mercoledì 30 dicembre 2020

CLASSIFICAZIONE DELLE LINGUE ESTINTE, MORTE E MORENTI

Esiste realmente una differenza tra lingua morta e lingua estinta? Si tratta sempre e comunque di sinonimi? Può sembrare una questione banale o di lana caprina, ma credo che così non sia. In Quora mi sono imbattuto in una singolare definizione, che reputo ragionevole. Anche se non mi sembra godere di plauso universale nella comunità accademica, trovo di pubblica utilità riportarla e discuterne. Eccone l'enunciato:    
 
1) La lingua morta ha metamorfosato, dando origine a lingue viventi.
Esempi:
anglosassone => inglese moderno; 
antico alto tedesco => tedesco moderno;  
latino volgare => lingue neolatine. 
In questi casi non si parla di morte linguistica, bensì di mutamento linguistico
 
2) La lingua estinta non ha dato origine a lingue viventi, ossia non ha eredi diretti.
Esempi: 
sumerico
hurritico
etrusco †  
gotico † 
Kakán  
In questi casi si parla di morte linguistica o di sostituzione linguistica
Sono da includere tra le lingue estinte anche quelle che hanno metamorfosato, dando però origine a lingue che poi si sono spente.
Esempi: 
antico egiziano => copto † 
fenicio => punico
 
Una lingua che tecnicamente è da classificarsi come morta o estinta, può godere di una sorta di vita postuma per finalità culturali, politiche, religiose o di altro genere (esistono persino i fumetti di Topolino in latino e in sanscrito, etc.). In questo caso si parla di lingua storica.  

 
Passiamo ora ad illustrare qualche importante concetto di tanatologia linguistica. Per dirla in parole povere, non tutte le lingue morenti, morte o estinte sono uguali. Esistono differenze sostanziali nel modo in cui le lingue agonizzano, si estinguono e durano nella memoria dopo la loro morte funzionale, fino al definitivo annientamento. 
 
L'Atlante UNESCO delle lingue del mondo in pericolo (UNESCO Atlas of World Languages in Danger) è una pubblicazione online che contiene una lista di lingue che corrono il pericolo di estinguersi. La classificazione adottata in questo documento è la seguente: 
 
(NE) Safe / Not Endangered (non minacciata) 
  La lingua è parlata da tutte le generazioni e la sua trasmissione intergenerazionale è ininterrotta. Queste lingue non sono incluse nell'Atlante UNESCO perché non in pericolo. 
(VU) Vulnerable (vulnerabile) 
  La maggior parte dei bambini parla la lingua, ma il suo ambito può essere ristretto (es. in casa).
(DE) Definitely Endangered (minacciata) 
  I bambini non apprendono più la lingua come lingua madre domestica.
(SE) Severely Endangered (gravemente minacciata) 
  La lingua è parlata dai nonni o dalle generazioni più anziane; mentre i genitori possono capirla, non la usano per parlare con i bambini o tra loro.
(CR) Critically Endangered (minacciata in modo critico) 
   I parlanti più giovani sono nonni o ancora più anziani, e parlano la lingua parzialmente e in modo infrequente.
(EX) Extinct (estinta) 
  Non rimangono più parlanti. L'Atlante UNESCO considera una lingua estinta se non sono più stati trovati parlanti dagli anni '50.  
 
Questo è un tentativo di classificare le lingue della categoria (EX): 
 
Lingua dormiente  
  Non esistono più parlanti attivi, si è arrivati a un avanzato stato di morte funzionale, ma possono ancora trovarsi parlanti terminali, semiparlanti isolati o ricordanti
Un parlante terminale è l'ultimo parlante della propria lingua. 
Un semiparlante è una persona che parla una lingua in modo limitato, mostrando un'incompleta conoscenza del patrimonio lessicale. 
Un ricordante è una persona che mostra conoscenze residuali di una lingua da tempo non più usata nella sua comunità. 
Spesso vengono scoperti semiparlanti e ricordanti in luoghi in cui nessuno si sarebbe aspettato la loro esistenza. In genere si tratta di locutori che non usano più frasi nella lingua anche da decenni, non avendo occasione di farlo. 
 
Lingua in coma storico  
  I discendenti dei parlanti non sanno più parlare la lingua ma ne ricordano ancora l'esistenza, potendo conservarne qualche resto (esempi: frasi telegrafiche, vocaboli di sostrato, formule, etc.). In tali condizioni si possono trovare recitatori formulaici.  
Un recitatore formulaico è una persona che è in grado di proferire testi, anche lunghi e articolati, pur avendo soltanto una vaga idea del loro contenuto e non essendo in grado di capirne che poche parole. 
 
Lingua in avanzato stato di oblio 
  I discendenti dei parlanti non conservano più alcun elemento riconoscibile del loro passato linguistico, ma sono ancora consapevoli della propria diversità culturale rispetto alle genti loro vicine.   
 
Lingua caduta in uno stato di oblio profondo 
  I discendenti dei parlanti non sanno nemmeno più che la loro antica lingua è esistita, non la riconoscerebbero come propria se la sentissero parlare da qualcuno. Non hanno alcuna consapevolezza etnica: da tempo immemorabile non si distinguono dalla popolazione del paese in cui vivono.
 
In tutti questi casi abbiamo a che fare con una lingua discontinuata o cessata: si è interrotta la catena di trasmissione. Tale interruzione è per sua stessa natura definitiva, proprio come la morte pone fine all'esistenza biologica. 
Il vocabolo "discontinuato" è un orrido neologismo, me ne rendo perefettamente conto. Mi sono imbattuto per la prima volta nel verbo "discontinuare" quando è stata annunciata la fine della piattaforma blogosferica di Splinder, nel 2011. Credo che parlare di lingue discontinuate abbia una certa ruvida efficacia, per questo adotto la locuzione: fa comprendere il dramma dell'irreversibilità. 
Il caso più eclatante di discontinuazione linguistica non è contemplata nella classificazione dell'UNESCO: è la morte radicale, che avviene quando una lingua scompare assieme a tutti suoi parlanti in seguito a una catastrofe o a un genocidio. 

Posso tentare di classificare una lingua estinta anche a seconda della sua origine. 
 
1) Lingua ricostruibile.
Appartiene a un famiglia linguistica ben nota, presentando somiglianze importanti con almeno una lingua ben nota, al punto da poter utilizzare il materiale disponibile per tentarne la ricostruzione.
2) Lingua parzialmente ricostruibile.
Appartiene a una una famiglia linguistica ben nota, ma presenta peculiarità che ostacolano in modo grave ogni tentativo di ricostruzione.
 
3) Lingua perduta. 
Non appartiene a nessuna famiglia linguistica nota e può essere conosciuta in modo molto incompleto: è una lingua isolata o quasi isolata (ossia simile a una o a poche lingue parimenti estinte e mal note). In queste condizioni può essere molto improbabile ottenere altro materiale utile in futuro.  
 
Le caratteristiche dell'oblio profondo 
 
Quando una lingua è caduta in uno stato di oblio profondo, le conseguenze sono drammatiche. Oltre a non avere alcuna nozione, anche vaga, della lingua ancestrale, i discendenti dei suoi antichi parlanti non hanno la benché minima idea del fatto che sia stata un tempo parlata. Possiamo dire che questo è l'ultimo stadio della morte e dell'oblio di una lingua, corrispondente alla dispersione dei resti di un cadavere, alla sua cancellazione. A volte l'esistenza di una lingua caduta in uno stato di oblio profondo può essere conosciuta dalla lettura di libri, dall'insegnamento scolastico o da altre testimonianze del passato, senza che essa possa comunque avere un qualsiasi valore identitario. Alcuni esempi concreti: 
 
1) Tutti sanno che sono esistiti i Longobardi, ma il disinteresse nei confronti della loro lingua germanica è immenso. Nell'odierna Lombardia nessuno le attribuisce qualsiasi valore di etichetta etnica, e altrettanto accade in altre regioni ove fu storicamente parlata. Eppure nella stessa toponomastica milanese ci si imbatte in nomi di origine longobarda: basti pensare a Brera e a Via degli Odescalchi.
2) Molti hanno appreso a scuola che prima dei Romani, Milano era la capitale dei Galli Insubri. Tuttavia il disinteresse nei confronti delle antiche lingue celtiche continuentali è immenso, al punto che la maggior parte delle persone ne ignorano persino l'esistenza. Nell'odierna Lombardia nessuno attribuisce al gallico o al leponzio qualsiasi valore di etichetta etichetta etnica, e altrettanto accade in altre regioni che ebbero nell'antichità un'importante presenza celtica.
3) Tutti sanno dell'esistenza della lingua etrusca, che è conosciuta in modo molto imperfetto dagli studiosi. Il popolino, disincantato e scettico, è invece convinto che non sia possibile conoscerne alcunché (estruscum est, non legitur). In ogni caso, nell'odierna Toscana nessuno attribuisce all'etrusco qualsiasi valore di etichetta etnica. 
 
Questa è la mia esperienza personale: in molti casi ho incontrato persone che si ritenevano di essere parlanti della lingua galloitalica della Brianza, anche se la utilizzavano soltanto mescolandola in modo pesante con l'italiano. Di fronte ai miei discorsi sulla lingua dei Longobardi e sulle lingue celtiche, alcuni reagivano con una frase stizzosa: "hemm semper parlà dialett", ossia "abbiamo sempre parlato dialetto". Il termine "dialett" è da loro considerato una specie di endoetnico: non comprendono che non si tratta di una parola locale. Essi proiettano la situazione attuale nel passato fino alla più lontana preistoria, essendo incapaci di capire l'idea stessa di mutamento linguistico e di sostituzione linguistica. Altri invece si mostravano molto interessati alla lingua dei Longobardi e alle lingue celtiche, credendo forse di farne un uso politico, ma quando capivano che i vocaboli non collimavano affatto con quelli del "dialett", perdevano all'istante ogni interesse.       
 
Oblio e politica 
 
Tale è la generale ignoranza del passato, che Umberto Bossi e i suoi collaboratori si fabbricarono costruzioni mitologiche posticce come la famosa ampolla portata dalle sorgenti del Monviso alle foci del Po e versata ritualmente in mare. Giova far notare che la Lega Lombarda (poi Lega Nord) non è mai stata in grado di proporre alcuna forma di ricostruzione sensata o di revival linguistico, né celtico né germanico. Anzi, non è stata nemmeno in grado di salvare le locali lingue galloitaliche dal tremendo declino in cui versano.   
 
Alcuni casi di parlanti terminali
e semiparlanti
 

1) Il caso del Chaná 
Don Blas Wilfredo Omar Jaime, un dipendente pubblico in pensione nato a Nogoyá, nella provincia di Entre Ríos in Argentina, era noto per la sua abitudine di parlare tra sé e sé in una lingua sconosciuta. Il linguista José Pedro Viegas Barros (CONICET, Universidad de Buenos Aires) si è recato da lui sul finire del 2004 e ha scoperto che era l'ultimo parlante della lingua Chaná, creduta estinta dagli inizi del XIX secolo. Riporto alcuni esempi di lessico raccolto, evidenziando qualche interessante formazione: 

beada "madre" 
-'ó "grande" 
beada-'ó "terra" (lett. "grande madre")
beada-'ó  noá "argilla" (lett. "terra bianca") 

velá "nero" 
-'é "piccolo" 
taé "cattivo"  
uticá "odore" 
velá-'é taé uticá "puzzola" (lett. "piccolo nero dal cattivo odore") 
 
agó "cane"
nsumí "ladro" 
timó "orecchio" 
-'ó "grande" 
agó nsumí "volpe" (lett. "cane ladro") 
agó timó-'ó "volpe" (lett. "cane orecchione")

Riporto anche un testo iniziatico trasmesso da Don Blas Jaime. Era usato per sancire il passaggio dall'infanzia allo stato adulto.  

Ote tato a'a tato'e:

Banati amit tato'e
Kaley angu uhe nantu ug baté tihwi
Welkaymar hili kaley baté nantú
Oyenden uhe okó ug dyoi opa bate ititi reta
Oyenden opa uga pite'e ug bate tihwi
Ita'i wa oté oblí baté nderé
Ngan amit aywa
Npen baté uga Tihwinem


Traduzione in italiano:  

Fare di un ometto un uomo 
 
Ricevi oggi l'ultimo castigo di tuo padre  
D'ora in avanti riceverai solo il tuo stesso castigo 
Ricorda questo castigo durante tutta la tua vita come uomo 
Per migliorare il tuo viaggio 
Tieni la mia benedizione 
Guadagnati tu quella del Padre-Spirito. 
 
Il testo è pubblicato e analizzato in questo articolo di Viegas Barros: 
 

2) Il caso del Vilela 
Verso la fine del 2003 l'antropologa Lucía Golluscio (Universidad Nacional de La Plata, Universidad de Buens Aires) trovò nella regione del Chaco argentino due anziani semiparlanti della lingua dei Vilela, che era creduta estinta da circa mezzo secolo. A quanto pare questi locutori erano già deceduti nel 2011, come riportato in alcuni siti, anche se mi è giunta voce che a un certo punto gli ultimi Vilela abbiano smesso di collaborare con la Golluscio, rifiutandosi di fornirle ulteriori dati.  
È chiaro che i Vilela sono i discendenti dei Tonocoté del Pilcomayo, migrati agli inizi dell'epoca coloniale per sfuggire al dominio spagnolo, poi ritrovati dai missionari nel XVIII secolo. Nei primi anni del XX secolo permaneva ancora tra i superstiti il ricordo della migrazione dalla terra d'origine dei Tonocoté, oggi conosciuta come Santiago del Estero:

waharop rupelet rupe nite tatekis nanekis wakambabelte ma umbap agilopa "molto tempo fa, in principio, alla radice del tempo, vennero nostro padre e nostra madre, che parlavano Vilela, dall'altro lato della Grande Acqua."  
(Llamas, 1910)

waharop umbom umbap wakambabelte "il racconto antico e grande di coloro che parlavano Vilela." 
(Llamas, 1910)  
 


3) Il caso del Tinigua 
Don Sixto Muñoz è l'ultimo parlante della lingua dei Tinigua e vive nella foresta della Serranía de la Macarena, in Colombia. Esistono ancora discendenti dei Tinigua, che però hanno perso completamente la loro lingua e i loro costumi, essendosi assimilati ai Guayabero. Lo stesso Sixto Muñoz ha commesso il gravissimo errore di non insegnare la lingua ancestrale ai propri figli e ai propri nipoti, che si considerano parte del popolo Guayebero. Nel 2019 era ancora in vita, ma si stimava che avesse 90-95 anni. Nel 2000 aveva perso il fratello maggiore, Criterio, e da allora non aveva avuto più nessuno con cui parlare il Tinigua, a parte le proprie galline e Dio. Secondo altri, Sixto avrebbe perso il fratello maggiore quando aveva soltanto 14 anni, e non avrebbe parlato Tinigua da molti decenni: non mancano nel Web informazioni contraddittorie. Anche sulla vera età di questo parlante terminale sussistono non pochi dubbi. Per quanto mi sia sforzato, non sono riuscito a trovare testi nella lingua dei Tinigua. Ho a disposizione soltanto un vocabolario esiguo, pubblicato da Marcelino de Castellví (1940).      

 
 
Mi sembra incredibile che non siano stati resi pubblici i testi raccolti dall'ultimo parlante. Chi rende inaccessibile un patrimonio dell'intero genere umano dovrebbe essere condannato alla culla di Giuda.
 
Alcuni casi di recitatori formulaici 
 
1) Il caso dell'Atacameño (Kunza) 
La lingua di Atacama, detta anche Kunza ("nostro") o Licanantai (dall'endoetnico: "abitanti del villaggio"), era creduta estinta già agli inizi del XX secolo, ma nel 1949 la ricercatrice Grete Mostny Glaser è riuscita a trovarne alcuni parlanti, raccogliendone parole e frasi. Anche se nessuno tra i discendenti degli Atacameños usa più il Kunza nella vita di tutti i giorni, esistono testi cerimoniali che sono tuttora recitati a memoria, mancando la comprensione del significato delle parole. Un testo recitato in occasione della pulizia dei canali è il Talátur. Si invoca l'addensamento delle nubi e la caduta della pioggia, affinché il deserto sia fertilizzato e i pascoli diventino verdi. Questo è il testo del Talátur raccolto nel villaggio di Peine dalla stessa Mostny e poi pubblicato nel 1954, qualche anno dopo la spedizione di cui sopra: 
 
Wilti puri yuyo sai
quepe puri pachata
awai awai awai

Solar puri yuyo talu sai
tami puri pachata
awai awai awai


Echar sacta cheresner  
saque acta colcoina colcoina
awai awai awai 

Yuro tucor nace coicoinar  
sake tucor nace coicoinar  
awai awai awai 

Laus saisa carar monte colcoinar  
chile saisa carau saire y sairina
saire sairina y yentes lulayne yentes
carar y yentes illauca saflu islilla 

Tumi saisa monte colcoina
chile sisa carau sare sairina
saire sairina y yentes lulayne y yentes
carar y yentes iyauca saflu islilla 

Quimal sisa carar monte colcoina
Chile saira y yentes lulayne y yentes
carar y yentes iyauca saflu islilla 

Calal tanti sayno
islamas tanti sayno
isay pani y ques capana
isay Sanantonio 

Ayil tanti sayno
katur tanti sayno
isay pani y caspana
isay Sanantonio

Tarar chusli sayno
pauma chusli sayno
isay kone islujlina
isay Sanantonio

Lipis chusli isayno
koiway chusli sayno
y say kone y esluslina
y sai Sanantonio

Uway leyer licau simainuna
y pauna licau simanuna
y kaper licausimainuna
y eya techaynita
y eya katalur ya qui
y yai y yale y yai iyawe
y yawe yolasquita. 
 
Glossario: 
 
awai, uway "che scorra" 
ayil "mais rosa" 
calal "valle stretta"  
capana "patata tagliata a metà" 
carar "tuono; nuvola" 
carau "fianco" 
Caspana, nome di un villaggio (significa "Figlio del Burrone") 
coicinar, cattiva trascrizine di colcina(r)
colcoina, colcoinar "che rotoli"
cheresner "sorgente d'acqua" 
chusli "patata" 
Echar, nome di un monte (significa "sozzura")   
eya "quello" 
illauca, iyauca "erba che cresce sui monti dopo la pioggia"
isay "suo"  
islilla "clavicola" (glossa incerta)
islujlina, esluslina "che calpestino"
iyawe, yawe "dammi in abbondanza" 
kaper "mais giallo e tenero" 
katalur "signore" (non è da cata "foglia")  
katur "orto, terreno coltivato" (omofono di katur "cuoio") 
koiwai "patata screziata" 
kone "corona di piume di nandù"
Laus, nome di un monte 
leyer "lontano"
licau "donna" 
Lipis, la terra ancestrale degli Atacameños 
lulayne "che tuoni" 
monte "nuvole" (variante di molte "nuvola")
nace "nascere" (glossa incerta)* 
pachata "della Terra" (dal Quechua pacha "Terra") 
pani "figlio"  
pauma "pannocchia più piccola di una pianta di mais" 
pauna "bambino" 
puri "acqua" 
qui "molto" 
Quimal, nome di un monte  
sacta "che vada"
saflu "spiga di mais" 
saira "piovere" 
saire "pioggia"  
sairina "piogge, pioggerelle" 
sai "che stia; che diventi" 
saisa "che stia; che diventi" 
saque, sake "che vada" 
saque acta "che vada" (= sacta)
sayno "calpestate"
sima(i)nuna "uomo solitario"**  
sisa "che stia; che diventi" (= saisa
Sanantonio "Sant'Antonio" (patrono di Camar)
Solar, nome di un monte (significa "Macchia") 
Talu, nome di un lag
Tami, nome di un monte
tanti "chicco di mais"
tarar "bianco" 
tarar chusli "patata bianca" 
techaynita "una bevanda fermentata" (glossa incerta)
tucor "vicino" (omofono di tucur "gufo")
Tumi, nome di un monte (significa "Coltello di rame")
Wilti, nome di un monte (significa "Aquila")  
ya "il" (specie di articolo)
yai "carrubo" (la forma originaria è yali)
yale "specie di uccello nero" (glossa incerta) 
yentes "tipo di erba commenstibile" (glossa incerta)
yolasquita "cibo abbondante" (glossa incerta) 
yuyo "erba" (dal Quechua) 
 
*Prestito dallo spagnolo nacimiento "nascita".
**Nel testo raccolto a Socaire abbiamo invece semaino "si uniscano".
 
Questa versione del Talátur è stata riportata da Roberto Lehnert Santander nella sua raccolta di testi in Kunza. In qualche caso non sono d'accordo con le sue analisi, che possono anche essere molto grossolane. Questo è il link al suo lavoro: 

 
2) Il caso dell'Alabanza in chiapaneco 
La lingua chiapaneca, un tempo parlata nel Chiapas (Messico), è ascritta al gruppo Oto-Mangue, anche se un tempo era considerata isolata. Si pensava che l'ultimo parlante conosciuto si fosse spento negli anni '50 dello scorso secolo, ma in seguito si sono trovati acuni locutori e a data di estinzione è stata spostata al 2000 circa. Il linguista Lyle Campbell ha riportato che in un ambiente compattamente ispanofono erano rimasti solo due uomini in grado di recitare un testo in lingua nativa, chiamato Alabanza, che in spagnolo significa "lode". In occasione della festa del Corpus Domini veniva recitato, anche se chi pronunciava le parole non le comprendeva bene, anche se il pubblico non capiva nulla. Era una memoria tradizionale. Poi a un certo punto uno dei due recitatori morì e l'Alabanza non poté più essere proposta.   
 
Il testo dell'Alabanza in chiapaneco, che sono riuscito a recuperare a fatica, è lunghissimo. Per puro spirito di conoscenza mi limito a riportarne due piccole porzioni, estratte dalla tesi di Claudia Nayeli Rodríguez Pérez (Universidad de Ciencias y Artes de Chiapas). 
 
1) Cahlalau... 

Nyheme yatuhuá, yatuhuá
Simoña nyheme nanyhiñohimo
Tipacaaa nyheme nanyhipipa
Nyhemeca nanyhimbasia.
Cahi cate naatohmó icola,
Tehu nimbo ipa isapamemo,
Nurii isopememe moho ni
nacopaho
Cahiña itacame isitame
ipahome
Camo ndiché nio ngohoui
Moho naatohmó ni niticohui.
Tichelo sino nyheme
nanyhiñohimo
Nyhemeca nanyhimbasia
Ticheloimo sino nyheme
Ipahomihi yaa ipaohmimo
Cahi cateña ngohoi
Ta icopatipocame ngosei.
Tari mindamo nyhee nihña
Nyhila yacaaamoña.
Nyhee ni moña niposamo
Itacamihi ni nacopaho
nombomeo
Nyheme yatuhuá, yatuhuá.
Oahemihi nihi nila yaripo
Olehimoca cane nbanombubi
Nalahamo na ́mandi
Mahoo nyhilaimo ndoo
Pane ngao ipohotemehue
Camo ñumburee ni yacaamo
Ni nbouamo nyhila.
Nyhe yatuhuá, yahutuá.  

Traduzione in italiano: 

Il cervo celestiale... 

Signore nero, nero 
tu sei il signore della notte e 
anche il signore delle ombre e 
dei misteri. Così come il tempo
trascorre, 
le nuvole passano galleggiando,
gli uccelli volano nel cielo 
Così nessuno può tornare 
al suo luogo d'origine 
nel tempo passato. 
Solo tu signore della notte e 
signore dei misteri.
Solo tu signore 
torni di nuovo adesso 
così come se non fosse nulla  
o non fosse successo nulla,
sempre per te stesso.
Sentiero che è sacro, 
lo stesso tramite cui
ritornerai al cielo volando.
Signore nero, nero. 
Prendi la tua vera strada
E lasciati accompagnare dallo spirito del
cervo della foresta
Con la sua frusta di cuoio
Con colui che guida i giaguari sacri
che indicano la tua strada.

2) Chima chia apaame María...
 
Chiima chia apaame María,
Ñanyheme ni nayhiñoohimo,
Ni nahamo namadica.
Mañangonomeimi ni ñumburé
yacaamo.
Nárima te ipombotauahui
nouimo
Motoña ahlilé mañarindaimoca
Cateña tane ngohoi icopatilime
Sehe ni aricamé ñahtii
Seheca ni namboui chiima
Te ipocahiomo nio nbaña
nbotehmmi
Oparipame nihí nárima
mañarindaimo
Opombotauahuima nihi
nambami
Tarihmi, camo ndipochiaa
Camoca ni niyame,
Poca icopapaame naca
Napahmeca cate sino.
Ambi ipa noue ipaaca nouimo,
Posá tai icotala simo,
Copuapó camo ipaiohi,
Lohoiohi natacuse,
Nárima ca ni aricahmihi ñahtii,
Tatamo isheli sihmicame,
Tacopoho ipopoiohi
nbanasimahmi
Nihi nambami,
tarihmica
Ndipochiaam
niyameca,
Iporioime iteilepoca,
Shuhi ilopocca.
¡Nachimeilo chia apaame
María!,
Tasilo isitihmime noue
simocame.
 
Traduzione in italiano: 
 
Madre luna alta Maria...

Madre luna alta María
Signora della notte,
dei campi e delle montagne. 
Compagna del giaguaro sacro
la luce che a noi mandi
è cosi bianca e brillante,
come se una tale cosa
germoglierà dai tuoi begli occhi
e dal tuo cuore di madre
chi si prende cura dei suoi figli umili.
Spandi la tua luce brillante
e mandaci le tue bontà
a tutti noi, agli animali e alle piante,
perché crescano grandi e
forti come te.
Non andartene e non lasciarci
perché quando sei già
prossima ad andare,
ti fai piccola
e la luce dei tuoi bei occhi
ci raggiunge già
ecco perché finisce la forza 
delle tue bontà e tutti noi,
animali e piante,
nasciamo deboli, gracili e matti. 
Oh madre Luna alta Maria!
Quanto contiamo su di te. 


Questo testo, del tutto simile a quelli contenuti nell'Alabanza, è riportato nel manuale confessionalle in lingua chiapaneca di Fray Luis Barrientos e risale alla fine del XVII secolo:

Copanombubi ti iporicame
ambica ipaohme noho panyho.
Samoloña ndipahomo ni iporicame
mongao nyhinomosiho cane nbomohi,
moho nyhahacao nyhacumbuimoca.
Mane Copanombubi moña
moho ni tari naatohmó
ngarolica nbaatihá,
nitaneca ni ndishé icopangohome, camei tique… 
 
Traduzione in italiano: 

Il nostro Dio non cambia
né si fa altro.
È soltanto la gente che cambia 
col suo modo di pensare, 
nelle sue idee e nelle sue credenze. 
Ma il nostro Dio è se stesso 
in tutti i tempi  
e anche oltre,
e in qualunque luogo sia, è uno…  
 
Si noti la profondità teologica e l'originalità dei contenuti, molto diversi da ciò che ci si aspetta da un ecclesiastico. Nell'Alabanza sono presenti notevoli segni di elaborazione del Cristianesimo da parte di queste genti native, con diverse reminiscenze preispaniche (il Signore nero, i giaguari, etc.). Questi testi potrebbero essere la base di un tentativo di reimmissione della lingua chiapaneca nell'uso corrente.   
 
3) Il caso del Guanche di Tenerife  
A Güímar, cittadina nell'isola di Tenerife, tuttora si celebra ogni anno una sacra rappresentazione nella festività della Vergine della Candelaria. Questa recita consiste nella rievocazione dell'arrivo del Cristianesimo tra i Guanches, avvenuto novantacinque anni prima della conquista dell'isola da parte degli Spagnoli. Una datazione plausibile è compresa tra il 1392 e il 1401. Propendo per la seconda ipotesi: solo nel 1496, in seguito alla repressione di una rivolta, Tenerife passò in modo definitivo sotto il dominio della Corona di Spagna. Riporto la leggenda della Vergine della Candelaria, descritta da Fray Alonso de Espinosa (1594). Due pastori stavano cercando di rinchiudere nelle grotte il bestiame, che opponeva loro resistenza. Cercando di capire perché, notarono su una roccia la figura di una donna, proprio sullo sbocco del precipizio di Chimisay. Subito credettero di avere a che fare con un essere animato e furono invasi dal terrore. A causa di un tabù neolitico, gli uomini non potevano rivolgere la parola a una donna sola. Così i pastori cercarono di convincere a gesti la figura femminile a spostarsi per lasciar passare gli animali. Come uno degli uomini alzò un braccio, se lo ritrovò paralizzato. L'altro fu invaso dall'ira e cercò di sperrare una coltellata, ma fallì il colpo e fu invece ferito. I due fuggirono a Chinguaro, che era la sede del Mencey di Güímar, Acaymo, e gli riferirono gli eventi portentosi di cui erano stati testimoni. Il Mencey si recò sul luogo del prodigio con i suoi consiglieri. Nessuno di loro ebbe il coraggio di toccare la statua. L'incarico di spostarla fu dato ai due pastori, che guarirono all'istante come la toccarono e riuscirono a condurla fino a una grotta vicina alla reggia. Un giovane che era stato catturato dagli Spagnoli e battezzato, riuscendo poi a fuggire alla schiavitù e a fare ritorno nella sua terra natale, riconobbe nel simulacro l'immagine della Vergine Maria. Descrisse così al Mencey la religione che aveva ricevuto in Spagna e definì la Vergine Maria "Madre del Sostenitore del Cielo e della Terra". La statua fu trasferita nella grotta di Achbinico e fatta oggetto di culto.     
 
Non è ben chiaro quando la lingua Guanche di Tenerife sia scomparsa. È opinione comune nel mondo accademico che sia durata per circa un secolo dopo la conquista spagnola. Esiste però una testimonianza poco nota. Il nobile inglese Sir Edmond Scory trovò che la lingua Guanche era ancora in uso nella zona di Candelaria-Güímar nel 1626. Alcune frasi in Guanche sono pronunciate tuttora nel corso della festività della Vergine della Candelaria. Ecco il materiale raccolto: 

¡Uh! Magné Mastáy
Achen tumba Manéy
 
"Oh! Madre del Cielo! Madre della Terra!"

Axmayex Guayaxerax, Achoron Achaman o Chaxiraxi 
"Madre del Sostenitore del Cielo e della Terra" 

Questa preghiera è stata raccolta a Güímar e a Guía de Isora: 
 
Tanemir uhana gec Magec 
Enehana benijime harba 
Enaguapa acha abezan.
"Grazie, o poderoso Sole,
per far sorgere un giorno nuovo, 
per illuminare la notte."
 
Il testo è stato raccolto da Sita Chico, figlia di Don Domingo Chico, proprio a Güímar. Secondo alcune fonti, il testo è stato raccolto nel villaggio di Chirche, Guía de Isora, da un pastore di nome Pedro Hernández "Viterio", che era ancora in vita nel 2017. Secondo altre fonti ancora, il testo è stato raccolto nel villaggio di Chío, Guía de Isora, da un pastore di nome Don Francisco Chico. Credo che si tratti di tre attestazioni diverse. 

A partire da questi frammenti sono riuscito a ricostruire almeno in parte un antico testo preispanico, a cui ho potuto dare il nome di Tradizione di Güímar. Questo è il testo ricostruito, ottenuto saldando le precedenti testimonianze in un insieme coerente: 

¡Uh! Magné Mastáy
Achen tumba Manéy. 
Axmayex Guayaxerax, 
Achoron Achaman o Chaxiraxi.  
Tanemir uhana gec Magec 
Enehana benijime harba 
Enaguapa acha abezan.  
 
A un certo punto la religione delle genti di Tenerife è stata incorporata al culto mariano e alla tradizione cattolica importata dalla Castiglia. Anche se è noto il significato di queste frasi tuttora pronunciate, manca nei nativi di Tenerife la capacità di riconoscere le singole parole e di farne un'analisi accurata. Si tratta quindi di una recitazione formulaica. Purtroppo questi luminosi gioielli linguistici e antropologici non sono apprezzati dalle autorità accademiche della Spagna, che cercano con ogni mezzo di far scomparire ogni traccia del passato delle Canarie. Esistono pochi siti nel Web su questo argomento. Riporto quanto di meglio ho trovato, anche se sono scettico sull'analisi dei testi che viene proposta:    
 
 
 
 
Uno dei pochi vocaboli etimologizzati con certezza è tanemir, che corrisponde alla perfezione al berbero tanemmirt "grazie".
 
4) Il caso del Kaurna 
La lingua dei Kaurna, della famiglia Pama-Nyungan, era parlata in Australia meridionale, nel territorio noto come Adelaide Plains. L'ultimo parlante noto, un certo Ivaritji, è morto nel 1929. La lingua è sopravvissuta soltanto tramite i recitatori formulaici, che hanno preservato pochi semplici testi senza saperli analizzare. Col tempo la conoscenza della lingua è cresciuta tra i discendenti dei Kaurna e nuovi testi sono stati composti. Sembra un esperimento di rivitalizzazione linguistica che sta avendo buon esito. Ecco alcune parole e semplici frasi: 

nii "sì" 
yaku "no" 
ku "OK" 
wuintyi "forse" 
madlana "nessuno, niente"
marni "buono" 
muinmu "di più, ancora" 
ngana "chi?" 
ngaintya "che cosa?" 
nganaitya "perché?" 
wamina "che succede?" 
waa "dove" 
wanti "verso dove"
wathangku "da dove" 
tika! "siediti!" 
karribarri! "alzati!" 
parni kawai! "vieni qui!" 
nurnti padni! "vattene!"
ngai kuma "anch'io" 
wanti niina? "dove stai andando"
ngai kudnawardli-ana padninthi "sto andando al gabinetto" 
nala-alati ngadlu padninthi "quando andiamo?"

 
5) La lingua degli antichi Weyto  
Gli Weyto (Wohito, Woyto, Uoito, Wayto etc.) sono un piccolo gruppo etnico stanziato della regione del lago Tana in Etiopia. Fino agli anni '60 dello scorso secolo la loro occupazione tradizionale era la caccia agli ippopotami. Per via della loro alimentazione basata sulla carne di tali animali, gli Weyto erano considerati immondi e intoccabili dai loro vicini; sono trattati così ancora oggi, anche se la loro dieta è cambiata. Per questo alcuni definiscono gli Weyto una casta anziché un popolo. La loro lingua attuale è l'amarico, che appartiene al gruppo delle lingue semitiche; tuttavia esistono testimonianze sul fatto che un tempo parlassero una lingua del tutto dissimile, che non è possibile classificare a causa della scarsità di dati. Nel 1770 l'esploratore scozzese James Bruce, che conosceva l'amarico e il Ge'ez, passò nelle terre degli Weyto e scrisse che parlavano una lingua radicalmente dissimile da tutte quelle parlate in Abissinia. Non poté però raccogliere informazioni concrete, dal momento che i due uomini Weyto inviati a lui dal Re non erano molto collaborativi: rifiutavano di rispondere alle domande anche se minacciati di morte per impiccagione. Passò molto tempo e gli etnologi fecero cadere gli Weyto nel dimenticatoio. Nel 1907 Eugen Mittwoch, il fondatore degli studi islamici in Germania, giunse tra gli Weyto e poté constatare che l'unica lingua da loro conosciuta era l'amarico. Quando Marcel Griaule passò nella regione nel 1928, confermò quanto detto da Mittwoch. Un giorno un suo interlocutore si mise a cantare una canzone incomprensibile. Quando gli chiese cosa fosse, l'uomo gli rispose che era una canzone nell'antica lingua degli Weyto. Lui stesso non ne capiva il testo, a parte alcune parole indicanti parti del corpo dell'ippopotamo, che erano ancora in uso. Griaule aveva trovato un recitatore formulaico! Incapace di cogliere la fortuna che gli era capitata, Griaule non registrò il canto e neppure ne trascrisse le parole. Il dialetto amarico degli Weyto fu descritto da Marcel Cohen nel 1939, che ne analizzò il lessico. Vi trovò un gran numero di parole amariche distorte nella fonetica e nel significato, come se appartenessero a una specie di gergo. Notò un piccolo numero di parole kushitiche e molti prestiti arabi pertinenti alla religione islamica. Evidenziò sei parole nel lessico raccolto da Griaule, la cui origine era sconosciuta. Non ci sono dubbi sul fatto che siano resti dell'antica lingua degli Weyto. Sono queste:  
 
annessa "spalla" 
čəgəmbit "zanzara" 
ənkies "coscia di ippopotamo" 
qəntat "ala"  
šəlkərít "squama di pesce"
wazəməs "spina dorsale di ippopotamo" 
 
Chloé Darmon (2010) ne riporta qualche altra: 
 
ammabay "cinghia che lega il giogo alla barra di traino del
    rimorchio"  
gumámənna "tipo di pianta usata per nutrire i cavalli"
loča "giunco usato per fare i nodi"
qwambät "timone della barca"  
šangwa "prua della barca" 

Si sono dimostrati fallimentari i tentativi di classificare la lingua perduta a partire da questo vocabolario residuale. Qualcuno pensa che gli Weyto parlassero una lingua kushitica della famiglia Agaw, ma non sono riuscito a trovare nulla di convincente.
 
Nel 1965 ci fu la spedizione di Frederick Gamst, che poté constatare la totale assenza di parole di sostrato nell'amarico degli Weyto, nemmeno nel campo della caccia e della pesca. Nel 2010 Chloé Darmon testimonia di aver parlato con alcuni Weyto nel corso di un lavoro sul campo: le dissero che il loro popolo aveva sempre avuto come unica lingua madre l'amarico. L'Oblio era ormai totale. 
 

lunedì 28 dicembre 2020

LINGUA VIVA, LINGUA MORTA, LINGUA STORICA: ALCUNE RIFLESSIONI

Tutti pensano di sapere cos'è una lingua viva e cos'è una lingua morta o estinta. Tutti pensano di poter dare una chiara e netta definizione di questi concetti, a prima vista elementari. In realtà si può dimostrare che una simile sicurezza classificatoria è fallace. Infine giungo a una conclusione ben triste: nonostante tutti i miei sforzi, non mi è affatto facile dare una definizione scientifica accettabile da tutti su cosa sia davvero una lingua viva, una lingua morta o una lingua estinta. Mi rendo conto che questa affermazione può risultare sconcertante, o addirittura al limite della follia. Posso soltanto analizzare le insidie che questi argomenti irrimediabilmente comportano, mettendo a fuoco le incoerenze delle opinioni comuni in merito alla natura stessa del linguaggio. In ognuna di queste opinioni c'è senza dubbio del vero, ma purtroppo sfugge sempre qualcosa di essenziale. La trattazione è di una complessità incredibile e i paradossi che ne nascono sono innumerevoli.
 
Mi sono sempre attenuto a questo concetto: una lingua si definisce viva se c'è una trasmissione diretta, ossia se è insegnata dai genitori di una comunità ai propri figli. A parer mio questa trasmissione diretta avviene soprattutto per linea materna. Si incappa in una prima difficoltà concettuale. Se non esiste una comunità di parlanti, e una lingua è trasmessa in una famiglia senza che nessun altro la parli al di fuori di tale contesto, sarà una lingua moribonda, un fossile in grave pericolo di estinzione, sempre a rischio di subire l'irreparabile interruzione della catena di trasmissione. Funzionalmente non è più una lingua viva, anche se è ancora parlata. Quindi cosa dovremmo dire? Che una lingua in queste condizioni è viva e morta nello stesso tempo come il famoso gatto di Schrödinger?
 
Molti saranno scettici su quanto da me affermato, ritenendo invece che una lingua sia senza dubbio viva se ha parlanti, fossero anche un paio soltanto, indipendentemente dal modo in cui l'hanno appresa e dal contesto sociale in cui la utilizzano. Stando a questa idea, è sufficiente che qualcuno pronunci spontaneamente frasi in una lingua appresa sui libri per dire che quella è una lingua viva, che non può essere definita una lingua morta finché qualcuno la utilizza per comunicare. Riporterò alcuni esempi in grado di illustrare le mie perplessità in merito.  
 
Il fantasma della lingua Ainu 
 
Secondo gli antropologi Alexander Akulov (ricercatore indipendente, San Pietroburgo, Russia) e Tresi Nonno (ricercatore indipendente, Chiba, Giappone), un parlante di una lingua è definito come una persona capace di utilizzarla per produrre pronunce spontanee. Akulov, che è uno studioso della lingua e della cultura degli Ainu, dopo un estenuante lavoro sul campo nell'isola di Hokkaidō è riuscito a trovare soltanto due parlanti fluenti dell'idioma ancestrale, che tra l'altro lo avevano appreso da adulti. Per il resto c'erano soprattutto persone che conoscevano a memoria poche parole o frasi, in modo stereotipato, senza alcuna comprensione della grammatica e del vocabolario. Al pari dei pappagalli. Sono rimasto colpito dall'aneddoto della ragazza che sentendo parlare in Ainu si scusò di non conoscere abbastanza l'inglese da capire cosa veniva detto. Questo ha portato l'antropologo russo a maturare le sue amare convinzioni su cos'è una lingua viva e su cosa non lo è. Consiglio la lettura di questi due lavori: 

Akulov, Nonno, Contemporary condition and perspectives of Ainu language (2015)

 
Akulov, Actual problems of Ainu language revitalization (2017)

 
Stando alle evidenze fornite, possiamo dire che la lingua degli Ainu è funzionalmente morta, anche se è insegnata nelle università. Il suo insegnamento è infatti stereotipato e non serve al recupero. Ci sono persino i manga in Ainu, ma risulta evidente che non sono di alcuna utilità. 
 
Pronunce spontanee e mnemotecnica 
 
Parto dagli esempi forniti dallo stesso Akulov, colorendoli un po' e forse estremizzandoli, allo scopo di rendere meglio l'idea. Se qualcuno conosce a memoria le opere di Shakespeare, come l'Amleto e il Macbeth, ma non è in grado di dire o di scrivere null'altro in inglese, non può considerarsi in alcun modo un parlante della lingua inglese. Per contro, un bengalese che entra trafelato in un negozio di alimentari a Londra e dice "I MILK TWO!", sarebbe da considerarsi un parlante genuino dell'inglese, a dispetto delle severe difficoltà grammaticali della frase elementare da lui proferita. L'idea di Akulov-Nonno presuppone che un esercente londinese capirebbe la frase dell'uomo del Bangladesh, che potrebbe quindi riuscire ad ottenere quanto desidera. Su questo sono molto scettico. Se il bengalese in questione sa dire soltanto "I MILK TWO!" e niente altro, non può certo paragonarsi a chi conosce a menadito testi complessi di Shakespeare. Nell'immenso repertorio memorizzato si potrebbe infatti trovare qualche frase utile, applicabile nella pratica quotidiana: mi stupirei del contrario. Il nostro amico bengalese dovrebbe almeno conoscere un certo assortimento di parole del lessico alimentare di base, come bread "pane", butter "burro", cheese "formaggio", eggs "uova", etc. Se decidesse, con molta saggezza, di accantonare ogni eventuale tabù religioso, potrebbe trovare utili anche parole come sausage "salsiccia", ham "prosciutto", beer "birra", wine "vino", etc. Dovrebbe anche saper contare e non basterebbero i numerali da uno a dieci. A che gli servirebbe entrare in un negozio se non sapesse distinguere six "sei" da sixteen "sedici" e da sixty "sessanta"? Ora, il bengalese sarà aiutato dai negozianti londinesi soltanto perché è ormai comune per un anglosassone defecarsi in mano per il terrore di essere ritenuto "razzista". Un uomo del Bangladesh, avendo un aspetto peculiare che lo distingue all'istante da un inglese autoctono, sarà certo considerato un soggetto da aiutare, anche se pronuncia MILK come MEELKAH. Posso garantire che per un italiano o per un greco nella stessa situazione non ci sarebbe pietà né misericordia: non essendo "abbronzati", possono essere trattati come mucchi di stronzi sulla via. Non capisci i discorsi nell'inglese supersonico con le parole "mangiate"? Sono cazzi tuoi. 
 
Lingua gotica e lingua neogotica
 
Adesso veniamo al caso di uno studioso che sa produrre pronunce spontanee nella lingua gotica di Wulfila. Ad esempio, questo è il mio caso. Posso pronunciare proposizioni come queste: 
 
ik im manna freis "io sono un uomo libero",
ik im sa frumabaur þiudanis Austragutþiudos "io sono il figlio primogenito del Re degli Ostrogoti",
ik wiljau itan mims bairins jah drigkan midu
"voglio mangiare carne d'orso e bere idromele", etc. 
 
Stando ad Akulov-Nonno, senza dubbio dovrei essere considerato un parlante della lingua gotica di Wulfila. Se giungesse il vescovo Wulfila redivivo, mi capirebbe e io lo capirei a mia volta. Eppure nessuno sosterrà che la lingua dei Goti sia una lingua viva solo perché la so parlare con qualche grado di competenza. Tale lingua non è stata parlata per secoli, non è stata trasmessa all'interno di nuclei familiari e da lungo tempo non è nemmeno stata utilizzata per fini culturali o identitari. Adesso ci sono diversi amici svedesi, spagnoli, tedeschi e inglesi che la hanno appresa e la conoscono abbastanza bene da poterla parlare, pur con le indubbie difficoltà del suo adattamento al contesto del XXI secolo. Esiste Wikipedia in gotico (scritto in caratteri wulfiliani) e persino un blog in gotico (scritto in caratteri latini): Himma Daga
 
 
Eppure questo non cambia le cose. Evidentemente non siamo di fronte a una lingua viva. Nulla potrà mai obliterare lo spaventoso iato temporale che intercorre tra l'estinzione della lingua dei Goti e la riscoperta dei testi di Wulfila. Quindi il gotico di chi ha scritto quei testi e quello di chi li ha riscoperti sono da considerarsi due lingue appartenenti a due diverse trafile evolutive. La prima di queste trafile parte dalla più lontana preistoria e giunge a un punto morto, con l'estinzione della lingua parlata. La seconda di queste trafile è artificiale e parte secoli dopo la fine della prima, proprio dal rinvenimento delle sue tracce e dalla loro rielaborazione. 
  
Alla luce di ciò che abbiamo esposto, dobbiamo giungere alla desolante conclusione che le tesi di Akulov-Nonno siano poco fondate. La produzione di pronunce spontanee in una data lingua non è sufficiente a far sì che questa sia in automatico etichettabile come lingua viva. Procediamo con l'analisi di altri casi di un certo interesse. 
 
Primo Levi in Polonia
 
Primo Levi, che fu internato ad Auschwitz e quindi a Monowitz (Auschwitz III), nel febbraio del 1945 intraprese un lunghissimo viaggio a piedi che lo portò a Torino, seguendo un percorso molto tortuoso attraverso l'Ucraina, la Bielorussia e la Romania. Ricordo bene di aver letto che appena il campo di Auschwitz-Monowitz fu abbandonato all'arrivo dell'Armata Rossa, lo scrittore torinese si trovò in un paese a lui sconosciuto, la Polonia, di cui ignorava del tutto la lingua. La gente era ostile e lui non trovava aiuto né sostegno. All'improvviso gli venne in mente di parlare in latino a un sacerdote, che lo capì, lo portò in un refettorio e gli fece dare da mangiare. Per questo si convinse che il latino potesse essere una lingua viva e vitale, anche se era ben consapevole dell'effetto surreale del suo utilizzo per conversare sulle cose dei tempi moderni. Con queste parole Primo Levi ci ha descritto la sua esperienza nel romanzo autobiografico La tregua (1963):
 
"La mensa dei poveri era dunque dietro alla cattedrale: restava da stabilire quale, fra le molte belle e chiese di Cracovia, fosse la cattedrale. A chi chiedere, e come? Passava un prete: avrei chiesto al prete. Ora quel prete, giovane e di aspetto benigno, non intendeva né il francese né il tedesco; di conseguenza, per la prima e unica volta nella mia carriera postscolastica, trassi frutto dagli anni di studi classici intavolando in latino la più stravagante ed arruffata delle conversazioni. Dalla iniziale richiesta di informazioni («Pater optime, ubi est mensa pauperorum?») venimmo a parlare di tutto, dell’essere io ebreo, del Lager («castra»? Meglio Lager, purtroppo inteso da chiunque), dell'Italia, della inopportunità di parlare tedesco in pubblico (che avrei compreso poco dopo, per esperienza diretta), e di innumerevoli altre cose, a cui l'inusitata veste della lingua dava un curioso sapore di trapassato remoto."  
 
A dover esser franco, credo che una parola molto idonea per tradurre Lager esista in latino: carcer. Non riesco a capire perché a Levi sia venuta in mente la traduzione castra "accampamento", quasi letterale, ma non il concetto di "prigione", ontologicamente più verosimile.
 
Un anziano latinista in Russia 

In Quora, pessimo social più inutile dei peti di un mulo, mi sono imbattuto anni fa in un attempato utente con la nobile passione per la lingua latina. Non menziono il suo nominativo per questioni di riservatezza, visto che non vorrei recargli fastidio: il mio scopo è solo di conoscenza. Riporto alcune sue interessanti opinioni. Eccone una: 

"Anni fa, prima di studiare il russo, mi successe in un treno in Russia di usare il latino come lingua franca con dei russi che non parlavano inglese. Con sommo imbarazzo mio e di mia moglie, lo conoscevano meglio di noi. NON è una lingua morta." 
 
E ancora: 
 
"Non dicevo che il latino non è una ligua morta perchè occasionalmente lo ho usato come lingua franca. Dicevo che non è una lingua morta perché il Russia ho trovato persone che lo conoscevano meglio di me. Cioè è parte della cultura universale che definisce il bsagaglio (sic) della civiltà umana, ed è vivo perché ancora studiato e praticato, come parte viva della cultura." 

Non ho tardato a rispondere: 

"Come avete imparato il latino tu e tua moglie? Dai libri, dalle grammatiche, dai dizionari. Come hanno imparato il latino i russi in questione? Proprio allo stesso modo. Nessuno l’ha imparato dalla propria madre quand’era bambino, come prima lingua. Quindi È una lingua morta. Immaginiamo che un uomo abbia appreso il sumerico, vada in Israele e trovi quattro professori con cui discorrere in quella lingua. Non si potrà dire che per questo il sumerico sia una lingua viva. Questa è la realtà dei fatti, se poi si vuole fantasticare, si è liberissimi." 
 
E ancora: 
 
"Tecnicamente parlando, il latino è una lingua morta per il fatto incontestabile che nessuna madre lo usa per crescere i propri figli. Tuttavia una lingua morta non è affatto un mucchietto di polvere: può benissimo essere parlata in alcuni ambienti e continuare a dare prestiti a numerose lingue viventi. Il latino ecclesiastico nel Medioevo è stato una lingua franca che permetteva di comunicare su scala europea. Tuttora è usato in Vaticano (ci sono persino sportelli del bancomat con istruzioni in latino). Il sumerico fu parlato per secoli dagli scribi e dai sacerdoti, anche dopo che aveva smesso di essere usato nelle famiglie. Non solo: continuò a dare un fiume di prestiti all’accadico." 
 
Non sembra che le mie osservazioni abbiano sortito qualche effetto: l'anziano quorano si è chiuso nel suo ostile silenzio, senza dubbio tenendosi le sue idee. 
 
Comunità latinofone online  

Sempre in Quora, mi sono imbattuto in qualcosa di veramente mirabile. Questo ha scritto l'utente Luke Ranieri:
 
Essendo una persona che parla il latino correntemente, e trovandomi nell’ambiente di altri parlanti, vi posso dire che ci sono infatti delle madri (e padri) che insegnano ai loro figli a parlare il latino, anche se questi individui sono pochissimi. Ammettiamo che non c’è nessun paese dove si parla il latino; purtroppo il Vaticano quasi non lo usa, preferendo l’italiano (che è a me tanto caro quanto il latino). Invece ci siamo noi entusiasti del parlare del latino, che ci troviamo in grandi conferenze dove la sola lingua è quella antica romana, e ci incontriamo in quasi tutte le città maggiori dell’occidente, chiacchierando nei caffè e fra noi sulle strade. Possiamo contare più di trecento amici e conoscenze con coi parlo solo in latino. Visto che il latino compone una parte importante della mia vita quotidiana, vi posso assicurare che è vivissima. Ecco un esempio, un vlog ho fatto a Napoli, dove vedrete qualche persona che chiacchiera in latino:  
 
Vlog #1 GrecoLatinoVivo; Naples (Tours in Latin) / Neapolis (Peregrinationes Latine)  



La pronuncia è perfetta, sembra proprio quella che avrebbero usato Cicerone e Cesare. Mi complimento per lo sforzo, che ha qualcosa di incredibile. Certo, ci sono alcuni neologismi problematici, che nulla tolgono alla grandezza dei risultati. 

Certo, sono venuti a sapere che c'è un piccolo numero (nemmeno piccolissimo) di persone che insegnano ai figli il latino classico con un'ottima pronuncia. Mentre perdevo tempo a guardare video pornografici e a scribacchiare in questo blog, qualcuno si dava da fare ed è riuscito a fondare una vera e propria comunità latinofona. Tuttavia non credo affatto che queste persone insegnino il latino ai loro figli come prima lingua. Lo insegneranno a bambini che hanno già appreso alla perfezione l'italiano. Anche perché se in questa nazione qualcuno insegnasse come prima lingua ai figli qualcosa di diverso dall'italiano, prima o poi si manifesterebbe un esserino non proprio simpatico, chiamato "assistente sociale". Arriverebbe una Signorina Spinosetti, con un potere spropositato, che potrebbe addirittura decidere di sottrarre i pargoli alla patria potestas.

Nessuno potrà negare che la lingua dei latinofoni in questione sia una lingua parlata. Allo stesso modo, nulla potrà mai obliterare lo spaventoso iato temporale che intercorre tra l'estinzione della lingua di Cicerone e i suoi diversi revival occorsi in tempi moderni. Quindi il latino dei testi classici e quello di chi ha deciso di usarlo nella vita quotidiana sono da considerarsi due lingue appartenenti a due diverse trafile evolutive. La prima di queste trafile parte dalla più lontana preistoria e giunge alla separazione tra il latino aulico (sermo nobilis) e quello del popolo (sermo vulgaris). La seconda di queste trafile è artificiale e parte secoli dopo l'esaurimento della prima, proprio dallo studio dei suoi monumenti storici e dalla loro rielaborazione. Nemmeno l'uso pratico e quotidiano di una lingua come il latino può far sì che questa sia confusa con una lingua viva.

Il caso di Montaigne 
 
Riporto un caso assai singolare, quello del filosofo, scrittore, aforista e politico francese Michel Eyquem de Montaigne (1533 - 1592), una delle figure di maggior spicco del Rinascimento francese. La famiglia era di origine mercantile e marrana, sia da parte di padre che da parte di madre. Fu cresciuto da un precettore tedesco di nome Hortanus, un medico, che ebbe l'ordine di parlargli unicamente in latino. Anche gli altri membri della famiglia del bambino che ebbero contatto con lui gli si rivolgevano allo stesso modo, evitando di farsi scappare anche soltanto una parola in francese. Accadde così che a tredici anni Michel sapeva parlare solo il latino, ignorando persino l'esistenza di altre lingue e credendo che tutti naturalmente si esprimessero in latino. Quando fu inviato dal padre al collegio Guyenne a Bordeaux, poté finalmente apprendere il francese e il greco antico. Si pone la questione della pronuncia usata da Hortanus e da Montaigne nelle loro conversazioni in latino. Hortanus doveva essere stato educato nella pronuncia ecclesiastica tedesca, molto diversa da quella in vigore in Francia. Cosa aveva fatto? Aveva imposto al suo pupillo la propria pronuncia o si era adattato a quella usata nella nazione in cui si trovava? Nel primo caso, il giovane avrebbe avuto qualche difficoltà di comunicazione una volta giunto al collegio Guyenne. Non si trova la benché minima traccia di queste problematiche nelle fonti. Il mio sospetto è che possa trattarsi di una leggenda interamente fabbricata.
 
Villaggi sanscritofoni in India 
 
In India, nello Stato federato di Karnataka, ci sono i due villaggi di Mattur e Hosahalli. Si trovano nel distretto di Shimoga (Shivamogga), lungo il corso del fiume Tunga. Sono venuto a conoscenza della loro esistenza per una fortunata circostanza, quasi per serendipità nel vasto Web. Questi centri abitati del meridione del subcontinente indiano hanno una peculiarità di non poco conto: in essi il sanscrito è una lingua viva e tramandata di generazione in generazione. L'antica lingua vi è talmente coltivata che gli abitanti si considerano i suoi custodi. Bizzarramente, il Karnataka è un territorio la cui lingua maggioritaria è dravidica, mentre le lingue indoarie sono parlate da minoranze. La lingua più comune, il Kannada, è parlato dai due terzi della popolazione. La sanscritizzazione ha avuto origine agli inizi del XVI secolo, quando la comunità brahminica dei Sankethi, originaria del Kerala, si stabilì nei pressi di Shivamogga e ricevette dall'Imperatore Krishnadevaraya l'incarico di far prosperare la lingua vedica attraverso la fondazione di centri di apprendimento. L'augusto compito è stato portato avanti in modo scrupoloso nel corso dei secoli, ma con fortune alterne. Va infatti detto che nel 1980 la lingua quotidiana parlata a Mattur era ormai il Kannada. A un certo punto un sacerdote, Pejawar Mutt, diede un forte impulso alla restaurazione dell'uso corrente del sanscrito. La gente riuscì a sanscritizzarsi, questo è narrato, parlando la lingua vedica soltanto due ore ogni giorno per dieci giorni consecutivi. Oggi a Mattur e a Hosahalli tutti parlano in sanscrito, anche i bambini. Ecco alcune semplici frasi che tuttora risuonano in quei luoghi:
 
katham asti? "dove sei?" 
aham gacchami "io vado" 
tvam kutra gacchati? "dove vai?" 
aham vidyalayam gacchami "vado a scuola"
shubham bhavatu "possa accadermi il bene" 
aham jalam pibami "bevo l'acqua" 

In questo caso siamo di fronte a una lingua il cui uso è addirittura vibrante, pur essendo stata ripristinata in modo artificiale. Se dovessimo tracciare la linea evolutiva del sanscrito, vedremmo subito che presenta discontinuità ineliminabili. Nulla potrà mai obliterare lo spaventoso iato temporale che intercorre tra il contesto in cui furono scritti i testi vedici e la i tardivi progetti di sanscritizzazione. Quindi il sanscrito di chi ha scritto i testi vedici e quello di chi li insegna a Mattur e a Hosahalli sono da considerarsi due lingue appartenenti a due diverse trafile evolutive. La prima di queste trafile parte dalla più lontana preistoria e giunge a un punto morto, con la formazione delle lingue pracrite. La seconda di queste trafile è artificiale e parte secoli dopo la fine della prima, proprio dall'accurato studio delle sue tracce e dalla loro rielaborazione.
 
Il Nahuatl dei narcos 
 
Sono venuto a sapere che la nobilissima lingua Nahuatl, che fu parlata dagli Aztechi, ha acquisito una terribile fama in California, in Nuovo Messico e altrove perché tra i narcos molti l'hanno appresa e la usano come gergo segreto per non farsi capire dalla polizia. A quanto pare, non c'è stato apprendimento di una delle varietà di Nahuatl moderno tuttora parlate in Messico (spesso mutuamente incomprensibili), bensì di qualcosa che si avvicina abbastanza alla lingua classica - seppur in forma molto semplificata. Manca la lunghezza vocalica fonemica, mancano le architetture grammaticali tipiche del linguaggio fiorito azteco (ad esempio i complicatissimi verbi onorifici, etc.), con l'eccezione di poche forme fossilizzate; si ravvisano molti calchi semantici e sintattici dall'inglese, dallo spagnolo e via discorrendo. 
 
"Tlen ajko ika inon siuatl?", tradotto in inglese con "What's up with this woman?" 
 
Dubito che il glorioso Imperatore Ahuitzotl avrebbe detto qualcosa del genere. Chiaramente tlen ajko (per tlen ahco) è una traduzione letterale dell'inglese what's up, quindi un calco. Si noterà che per molti macellai di questo tipo, la frase avrebbe funzionato benissimo se enunciata come "Tlen ajko ika inon pitsotl", essendo le parole siuatl "donna" e pitsotl "maiale" quasi intercambiabili. In particolare pitsotl ha anche il senso di "poliziotto, sbirro". Il plurale è pitsomej "poliziotti, sbirri". Il significato di siuatl, usato per rivolgersi un uomo, coincide poi con quello di kuiloni "omosessuale passivo". Nota: il Nahuatl non possiede genere grammaticale, neppure nei pronomi di terza persona, eppure la società azteca era tutt'altro che "tollerante", "aperta" e "inclusiva". Non era la famosa società sciolta di Baumann. Ecco un elenco di parole, in cui si possono notare diversi adattamenti ai tempi moderni: 
 
achautli "capo della gang"  
auilnema "copula"
ilui "giorni" 
kali "cella" (lett. "casa") 
kapuli "scuola" 
kimichimi "spia, informatore" (lett. "ratto") 
kuilonyotl "detenuto in schiavitù sessuale"
    (lett. "sodomia")
malinali "marihuana" (lett. "erba")
mixpatsinko "saluti"
momo "la tua mano" 
pili "signore"  
tlilipol "neri"
vei "grande"
vel "buono" 
yakatl "punta" (lett. "naso")
yuali "notte"  
 
Si nota che kimichimi "spia, informatore" è un calco dell'inglese rat, che ha lo stesso significato nel gergo carcerario statunitense (Nahuatl classico quimichin /ki'mitʃin/ "topo"). Invece vediamo che kuilonyotl è tradotto con "punk", che nel gergo carcerario statunitense significa "detenuto in schiavitù sessuale": in questo caso la parola Nahuatl è indipendente da quella inglese. Non essendo specificata l'accezione della glossa punk, si corre il rischio di fraintendere e di credere che kuilonyotl designi un tale con la pettinatura a cresta e gli orecchini nel naso! Si notano sviluppi fonetici peculiari, come la vocale posteriore -o da una più antica vocale centrale lunga finale di parla. Esempio: momo "la tua mano", da Nahuatl classico momā. Riporto un paio di link per approfondimenti:     



I parlanti di questo Nahuatl si definiscono Chicanos e non hanno necessariamente contatti con gli Indios, che sono i parlanti delle varietà moderne di Nahuatl giunte per naturale evoluzione ininterrotta dal Messico precolombiano, seppur soggette a forte inflenza dello spagnolo. Questo genera un paradosso sorprendente: la nascita di nuove comunità di utenti di una forma di Nahuatl, che non si considerano indigene e che potrebbero persino mantenere un atteggiamento di disprezzo nei confronti degli Indios. 

Il movimento Anahuac
e il partito Mexicayotl

Esistono in Messico movimenti ultranazionalisti che predicano la restaurazione della lingua Nahuatl imperiale e della religione azteca. Rodolfo Nieva fondò nel 1960 il Movimiento Confederado Restaurador de la Cultura del Anáhuac (Movimento Confederato Restauratore della Cultura dell'Anahuac), realizzando una serie di rituali e cerimonie civico-religiose in cui i sacerdoti rivendicavano il potere di comunicare con i propri Antenati. Qualche anno più tardi, nel 1965, sorse il partito Mexicayotl, anche noto come Partido de la Mexicanidad (Partito della Messicanità), che riprende le finalità principali del movimento di Nieva.  

Obiettivi del partito Mexicayotl:

1) Far rivivere la razza messicana, che consiste di: 
  a) messicani nativi puri,
  b) messicani di sangue misto 
  c) tutti coloro che vivono nel Paese.
2) Stabilire la filosofia messicana (come base di interpretazione del mondo). La sua principale funzione deve essere l'eliminazione della corruzione nel Paese. 
3) Ristrutturare la Nazione. 
  a) Tutti i messicani devono godere di sufficiente assistenza sociale.
  b) Solo la gente messicana deve controllare le funzioni del potere pubblico.  
4) In sintesi: il partito intende portare avanti la sua alta missione culturale assegnatagli dal Destino. 
 
Inoltre: 
 
I) Accettazione del Nahuatl come lingua nazionale 
II) Rivitalizzazione della filosofia Nahuatl come fondamento della vita nazionale 
III) Accettazione e messa in pratica del calpulli comunale come struttura economica del Paese.   
 
Nel 1993 fu fondato a Los Angeles il Mexica-Movement, anche noto come Mexica-Mexicaolin o CMMEC (Chicano Mexicano Mexica Empowerment Committee), che continua negli Stati Uniti gli obiettivi del Movimiento Confederado Restaurador de la Cultura del Anáhuac. I suoi membri studiano il Nahuatl, danno ai loro figli nomi Nahuatl e adottano cerimonie di origine preispanica. Il punto dolente è l'impossibilità di restaurare i sacrifici umani e la credenza che al sangue delle vittime si debba il moto del Sole. Per maggiori dettagli rimando a questo link: 
 

Il concetto di lingua storica 
 
A questo punto possiamo formulare una definizione di lingua storica
 
1) non è insegnata in famiglia dalle madri ai figli come prima lingua;  
2) non è la lingua ufficiale di nessuna nazione del nostro tempo; 
3) ha una grande importanza culturale e storica; 
4) è appresa tramite studio, ad esempio a scuola; 
5) ha una pronuncia convenzionale, che non è necessariamente autentica, la cui tradizione è scolastica;  
6) in alcune particolari circostanze può essere usata come mezzo di comunicazione.
 
Questi sono i corollari che ne discendono: 
 
I) una lingua storica è una lingua morta ma non dimenticata; 
II) una lingua storica, pur morta, può avere manifestazioni di lingua parlata, quindi vivente; 
III) una lingua storica ha di conseguenza una natura paradossale. 

Una lingua storica appartiene quindi a una categoria diversa e separata da quelle delle lingue vive e delle lingue morte o estinte.
Una lingua storica non è una lingua appartenente a una linea evolutiva naturale. Se tuttavia si riesce a fondare una comunità stabile e duratura di parlanti, dalla lingua storica rivitalizzata ha origine una nuova linea evolutiva naturale (ben distinta da quella vecchia).

Oltre alla comunità latinofona partenopea, possiamo considerare il caso della lingua neoebraica ufficiale in Israele, che è molto particolare: dalla lingua storica (ebraico biblico, ebraico mishnaico, etc.) è derivata una lingua fatta per essere parlata diffusamente e usata come lingua ufficiale. Possiamo dire quindi che il neoebraico di Israele, nato da una lingua storica, sia diventato a tutti gli effetti una lingua viva. Quello che mi preme di sottolineare, è che non si è trattato di una vera resurrezione linguistica, ma della costruzione di una lingua nuova.  

C'è infine un ultimo corollario, che a mio avviso è anche il più importante:
 
IV) Una lingua storica è sempre una costruzione ideologica.