martedì 13 luglio 2021

ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL RADDOPPIAMENTO SINTATTICO

Su Quora, social network deprecabile quanto deleterio, è comparsa tempo fa questa domanda: 
 
 
"Ho fatto" si pronuncia con un raddoppiamento fonosintattico (ho ffatto)? 

Questa è la risposta del conlanger Alessandro: 

Sì.

Ora so che tutti ti diranno il contrario. Il raddoppiamento fonosintattico non viene notato nemmeno da chi lo usa. Non esiste in molte regioni italiane. Non viene scritto e quindi quando viene notato è subito bollato come errato, anche perché come regola non è intuitiva.

Innanzitutto: il raddoppiamento fonosintattico è la regola per cui le parole tronche (e altre) fanno raddoppiare la consonante iniziale della parola successiva.

Si utilizza anche in italiano standard. Non è un difetto regionale.

E dato che “ho” è monosillabico e tonico, conta come parola tronca. Dunque la parola successiva raddoppia la propria consonante iniziale: quindi, “ho ffatto”.

 
Così ho replicato, usando il mio vero nome, Marco Moretti: 
 
Qui in Lombardia il raddoppiamento fonosintattico non si usa. Non solo: viene percepito come un difetto regionale. Rimane allo stato fossile soltanto in parole come “ovvero”, “eccome” e via discorrendo. L’italiano lombardo si è ormai separato dal toscano e nella competizione linguistica ha acquisito un maggior prestigio (es. anche Pippo Baudo lo usa e non ha mai detto “avvolte hoffatto”). Le lingue cambiano. Nuove varietà si evolvono e lottano tra loro. Alcune prevalgono, altre avvizziscono e infine muoiono. Le accademie, che venerano la lettera scritta e trascurano la lingua viva, non sono in grado di normare la fonetica, limitandosi all’ortografia, alla grammatica e al lessico. Non comprendono che le lingue si trasformano in continuazione. Quando si accorgono di qualcosa, è già troppo tardi. 
 
L'utente ha risposto così al mio intervento: 

Secondo me dovresti ascoltarti meglio: se non senti il raddoppio fonosintattico stai certamente staccando le parole [ˈɔ: ˈfatto]; a Milano [ɔˈffatto] non suona affatto innaturale, purché il raddoppio della f sia debole tanto quello della t. 

Pensava di avere a che fare con un parlante inconsapevole, incapace persino di distinguere i suoni. Così ho ribattuto: 

Negativo. So benissimo come pronuncio le parole: [ɔˈfatto] con [f] come in bifolco e non con [ff] come in affetto, e senza staccare le parole. Così se dico “porta la ciotola a Fido”, il nome Fido ha [f] come bifolco e non si confonde con affido. Come me fanno milioni di Lombardi. Chi usa il raddoppiamento fonosintattico viene riconosciuto subito ed è percepito come bizzarro. Un mio collega, ad esempio, lo usa, e si sente. Dice “porta la ciotola affido”, “avvolte hoffatto”, etc. Tutto ciò può piacere o non piacere, me ne rendo conto, ma i dati di fatto non cambiano. 
 
Aggiungo anche che il "raddoppio della t" di ho fatto non è "debole". Il raddoppio in questione è in piena regola. 
 
Questi sono alcuni altri esempi di contrasti o coppie minime nell'italiano settentrionale: 
 
ha colto è diverso da accolto
ha detto è diverso da addetto 
ha fatto è diverso da affatto 
ha posto è diverso da apposto 
a posto è diverso da apposto 
a Dio è diverso da addio  
a letto è diverso da alletto 
a mettere è diverso da ammettere 
o fendere è diverso da offendere 
 
Esiste anche un interressante doppione: 
 
O Dio! è sentito come diverso da oddio!, pur avendo lo stesso significato
 
Eppure capita che i fautori fanatici del raddoppiamento sintattico, che lo vorrebbero imporre come normativo, ignorino tutte queste evidenze tratte dalla lingua viva usata in Lombardia e altrove. Poi si manifestano navigatori che non comprendono la questione e attribuiscono il problema a una pretesa difficoltà nella pronuncia delle consonanti doppie. In genuino toscano si direbbe che sono bischeri. Bisogna però capire la pervasività del condizionamento scolastico e della tradizione popolare. Quello che voglio far presente è che non siamo di fronte a una difficoltà di pronuncia delle consonanti doppie. Come ho esposto sopra, in "ho fatto" e in "ha fatto", la consonante -tt- è regolarmente doppia anche nell'italiano lombardo, proprio come in quello toscano. Nessuno pronuncia un fantomatico *fato anziché fatto: è assurdo quanto grottesco anche solo pensare una cosa del genere. 
 
Come già ho accennato sopra in un  io intervento, in Lombardia si pronunciano correttamente con la consonante doppia moltissime parole derivate dal raddoppiamento sintattico e fossilizzate. Ne riporto pochissime a titolo di esempio: 
 
ovvero
davvero
nevvero 
neppure  
oppure 
ossia 
chicchessia
dapprima 
siccome 
siffatto 
suvvia 
evviva 
cosiddetto  
 
Interessante è la testimonianza del pugliese Antonio Natile, che riporta un fatto di grande importanza: 

Non so perché ma nel mio dialetto pugliese diciamo “ efatt, afatt, ofatt" per dire “ho fatto, hai fatto, ha fatto”, però quando parliamo italiano tutti dicono “offatto, affatto". Nel dialetto raddoppiamo solo dopo alcuni monosillabi, cioè “è, e, a, più e il che complemento oggetto” e dopo “qualche” e “ogni”; non raddoppiamo neanche dopo le parole che finiscono con la vocale accentata, tipo: perchè, libertà ecc… Eppure quando parliamo italiano imitiamo grossomodo i raddoppiamenti standard, aggiungendo però i nostri, come le b e le g ad inizio parola, oppure raddoppiando la prima consonante di parole come “merda, robe, qua, , più”. 
 
Come si vede, la situazione non è così uniforme come molti vorrebbero. Questi dettaglio sono poco studiati o non lo sono affatto. Eppure meriterebbero maggiore approfondimento. 
 
L'origine del raddoppiamento sintattico 
 
Qual è la vera origine del raddoppiamento sintattico? Un'opinione comune è che risalga al latino. Alcune parole monosillabiche (preposizioni, pronomi, numerali) che finivano in consonante, avrebbero mantenuto causato il raddoppiamento della consonante iniziale della parola seguente. L'utente Josef G. Mitterer, che ha notevoli competenze linguistiche, spiega in dettaglio questa evoluzione fonetica. A pubblica edificazione riporto in questa sede l'intervento:  
 
 
Il raddoppiamento fonosintattico (o geminazione fonosintattica) è, per così dire, "l'eco" delle consonanti finali latine che nello sviluppo verso l'italiano sono scomparse. È il caso, ad esempio, nelle parole

    AD > a
    AUT > o
    ET > e
    PLUS > più
    (EC)CU HOC > ciò
    TRES > tre
    ecc.

La scomparsa di queste consonanti finali ha causato l'allungamento della consonante successiva: AD CASA >
a [kk]asa, AUT MELIU > o [mm]eglio, TRES LIBRI > tre [ll]ibri ecc. Si tratta, dunque di un allungamento compensativo che restituisce la quantità dei suoni in questione. Che dalla scomparsa di un suono risulti l'allungamento di un suono adiacente non è certo un processo particolarmente raro, anche se, almeno nelle lingue indoeuropee, è più frequente l'allungamento compensativo delle vocali, cf., ad esempio dĭsmittere > dīmittere in latino o la cosiddetta 'i lunga' (langes i) tedesca nella cui grafia ⟨ie⟩ si rispecchia ancora il vecchio dittongo /iɛ̯/ che è passato alla vocale scempia, ma, appunto, lunga /iː/. 

La geminazione fonosintattica è simile all'assimilazione totale, il cui risultato è la sostituzione di due consonanti brevi con una consonante lunga: FACTU > fatto, DIXI (= DICSI) > dissi o anche, già in latino, *ad-capere > accipere, *sterla > stella ecc.

In italiano la geminazione fonosintattica non è solitamente rappresentata nella grafia. Se, tuttavia, una delle parole che la causano si è fusa con un'altra parola iniziante per vocale, il fenomeno è afferrabile pure nella scrittura: AUT PURE >
oppure, PLUS TOSTU > piuttosto, (IL)LAC DE UBI > laddove ecc.

È del resto interessante che la geminazione fonosintattica è tuttora
distintiva. In italiano, l'unico esempio che mi viene in mente è la coppia minima a Roma /arroma/ vs. aroma /aroma/. Sono molto più rilevanti gli esempi in napoletano, specie nel "neutro di materia" la cui geminazione risale alla /-d/ finale nel dimostrativo neutro latino ILLUD > o, opposto a ILLU > o: ILLUD FERRU > o ffierro 'ferro (in contesto generico), ILLU FERRU > o ferro 'il ferro (concreto, presente)'.
 
I romanisti non si sono realmente occupati dei dettagli dell'evoluzione delle forme verbali dal latino volgare alle lingue romanze. Faccio un esperimento e provo a ricostruire alcuni di questi passaggi, perduti quanto negletti dagli studiosi.  
 
habes "tu hai" > *habs (1) > hai
habet "egli ha" > *hapt > ha
facis "tu fai" > *fax > fai 
facit "egli fa" > *fact > fa
potes "tu puoi" > *pos > puoi
potest "egli può" > *post (2) > può
sapis "tu sai" > *saps > sai
sapit "egli sa" > *sapt > sa 
vadis "tu vai" > *vas > vai
vadit "egli va" > *vat > va
*vols "tu vuoi" (sostituisce il classico vis) > vuoi   
*volt "egli vuole" (sostituisce il classico vult) > vuole  
 
(1) La h- del verbo habere è puramente grafica. La indichiamo soltanto per motivi storici. 
(2) La forma italiana antica puote è invece regolarmente da potest
 
Sono incline a cercare di ricostruire forme dirette e plausibili per le parole concretamente usate nella lingua italiana. Mi rendo conto di pooter essere scambiato per un costruttore di arzigogoli.   

*habnunt "hanno" > hanno 
facere "fare" > *facre > fare 
*facnunt > fanno
dicere "dire" > *dicre > dire  

Queste sono alcune brevi frasi ricostruite: 
 
*hapt dictu > ha ddetto 
*hapt factu > ha ffatto 
quid dicit? > che ddice? 
*quid fax? > che ffai? 
*quid fact? > che ffa? 
 
In alcune varietà di toscano e in napoletano avviene questo sviluppo: 
 
quid est? > chedè? 
 
Nel Web c'è gente che prova un sincero orrore per questa locuzione vernacolare, che a voler ben vedere è più autentica dell'italiano "cos'è?", risalendo in modo diretto al latino volgare - anche se in italiano standard non la si può usare altrimenti la Crusca si arrabbia. 
 
Dante Alighieri ci riporta nel De vulgari eloquentia il caso di una frase comune della parlata romana della sua epoca: 
 
Messure, quinto dici? "signore, cosa dici?" 
 
quid tu dicis? > *quittu dici? > quinto dici?   

Si tratta di una dissimilazione, in cui la consonante raddoppiata -tt-, venutasi a creare per motivi sintattici, viene mutata in -nt-. Mi pare che questo caso sia una reazione al raddoppiamento sintattico e che non sia stato studiato praticamente da nessuno.  
 
Il raddoppiamento sintattico che occorre dopo ogni potrebbe spiegarsi facilmente: 
 
Omnes Sancti > Ognissanti  

A questo punto tutto sembrerebbe filare liscio. 
 
Alcuni problemi di non poco conto
 
Esistono numerosi casi in cui il raddoppiamento sintattico non può essere giustificato dall'assimilazione di un'antica consonante finale di parola alla consonante iniziale della parola seguente. 
 
1) Forme verbali monosillabiche di prima persona singolare 
Consideriamo questi semplici casi: 
 
*habeo "io ho" > *habjo > *hajo > *hao, ao > ho
*sapio "io so" > *sabjo > *sajo > sao > so
 
La forma sao è realmente attestata in uno dei primi documenti in una lingua romanza, i Placiti Cassinesi, in cui ricorre tre volte, in due testimonianzze registrate nel marzo del 960 e in una testimonianza registrata nell'ottobre del 963. Eccole:  
 
1) Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.
(Capua, marzo 960)

2) Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro, que ki contene, et trenta anni le possette.
(Sessa, marzo 960)

3) Sao cco kelle terre, per kelle fini que tebe mostrai, trenta anni le possette parte sancte Marie.
(Teano, ottobre 963)

Si nota subito il raddoppiamento sintattico: sao cco "so che". Eppure non ci dovrebbe essere. Si possono avere nel mondo romanzo anche esiti diversi di habeo e di sapio, in cui la consonante labiale seguita da approssimante palatale si è evoluta in un'affricata: in napoletano abbiamo aggio "io ho" e saccio "io so". Non si ha alcuna consonante finale in nessuno di questi casi di prime persone singolari monosillabiche del presente indicativo. Eppure esse producono il raddoppiamento sintattico. Come mai? I romanisti pensano che si tratti di esiti dovuti all'analogia con la terza persona singolare. 
 
2) Il pronome  di seconda persona singolare 
Il pronome tu dà luogo a raddoppiamento sintattico, eppure non ha mai avuto una consonante finale. Per rendere conto della spiegazione dei romanisti, dovremmo ammettere che esistono due possibilità: 
i) L'analogia con altri monosillabi;
ii) Il fatto che tu nell'italiano potrebbe derivare da forme più complesse, come tumet o tupte "tu stesso": 
 
tumet > *tumt > tu
tupte > *tupt > tu
tupte facis > *tupt fax > tu ffai 
tupte sapis > *tupt saps > tu ssai  
 
Queste protoforme romanze sono talmente contorte che difficilmente le si potrà ritenere sensate.  
 
3) I prefissi intra-, contra-, sovra- / sopra- 
Esistono in italiano numerose formazioni in cui non esiste alcuna consonante latente che possa giustificare il raddoppiamento. 
 
intrattenere 
intrattenitrice 
contraddire 
contraddetto 
contraddittorio 
contrapporre 
contrapposto
contrapposizione 
contravveleno 
contravvenire 
contravvenzione 
sopraggiungere 
soprattutto
sovrannaturale / soprannaturale 
sovrapporre 
sovrapposto 
sovrapposizione  
 
4) Alcuni prestiti esotici 
La parola caffè genera raddoppiamento sintattico nel composto caffellatte. Si è arrivati al punto che in Lombardia bisogna scrivere caffellatte altrimenti la Crusca si arrabbia, anche se si pronuncia a tutti gli effetti caffelatte. Ebbene, caffè deriva dall'arabo qahwa, che non ha alcuna consonante finale. In un racconto fantasy di Fritz Leiber, La maledizione delle piccole cose e delle stelle (The Curse of the Smalls and the Stars, 1988), il caffè è chiamato kahved. Notevole la consonante finale, che però non ha alcun fondamento etimologico. In italiano si è formato un diminutivo cafferino, segno che è diffusa la credenza popolare in una derivazione di caffè da una fantomatica protoforma *caffèr. Anche il derivato caffettiera sembra essere dovuto alla credenza popolare in una derivazione di caffè da una fantomatica protoforma *caffèt. Probabilmente esistono anche altre parole entrate in italiano in epoca non troppo remota, che generano un raddoppiamento sintattico senza una valida giustificazione. 
 
Una soluzione alternativa 
 
Sono dell'idea che la teoria delle consonanti latine latenti potrebbe non essere una spiegazione completa e definitiva del raddoppiamento sintattico. Forse sarebbe più semplice una spiegazione fonologica, che riduce tutto a un fenomeno compensativo: 
 
sillaba tonica + consonante semplice seguente => 
sillaba atona + consonante raddoppiata 
 
Del resto, se i romanisti attribuiscono all'azione dell'analogia qualsiasi cosa che depone contro la loro teoria, non si può dire molto di sensato. Proviamo ad applicare il Rasoio di Occam, tanto caro ai fautori del riduzionismo! Sarebbe cancellata ogni macchinazione romanistica. All'istante. Il filosofo Karl Popper direbbe che le teorie dei romanisti non sono falsificabili, quindi nessuno ne potrebbe mai dimostrare la veridicità. Va anche detto questo: se si nomina Popper, tutti dicono che è una specie di liquido volatile venduto dai pusher, che è annusato soprattutto dai sodomiti passivi! Detto questo, parlerò sempre in italiano lombardo, come mi hanno insegnato i miei genitori (RIP), respingendo con sdegno e orgoglio il raddoppiamento sintattico! Gli accademici fautori della lingua normativa possono anche tenersi un sacchetto di merda.

sabato 10 luglio 2021

I MAESTRI ANTELAMI E L'ETIMOLOGIA DEL TOPONIMO INTELVI

Oltre ai Maestri Comacini esistevano nel Medioevo anche altre corporazioni originarie della Diocesi di Como, come i Maestri Antelami (in latino Magistri Antelami, al singolare magister Antelami), detti anche Antelamici e Mestri Intelvesi, originari della Val d'Intelvi, che furono attivi a partire dal X secolo e molto presenti a Genova. La loro menzione più antica negli atti notarili della città ligure risale al 1157. Tuttavia già nel 929 si ha la menzione di carpentieri intelvesi, in un diploma rilasciato dal Re Ugo in favore del monastero di San Pietro in Ciel d'Oro di Pavia. Ancora nel 1457 in un atto notarile si trova l'artista Giovanni Gagini definito "magister Antelami et intaliator marmoriorum". Questi artisti vivevano praticando costumi loro propri, diversi da quelli del volgo che abitava le terre in cui si trovavano. Esiste infatti una locuzione caratteristica e ben attestata nei documenti: "secundum morem et consuetudinem terre Antelami". Nelle fonti storiche si rileva una certa confusione tra i Magistri Antelami e i Comacini, cosa che non cessa di creare problemi non soltanto tra il pubblico, ma anche tra gli stessi studiosi (Lazzati, 2008).        
 
Un relitto celtico 
 
Si comprende subito che gli Antelamici derivano il loro nome dal toponimo Antelamus, che corrisponde alla forma moderna Intelvi. La Val d'Intelvi è una zona montuosa situata tra il Lago di Como e il Lago di Lugano, con cui questi artisti hanno sempre continuato a mantenere stretti contatti, pur lavorando in terre molto lontane. Si vede che la forma Intelvi non può essere derivata da Antelamus secondo gli sviluppi tipici delle lingue romanze: la sua evoluzione fonetica diventa invece facile a capirsi ammettendo la lenizione di /m/ intervocalica in /v/ tipica delle lingue celtiche. 
 
Antelamus > *Antelavus > *Intèlav > Intelv, Intelvi  
 
Si comprende anche che il toponimo Antemamus / Intelvi deve essere collegato etimologicamente all'idronimo Telo. Il Telo è un torrente che nasce poco sotto la Cima Orimento e che scorre in Val d'Intelvi; nel suo corso raccoglie le acque di diversi altri torrenti. Sfocia nel Lago di Como ad Argegno, creando un conoide alluvionale. Lo stesso nome Telo si applica anche a un diverso torrente che nasce vicino a Scaria e sfocia nel Lago di Lugano ad Osteno. Per questo motivo è chiamato Telo di Osteno (Fonte: Wikipedia). 
 
 
Si risale a un idronimo protoceltico *Telamos, da cui, tramite il ben noto prefisso celtico ambi- "intorno", comunissimo in gallico (imparentato col latino am-, amb(i)- e col greco amphi-), deriva il toponimo *Ambi-telamos "Che sta intorno al Telamo". Proprio da questo *Ambitelamos è derivato Antelamus. L'evoluzione di *Telamos, attestato come Telamo, fino alla forma attuale Telo, è avvenuta tramite la lenizione della nasale /m/ intervocalica nella fricativa /v/, poi scomparsa, a differenza di quanto è avvenuto nella trafila che ha portato Antelamus a divenire Intelvi. Alla luce di queste evidenze, dobbiamo supporre che nella zona della Valle d'Intelvi sia sopravvissuta fino a un'epoca sorprendentemente tarda una forma di lingua neoceltica, di cui putroppo non ci sono rimasti testi scritti.  
 
Il professor Guido Borghi si è occupato del toponimo Intelvi nel suo lavoro Continuità Celtica della Toponomastica Indoeuropea del Bacino Lariano (2012), consultabile liberamente su Academia.edu. Questo è il link:
 
 
Riporto in questa sede, per finilità di conoscenza, quanto scrive l'autore nella sua peculiare ortografia, suggestiva man ben poco pratica (pagina 119): 
 
• Val d’Intelvi, 736 Antelavo, 712 Telamo < gallico *Tĕlămŏ- (cfr. l’idronimo svizzero romando Tièle / alemannico Zil; composto (le) Toulon) ÷ *Ămbĭ-tĕlău̯ī „(abitanti) intorno al Telo“ < celtico *Tĕlămŏ-  ÷ *Ămbĭ-tĕlău̯ŏi̯ <= *Ămbĭ-tĕlău̯ūs < indoeuropeo *Tĕlămŏ-  ÷ *Ămbɦĭ-tĕlăṷȭs < *(S)tĕlh2(/4)-(ĕ)mŏ- / *Tĕlh2(/4)-(ĕ)mŏ- „(fiume) che scorre / bovino“ (cfr. greco στάλαγμα "goccia" / lituano tẽlias "vitello") → *H2ănt·bɦĭ-tĕlh2(/4)-(ĕ)u̯ŏ-h1ĕs  

Molti dettagli lasciano il tempo che trovano, ad esempio le laringali delle audaci ricostruzioni di composti che potrebbero essere sorti in epoca ben più tarda di quella in cui la protolingua indoeuropea era parlata. Tuttavia nel testo sono contenute informazioni estremamente interessanti. 
 
Pokorny ha ricostruito la radice protoindoeuropea *(s)tel- "far scorrere, orinare", che corrisponde perfettamente alla radice *(s)telh2(/4)- "far scorrere" riportata dal Borghi. Sono convinto che sia questo il raffronto giusto. Oltre al greco στάλαγμα (stálagma) "goccia", dal verbo σταλάσσω (stalássō) "far scorrere", si possono riportare anche altri raffronti. In greco esiste anche τέλμα (télma) "pozzanghera, palude", corrispondente all'armeno tełm, tiłm "fango; feci". In inglese troviamo stale "orina" e to stale "orinare", vocaboli ricercati che certo non vengono insegnati nelle scuole italiane. In medio alto tedesco abbiamo stall "orina di cavallo" e stallen "orinare", verbo che esiste ancora nella lingua moderna. Il bretone staot "orina" (medio bretone staut), potrebbe risalire al protoceltico *stalto- "orina". In lituano esistono i verbi tul̃žti "diventare umido; gonfiarsi" e ištil̃žti "ammorbidirsi". In russo esiste толстый (tolstyj) "gonfio, grasso", che stando a Pokorny indica anche il cazzone: il raffronto è utile perché dal membro virile schizza il seme.

Escluderei fin da subito la radice con semantica bovina: lituano tẽlias "vitello", che corrisponde al lettone teļš, telēns e al proto-slavo *telę "giovane bovino" (russo теленок "vitello"). Questa radice enigmatica è trattata sull'utilissimo Wiktionary.

 
Sono state fatte tre ipotesi sull'origine di questa radice baltica e proto-slava. Le elenco in questa sede: 
 
1) Origine indoeuropea diretta.
Forse dal proto-indoeuropeo *telh₂- "portare", imparentato col latino tollō "portare", forse col proto-slavo *telěga "carro". Questa ipotesi è sostenuta da Snoj. Machek ipotizza invece una semplificazione del proto-indoeuropeo *wetélas “animale di un anno” imparentato col latino vitulus “vitello”, col greco antico ἔταλον (étalon), “animale di un anno” e col proto-germanico *weþruz “agnello di un anno”.
2) Origine da un diverso strato indoeuropeo.  
Secondo Holzer, l'origine sarebbe dal proto-indoeuropeo *dʰeh₁(y)- “succhiare, poppare”, tramite un dialetto ipotetico che desonorizzava le occlusive aspirate sonore. Se questo fosse corretto, la radice sarebbe imparentata col proto-slavo *dětę “bambino”, col latino fīlius “figlio” e con l'albanese dele “pecora”.
3) Prestito dal proto-turco.
Proto-turco *tẹ̄l “vitello”, attestato in Kazakh тел (tel) e in Yakut тиил (tiil). Questa proposta è sostenuta da Matasović e mi pare particolarmente convincente. 

Ovviamente per il professor Borghi, che è un seguace dei Neogrammatici, non sarebbe d'accordo con queste conclusioni. La cosa non è per me granché rilevante: ognuno segua il proprio cammino secondo il proprio giudizio. 
 
Gli Antelamici e i Catari  
 
Un mito assai diffuso tra gli intellettuali cattolici è quello secondo cui i Comacini e gli Antelamici sarebbero stati incaricati dalla Chiesa Romana di condurre una crociata antiereticale utilizzando la propria arte come arma. Secondo questa narrazione, mostrare Cristo dalla nascita alla morte plasmandone in modo realistico ed umano le fattezze, avrebbe contribuito a combattere le idee di coloro che ne negavano alla radice la natura carnale. In altre parole, doveva essere un modo per combattere le idee dei Catari e ostacolare la loro diffusione. Sull'efficacia di simili stratagemmi, posto che siano mai stati formulati in modo esplicito e consapevole, avrei serissimi dubbi. Pensare che una persona priva di qualsiasi fede nell'essenza corporale di Cristo possa convertirsi guardando una statua, è pura e semplice stoltezza. Si ha l'impressione che questi intellettuali cerchino con ogni mezzo di ridurre la propria dissonanza cognitiva, non sopportando l'idea di un Medioevo che non fu solo ed esclusivamente cristiano e cattolico. 
 
Antelamici, Comacini e Frammassoni 
 
Trove ben singolare e tutto sommato grottesco il fatto che sia la Chiesa Romana che la Frammassoneria, congreghe in aperta ostilità reciproca, rivendichino l'appartenenza al proprio corpus dottrinale delle maestranze di architetti del Medioevo. Per gli intellettuali cattolici, gli Antelamici e i Comacini sarebbero stati crociati del Cristianesimo Niceno. Per i Frammassoni, gli Antelamici e i Comacini sarebbero invece stati precursori e padri spirituali delle Logge. Bisognerà forse attendere molto tempo prima che sia fatta la necessaria chiarezza. 

giovedì 8 luglio 2021

I MAESTRI COMACINI: PROBLEMI ETIMOLOGICI

I Maestri comacini traggono notoriamente il loro nome da Como, terra che ha dato loro origine. In latino la denominazione di questa antica corporazione di architetti lombardi è Magistri cumacini (varianti: comaceni, commacini). Eppure l'etimo è tuttora considerato incerto. Perché? Non è difficile tracciare l'accaduto. Agli inizi del XX secolo, un critico d'arte rispondente al nome di Ugo Monneret de Villard (1881 - 1954) scrisse un contributo deprecabile, in cui cercava con ogni mezzo di dimostrare la sua folle tesi: i Maestri comacini avrebbero tratto il loro nome dalla locuzione cum machinis o cum macinis, ossia "con le macchine", alludendo ai marchingegni che questi architetti utilizzavano nella loro opera muratoria. I critici d'arte potrebbero coltivare con successo le patate, occupandosi anche della concimazione della terra. Quello che non dovrebbero fare è cercare di imporre la loro opinione nel campo della linguistica. Il principale e futile argomento dell'autore citato, italiano nonostante dal nome sembri d'Oltralpe, sarebbe questo: l'aggettivo formato dal toponimo Como (latino Cōmum) è comasco o comense (latino cōmēnsis), così non potrebbe essere al contempo comacino. Che infelicissima baggianata! Soltanto uno studioso autoreferenziale, di poco senno e cerebro minuscolo, potrebbe avere l'ardire di scrivere una tale colossale inconsistenza. Purtroppo, in tempi recenti questa teoria insensata dei "Maestri con le macchine" viene rivalutata nel Web e promossa da Google, anche se è palesemente falsa, come posso dimostrare con argomenti solidissimi.    
 
Ebbene, l'aggettivo comacino "comasco, comense" esiste eccome. La sua pronuncia può essere piana (comacìno) oppure sdrucciola (comàcino). La forma sdrucciola parrebbe la più antica, quella piana ha l'aria di essere stata tratta da una pronuncia ortografica. La derivazione è dal latino tardo cōmacĭnus / cōmacīnus, con varianti come commacinus, cōmacenus, cūmacinus, etc.; la quantità della vocale -a- è incerta. L'uso di questo aggettivo è documentato fin dal IV secolo al posto del classico cōmēnsis; un altro sinonimo tardo è cūmānus. Un'attestazione antica e sporadica si ha in Varrone (116 a.C. - 27 a.C.), che chiama cōmacinae pernae i prosciutti comensi (Lazzati, 2008). Il Lago di Como è denominato Lacus Cōmacenus nell'Itinerarium Antonii del 300. Questo limnonimo, con la sua variante Lacus Commacinus è sinonimo del più antico Lacus Cōmēnsis. Come poteva Ugo Monneret de Villard ignorare questa evidenza? Forse scarabocchiava la sua cacata charta senza consultare alcuna fonte.
 
Le testimonianze dell'esistenza e della diffusione di questo aggettivo comacino sono numerose e sopravvivono tuttora nella toponomastica lombarda. Questi sono i suoi esiti: 
 
comasno < cōmacinus 
Comàsina < Cōmacina 
Comasìna < Cōmacīna 
 
1) Dal toponimo milanese Porta Comàsina o Porta Comasna ha avuto origine il nome del quartiere detto oggi Comasina (con l'accento sulla penultima sillaba, Comasìna). Il luogo è noto soprattutto perché da esso prese il nome la famigerata banda della Comasina, capeggiata da Renato "Bel René" Vallanzasca, che terrorizzò la Lombardia con la sua ferocia. Il bandito era nativo dell'infernale Giambellino, quello stesso che tanto piaceva a Giorgio Gaber, però la sua banda prese il nome dalla Comasina perché proprio là si trovava un bar utilizzato come ritrovo abituale.
 
2) Ca' del Comasno, ossia "Casa del Comasco", è una frazione di Lodi Vecchio, un tempo comune indipendente.
 
3) L'Isola Comacina (in latino tardo Insula Comacina) è un'isola del Lago di Como (Lario), tecnicamente definibile come "lembo di terra": è lunga 600 metri, larga 200 metri, con un perimetro di 2 chilometri e una superficie di 7,5 ettari. Se ne trovano diverse menzioni nell'Historia Langobardorum di Paolo Diacono. Questa menzione è riferita all'anno 588 circa:
 
Alii quoque Langobardi in insula Comacina Francionem Magistrum Militum, qui adhuc de Narsetis parte fuerat et iam se per viginti annos continuerat, obsidebant. Qui Francio post sex menses obsidionis suae Langobardis eandem insulam tradidit, ipse vero, ut obtaverat, dimissus a rege, cum sua uxore et supellectili Ravennam properavit. Inventae sunt in eadem insula diviciae multae, quae ibi de singulis fuerant civitatibus commendatae.
Historia Langobardorum, III, 27
 
Traduzione:
 
"Altri Longobardi assediavano nell’isola Comacina il magister militum Francione, che era del partito di Narsete e che si era asserragliato ormai da vent’anni. Questo Francione, dopo sei mesi che era stato assediato onsegnò quella stessa isola ai Longobardi; congedato dal re, si affrettò a raggiungere Ravenna con sua moglie e i suoi bagagli, come certamente lui stesso aveva chiesto. In quella stessa isola furono trovate molte ricchezze, che in quel luogo erano state messe al sicuro da parte di diverse città."
 
Secondo Fabio Carminati e Andra Mariani (2016), l'Insula Comacina di cui ha scritto Paolo Diacono nella sua Historia Longobardorum sarebbe da identificarsi con una porzione di terra situata in quello che oggi è il comune di Olginate. Questi autori sono convinti che l'aggettivo comacino sia sì derivato dal toponimo Como, ma che in origine fosse riferito soltanto alla parte orientale del Lario e del suo territorio, ossia al Lago di Lecco e al Lecchese. Credo che ciò sia poco plausibile: Sant'Ambrogio chiamava rūpēs cōmacinae i monti sopra Como (Epistola 55). In ogni caso, se anche le tesi di Carminati-Mariani dovessero risultare fondate, comacino resterebbe pur sempre connesso a Como.
 
I Comacini nell'Editto di Rotari 
 
I capitoli dell'Editto di Rotari che trattano dei Maestri comacini sono due: il 144 e il 145. Ne riporto il testo originale e la traduzione. 
 
144. 
De magistros commacinos. Si magister commacinus cum collegantes suos cuiuscumque domum ad restaurandam vel fabricandam super se, placitum finito de mercedes, susceperit et contigerit aliquem per ipsam domum aut materium elapsum aut lapidem mori, non requiratur a domino, cuius domus fuerit, nisi magister commacinus cum consortibus suis ipsum homicidium aut damnum conponat; quia, postquam fabulam firmam de mercedis pro suo lucro suscepit, non inmerito damnum sustinet. 
 
Traduzione: 

"Se un maestro comacino con i suoi consoci avrà accettato, dopo aver definito il patto sulla ricompensa, di restaurare una casa o di sopraelevarla, e sarà accaduto che qualcuno muoia a motivo della stessa costruzione o per la caduta d'una trave o per la caduta d'una pietra, allora non si richieda la composizione del danno al padrone della casa, qualora il maestro comacino in solido con i suoi consoci non faccia composizione dello stesso omicidio o del danno: infatti, poiché questi ha pattuito il suo guadagno, giustamente deve sostenere anche il rischio." 

145.
De rogatos aut conductos magistros. Si quis magistrum commacinum unum aut plures rogaverit aut conduxerit ad opera dictandum aut solatium diurnum prestandum inter servûs suos, domum aut casa sibi facienda, et contegerit per ipsam casam aliquem ex ipsis commacinis mori, non requiratur ab ipso, cuius casa est. Nam si cadens arbor aut lapis ex ipsa fabrigam occiderit aliquem extraneum, aut quodlebit damnum fecerit, non repotetur culpa magistris, sed ille, qui conduxit, ipse damnum susteneat. 

Traduzione: 

"Dei maestri chiamati o assunti. Se qualcuno invita o assume uno o più maestri comacini per dirigere i lavori o prestare aiuto quotidiano tra i suoi servi per la costruzione di una casa padronale o di un casale per sé, e accade che uno dei comacini muoia mentre lavorava in quel casale, non va fatta la querela nei confronti di colui al quale appartiene il casale. Ma se un pezzo di legno o una pietra, cadendo dall'edificio, uccide uno straniero o gli causa qualche danno, il padrone non sarà incolpato, ma accetterà il danno da parte di chi lo ha assunto." 

Bizzarre manipolazioni massoniche
 
Per qualche arcano e misterioso motivo, ai Frammassoni non è mai andata a genio la chiarezza etimologica. In genere fondano le loro etimologie su princìpi assolutamente irrazionali. Ricordo ancora l'amico G. (R.I.P.), che aderiva alla Libera Muratoria e se ne usciva ogni tanto con trovate che mi facevano infuriare. Una volta arrivò a sostenere che la parola dannato deriverebbe dal greco thánatos "morte". Rimase sconvolto quando gli dissi che dannato è soltanto il participio passato del verbo dannare, che deriva in modo del tutto naturale dal latino damnāre, da cui damnātiō "dannazione", vocabolo già usato da Sant'Agostino (massa damnātiōnis, etc.). I Frammassoni non analizzano le parole dividendo in modo sensato i suffissi e i prefissi dalla radice. Usano il principio dell'assonanza, l'anagramma, il calcolo numerico cabalistico delle lettere e altre manipolazioni ancor più stravaganti. L'etimologia di com(m)acinus è così ricondotta, con anagramma, a un fantomatico *co-monachus "confratello", inteso come "fratello Massone" (Knoop & Jones, 1978). Forme simili sono state ricostruite da romanisti col grembiule e il cappuccio, senza nessuna base scientifica, come ad esempio *commagister, *commachinātor e *commachiō (genitivo *commachiōnis, da *machiō "muratore", di origine germanica, vedi nel seguito per maggiori dettagli). 
 
Un'etimologia pseudogermanica
 
Non sono mancati tentativi di trovare un'origine germanica della denominazione dei Maestri comacini. Già nel 1883, Karl von Hoede ha postulato un fantomatico *gemachinus "costruttore", formato col prefisso collettivo ge- a partire dalla stessa radice del tedesco machen "fare", da cui in ultima analisi deriva anche il francese maçon (< *machiōnem, accusativo di *machiō). In tempi recenti è stato postulato un vocabolo assai simile, *ga-makin, attribuito al longobardo (Mastrelli, 2008). Tuttavia si capisce che, se davvero fosse esistita in longobardo una simile parola, questa non avrebbe subìto goffe e improbabili latinizzazioni: sarebbe stata presente nell'Editto di Rotari nella sua forma originale. Attendiamo la scoperta di nuovi documenti storici che possano aiutarci a fare maggior chiarezza. 

Consiglio senza dubbio la lettura di questo scritto interessantissimo di Marco Lazzati:

lunedì 5 luglio 2021

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULL'ETIMOLOGIA DI COMO

Mi ha sempre incuriosito l'origine del toponimo Como, fin da bambino. All'epoca ero molto ingenuo. Solo per fare un esempio, credevo che il nome della cittadina chiamata Erba derivasse dall'erba verde che vi sarebbe cresciuta. Me lo aveva detto mio padre (R.I.P.). Quanto mi diceva mio padre a quell'epoca lo prendevo per oro colato. Ero convinto che esistesse un modo di ricondurre i nomi dei paesi e delle città a parole comuni della lingua parlata. Un'illusione delle più folli! Ora so che le cose sono molto diverse, perché non si può credere che nell'antichità si parlassero le lingue odierne. Capivo però già allor che con nomi di luogo come Como non funzionava nessun approccio razionale, non serviva a nulla ciò che era a me disponibile a quei tempi. Se gli studi sulla lingua celtica mi hanno in seguito permesso di capire che Erba significava in realtà "vacca" o "cerva" (ottimi i raffronti in antico irlandese evidenziati dal professor Guido Borghi), con Como le etimologie disponibili non funzionavano altrettanto bene. 

Il nome latino della città, ben attestato, è Cōmum, con la vocale -ō- lunga: il vecchio centro era chiamato Cōmum oppidum, mentre il nuovo centro fu ribattezzato da Cesare come Novum Cōmum. Il greco antico abbiamo attestata la forma Κώμον (Kṓmon), anche in questo caso con la vocale tonica -ō- lunga, scritta con una lettera omega. Sembrerebbe tutto molto semplice. Purtroppo le cose non stanno così: già la fonetica della vocale tonica presenta inaspettati e gravi problemi.

Mi sono spesso chiesto come mai in milanese e in brianzolo si pronunci Còmm /kɔm/ e non Cum /ku:m/, come avrebbe dovuto essere se il toponimo si fosse evoluto regolarmente dall'originario Cōmum. In realtà in comasco esistono sia Còmm /kɔm/ che Cumm /kum/ (secondo la Wikipedia italiana sarebbe /kʊm/, in ogni caso con vocale breve). In italiano "standard" la pronuncia è Còmo /'kɔ:mo/, con la vocale tonica aperta, mentre in italiano lombardo la pronuncia è Cómo /'ko:mo/, con la vocale tonica chiusa. In tedesco è attestata nel tardo XV secolo la forma Kam, che è considerata un prestito diretto dal lombardo Còmm (Obermair, 2008) - sebbene il vocalismo presenti innegabili difficoltà.
 
Tentativi etimologici  

Il mondo accademico anglosassone considera il toponimo Comum come originatosi dalla parola celtica cumbā "valle", le cui attestazioni sono notevoli, ad esempio in Piemonte e in Linguadoca (tra le altre cose ha dato origine alla parola inglese coomb "valle stretta"). Questa derivazione è chiaramente impossibile per motivi fonetici: non si spiegherebbero né il vocalismo né il consonantismo. La -u- breve di cumbā non può aver dato la -ō- lunga di Cōmum; il gruppo consonantico -mb- non può essersi mutati in -m- semplice già in epoca romana. Mi ha sorpreso trovare questa falsa etimologia, tanto grossolana, sul famoso dizionario etimologico della lingua inglese Etymonline.com
 
 
Pietro Pensa (1906 - 1996) ha fatto derivare il toponimo da una radice celtica *koimo-, a cui ha attribuito il significato di "abitato". L'origine sarebbe quindi dalla stessa protoforma indoeuropea *k'oimos "della casa", "appartenente alla famiglia", a sua volta dalla radice *k'ei- "giacere". La stessa protoforma ha dato regolarmente il protogermanico *χaimaz "casa, villaggio, patria", i cui esiti sono ben noti (ad es. gotico haims "villaggio", norreno heimr "mondo, patria", inglese home "casa", tedesco Heimat "patria", etc.). La cosa non è di per sé impossibile. Tuttavia non sono al momento attestate derivazioni con questa semantica nelle lingue celtiche. Si ricostruisce il protoceltico *koimos "bello, caro" (da un più antico "familiare"), a partire da questi dati:  
 
antico irlandese: cóim, cóem "caro, carino" 
   irlandese moderno: caomh "caro, carino" 
antico gallese: cum "caro, carino" 
   gallese moderno: cu "caro, carino" 
medio bretone: cunff, cuff "caro, carino" 
   bretone moderno: kuñv "caro, carino"
In gallico è attestato nell'antroponimo Coemo.

Ritengo più probabile che l'antenato diretto di Cōmum sia *Koimon "Luogo Bello", inteso come un luogo dove si è manifestato un portento particolarmente fausto, connesso al perduto mito della sua fondazione. Il passaggio dal dittongo -oi- a una vocale lunga -ō- non sarebbe impossibile.     

Il professor Guido Borghi si è occupato dell'etimologia del toponimo Como nel suo lavoro Continuità Celtica della Toponomastica Indoeuropea del Bacino Lariano (2012), consultabile liberamente su Academia.edu. Questo è il link:
 
 
La lettura dell'interessantissimo trattato è purtroppo poco agevole per via della caratteristica ortografia che marca le vocali brevi (a mio avviso in modo ridondante). A fini di conoscenza riporto questo estratto etimologico, che si trova a pagina 114: 

Como / Comm < gallico *Kōmŏn < celtico *Kŏϕŏmŏ-m < indoeuropeo *Kŏpŏmŏ-m < *(S)kŏp-ŏ-mŏ-m „della Copertura“ (cfr. Bergamo < gallico *Bĕrgŏmŏ-n < celtico *Bĕ́rgŏmŏ-m < indoeuropeo *Bɦĕ́rĝɦŏmŏ-m < *Bɦĕ́rĝɦ-ŏ-mŏ-m „del Monte“) più regolare che Como < gallico *Kōmŏn < orobico *Kōmŏ-m < indoeuropeo *Kōmŏ́-m < *Kōm(hx)-ŏ́-m „Che ha concentrazione (di insediamento)“  
 
Quello che Borghi ha compreso al volo è la stranezza della vocale lungua -ō-, da me già segnalata. Una simile vocale dell'indoeuropeo evolve in protoceltico come -ā-, tranne che nel caso in cui si trova nella sillaba finale di una parola, dove si oscura ed evolve in -ū-. Quindi una protoforma celtica *Kōmon, ricostruibile dal toponimo attestato nei documenti in latino, sarebbe decisamente anomala. Subito risulta chiaro che *Kōmon deve per necessità derivare da una protoforma più complessa. Detto questo, le ricostruzioni dell'esimio professor Borghi mi sembrano troppo complesse e improbabili. Resto convinto che un passaggio da *Koimon "Luogo Bello" a *Kōmon sia più plausibile e immediato. Spero che in futuro saranno trovate nuove evidenze in grado di portarci a una conclusione certa. 
 
I Neocomiti 
 
Molto utile è la lettura dello studio del professor Giorgio Luraschi (1991), consultabile sul sito del Comune di Como: 
 
 
Si parte dalla doppia fondazione di Como. 
 
"Como ebbe due fondazioni, nel senso che due città vere e proprie vennero fondate con lo stesso nome (Comum), sia pure in epoche e luoghi diversi. La prima fondazione risale al V sec. a.C., ed è da porsi sulle colline meridionali della convalle comasca, pressappoco dove oggi sono i borghi di Prestino e di San Fermo; la seconda cadde invece nel 59-58 a.C. e fu opera di Cesare, che la collocò esattamente sull’area della attuale città." 

L'opera di Giulio Cesare è spiegata subito dopo con maggiori dettagli, alludendo anche all'intervento di coloni giunti dall'Ellade:
 
"Che le Como fossero state due basta, d’altronde, a provarlo il fatto che il centro romano fu chiamato dai primi coloni greci Novum Comum (Strab. 5,1,6), il che lascia ovviamente ad intendere che esistesse un Vetus Comum, probabilmente quello di cui parla Livio (33,36) allorché descrive lo scontro (196 a.C.) fra Comensi e Romani e la conseguente presa di Comum oppidum e dei suoi ventotto castella da parte dei vincitori. Il problema è stabilire dove fosse situato Comum oppidum, e se ad esso potesse competere la qualifica di città in senso giuridico ed architettonico." 

Quasi commoventi sono le supposizioni sui più antichi popolamenti dell'area. Lo studioso cerca con ogni mezzo di colmare l'immenso baratro dell'ignoranza storica causata dall'assenza di fonti scritte:
 
"Per impostare correttamente la questione bisogna risalire alla fase di transizione fra l’età del Bronzo e l’età del Ferro (1000 a.C. circa), quando sull’incalzare di eventi imprecisati (bellici, naturali?), piccoli nuclei di popolazioni di stirpe ligure (sia pure con precoci influenze celtiche) si stanziarono sulle colline che vanno dal Baradello al Monte della Croce (Spina Verde).
Qui si disposero in minuscoli villaggi (13 o 30 capanne nei due casi accertati), isolati gli uni dagli altri, ognuno con propri luoghi di culto, necropoli (se ne contano una quindicina), sorgenti, accessi ecc. Oltre cento anni di scavi condotti dalla Società Archeologica Comense ne hanno data ampia documentazione." 
 
E ancora su Novum Comum:  

"Siamo nel 59 a.C., Roma è dominata dai triumviari, Cesare, Pompeo e Crasso. Cesare si fa eleggere console e si accinge a costruire il suo futuro e, a ben vedere, quello del mondo. Nei suoi piani lungimiranti, che già prevedevano l’espansione transalpina, rientra anche la fondazione di Novum Comum." 
 
Viene ribadita l'eco che la fondazione della nuova colonia ebbe nel mondo romano dell'epoca:
 
"Fu un evento di formidabile risonanza, tanto è vero che, come dissi, ne parlano o vi alludono ben sei autori: Catullo, Cicerone, Strabone, Plutarco, Svetonio ed Appiano: i primi due, fra l’altro, furono testimoni diretti ed interessati, avendo entrambi amici comaschi." 

Ecco il retroscena nel complesso universo della legislazione romana, ingarbubliato a tal punto da essere comprensibile soltanto uno studioso della levatura di Luraschi: 

"Tutto trae origine nel 59 a.C., appunto, da una
lex Vatinia, cioè da un plebiscito rogato dal tribuno Vatinio, amico di Cesare, che autorizzò la fondazione e ne prescrisse i dettagli (58). Vediamo che cosa dice, al riguardo, Strabone (59): “Il divo Cesare portò a Como 5.000 nuovi coloni,di cui i 500 greci risultarono quelli più in vista; a costoro, invero, diede anche la cittadinanza e li iscrisse fra i coloni; essi tuttavia non fissarono in questo stesso luogo la residenza, ma comunque lasciarono alla fondazione il nome; infatti tutti quanti furono chiamati Neocomiti, ed il luogo, tradotto, è detto Novum Comum”."
 
Ora va detto qualcosa di estremamente scomodo. La storia dei Neocomiti (greco Νεοκωμῖται) destò immenso clamore postumo tra i parrucconi e tra i topi di biblioteca del XVIII secolo, colonne portanti del paleocomparativismo. Questa mania ellenizzante ha investito l'intera toponomastica lariana, dando origine a spiegazioni piuttosto inverosimili. Ecco alcuni esempi: 

Corenno è stato fatto risalire a Korinthos
Dervio è stato fatto risalire a Delphos
Lemna è stato fatto risalire a Lemnos
Lenno è stato fatto risalire a Lemnos
Nesso è stato fatto risalire a Naxos
Piona è stato fatto risalire a Peonia 
 
Sicuramente si ricollega alla leggenda dei Neocomiti anche il limnonimo Eupilis lacus, da cui Eupilio, tradizionalmente intrepretato come "bel luogo", dal ben noto prefisso greco eu- "bene, buono", per quanto la seconda parte del composto non sia di così facile etimologia. Sono puerili trovate della solita passione italica per le false etimologie: tutto è fondato su assonanze, senza controllare in alcun modo se siano o meno sigificative. A mio avviso nessun greco avrebbe dato a località sulla terraferma il nome di isole dell'Egeo: Lemna, Lenno e Nesso non si spiegano in questo modo. Allo stesso modo nessun greco avrebbe dato a un luogo sperduto il nome di una regione dell'Ellade: Peonia non si spiega in questo modo. Sorprende come questi toponimi, non studiati praticamente da nessuno fino a poco tempo fa, siano restati di difficilissima analisi per così tanto tempo. A volte, come nel caso di Piona, mancano tuttora proposte etimologiche convincenti. In altri casi, un'etimologia celtica è la sola spiegazione possibile. Chiunque abbia una minima dimestichezza con le lingue celtiche, comprende all'istante che Dervio significa "Luogo della Quercia" e che Nesso significa "Luogo Basso". Altrettanto evidente è che Lemna significa "Luogo degli Olmi". Non c'è proprio bisogno di tirare in ballo Delfo, che non si adatta nemmeno alla fonetica. Il problema è che in Italia la conoscenza delle lingue celtiche è disprezzata per imperativo scolastico e che per secoli hanno imperato studi classici decisamente sterili, tanto pedanti che persino una scorreggia scappata a uno studioso doveva essere ricondotta alla Grecità. Sorprende anche constatare che il mondo accademico si ostini a considere gran parte della toponomastica come un immenso buco nero. Il punto è di enunciazione semplice. Non è Como ad aver preso il suo nome dai Neocomiti. Sono i Neocomiti ad aver preso il loro nome da Como.