amount of effort that went into this book is worth another star. The illustrations and alterations to make the story fit into a historically accurate time period is also worth something. I can only recommend this book to collectors, but even then it's honestly not worth your money. 

Conclusioni 

Nonostante tutti i problemi e le perplessità che ho enumerato e discusso, l'opera di Carlton è di un'importanza capitale. Nel complesso ambito della letteratura in lingua neogotica, non si può prescindere da questa traduzione (o meglio riscrittura) delle Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie.