mercoledì 20 ottobre 2021

ETIMOLOGIA DI AZERBAIGIAN E RETROFORMAZIONE DELL'ETNONIMO AZERI

Il nome dell'Azerbaigian (adattamento italiano di Azerbaijan) è di origine persiana e deriva da quello di un'antica provincia della Persia, che era chiamata Atropatene. Ai nostri giorni è sia il nome di una nazione indipendente, la cui capitale è Baku, che di una provincia dell'Iran, chiamata Azerbaigian iraniano o Azerbaigian persiano. Quando si formò il toponimo, la lingua parlata nella regione era iranica, non turca come nell'epoca attuale. Il nome degli Azeri è stato retroformato proprio dal toponimo Azerbaijan (azero Azərbaycan, persiano آذربایجان). L'accento è sulla seconda sillaba: Azéri /a'zeri/. La consonante -z- è una fricativa sibilante sonora. La pronuncia comunemente usata in Italia, Àzeri /'adzeri/, è da considerarsi erronea per l'accento; la consonante affricata è di origine ortografica. Come esattamente sia avvenuta questa strana retroformazione è ancora un mistero. Forse si è interpretata la seconda parte del toponimo, -baijan, come un suffisso, anche se non sembra avere alcuna funzione e alcun significato concreto, scorporando in questo modo Azeri. Questo processo, che ha dato origine all'etnonimo nella forma in cui lo conosciamo, era avvenuto già nell'antica lingua iranica della regione. In persiano si ha آذری Āzarīs. Comunque sia, non esiste nulla di simile nella lingua turca degli Azeri, che chiamano se stessi Azərbaycan türkləri, ossia "Turchi dell'Azerbaigian", oppure Azərbaycanlılar (-lar è il tipico suffisso plurale). In persiano esiste anche un altro termine per dire "azero": تُرْکی torki, ossia "turco". Dall'etnonimo retroformato si è poi avuta un'ulteriore derivazione tramite il suffisso aggettivale -i: Azerbaijani

Questa è la documentazione:
 
1) In greco il toponimo Ἀτροπατηνή (Atropatēné) è la sostantivazione del femminile dell'aggettivo Ἀτροπατηνός (Atropatēnós), a sua volta derivato dall'antroponimo persiano Ἀτροπάτης (Atropátēs). L'originale forma persiana di tale antroponimo doveva essere *Ātṛpāta, in cui significato è "Protetto dal Fuoco". Questo nome fu portato da un generale dei Medi che combattè nella battaglia di Gaugamela e che fu il primo satrapo della Media Atropatena nel 328 a.C. L'antroponimo è attestato in epoca medievale come Āturpāt
2) Sinonimo di Ἀτροπατηνή: Ἀτροπατία (Atropatía). 
3) Denominazione partica dell'Atropatene: Āturpātākān.
4) Denominazione medio persiana dell'Atropatene in epoca medievale preislamica: Ādurbādagān.
5) Attestazione in armeno: Atrpatakan.
6) Attestazione in georgiano: Adarbadagan.
 
La storia medievale dell'Atropatene è complessa e tristissima. Conquistata dagli Arabi, tale provincia persiana fu sottoposta a una terribile tirannia il cui fine era l'imposizione forzata dell'Islam e l'annientamento dell'autoctona religione di Zoroastro. Fu imposta la cosiddetta "tassa dell'anima", chiamata جزية jizya in arabo. La cosa funzionava così: chi proprio non voleva convertirsi, doveva pagare una somma consistente dei suoi introiti; se non ci riusciva e perseverava nel rifiuto di passare alla nuova fede, gli veniva confiscato ogni avere e si trovava ridotto in schiavitù. In tempi recenti, tale pratica è stata applicata nello Stato Islamico. Ricordo ancora che un giornalista chiedeva agli uomini del Califfo come calcolassero l'ammontare della jizya e questi glissavano, facevano finta di non aver sentito. A motivo dei metodi brutali con cui questo regime religioso aveva ottenuto il successo, le genti dell'Azerbaigian furono infine conosciute come "musulmani di spada": la loro resistenza secolare era stata annientata col ferro e soffocata nel sangue. Nel XI secolo i Turchi Selgiuchidi, di etnia Oghuz meridionale, giunsero nell'area che già professavano l'Islam, quando il processo di conversione della maggior parte della popolazione locale si era già completato. Iniziò quindi una profonda turchizzazione linguistica. Il più significativo elemento del sostrato iranico presente nella lingua azera è a mio avviso l'assenza dell'armonia vocalica, così tipica delle lingue altaiche. I popoli Turchi in genere portano nomi antichissimi e originali. Nel caso degli Azeri, il nome è invece proveniente dalla popolazione non turca e assimilata. 

La trafila fonetica dal partico Āturpātākān ad Azerbaijan è degna di nota per i suoi fenomeni di assibilazione e di palatalizzazione. Queste sono le radici avestiche:
 
Avestico: ātarš "fuoco", genitivo āθrō "del fuoco".
Avestico: pā-, pāiti- "proteggere":
   -pāta
"protetto";
    pātā, pātar- "protettore".
   La radice è la stessa di paitiš "signore", "marito" (deriva dalla radice indoeuropea ha dato anche il latino potis "potente", "capace", etc.).
 
Tutto ciò deve far meditare sul cambiamento linguistico, una forza ineluttabile di cui le genti del mondo non si rendono conto. Si tratta di qualcosa di lento: nessuno si accorge che la generazione presente pronuncia le parole in modo lievemente diversa dalla generazione precedente. Tramite piccolissimi cambiamenti che si accumulano nel corso dei secoli, alla fine si manifestano grandi differenze. Questa evoluzione delle lingue è irreversibile come la cottura di un uovo: una volta che albume e tuorlo si sono rassodati, nemmeno una divinità può ripristinare l'originario stato liquido. Nessuna istituzione scolastica o politica è in grado di frenare il mutamento, né tantomeno di impedirlo.   
 
Grottesche memorie universitarie
 
Un fisico azero venne in visita all'Università degli Studi di Milano. Tenne la sua lezione in uno pseudoinglese tremendo, che definire osceno sarebbe ancor poco. Era assolutamente ridicolo. Un clown ubriaco avrebbe saputo fare di meglio! Queste sono alcune "perle", giunte ai nostri esausti nervi acustici: 

i) cucucucù: si sentiva spesso questa parola onomatopeica, ma non abbiamo mai compreso cosa volesse significare. 
ii) nitrina : senza dubbio significa "neutrini" ed è un termine preso a prestito dal russo scientifico.
iii) pancini pancioni: si suppone che questo balbettamento stesse per il nome del fisico Pacini
iv) La congiunzione and suonava nitidamente ènta
v) Un compagno di sventura ha giurato di aver sentito ripetere più volte qualcosa che suonava come Abdullah
vi) zanzara: si è sentita questa parola, intercalata spesso e senza alcun significato comprensibile. Si è notato che alcuni ascoltatori sentivano Abdullah e altri zanzara, mai le due cose assieme. Sono ancora in attesa di elaborare una spiegazione plausibile di questo fenomeno acustico.

Non si riesce a spiegare l'origine della maggior parte di queste distorsioni percettive: soltanto un paio sono chiare. Questo è il rumore di fondo, potenza sempre all'opera nell'Universo. È quel disturbo permanente che alla fine non ci farà comprendere i colori, i suoni e le forme dell'esistenza. 

lunedì 18 ottobre 2021

LO STRANO CASO DEL CONTADINO SAPIENTE DI PEVERAGNO

Spesso emergono dai miei banchi di memoria stagnante scintille davvero mirabili. Ricordo ancora quando ero un adolescente foruncoloso e guardavo volentieri Portobello, la trasmissione di Enzo Tortora (RIP). I Millennials non ne sanno nulla, men che meno quelli della Generazione Z: sono persino incapaci di concepire un mondo senza gli smartphone e la connessione a Internet. Eppure un simile mondo è esistito e ne sono testimone. All'epoca Portobello aveva un enorme successo e in molti non vedevano l'ora che arrivasse la serata in cui andava in onda quel mercatino esotico, che rendeva note al grande pubblico cose stranissime, neppure immaginate nei sogni. Ricordo ancora oggi argomenti affascinanti di cui venni a conoscenza in gioventù. Fu allora che si risvegliò in me un grande interesse per le minoranze linguistiche e per le parlate criptiche. Una sera fu presentato il gergo degli ombrellai di una vallata del Piemonte, in cui le ragazze erano chiamate megèire, ossia "megere". Tutto ciò mi divertì moltissimo. Una sera fu presentata una comunità che parlava un idioma germanico, non rammento se fossero Cimbri o Walser. Mi è però rimasto impresso che si riunivano per giurare intorno a un grande albero considerato sacro, una quercia o forse un olmo. Mi sembra ancora ieri quando, un'altra sera, alcune persone di Carloforte, in Sardegna, presentarono al pubblico la loro lingua ancestrale, che era una varietà di genovese. Tortora aveva spiegato che quella lingua si chiamava Tabarkino e che derivava il suo nome dall'isola di Tabarka, in Tunisia, che era stata popolata da coloni genovesi venuti da Pegli. Ogni volta erano nuove meraviglie. Rimasi terrorizzato quando furono presentati terribili feticci di stregoneria, credo che fossero provenienti dalla Campania: masse immonde simili a pappagallini che si formavano nei materassi di piume e provocavano deperimento, bambole con spilli conficcati negli occhi, racconti di fattucchiere che scagliavano malefici facendo morire il pollame.

Accadde infine che una sera Enzo Tortora presentò un anziano contadino che abitava a Peveragno, un antico borgo in provincia di Cuneo, in Piemonte. Cosa aveva di particolare quest'uomo gracile e dall'indole vivace? La sua dote era ben rara. Parlava correntemente il latino e sapeva recitare a menadito l'Eneide. Cosa ancor più notevole, aveva appreso da autodidatta la lingua di Roma e l'opera di Virgilio, facendo affidamento soltanto sulle sue forze e sul suo ingegno. Questo mi sono detto: "Ormai quell'inconsueto latinista sarà certamente defunto, non fosse altro che per ragioni anagrafiche. Non sarà facile ormai trovare tracce della sua esistenza". Invece, incredibile dictu, sembra che egli sia tuttora in vita. Ho trovato un sito web che ne fa menzione. Me lo ricordavo un po' diverso da come appare nella fotografia che ho trovato in Rete, ma è senza dubbio lui. Ai tempi di Portobello non portava la barba e mi sembrava un po' raggrinzito, anche se la forma del cranio, così caratteristica, è senza dubbio quella e mi è rimasta impressa. Evidentemente le mie memorie sono state soggette a una processo di profonda distorsione percettiva, anche se non così radicale da impedire il riconoscimento. Si direbbe addirittura che il peveragnese sia ringiovanito! Ecco la pagina in cui si parla di lui:
 

Questa è la presentazione: 
 
ANGELO MERLATTI (Mondovì, 1937), contadino amante del latino, da lunghi anni usa questo idioma come lingua di conversazione avendola studiata da autodidatta (dice di sé: «Totam per vitam agros colui. Lucretio Vergilioque magistris, linguae nullo adiuvante studui latinae»). 
 
Tra i suoi capolavori, consultabili sul sito, si possono elencare questi: 
 
Dis aliter visum 
Casus dolens 
Meminisse iuvabit 
Linguae latinae reditus ad vitam Pamparati 
Sunt lacrimae rerum 
Habet hoc voluptas 
Vetera iuvat retractare 
Igne perenni lucet in medio focus amicus 
Patris morientis recordatio et memoria

Non è affatto comune questa dote di saper conversare in una lingua appresa dai libri. In genere i libri trasmettono una conoscenza legnosa, non duttile né malleabile, inadatta ad esprimere concetti in modo fluido. Chi ha studiato sui libri il latino (o l'inglese, non cambia molto), in genere pensa nella propria lingua e traduce mentalmente, applicando regoline, regolette, regolucce e regolacce. Si capisce invece che il contadino di Peveragno è in grado di pensare spontaneamente in latino senza dover applicare alcuna traduzione a pensieri formulati nella propria lingua nativa. Questo è certamente un fatto singolare e prodigioso che merita ulteriori studi. Per certi versi la sua figura mi ricorda quella di Vilgardo di Ravenna, che nel X secolo aveva avuto una visione di Virgilio, Orazio e Giovenale, rimanendone illuminato e proclamando che la Verità si trova negli scritti degli Autori dell'Antichità.  

Tempo fa scrissi di getto questi appunti, quando ancora facevo affidamento sui soli ricordi di Portobello, senza sapere che l'uomo fosse ancora in vita e ben operante:

"Il contadino di Peveragno era davvero un sapiente. Nel suo campo di studio senza dubbio lo era. Tale campo era il latino scolastico. Tuttavia di linguistica storica, di filologia romanza, di indoeuropeistica e simili, non sembrava sapere granché. Da quello che rammento, non applicava la metrica latina alla lettura dei versi di Virgilio: non usava le elisioni e gli accenti mobili così tipici della poesia. Pronunciava ogni singola parola come facevano i preti, come si faceva a scuola. Che significa? Del suo mondo, sapeva tutto. Il punto è che il suo mondo non era realmente l'antica Roma: era invece in qualche modo una sua costruzione mentale, un mondo fantomatico inventato dalla scuola, dalle sue secolari stratificazioni."  

Quando si proiettano immagini mentali di Roma nel passato, queste sono drammaticamente diverse dalla vera antica Roma. Mi domando cosa direbbe un latinista odierno se tornasse indietro nel tempo grazie a una mirabile macchina e sentisse l'Imperatore Augusto dire "DA MI AQUA CALDA" anziché "DA MIHI AQUAM CALIDAM". Tutti abbiamo bene in mente gli eccessi degli insegnanti del liceo, quelle -M finali potenti e assordanti come muggiti taurini, quel pronome MIHI pronunciato con due I staccate, anzi, addirittura con tre o quattro I: MIIII. Nel Medioevo invece si intercalava una consonante velare e si pronunciava MICHI. Non dobbiamo mai dimenticarcelo: Virgilio, se avesse sentito un moderno declamare i versi dell'Eneide, si sarebbe chiesto che razza di sannita o di umbro fosse mai quello che aveva davanti! Eppure, il contadino di Peveragno non resterebbe senza risorse in una situazione tanto sorprendente: se fosse proiettato all'epoca di Cicerone e di Cesare, saprebbe imparare con prontezza la pronuncia autentica degli Antichi e conversare con loro con la massima naturalezza, in breve volgere di tempo. Probabilmente all'inizio rimarrebbe esterrefatto, ma questo stupore non durerebbe a lungo: si metterebbe in opera in lui quella stessa sete di Conoscenza che lo ha portato ad apprendere la lingua scritta senza aiuto alcuno, giungendo a produrre testi che potrebbero essere stati vergati dallo stesso Virgilio.
 
Il problema della "riallocazione" del passato

Gli eternisti sostengono che se possiamo pensare agli eventi passati, è perché in qualche modo questi eventi esistono tuttora. Se gli istanti trascorsi non avessero realtà, se avessero smesso di sussistere - questo è l'argomento eternista - non sarebbero concepibili e non potremmo far riferimento a loro nella nostra mente. Così i filosofi che si occupano della natura del tempo, sono convinti che per negare che gli eventi passati esistano tuttora, sia necessaria una loro "riallocazione" nel presente. 
Lo studioso islandese Rögnvaldur Ingthorsson, che è un sobrio presentista, ritiene che sia inutile riempire il presente di entità astratte come gli eventi passati soggetti a questa "riallocazione"


Direi che non dovremmo parlare di "riallocazione", in alcun caso. Nulla viene davvero riallocato. Il passato non esiste più. Noi ne parliamo soltanto, unicamente tramite i suoi FOSSILI NEL PRESENTE. Siamo del tutto ciechi al passato. Possiamo riferirci al passato ed averne cognizione soltanto perché ne perdurano tracce analizzabili nel presente, che sono come le ammoniti visibili tuttora nelle sezioni di marmo che costituiscono il pavimento dell'ultimo piano della libreria Feltrinelli nella sede della Stazione Centrale di Milano. Un pavimento simile si trova sul pavimento del porticato di Piazza del Duomo, sempre a Milano. Quante volte ho meditato sulle conchiglie mineralizzate! Quei molluschi vissero molti milioni di anni fa, eppure qualcosa di loro è ancora coglibile dai nostri sensi, inglobato nel minerale. Da quei resti possiamo dedurre molto, ma non sarà mai come vedere davanti ai propri occhi un'ammonite viva. Il fatto che parliamo di entità come lo xenomorfo o Mickey Mouse non implica per necessità la loro reale esistenza in qualche recesso di un Multiverso forse soltanto fantomatico. Lo xenomorfo e Mickey Mouse esistono a livello iconografico nel nostro presente e non sono diversi da qualsiasi altro ente di cui abbiamo piena consapevolezza.
 
Che dire quindi della nostra capacità di raggiungere l'Episteme? Possiamo davvero conoscere una civiltà morta da secoli? Le cose stanno così: esistono tante copie dell'Antica Roma e della sua lingua quante sono le persone che la studiano e che la sognano. Sono tutte proiezioni di fossili che si trovano nel nostro presente, ma rielaborate e fabbricate da menti diverse. Ognuna di queste rappresentazioni mentali è soltanto uno scheletro della realtà, non ha in sé nulla di vero. Ancora lungo ed estenuante è il cammino verso l'effettiva capacità di cogliere il Noumeno!  

sabato 16 ottobre 2021

LE VERE CAUSE DELLA SCOMPARSA DELLA DECLINAZIONE LATINA

Nel pestilenziale ed afflittivo social network Quora, ci sono utenti che si domandano con insistenza come mai la lingua italiana non abbia le declinazioni, pur derivando dal latino. 


Joseph G. Mitterer ha dato questa risposta: 

"Ci sono varie spiegazioni. Generalmente si può dire che in tutte le lingue indoeuropee c'è la tendenza di "semplificare" la morfologia nominale. Sono pochissime le lingue che hanno conservato tutti gli otto casi del proto-indoeuropeo. Il processo di cui parliamo non è, dunque, un fenomeno propriamente romanzo o italiano, ma era già cominciato nel latino (in latino ne sono un documento le molte funzioni dell'ablativo e i resti ancora presenti del locativo) e si osserva anche oggi in altre lingue, come ad esempio nel tedesco il cui genitivo è in via d'estinzione."
 
E ancora: 
 
"Se però parliamo delle ragioni, un motivo fondamentale era lo sviluppo fonologico del latino. Nel latino classico le forme rosa, rosam, rosā erano pronunciate in modo diverso. Poi però le quantità vocaliche sono scomparse, appunto come la -m finale, cosicché le parole succitate si sono tutte frammischiate in un'unica forma rosa. Per ristabilire le informazioni grammaticali che erano andate perse così si è serviti di preposizioni e di una sintassi più regolata."

Una volta identificato in modo sicuro il processo di confusione delle terminazioni, si dovrebbe insistere sulle sue cause fisiche e sulla sua immensa portata. Invece Mitterer enuncia una teoria a mio avviso bizzarra, che inverte il nesso causa-effetto. Non riesco bene a comprendere se il motivo di questa interpretazione dei fatti sia di natura ideologica oppure se debba la sua formazione a un semplice fraintendimento. Così prosegue: 
 
"Tipicamente le spiegazioni finiscono qui. Conviene però aggiungere che ci sono anche altri motivi per questo sviluppo e che, forse, i mutamenti fonologici non erano la ragione ma (forse!) una conseguenza di altri sviluppi. Infatti, come ho detto inizialmente, c'è una tendenza di "semplificazione" nelle lingue indoeuropee. Questa "semplificazione" non si manifesta soltanto nella morfologia nominale, bensì in tanti altri campi della lingua. Per essere più precisi, il fenomeno di cui stiamo parlando non è veramente una "semplificazione", ma una tendenza verso strutture analitiche, cioè una tendenza di dividere parole nelle sue singole funzioni. Ecco cosa avviene se invece di dire uscire si dice andare fuori, se invece di scripsi si dice ho scritto, se invece di altior diciamo più alto ecc. Le ragioni di questo sviluppi hanno, probabilmente, a che fare con la psicologia dei parlanti e con la tendenza di voler fare trasparenti le funzioni degli elementi linguistici, e anche di esprimere tali funzioni con concetti nozionali, "concreti", invece di usare soltanto morfemi grammaticali ormai completamente opachi."

Queste sono le conclusioni a cui giunge: 
 
"Credo che questo aspetto sia ancora sottovalutato nella linguistica, e soprattutto lo sono le possibili conseguenze, come appunto la perdita di distinzioni fonematiche dovuta ai suddetti processi (e non viceversa)."
 
Sono convinto, pace Mitterer, della natura puramente fisica del fenomeno. I suoni emessi da gole umane giungono deboli alle orecchie di chi li ascolta. In particolare, giunge debole la parte finale di ogni pacchetto sonoro trasmesso al cervello dai nervi acustici. Per questo motivo, le code delle parole diventano naturalmente deboli col passar del tempo, finendo per scomparire completamente. Il processo è attestato già nella lingua dei Sumeri, in cui le consonanti finali diventavano mute e nuove consonanti finali si producevano dall'indebolimento di vocali - un po' come è successo in francese: 
 
bid "ano" è diventato bi
dili "singolo, unico" è diventato dil;
dug "parlare", "discorso" è diventato du;
gig "malattia" è diventato gi;
gud "bue", "toro" è diventato gu;
gun "terra", "regione" è diventato gu;
ḫada "secco", "bianco" è diventato ḫad;
itud "luna", "mese" è diventato itu e poi it;
lul "mentitore", "menzogna" è diventato lu;
nad "letto, giaciglio" è diventato na;
pab, pap "padre", "fratello" è diventato pa
siki "capelli" è diventato sig;
taka "toccare" è diventato tak, tag e poi ta
tila "vita" è diventato til e poi ti;
tumu "portare" è diventato tum;
tumu "vento", "punto cardinale" è diventato tum e poi tu;
 
Queste evoluzioni della pronuncia sono documentate dalla scrittura di quel popolo glorioso, senza possibilità di dubbio, nel corso dei secoli. Un simile processo ha dato origine a un gran numero di ambiguità e di equivoci: solo per fare un esempio, a un certo punto lul "mentitore", "menzogna" si pronunciava lu, proprio come lu "uomo". Sono convinto che ciò abbia posto le basi per il declino del sumerico come lingua parlata; come lingua scritta (rituale e scientifica) si è conservato molto più a lungo grazie all'ingegno degli scribi. 

I parlanti non si rendono conto di questo processo ineluttabile di degradazione dei fonemi, non lo comprendono perché credono eterno l'istante. Proiettano il presente all'infinito nel passato e nel futuro. Nella loro stoltezza presentacea, credono che le cose siano immutabili. Una simile usura fonetica delle code delle parole porta alla perdita delle capacità di contrasto tra forme diverse, che finiscono così col collassare. Cosa accade se dalla capacità di distinguere alcuni suoni finali di parola dipende la grammatica stessa della lingua? Semplice: accade che vengono a collassare declinazioni e coniugazioni. I paradigmi perdono la loro efficacia, alimentando una grande confusione. Per ovviare a questo problema, la lingua giocoforza si riorganizza, tenta di costruire nuovi schemi che siano funzionanti, in grado di permettere la comprensione tra i parlanti. Quando un paradigma grammaticale si indebolisce e muore, un altro sorge per rimpiazzarlo. 
 
Pestilenziali utenti di Facebook  

Su Facebook, in un gruppo sulle lingue locali e minoritarie dell'Italia, è esploso un flame a causa di M., una professoressa del liceo la cui cultura era autoreferenziale. Costei aveva appreso l'ABC del mondo e credeva fermamente che al di fuori di queste nozioncine non potesse esistere alcunché. Non considerava le declinazioni del latino una realtà di una lingua che secoli fa viveva ed era soggetta ai mutamenti: per lei erano invece schemi ieratici ed assoluti, incisi sulle tavole di pietra di una cabala in cui la lingua scritta doveva per decreto divino precedere quella parlata. Non capiva come i Romani avrebbero potuto esprimere la differenza tra il soggetto e il complemento oggetto se le desinenze della declinazione non avessero avuto proprio la pronuncia insegnata a scuola, che impone di distinguere -um da -u. Solo per fare un esempio, ignorava che già sussisteva nella lingua classica l'impossibilità di operare la distinzione tra il soggetto e il complemento oggetto in parole di genere neutro! Non capiva che i suoi paradigmi a un certo punto sono andati a farsi fottere, o l'italiano avrebbe le parole con fortissime -m finali! Forse non sapeva neppure che le lingue romanze derivano dal latino volgare. Possibile che ci sia ancora chi crede che in latino si pronunciassero delle -m finali possenti come muggiti di bovini?! Il concetto espresso da M. era questo: se qualcosa non rientra nel programma scolastico delle superiori, significa che non esiste. Filologia romanza? Un libro chiuso. Epigrafia latina? Un libro chiuso. Grammatici antichi? Un libro chiuso. Se si dovesse ragionare così con la fisica, Rovelli sarebbe considerato un perditempo. Non mi stancherò mai di stigmatizzare le mostruosità prodotte dal sistema scolastico italiano. Potrei parlare delle iscrizioni di Pompei, delle occorrenze di parole senza -m attestate già in epoca antica, di Augusto che diceva "da mi aqua calda". Piaccia o no, le cose stanno così. Il defunto professor C. si era spinto al punto da affermare che la -m finale i Romani non la pronunciavano. Bisognerebbe comprendere bene di quale epoca stiamo parlando. In ogni caso, sembra proprio che sia stato un suono assai debole fin dal principio e che si sia perso presto. Non sono mancati tentativi di restaurazione dotta. Dioscoride trascriveva la -m finale, avendola con ogni probabilità sentita pronunciare pienamente da qualcuno, ma doveva trattarsi della lingua aulica, molto artificiosa e distante da quella del volgo. A che servirebbe andare avanti? Facebook è una colossale perdita di tempo.

La lingua d'oc e la lingua d'oïl 
 
Uno schema ridotto, derivato dalla II declinazione del latino, ha continuato a vivere per secoli nelle lingue romanze parlate nel territorio un tempo conosciuto come Gallia Transalpina. Eccolo: 
 
Singolare
Nominativo: -s < *-us 
Obliquo (accusativo): - < *-u(m)
 
Plurale
Nominativo: - < *-ī
Obliquo (accusativo): -s < *-ōs 
 
Riporto un esempio dalla lingua d'oc (antico provenzale).  
Questa è la declinazione di cavals "cavallo", che deriva direttamente dal latino caballus "cavallo da fatica", "cavallo da tiro" (che nella lingua volgare ha sostituito equus "cavallo").
 
Singolare 
Nominativo: lo cavals 
   < ille caballus 
Obliquo: lo caval 
   < illu(m) caballu(m)
 
Plurale  
Nominativo: li caval 
   < illī caballī 
Obliquo: los cavals 
  < illōs caballōs 

Riporto un esempio dalla lingua d'oïl (antico francese). La pronuncia non è quella del francese moderno: le sibilanti finali -s si pronunciavano. Questa è la declinazione di veisins "vicino", che deriva direttamente dal latino vīcīnus (aggettivo sostantivato). 
 
Singolare  
Nominativo: li veisins 
   < ille vīcīnus
Obliquo: le veisin 
   < illu(m) vīcīnu(m)  

Plurale
Nominativo: li veisin 
   < illī vīcīnī 
Obliquo: les veisins
   < illōs vīcīnōs

Come potete vedere, in Francia, Provenza e Linguadoca esisteva ancora in pieno Medioevo uno schema di declinazione ben funzionante, per quanto ridotto rispetto a quello del latino classico. In francese, discendente della lingua d'oïl, la declinazione ha cominciato a non funzionare più quando le sibilanti finali -s si sono indebolite e sono cadute, a partire dalla metà del XIV secolo. Nella lingua moderna, nella maggior parte dei casi è prevalsa la forma obliqua, anche se ci sono numerose eccezioni. 
 
Il caso della Dacia 
 
Il latino volgare della Dacia, ossia l'antenato del rumeno, aveva indebolito le consonanti finali di parola, fino a perdere non soltanto -m, ma anche -s, com'è avvenuto in Italia. Nonostante ciò, l'agglutinazione dell'articolo derivato da un pronome dimostrativo, ha permesso alla declinazione di conservarsi. 
 
Per analogia con il dativo singolare cūi del pronome relativo, si sono formati i dativi *ūnūi e *illūi, da cui in rumeno si sono avuti unui (articolo indeterminativo) "a un", "di un" e il suffisso -lui (articolo determinativo) "al", "del". I genitivi plurali maschili/neutri ūnōrum e illōrum hanno dato origine a unor (articolo inteterminativo) "ad alcuni", "di alcuni" e al suffisso -lor (articolo determinativo) "ai", "dei". In altre parole, si può dire che si è costruita una nuova declinazione dalla destrutturazione di quella antica. 

Singolare
om < homō 

Nominativo/accusativo: 
   indeterminato: un om "un uomo" 
   determinato: omul "l'uomo"
     < homō ille

Genitivo/dativo
  indeterminato: unui om "di un uomo"/"a un uomo"
  determinato: omului "dell'uomo"

Vocativo: omule "o uomo"

Plurale 
oameni < hominēs

Nominativo/accusativo 
  indeterminato: nişte oameni "alcuni uomini"
  determinato: oamenii "gli uomini"
     < hominēs illī

Genitivo/dativo
  indeterminato: unor oameni "di alcuni uomini"/"ad alcuni
       uomini"
  determinato: oamenilor "degli uomini" 
    < hominum illōrum 

Vocativo: oamenilor "o uomini" 
 
Come si può vedere, si è conservato qualcosa dell'antico paradigma latino, ma è altrettanto vero che molto è stato rifatto.

La decadenza del genitivo in tedesco 

Nel tedesco odierno il genitivo è in forte decadenza, essendo sempre più spesso sostituito dalla preposizione von con il dativo. Eppure, ancora nella prima metà del XX secolo, il genitivo era in uso abbastanza rigoglioso. Ecco alcune testimonianze di questo declino, che pare inarrestabile.


"Il caso genitivo è il quarto, ultimo e meno utilizzato caso tedesco. È quasi completamente sostituito dal caso dativo nel parlato e nella scrittura di tutti i giorni." 
 
"Quindi, quello che devi sapere è che non devi imparare il caso genitivo: puoi gestire benissimo le situazioni quotidiane anche senza di esso."
 
"Il caso genitivo in tedesco è uno strano fenomeno al giorno d'oggi. Attualmente è in fase di cancellazione dalla lingua... ma nel frattempo a volte viene ancora utilizzato." 
 
"Il suo strano status di moribondo significa che il genitivo è usato raramente nel tedesco comune e quotidiano; ma è ancora appeso con le unghie nel mondo accademico e in altri registri formali." 

"A meno che tu non sia a un certo punto nei tuoi studi sul tedesco, in cui non riesci a pensare a un’altra benedetta cosa su cui lavorare oltre al caso genitivo, in realtà per ora consiglierei di continuare a ignorarlo."

"A seconda dei tuoi studi o del tuo lavoro, potresti non aver mai bisogno di usare effettivamente il genitivo stesso (a parte forse alcune frasi facili da memorizzare)."

"Ma se scegli di imparare il caso genitivo, probabilmente capirai meglio le notizie, i documenti legali e la letteratura... e c'è qualcosa (di utile) in questo!"

Questo è un caso molto singolare in cui si è sviluppato un processo di autolisi grammaticale non necessaria, avente come risultato la distruzione della lingua e dell'identità. Il genitivo funzionava benissimo, non c'era alcun indebolimento fonetico delle terminazioni caratteristiche. A mio avviso le motivazioni del disastro sono innanzitutto politiche e ideologiche: tutto ciò è stato innescato dall'autorazzismo!

Latino e lituano: un rapido confronto
 
L'usura delle code delle parole non colpisce tutte le lingue con la stessa velocità. Per questo il lituano ha conservato molto bene la declinazione ereditata dall'indoeuropeo, mentre il latino volgare l'ha consumata fino alla scomparsa completa. Riportiamo alcuni esempi significativi per illustrare meglio il concetto. 
Questa è la declinazione del sostantivo výras "uomo" in lituano, derivato dalla stessa radice indoeuropea che ha dato il latino vir "uomo": 
 
Singolare 
 
nominativo: výras
genitivo: výro 
dativo: výrui 
accusativo: výrą 
strumentale: výru 
locativo: výre 
vocativo: výre 

Plurale 

nominativo: výrai 
genitivo: výrų 
dativo: výrams
accusativo: výrus
strumentale: výrais
locativo: výruose
vocativo: výrai 

Questa è la declinazione del corrispondente vocabolo nel latino classico: 

Singolare 

nominativo: vir
genitivo: virī
dativo: virō
accusativo: virum 
vocativo: vir
ablativo: virō

Plurale

nominativo: virī
genitivo: virōrum, virum
dativo: virīs 
accusativo: virōs 
vocativo: virī
ablativo: virīs 
 
Senza entrare troppo nei dettagli, si riescono ancora oggi a individuare le forme simili, derivate da un identico prototipo indoeuropeo (IE).  
 
Dat. sing. virō = Dat. sing. výrui 
   < IE: -ōi
 
Acc. sing. virum = Acc. sing. výrą 
   < IE: -om
 
Voc. sing. vir = Voc. sing. výre 
  < IE: -e
Nota: 
In latino la terminazione -e è scomparsa nei nomi in -r della II declinazione, ma è presente in quelli che conservano -us al nominativo. 

Abl. sing. virō = Strum. sing. výru 
   < IE: -ōd 
 
Nom./voc. pl. virī =  Nom./voc. pl. výrai 
   < IE: -oi  

Gen. pl. virum = Gen. pl. výrų 
  < IE: -ōm
Note: questo genitivo latino continua la forma più antica, poi sostituita da virōrum < *wirōzōm

Acc. pl. virōs = Acc. pl. výrus
   < IE: -ons 

Dat./abl. pl. virīs = Strum. pl. výrais
   < IE: -ois 
 
Come spiegare queste discrepanze? Le genti baltiche sono rimaste in una condizione di grande isolamento dal mondo esterno in cambiamento tumultuoso. Giusto per fare un esempio, hanno adottato il Cristianesimo molto tardi, soltanto verso la fine del XIV secolo. Non ne sono ancora del tutto sicuro, ma credo che i sistemi grammaticali più complessi abbiano la tendenza a trovarsi tra i popoli più isolati. La questione merita di certo ulteriori approfondimenti. Sarò lieto di trattare molti altri casi di semplificazione, scomparsa e ristrutturazione della declinazione in numerose lingue di cui ho qualche rudimento.  

giovedì 14 ottobre 2021

RELITTI ALANICI, CELTICI E PRE-CELTICI NEGLI ARGOT DELLE ALPI PIEMONTESI E FRANCESI

Scorrendo l'opera di Albert Dauzat, Les Argots des Métiers Franco-Provençaux (1917), mi sono imbattuto in qualcosa di inatteso e sorprendente, scorrendo una lista di vocaboli dell'argot dei minatori di Usseglio, nell'Alta Valle della Stura, nel Piemonte alpino. Subito mi è caduto l'occhio su una parola: 
 
dána "acqua" 
 
Non ci sono dubbi sul fatto che si tratta di un vocabolo dell'antica lingua degli Alani, appartenente al ceppo iranico e giunta in Europa occidentale all'epoca della fine dell'Impero Romano. Gli attuali eredi di questo popolo glorioso vivono nel lontanissimo Causaco: sono gli Osseti, che hanno fama di grande valore guerriero e di essere implacabili nella vendetta; le loro donne sono di un'incredibile bellezza. 
 
Questa è la protoforma proto-indoiranica ricostruibile a partire dai dati delle lingue iraniche e indoarie:  

Proto-indoiranico: *dáHnu "acqua; fiume; succo"
 Proto-iranico: *dānu "fiume"
  Avestico: *dānu "fiume"
  Proto-scitico: *dānu "acqua; fiume"
    Alanico: *dān "acqua; fiume"
      Jassico: dan "acqua; fiume"
      Ossetico: дон (don) "acqua; fiume"
  Sanscrito: दानु dānu "goccia, rugiada" 
 
Idronimi slavi di chiara origine alanica:
  Don < *Dānu "Fiume"
  Dnepr < *Dānu apara "Fiume più lontano"
  Dnestr  < *Dānu nazdya "Fiume vicino"
 
La stessa radice, che Marija Gimbutas considerava preindoeuropea e nome della Grande Madre (Dana, Ana), si trova attestata nelle lingue celtiche, con ogni probabilità come resto di un precedente sostrato. In genere è considerarla inseparabile dalle attestazioni nelle lingue indoiraniche, anche se si può dimostrare che non tutto fila così liscio. Questi sono i dati relativi alle lingue celtiche insulari:   

Proto-Celtico: *Dānu- "Dea del Fiume"
  Irlandese antico: *Danu "Dea del Fiume" (gen. Danann)
  Gallese medio: Dôn, nome di una figura mitologica
    (presupposta femminile, anche se il genere non è indicato) 

L'attuale toponimo Doncaster (South Yorkshire, Inghilterra), documentato in latino come Dānum, deriva proprio dal britannico *Dānu-.

Nota:
Il nominativo dell'antico irlandese, *Danu, non è realmente attestato, bensì ricostruito dagli studiosi della fine del XIX secolo a partire dal genitivo Danann (irlandese medio Danand, Donand), che ha una vocale breve. A quanto ne so, il nome si trova soltanto nell'etnonimo mitico Túatha Dé Danann, generalmente tradotto come "Popolo della Dea Danu". Questo però è errato: una traduzione senza dubbio più corretta è "Popoli del Dio di Danann" (al plurale). La ricostruzione di *Danu presenta comunque gravi problemi fonetici e morfologici. Fatta per analogia di Ériu "Irlanda" (genitivo Érenn "dell'Irlanda), non tiene conto di questo fatto: un proto-celtico finale di parola si conserva in antico irlandese se preceduto da un'approssimante, mentre si dilegua se preceduto da altra consonante. Così Ériu termina in -u perché proviene da un precedente *Īwerijū (a sua volta da *Pīwerijū, alla lettera "Terra Grassa"). Così ci aspetteremmo che *Danu sia da un proto-celtico *Danijū. Una protoforma *Danū avrebbe dato invece *Daun. I filologi che hanno ricostruito *Danu non andavano tanto per il sottile: per loro Ériu "Irlanda" era corradicale del sanscrito ārya- "nobile" (da cui Ariani).

Esiste un importante derivato della radice *dānu-, attestato sia in Britannia che nel Continente: 

Proto-celtico: *Dānuwijos / *Dānowijos (idronimo)
  Gallese: Donwy (idronimo)
  Prestiti:
   => Greco antico: Δανούιος (Danóuios), Δανούβιος
     (Danóubios) "Danubio"
   => Latino: Dānuvius, Dānubius "Danubio"
   => Proto-germanico: *Dōnawjaz "Danubio" 

Antico inglese: Dōnua "Danubio"
   => Norreno: Dónua "Danubio"
Antico alto tedesco: Tuonouwa, Duonowa, Tuonouwe
    "Danubio" 
Medio basso tedesco: Dônouw, Dônouwe, Dunouw,
    Dunouwe "Danubio"
Gotico: *Donawi
  => Greco: Δούναβης (Dúnavis)
  => Slavo ecclesiastico: Dunavŭ 
        Russo: Дунай (Dunáj)
 
Analizzando i dati riportati, il dubbio che può venire è questo: il termine dána "acqua" dell'argot di Usseglio potrebbe essere di origine celtica o paleo-europea anziché alanica. Tuttavia ci sono complicazioni di non poco conto che mi portano a scartare questa ipotesi. Il teonimo antico irlandese *Danu mostra una vocale breve e non è adatto alla comparazione con l'idronimo *Dānuwijos / *Dānowijos. Esiste un altro teonimo femminile irlandese che è stato considerato un sinonimo di *Danu, anche se senza fondamento alcuno: Anu, Ánu (genitivo Anann, Ánann). Come si vede, ha una vocale brevo o lunga, ma manca di consonante iniziale. Questo parrebbe dare ragione alle tesi di Gimbutas, ma non bisogna dimenticarsi che Anu non è plausibilmente un sinonimo di *Danu. A quanto appurato, è più probabile che sia un epiteto della Dea della Guerra Mórrígan: come tale è indicato nel Lebor Gabála Érenn (Libro delle Invasioni dell'Irlanda). In totale, non si trova nelle lingue celtiche conosciute un concreto vocabolo *dānu- col significato di "acqua" che possa essere sopravvissuto fino a diventare l'argotico dána. Potrebbe essere pre-celtico, ma di fronte a qualcosa di postulato sulla base dell'antica idronimia, è preferibile qualcosa di attestato in epoca molto più recente, come per l'appunto la lingua degli Alani. 
 
Ulteriori analisi lessicali
 
Ora ci chiediamo se si possano scoprire nel gergo piemontese di Usseglio altri relitti alanici. A una prima occhiata, considerando le mie limitate conoscenze, ho pensato che non ce ne fossero. In ogni caso, non ci si può certo limitare a un'indagine superficiale. Cominciamo con l'elencare alcune parole. Alcune voci sono abbastanza banali, altre sono comuni a molti argot e furbeschi d'Italia, altre ancora sono di estremo interesse. Ecco un breve elenco, sempre tratto dal lavoro di Dauzat:
 
áfru "uova" 
arkist "soldato" (dal nome dell'archibugio)
armáji "vacca"
béra "pecora" 
bernia "soldi"
brüna "sera" (è il furbesco bruna)
ciamba "settimana" 
címa "vino"  
cípru "coltello"
dartún "pane" (cfr. Spasell arton "pane") 
ganéla "donna" 
kalagn "luna" 
kéla "formaggio" 
koiz "casa" 
krurina "carne" 
pija "vino" 
rébu "legno" 
ténu "fuoco" 
tiná "cuocere"  
tril "paese, villaggio" 
trisá "mangiare"
trumba "spia" (è come l'italiano tromba
vergne "città", "Torino"
vorp "pane" 
 
Considero sommamente utili queste operazioni di scrutinio di glossari più o meno estesi. Ecco un'altra parola possibilmente formata da una radice iranica, che sono incline ad attribuire agli Alani: 
 
krurina "carne"  
 
Queste sono le corrispoindenze iraniche che ho potuto reperire nel dizionario di Julius Pokorny, elencate sotto la radice proto-indoeuropea da lui ricostruita come kreu- , kreuǝ- : krū- ; kreus- , krus- "sangue, carne cruda; crosta, ghiaccio":
 
Avestico: xrūra- "sanguinante; sanguinario, crudele"; 
    xrvant- "terribile; sanguinario"
    xrū- (accusativo xrūm) "pezzo di carne insanguinata"
    xrvi-dru- "che brandisce un'arma di legno insanguinata"
    xrvīsyant- "sanguinario; terrificante"
    xrūma- "orribile"
    xrūnya- "crimine sanguinoso; abuso sanguinoso"
    xrūta- "orribile; crudele"
    xrūždra- "duro"
    xraoždva- "duro" 

Scitico: Xrohu-kasi- "Scintillante di Ghiaccio", donde "Caucaso" 

Resta il fatto che non abbiamo ancora una certezza assoluta.
1) Non sono riuscito a trovare informazioni sull'evoluzione del gruppo consonantico *χr- in ossetico; non sembra comunque implausibile che si sia conservato, finendo poi adattato in kr- in una lingua romanza; 
2) Non sono riuscito a trovare derivati ossetici di una radice proto-iranica *χrūra-
3) Il suffisso -in- di krurina è oscuro;
4) Esistono sia in celtico che in latino derivati della stessa radice proto-indoeuropea *krewh2- "sangue (fuori dal corpo)":
   Proto-celtico: *krūs / *krowos "sangue" 
      Irlandese antico: crú "sangue"; cró "morte violenta";
          "wergild
   Latino: cruor "sangue versato" (genitivo cruōris);
       cruentus "sanguinario" 
 
Tuttavia si noterà che né in celtico né in latino esistano derivati credibili che possano confrontarsi con la parola argotica krurina "carne". 

Il nome alanico del pane

In altri argot ecco che troviamo un vocabolo la cui attribuzione alla lingua degli Alani può dirsi sicura. 
 
Alta Savoia, argot dei muratori di Tarentaise: dzou "pane" 
Alta Savoia, argot dei vogatori: chou, zou "pane"
Alta Savoia, argot dei tagliatori di pietre: maca-jhoulâ
     "fare il pane" (macâ "lavorare" è di chiara origine
     germanica)
Valle d'Aosta: dzou "pane"
 
Questa parola è quasi identica all'ossetico dzul "pane" (scritto in caratteri cirillici дзул e pronunciato /ʒul/). La liquida finale -l deve essersi velarizzata e quindi dileguata, ma si noterà che se ne trova ancora traccia nell'argot dei tagliatori di pietre, che ha maca-jhoulâ "fare il pane". Purtroppo non sono riuscito a reperire informazioni sull'etimologia di questa parola ossetica, che sembra sconosciuta. Non mi è quindi possibile fare ulteriori speculazioni, a parte questa: la presenza di un vocabolo alanico per indicare il pane è un forte indizio a favore della natura alanica e non pre-celtica del vocabolo per indicare l'acqua, di cui abbiamo parlato sopra.  
 
Il nome celtico del fuoco  
 
Scorrendo il campione di materiale lessicale sopra riportato, vediamo poi una piacevolissima quanto inattesa sorpresa: un'importante radice celtica: 
 
ténu "fuoco" 
tiná "cuocere" 
 
Sempre il Dauzat riporta diverse occorrenze della stessa radice nel Giura meridionale o cretaceo: 
 
Giura meridionale, 1a fonte: teyno "fuoco", tena "secchezza"
Giura meridionale, 2a fonte: tino "fuoco" 
Giura meridionale, 4a fonte: tinna "fuoco, calore", tinna
   "cuocere"  

Questa è la protoforma celtica con le attestazioni dei suoi discendenti nelle lingue celtiche insulari:
 
Proto-celtico: *teϕnets < *tepnets "fuoco"
    (genitivo *teϕnetos < *tepnetos "del fuoco")
  Irlandese antico: teine "fuoco" (genitivo teined)
    Irlandese: tine "fuoco" (genitivo tine, tineadh)
    Gaelico di Scozia: teine "fuoco" (genitivo teine)
    Manx: çhenney "fuoco" (genitivo çhenney, pl. çhentyn)
  Gallese medio: tan "fuoco" 
    Gallese: tân "fuoco"
  Cornico: tan "fuoco" 
  Bretone: tan "fuoco" 

In ultima analisi, proviene dalla radice proto-indoeuropea *tep- "essere caldo", "essere ardente", la stessa che ha dato origine anche al latino tepēre "essere caldo", "essere tiepido". 

Un nome pre-celtico del fiume 

Negli argot del Giura meridionale o cretaceo, troviamo una parola importante, che trova la sua attestazione non solo nell'antica idronimia pre-celtica della Valle d'Aosta e del Piemonte, ma anche nel moderno piemontese: 

doira "fiume" < *duriā

La radice di questo vocabolo si trova nel nome di due fiumi: la Dora Baltea (latino Duria Bautica o Duria Maior) e la Dora Riparia (latino Duria Minor), ma la sua presenza si spinge fino all'Aquitania e all'Iberia. In Francia troviamo gli idronimi Dore, Doron e Douron. Il fiume Duero (latino Durius) è il terzo fiume più lungo della penisola iberica.

Alcuni brevissimi glossari
 
Nei glossari qui riportati, segno in corsivo grigio le corrispondenze certe. 
 
Glossario Ossetico - Argot di Usseglio 
 
art = ténu 
don = dana  
dzul = dartún, vorp 
mæj = kalagn  
 
Glossario Irlandese - Argot di Usseglio 
 
arán = dartún, vorp
gealach
= kalagn
tine = ténu 
uisce = dana 
 
Glossario Ossetico - Argot della Valle d'Aosta 
 
art = roubio 
don = vouace, vouache 
dzul = dzou 
 
Adesso mi sorge una domanda. Perché nessuno ha mai scoperto e studiato prima d'ora questi relitti? C'è moltissimo altro materiale sorprendente, che sarà trattato in modo approfondito in altre occasioni.