mercoledì 6 gennaio 2016


L'ULTIMO TRAMONTO
SULLA TERRA DEI McMASTERS

Titolo originale: The McMasters
Paese: USA
Anno: 1970
Genere: Western, Blacksploitation
Durata: 97 min (originale) / 89 min
Regia: Alf Kjellin
Sceneggiatura: Harold Jacob Smith
Musiche: Coleridge-Taylor Perkinson
Cast:
   Richard Alden (Lester)
   R.G. Armstrong (Watson)
   Marion Brash (Sig.ra Watson)
   David Carradine (Penna Bianca)
   John Carradine (Predicatore)
   Dane Clark (Spencer)
   Neil Davis (Sylvester)
   Paul Eichenberg (Jud)
   Alberto Hockmeister (Sceriffo)
   Burl Ives (McMasters)
   L.Q. Jones (Russel)
   Nancy Kwan (Robin)
   Jack Palance (Kolby)
   Brock Peters (Benjie)
   Frank Raiter (Grant)
   Lonnie Samuel (Bull)
   Alan Vint (Hank)

Trama (da filmtv.it):
Benjie, soldato di colore arruolato nell'esercito nordista, ritorna nella cittadina di Ironwood nel Sud degli Stati Uniti dopo la guerra civile. Il vecchio proprietario terriero Mc Masters lo accoglie come un figlio e lo prende come socio nella sua fattoria. Purtroppo però la maggior parte dei cittadini, che parteggiavano durante il conflitto per i sudisti, si dimostrano ostili nei suoi confronti e anche dei Mc Masters, che gli hanno dato ospitalità. Benjie reagisce, ma le cose si complicano quando sposa una giovane pellerossa. Narrazione robusta e ritmo sostenuto, con qualche forzatura di troppo.

Recensione: 
Lo hanno definito più volte un film ideologico, ma a parer mio tratta una realtà di fatto che fino a non molto tempo fa era viva e vitale negli Stati del Sud. A chi in Italia continua a cianciare di razzismo, per lo più senza cognizione di causa, consiglio vivamente di guardare questo film crudo e disturbante. Un tempo veniva trasmesso spesso su reti televisive private: ricordo ancora di averlo visto diverse volte, reagendo alla sua visione come se avessi ricevuto un pugno nello stomaco. Ai nostri giorni questo costume di mandare in onda film salutari è purtroppo andato smarrito. Sarebbe opportuno ripristinarlo: l'auspicio è che di fronte alla violenza delle scene di razzismo autentico, saltino agli occhi le sudicie manipolazioni di chi vorrebbe attribuire l'etichetta di "razzista" a tutti coloro che non condividono le storture del politically correct


Guerre razziali nel culo del mondo

Guardando le tristissime sequenze di The McMasters si ha un'impressione cruda e sgradevole: se l'Universo avesse un orifizio anale, il desolato villaggio di Ironwood sarebbe collocato al suo interno, nel bel mezzo di una massa di emorroidi. Un microcosmo desertico abitato da forme di umanità degradata e insignificante, che pure si danno mazzate sul cranio di santa ragione per motivi di una futilità infinita. La lotta si articola in una specie di triangolo razziale: il primo vertice è costituito dai possidenti di Ironwood, tutti di origine anglosassone; il secondo vertice è formati dagli Indiani, che vivono in condizioni abiette nel deserto, sopravvivendo grazie ai furti di bestiame; il terzo vertice consiste nell'unico afroamericano presente nella narrazione, l'ex schiavo Benjie. Si nota una spaventosa sproporzione in questo spinoso problema a tre corpi: è come se un solo uomo, in virtù delle sue lontane origini nel Continente Nero, fosse dotato di un potere destabilizzante assoluto, che manda in frantumi ogni precedente equilibrio, come un singolo sassolino in grado di far ghiacciare all'improvviso un lago che si trova in condizioni di metastabilità. A far precipitare gli eventi è il matrimonio tra Benjie McMasters e una donna indiana, Robin, celebrato proprio nella chiesa del paese. Infatti i proprietari terrieri vedono questo evento non soltanto come un affronto, ma anche come un concreto pericolo, dal momento che sancisce l'alleanza tra un nero - corpo estraneo nel tessuto del paese - e la tribù indiana, sempre pronta ad insorgere in armi. In realtà l'alleanza tra i McMasters e gli Indiani non è così scontata: nonostante tutti i benefici ricevuti, Penna Bianca fa sapere che i suoi non hanno alcun interesse a difendere la proprietà di un nero che si comporta come un bianco, mettendo steccati e confini sulla terra. Persino quando la moglie di Benjie viene violentata dai visi pallidi, Penna Bianca non fa una piega. Gli anziani della tribù fanno anzi capire che per loro è una cosa normale. "Conosciamo i bianchi", fa sapere lapidario il capo. Alla fine Penna Bianca e i suoi uomini aiuteranno l'afroamericano ferito, uccidendo i suoi nemici a fucilate. Il protagonista non riuscirà a riprendersi dall'annientamento del suo mondo e dal fallimento dei suoi progetti. Rifiuterà di stare tra gli Indiani e, cocciuto all'ennesima potenza, aggrappandosi al dorso di un cavallo si trascinerà verso le ceneri del suo ranch. "Non hai più una casa!", è l'urlo finale che gli viene rivolto dall'indiano, che rimbomba fino all'orizzonte di terra arida e di sterpi.  

Il Dio dell'Odio e della Vendetta 

Il maggiore Kolby, interpretato dal disturbante Jack Palance, è un feroce pretoriano del Dio del Male, che in Persia era chiamato Ahriman. L'aspetto del reduce confederato è terribile: occhi piccoli e neri, ma in cui arde un'inestinguibile luce di odio, il braccio sinistro amputato ben sopra il gomito e ridotto a un moncherino. La manica dell'uniforme grigia del Sud, cucita per nascondere il residuo dell'arto mutilato, crea un effetto straniante, di innaturalità. In occasione del funerale di alcuni dei suoi uomini, uccisi nel corso di un'incursione al ranch di Benjie McMaster, ecco che Kolby prende la parola. Non soltanto egli difende il discutibile operato di quelli che or della fine sono soltanto stupratori e assassini, ma si impegna in argomentazioni teologiche. Finito il sermone del prete, il mitissimo Spencer, che prova nausea per la violenza imperante a Ironwood, invoca il Dio che ha come essenza l'Amore e la comprensione. Subito il maggiore mutilato si scaglia contro di lui, invocando il Dio della Spada Vendicativa. Marcione di Sinope non avrebbe avuto dubbi, se solo avesse potuto vedere il film di Kjellin. Veterotestamentaria nell'essenza più profonda, l'America menziona spesso Cristo, ma di fatto lo espellerebbe volentieri dalla propria esistenza per affermare il più belluino culto del Signore degli Eserciti, padre di ogni genocidio e di ogni persecuzione. Marcione distingueva in modo nettissimo tra il Dio dell'Amore, Padre di Gesù, e il Dio della Legge, ossia la spietata divinità dell'Antico Testamento, le cui opere sono interamente malvagie. Ecco, tra gli americani abbondano i fanatici che rivolgono le loro invocazioni al Dio della Legge, sempre inclini a benedire le impiccagioni. Senza saperlo, Kjellin ha scritto un'interessante pagina di Dualismo moderno, facendo scontrare due uomini che possono essere visti come emissari delle due Divinità. Questa ispirazione si perde nel Nulla di Ironwood, mentre il becchino getta palate di terra molle sui corpi dei morti.

Doppio finale  

Il film fu rilasciato in due versioni, di cui una più breve e nota come The McMasters... Tougher than the West Itself. In questa versione alternativa l'assalto finale vede il trionfo del maggiore Kolby e dei suoi mirmidoni, che freddano Benjie. Come si può ben capire, la natura dei due finali è profondamente diversa. Non che la cosa abbia avuto una qualche rilevanza, dato che la pellicola di Kjellin fu comunque un insuccesso. Secondo la critica, la duplicità del finale è un problema, perché oscura gli intenti morali del regista. Nel Web ho trovato ben poche informazioni; sembra in ogni caso che le due versioni si siano originate dall'impossibilità di decidere tra l'etica e il botteghino. Il pubblico americano, che vede l'etica in termini unicamente sessuali e che ama i linciaggi, avrebbe di certo preferito The Macmasters... Tougher than the West Itself. Nel resto del mondo, ci sarebbe stata invece una certa ripugnanza per un simile trionfo dei malvagi, così agli eventi è stato dato un corso che appare appena più favorevole al protagonista. Appena più favorevole, perché in ogni caso la vicenda di Benjie McMasters si conclude con una catastrofe.

I SUPERSTITI DEL WYOMING

Titolo originale: The Hunters
Autore:
 Jack Lovejoy
Anno: 1982
Pubblicazione in Italia: Urania 963 (5/2/1984)
Copertina: Karel Thole

Sinossi (da MondoUrania): 
Ai confini del Wyoming, dell'Idaho e del Montana, il Parco Nazionale di Yellowstone proteggeva fino a ieri orsi e coguari e altre specie minacciate di estinzione. Oggi protegge rari superstiti umani, dopo il fulmineo e mortale attacco alla Terra da parte di alieni mostruosi. Ma domani sarà di li che i sopravvissuti partiranno al contrattacco. Un lungo romanzo tutto d'azione di cui Andre Norton ha scritto che "ha il solo torto d'essere troppo breve". 
   

Recensione:
Condivido appieno l'opinione di Andre Norton su questo piccolo capolavoro. Pur essendo datato,
brilla ancora di una luce inestinguibile. In realtà è molto di più di un romanzo di SF: è un interessantissimo studio antropologico sulla fine di una civiltà tecnologica e sulla riorganizzazione dei sopravvissuti in nuove forme di società, spesso brutali e abiette. Il mondo all'indomani dell'arrivo degli invasori extraterrestri inizia ad assumere caratteri sempre più simili a quelli della più remota preistoria. Protetta da un'anomalia magnetica che respinge le astronavi, una sparuta comunità lotta per la sopravvivenza. Il loro capo, un giovane irrequieto, decide di intraprendere un viaggio nelle pericolose terre esterne, dove si imbatterà in pericoli spaventosi e vedrà innumerevoli orrori. L'autore ci rivela mondi incredibili e ci porta a capire infine la natura degli alieni, che renderà conto di molte cose a prima vista inspiegabili. Non proseguo oltre per non rovinare il piacere della lettura a chi si accinge ad immergersi in questo desolato mondo futuribile. 
 
Mi limiterò a poche note su un paio di particolari che trovo di grande interesse, la cui breve trattazione può solo invogliare i navigatori a leggere il romanzo di Lovejoy.

Corsi e ricorsi di Grendel

Uno ienodonte colossale terrorizza gli abitanti di un distretto, che sono piccoli e rachitici come Hobbit. Queste strane genti vivono nel sottosuolo in condizioni precarie, ma hanno alcuni costumi singolari. Ad esempio bevono idromele. Parlano in modo incomprensibile e chiamano Grendel il mostro che li perseguita. Il giovane protagonista scopre che questo Grendel non è davvero una reminiscenza della creatura della stirpe di Caino descritta nel Beowulf: si tratta invece di una pronuncia consunta ed evolutiva di Grey Devil "Diavolo Grigio". Anche l'idromele non è qualcosa di tramandato dalla remota antichità. Si tratta soltanto del dono di un benefattore che ha trovato in qualche documento la ricetta della bevanda e l'ha utilizzata per rendere potabile l'acqua, con grande successo.

domenica 3 gennaio 2016

ALCUNE NOTE SULLE ISCRIZIONI DELLA TOMBA DEGLI ANINA

Coloro che identificano i numerali etruschi huθśa con "quattro" e "sei" rispettivamente, non paghi dell'estrema fragilità logica dell'argomento Hyttenia, si rivolgono alle iscrizioni della Tomba degli Anina, nel vano tentativo di portar acqua al loro mulino.



"Questa tomba, nota per essere appartenuta alla famiglia aristocratica degli Anina, che ebbe per capostipite Larth Anina, si trova a poca distanza dalla necropoli di Monterozzi nella cosiddetta Necropoli Scataglini ed è stata scoperta nel 1967. E' composta di un'unica grande camera quadrangolare con soffitto piano e grezzo ed ai lati della porta sono dipinte le figure dei due demoni etruschi della morte: Charun, rappresentato con un martello in mano, per infliggere pene alle anime, e Vanth, il principale demone femminile, alato ed a seno nudo, con in mano la torcia per rischiarare il cammino verso gli abissi dell'oltretomba. Siamo evidentemente al tramonto della civiltà etrusca, quando apparve agli etruschi ormai inarrestabile il declino della loro civiltà ed il sottosuolo di Tarquinia si riempì di figure demoniache sconvolgenti (Fine III secolo a.C.)"

Le iscrizioni della Tomba degli Anina utilizzate dai nostri avversari sono etichettate come TLE 880 e TLE 882 nel Testimonia Linguae Etruscae. L'iscrizione TLE 882 comprende due diverse redazioni sovrapposte. Riporto in questa sede i testi in lingua etrusca, tratti da un backup del sito di Adolfo Zavaroni, ora scomparso dalla Rete. 

TLE 880
aninas : larθ : velus : arznal : apanes : śurnus : scunsi : cates : an : vacl : lavutn : [---]e : travzi : sam śuθi : ceriχun[ce] : θui zivas avils LXXVI

TLE 882 (prima redazione) aninas : vel : velus : apanes : śurnus travzi : scunsi : cates : zivas : ceriχu avils XXXXIII

TLE 882 (seconda redazione) aninas : vel : velus : apanes : śurnus : </s/c/an/> /? travzi : scunsi : cates : <tev> : <sacu> : svalce avils XXXXIII . sa śuθi ceriχunce saniśa θui puts

Le parole tra parentesi <> nella seconda redazione di TLE 882 sono restaurazioni compiute dallo stesso Zavaroni. Ho riportato tali letture, non potendo al momento compiere approfondimenti. Per quanto possa sembrare assurdo, non è facile reperire i testi online.  

I fautori dell'identificazione di huθ con 4 e di śa con 6, come ad esempio Carlo D'Adamo, sembrano usare queste iscrizioni come prova definitiva delle loro tesi. Infatti, constatato che la Tomba degli Anina contiene sei loculi, essi sostengono ad esempio che la sequenza sam śuθi ceriχunce di TLE 880 vada tradotta con "e sei tombe fece costruire". Invece significa "ed egli stesso la tomba fece costruire". Questo è quanto:

1) I lemmi sam (TLE 880) e sa (TLE 882) non hanno nulla a che fare con il numerale śa. In iscrizioni con i caratteri s e ś distinti a Tarquinia, ś esprime il suono palatale /ʃ/ dell'italiano scena e si distingue da s. Così nella sequenza sa(m) śuθi si vede chiaramente che mentre la parola śuθi è scritta correttamente con ś, il preteso numerale avrebbe la consonante sbagliata.
2) È chiaro che il termine
śuθi "tomba" si riferisce all'intero ambiente sepolcrale e non a ciascuno dei loculi. L'autore avrebbe scritto śa hupni se avesse voluto indicare le sei sepolture.

In letteratura si trova un lavoro su questo raro pronome personale sa

K. Wylin, Un terzo pronome/aggettivo dimostrativo etrusco sa
(Studi Etruschi, MMIV - Vol. LXX, Serie III, pubblicato nel 2004. Pagg. 255-267)

Detto questo, le argomentazioni del D'Adamo e dei suoi seguaci archeologi si possono dire neutralizzate.

LA SOLUZIONE DEL MILLENARIO ENIGMA DI HYTTENIA 'TETRAPOLIS'

Ancora oggi il greco Hyttenia (Ὑττηνία), antico nome di Tetrapolis, è usato come argomento per assegnare al numerale etrusco huθ il valore di "quattro", immaginando che il toponimo più recente traduca alla lettera il più antico. Ho già espresso una serie di opinioni sull'argomento, ma ora, approfondendolo, aggiungo qualche nota ulteriore. 

Quello che è sfuggito finora a tutti è che secondo la tradizione a fondare la lega Hyttenia è stato l'eroe Hyttenios (Ὑττήνιος). Ne emerge la somma improbabilità di una traduzione letterale Tetrapolis, visto che non si può interpretare l'eponimo pre-greco servendosi di un toponimo ellenico: si tratta di due categorie concettuali disomogenee.

Non si può nemmeno pensare a una creazione artificiale, un eponimo fittizio inventato per spiegare un toponimo: questo Hyttenios svolgeva un ruolo di primo piano nelle tradizioni locali. Così si legge nel Calendario dei Sacrifici di Maratona (American Journal of Archaeology 10, 209-226):

Nel mese Skiraphorion, prima della <festa> Skira. A Hyttenios, frutti di stagione, una pecora, dodici dracme. A Kourotrophos, un maiale, tre dracme, una porzione sacerdotale, due dracme, un obolo. Ai Tritopateres, una pecora, una porzione sacerdotale, due dracme. Agli Akamantes, una pecora, dodici dracme, una porzione sacerdotale, due dracme.  

Come risulta ovvio, nessuno si sognerebbe mai di fare offerte sacrificali in memoria di un eroe fittizio inventato da un dotto per spiegare un nome di luogo. Qui si tratta addirittura di una figura divinizzata. Che i sostenitori dell'argomento Hyttenia se ne facciano una ragione: Hyttenios è reale e ben fondato nella tradizione attica.

Come mai finora questo eponimo Hyttenios non era mai saltato fuori in nessuna trattazione etruscologica? Queste sono le risposte:

1) Disonestà intellettuale di colui che per primo ha proposto l'argomento;
2) Copiatura pedissequa da parte di coloro che hanno ripetuto l'informazione (un vizio insidioso che può colpire chiunque e che non mi ha certo risparmiato);
3) Inerzia mentale di chi non ha mai approfondito la questione cercando le notizie disponibili, foss'anche nel Web (anche questa è un'insidia sempre in agguato, da cui nessuno è immune).

Di fronte a Hyttenios dovremmo porci allora la seguente domanda: da dove viene questo antroponimo?

Data la natura dell'aspirazione che in greco classico precede sempre la vocale υ e le impedisce di iniziare la parola, e data la trasformazione di un'originaria sibilante in aspirazione, ci sono tre possibilità:

1) *UTTE:NIO- / *UTTA:NIO- 
2) *HUTTE:NIO- / *HUTTA:NIO-  
     (con h- confrontabile con lo stesso suono in tirrenico)
3) *SUTTE:NIO- / *SUTTA:NIO-

Quale delle tre? Come si vede, l'argomento Hyttenia - Tetrapolis è a dir poco labile.
Se valesse la ricostruzione 2) e la radice fosse tirrenica, allora sarebbe addirittura possibile che un antroponimo *HUTTENI- significasse "Sesto Nato" (in etrusco abbiamo hutni- "sesta parte, un sesto", attestato nel Liber Linteus).

Questo è un buon metodo: diffidare delle assonanze, sempre, e approfondire ogni suggerimento. Occorre attuare procedure di verifica che integrino dati linguistici ed extralinguistici. Curioso che i "seminatori di dubbi" tanto diffusi nel Web mostrino poi una fede cieca proprio nelle assonanze e nelle baggianate cabalistiche.

venerdì 1 gennaio 2016

I NOMI DELLE LETTERE GOTICHE IN UN MANOSCRITTO DI ALCUINO

Queste sono le lettere dell'alfabeto di Wulfila con il loro nome riportato in un manoscritto di Alcuino (Codex Vindobonensis 795):

𐌰    aza
𐌱    bercna
𐌲    geuua 

𐌳    daaz 
𐌴    eyz
𐌵    qertra 
𐌶    ezec 
𐌷    haal 
𐌸    thyth 
𐌹      iiz  
𐌹̈      iiz 
𐌺     chozma  
𐌻     laaz  
𐌼     manna  
𐌽     noicz  
𐌾     gaar  
𐌿     uraz  
𐍀     pertra  
𐍁     -  
𐍂     reda  
𐍃     sugil  
𐍄     tyz  
𐍅    uuinne  
𐍆     fe  
𐍇    enguz  
𐍈    uuaer  
𐍉    utal  
𐍊    

I nomi di queste lettere nella lingua di Wulfila sono stati evidentemente riportati da Alcuino secondo la pronuncia che doveva essere in auge ai suoi tempi. Questo significa che la lingua dei Goti era ancora parlata a quell'epoca e che aveva subìto un'evoluzione fonetica, arrivando ad allontanarsi non poco dalla pronuncia del IV secolo d.C. Sembra probabile che Alcuino abbia appreso questi nomi dalla viva voce di un parlante goto, ingegnandosi a trascriverli come poteva.

Alcuni mutamenti fonetici sono simili a quelli registrati in numerosi antroponimi attestati all'epoca del regno degli Ostrogoti. Così la vocale lunga /o:/ si è chiusa fino a diventare /u:/, mentre la sillaba finale /-us/ è divenuta /-əs/, scritta -as nell'antroponimo Sunjaifriþas (Atti di Napoli) e -az nel nome della lettera /'u:rus/, trascritto come uraz.

Vediamo qualcosa di molto singolare nella lettera che Alcuino ha trascritto come eyz. Questa è tradizionalmente interpretata come aiƕs "cavallo", attestato in aiƕatundi "pruno" (lett. "dente di cavallo") e di ottima tradizione indoeuropea (cfr. latino equus, greco ἵππος, celtico epo-). Tuttavia qualcosa non quadra. La parola gotica infatti suonava /ɛxws/ con la vocale /ɛ/ breve ed aperta. Invece la lettera gotica chiamata eyz esprime il suono di una vocale /e:/ lunga e chiusa, che non si confonde mai con la precedente. Nel gotico di Wulfila questo si vede bene, e la filologia germanica lo conferma.

Quanto esposto prova che eyz non può stare in alcun modo per il gotico aiƕs. Si nota che in numerosi trattati sulle rune si trova una diversa trascrizione, ossia egeis. Basta fare una rapida ricerca per trovare tale voce, che è presentata come un vocabolo realmente attestato. Il punto è che il lemma *egeis /'e:γi:s/ non significa affatto "cavallo". Significa "mare" e corrispondente alla perfezione al teonimo norreno Ǽgir, che indica il Signore del Mare. Lo stesso vocabolo dotto ǽgir si usava in poesia e traduceva "mare", "oceano". Qualche germanista serio deve avere ricostruito il corrispondente gotico *egeis a partire dal norreno, poi i runologi lo hanno male interpretato e diffuso. Questa è la spiegazione del nome eyz

L'identificazione erronea di eyz con aiƕs ha portato a una conseguenza drammatica. Meditando su questi argomenti, mi sono reso all'improvviso conto di cosa è successo in un testo neogotico che narra dei fatti accaduti all'epoca della Migrazione, di cui abbiamo trattato. L'autore scriveva attiuha eiz mein, e io non ero stato in grado di tradurre questo eiz. Ecco gli errori dello sconosciuto autore.
1) Ha preso il nome della lettera eyz da Alcuino, dando per buono il suo significato di "cavallo".
2) Ha sostituito -y- con -i- e ha ottenuto *eiz, credendolo la parola genuina per "cavallo".
3) Ha dato per scontato che questo *eiz fosse un neutro, e ha coniato il fantomatico attiuha eiz mein per dire "condurrò il mio cavallo".

Volendo ottenere un corretto testo neogotico, la frase "condurrò il mio cavallo" si deve invece tradurre attiuha aiƕ meinana. Questa frase Alarico e Teodorico il Grande l'avrebbero capita e ritenuta della lingua avita.

Riporto a questo punto i nomi nell'ortografia di Wulfila, omettendo l'asterisco.

𐌰    ahsa "spiga" (1) 
𐌱    bairkan "ramo di betulla"
𐌲    giba "dono"

𐌳    dags "giorno"

𐌴    egeis "mare"
 
𐌵    qairþra "boccone" (2) 
𐌶    - (3) 
𐌷    hagl "grandine"
𐌸   
þiuþ "il bene"
𐌹      eis "ghiaccio" 

𐌹̈      eis "ghiaccio"

𐌺    kusma "bubbone"

𐌻    lagus "acqua"

𐌼    manna "uomo"

𐌽    nau
þs "necessità"
𐌾     jer "anno"

𐌿     urus "uro" 

𐍀     pair
þra (4)
𐍁     - 

𐍂     raida "carro"

𐍃     sauil "sole"

𐍄     teiws "dio" 

𐍅    winja "gioia"

𐍆     faihu "bestiame; denaro"

𐍇    iggws "dio degli Ingevoni"  

𐍈    
ƕair "calderone" (5)
𐍉    o
þal "patria"
𐍊     -

(1) Probabilmente per motivi superstiziosi ha cacciato l'esito di proto-germanico *ansuz "(semi)dio".
(2) Cfr. antico alto tedesco querdar "boccone".
(3) Forma gotica al momento non ricostruibile. 
(4) Dati i dubbi e le difficoltà etimologiche, non fornisco la traduzione. Potrebbe significare "albero da frutto" o "grembo di donna". Se giungerò a conclusioni ragionevoli, non mancherò di pubblicare un intervento.
(5) La trascrizione di Alcuino, uuaer, non può - per ragioni etimologiche - contenere un dittongo. Sarà un mezzo grafico per esprimere una vocale molto aperta /æ/.

L'ANNOSO PROBLEMA DEL NOME GOTICO DELL'ELEFANTE

La ricostruzione della parola gotica per indicare l'elefante è finalmente un fatto compiuto. Possiamo con sicurezza porre gotico *ailipandus /'ɛlipandus/ "elefante". Nella trascrizione etimologica tradizionale si scriverebbe *aílipandus. Noi non usiamo questa ortografia, dato che ci riferiamo al gotico dell'epoca di Wulfila (IV secolo d.C.), e in quanto la scelta editoriale di esprimere le vocali brevi /ɛ/ /ɔ/ con i digrammi può risultare estremamente ingannevole, soprattutto per i lettori italiani. Così nella lingua gotica ricostruita (conlang neogotica), avremo ailipandus, e per i nostri fini potremo usarlo senza l'asterisco tanto caro agli accademici, che come è risaputo si baloccano nella loro torre d'avorio senza volersi applicare a concrete e sistematiche imprese di ricostruzione delle lingue antiche.

Le basi che provano la fondatezza e la bontà del lemma da noi ricostruito sono le seguenti: 

1) L'antroponimo Elipandus, portato da un dissidente religioso spagnolo (VIII-IX sec.) 
2) Antico alto tedesco elphant, helphant, elepant "elefante"
3) Antico inglese (anglosassone) elpend, ylpend "elefante"

Da questo vediamo che nella lingua di Wulfila *ailipandus "elefante" doveva essere ben distinto da ulbandus "cammello", proprio come in antico alto tedesco elphant "elefante" era ben distinto da olbenta "cammello" (variante olbento, antico sassone olbundeo). In altre parole si tratta di un doppione, entrato in gotico due volte da due fonti diverse (in una con vocale oscurata dalla liquida velare), e con significati diversi. La forma ulbandus sarà da un latino volgare *olifantus, che non è sconosciuto alle lingue romanze (si veda ad esempio il famoso Olifante, corno d'avorio del paladino Orlando, dall'antico francese olifant).
Questo pone fine, si spera una volta per tutte, all'annoso problema del vocabolo gotico per indicare il pachiderma proboscidato.

In particolare: 

1) Non si deve ricostruire *feils "elefante" sulla base del norreno fíll "elefante", che chiaramente ha la sua origine nell'arabo fīl. Questo notevole vocabolo è attestato in un verso risalente al X secolo (Fb. i. 209), che tuttavia alcuni ritengono non autentico. Molto probabilmente è giunto tra i Vichinghi attraverso il persiano, seguendo le rotte commerciali della Russia e di Costantinopoli.
2) Non si dovrebbe usare ulbandus col significato di elefante: l'antico alto tedesco e l'anglosassone distinguono chiaramente l'elefante dal cammello. Ad esempio abbiamo in anglosassone on horsum and on, múlum and on olfendum and on elpendum, tradotto con "equis et mulis et elephantis et camelis" (Nar. 9. 15). Tuttavia pare certo che qualche sovrapposizione potesse sussistere in alcuni casi, come mostrato dall'esempio del norreno, in cui 
úlfaldi "cammello" si può tradurre con "elefante" in un famoso detto latino elephantum ex musca facere "far di una mosca un elefante" (gera úlfalda úr mýflugu).

mercoledì 30 dicembre 2015

ANCORA SUI FORMANTI ANTROPONIMICI IBERICI

Proseguiamo l'analisi dei formanti che compaiono negli antroponimi della lingua iberica. Dopo le 92 radici analizzate nel nostro precedente articolo sull'argomento, ne aggiungiamo altre 68, arrivando così a un totale di 160 voci. In pratica quasi tutti i formanti antroponimici trattati da Jesús Rodríguez Ramos nei suoi lavori, escludendo alcuni elementi che si sono dimostrati cattive letture (come quelli in cui la sillaba ta era letta erroneamente bo) e includendone alcuni nuovi. Questi sono i link agli articoli di tale autore:



Si tenga conto che questo materiale è praticamente inedito in Italia: non sono riuscito a trovare studi di alcun genere condotti nella nostra lingua sull'iberico, a parte le mie elucubrazioni pubblicate in questo blog. Ecco la seconda lista dei formanti antroponimici: 

1) aŕbi, ALBE /'arbi, 'albe/ "lato, fianco; pendio,
        montagna"
  
     basco alpi 'lato, fianco'
Attestazioni: ALBENNES (= lat. Montanus), ARBISCAR, aŕbiskaŕ, kaisuraŕbitan, śikaŕbi  

2) ASTE(R) "studio"
    basco azterren 'studio, indagine'
Attestazioni:
ASTERDUMARI*, ASTEDUMAE, astebeikeaie *Attestato in contesto vasconico, è evidente la sua natura iberica. Anche le voci basche devono essere prestiti iberici.

3) atun /'atun/ "cento; immenso" 
Orduña Aznar (2005) propone che possa essere il corrispondente iberico del basco ehun "cento". Accolgo la proposta; che la parola iberica sia imparentata con quella basca mi appare in ogni caso dubbio.
Attestazioni: atun-iu (con congiunzione), ATULLO.

4) AUSTIN- "prossimo"
   basco auzo 'prossimo; abitante'
Il vocabolo basco funge sia da sostantivo che da aggettivo ("comunale"), una caratteristica che è molto comune in iberico. Attestazioni: AUSTINCOauśtikum (Botorrita)*, auśtunikum (Botorrita)*
*Elementi onomastici iberici in contesto celtiberico

5) ban /man, -ban, -pan/ "caro"
    basco maite 'caro' < *banite 
Falsi parenti: iberico ban "uno" è chiaramente un omofono (o un quasi-omofono), dato che è evidente la sua occorrenza in contesti molto diversi. 
Per molto tempo si è ritenuto che basco maite fosse un celtismo: cfr. irlandese maith "buono". Soltanto che la parola gaelica è dal celtico (ibernico) *mati-, che non sembra un buon corrispondente della forma basca.

Attestazioni: baniteḿbaŕ, bilosban, kaŕesban-ite (ablativo) 

6) baŕstin /'barstin/ "sommo"
   < IE precelt.
   celtiberico barskunes
La forma celtiberica è la prima attestazione nota del nome dei Vascones.
Attestazioni: baŕstintike[

7) basto /'batsto/ "roccia; costa" 
    basco bazter 'costa', Baztan (topon.)
Evidentemente è la base da cui le parole basche citate sono state formate con l'ausilio di suffissi. Potrebbe trattarsi di antichi prestiti dall'iberico. È a parer mio da scartarsi l'ipotesi di un'origine dalla radice celtica *ba:s- "morire", essa stessa d'incerta etimologia.
Attestazioni: BASTOGAUNIN, bastobaśor-en (genitivo), bastokitaŕ, BASTUGITAS

8) bekon, bekoŕ /'bekon, 'bekor/ "cavallo, stallone" 
   basco behor 'giumenta', behoka 'puledro'
È possibile ricostruire, dalla stessa radice, la forma *bekiŕ "torello", corradicale di basco behi "vacca". Tale sarebbe infatti la protoforma da cui è derivato lo spagnolo becerro. Il trattamento dell'occlusiva velare implica un prestito precoce.
Attestazioni: bekoniltiŕ, bekoniltun, bekonkine, bekontekeŕ

9) beloŕ /'belor/ "ardente"
   basco bero 'caldo'
Si trova in pochi antroponimi, e in un caso Rodríguez Ramos segnala la possibilità di una cattiva lettura.
Attestazioni: beloŕtin, aibeloŕ-ar (genitivo), unibelo[

10) berton /'beṛton/ "mortale" < celtib.
Abbiamo attestato in celtiberico kormertones < *kobmertones.
Attestazioni: lauŕberton-te (ablativo), lauŕberton-ar (genitivo)

11) boŕ /bor/ "pugno; combattivo"
   basco borroka 'battaglia';
   basco bortz 'cinque' < *pugno
Per la semantica, confronta la lingua latina. Il numerale iberico bors "cinque" è dalla stessa base; l'alternanza tra le due rotiche è dovuta a qualche dettaglio perduto della protolingua.
Attestazioni: aŕkeboŕ, eikeboŕ-en (genitivo), kuleśbuŕ-ka (ergativo), SILLIBOR-I (dativo), tuitubor-en (genitivo)

12) boś /bos/ "combattivo" < *borś
Formato dalla radice boŕ tramite un suffisso sigmatico.
Attestazioni: anbośiltun-u (con congiunzione), ganikbos

13) boton /'bodon/ "battagliero"  < celt.
La radice celtica è *bodw- "battaglia", e di ritrova in antico irlandese nel nome della dea Bodb.
Attestazioni: botoltiŕ, BODONILUR, botoleis, bototaś, bototiki

14) ekaŕ /'egarr/ "bramoso"
    basco egarri 'sete'
In ultima analisi il termine basco pare un derivato di gar "fiamma". Ho notato che alcune mie proposte di traduzione sono simili a quelle di Silgo Gauche, ma in altri casi si distinguono. Non mi sembra infatti che il verbo basco egari "sopportare" (dal significato un po' distinto da quello di ekarri "portare") sia credibile in questo contesto. Se all'origine ci fosse un verbo transitivo, dovremmo avere un prefisso oggetto (cfr. takeŕ, tikirs, etc.). Anche ugari "quantità, molto" non sembra molto meglio.

Separo questo formante da eke(r)s (vedi nel seguito).
 
Attestazioni: ekaŕbilos, ekaŕśor-e (dativo)

15) eke(r)s, -kes /'ege(ṛ)ts, -gets/ "uomo"  
    basco gizon 'uomo'
    aquitano CIS(S)ON, GISON-; -GES
    paleosardo (etnonim.) -KES-
Come suffisso -qes si ritrova aggiunto a nomi di luogo la cui radice finisce in vocale (Serra, 1956). Una formazione simile deve essere postulata per il paleosardo, visto che ancora si trovano etnonimi in -kesu come Fonnikesu "uomo di Fonni" e Bittikesu "uomo di Bitti".
Attestazioni: ENNEGES*, koroiekers La lingua dei Vascones ha presi il suffisso a prestito dall'iberico
Etnonimi: ARSAQES (da Arsa), CALAQURIQES (da Calagurris), OLAISEQES (da Olaise), Pulaqes (da Pula). 

16) ELAN /'ellan/ "rondine"   
   basco elai 'rondine' < *eLana
A differenza di Rodríguez Ramos, separo questa forma da eleŕ (vedi sotto), che è di diversa origine.
Attestazioni: ELANDUS (Turma Salluitana) 

17) eleŕ /'eller/ "gregge; gruppo"     basco eli "gregge" Attestazioni: eleŕbaś, elerte[ke]r

18) eŕter /'erdeṛ/ "straniero"
    basco erdera 'lingua straniera' 
È diverso da erter /'eṛdeṛ/ "metà" (basco erdi), che è attestato tra i valori monetari (vedi Orduña Aznar).
Attestazioni: eŕtebaś-ka (ergativo), lakueŕter

19) eter /'edeṛ/ "splendore" 
    basco eder 'bello'
La forma iberica ha una rotica non trillata, a differenza di quella basca. Va anche detto che la forma iberica è un sostantivo, mentre quella basca, che è un aggettivo, ha un suono rotico trillato che potrebbe essere un suffisso. Lakarra ricostruisce *de-deR come antenato della forma protobasca.
Attestazioni: etenbilos, eteiltuŕ, eteitor, EDESCO

20) eton /'eton/ "sommo" 
   basco: -to, -do *'sommità'
Si trova come suffisso fossilizzato in formazioni come aizto "coltello" < *(h)anez-to (lett. "punta di pietra"), etc.
Attestazioni: BILESETON, SERGIETON 

21) -i- /i/ "e" (congiunzione)  
Già citato come elemento produttivo nella formazione dei numerali, era usato anche negli antroponimi per separare due aggettivi o due sostantivi. Attestazioni: aiunibaiser, anieskoŕ, basibalkar, iaribeŕ

22) ibeś, ibei(s) /'ibes, 'ibei(ts)/ "impeto; impetuoso"
    basco ibai 'fiume'
È ben possibile che l'aggettivo iberico abbia la stessa radice che è alla base dell'etnonimo Iberi. L'alternanza era bai- / ibei-. Al basco manca una simile flessibilità.
Attestazioni: ibeisur, ibeśor-en (genitivo), soribeis, basibeś-ka (ergativo)

23) -ike- /ike/ "e" (congiunzione)
    basco: -
Già citato come elemento produttivo nella formazione dei numerali, era usato anche negli antroponimi per separare due aggettivi o due sostantivi.
Attestazioni:
aiunikaŕbi, aitikeltun, tueitikeiltun Falsi formanti: keltun = ike + iltun

24) ike /'ike/ "altezza"
   baso: ike 'salire; costa pendente'
     (variante di igan 'salire')
Attestazioni: eike[, ikeatin, eikeboŕ-en (genitivo) 

25) ikoŕ /'ikor/ "duro, strenuo"
   basco gogor 'duro'
Mentre in basco si ha una forma reduplicata < *go-goR, in iberico abbiamo una forma semplice con un prefisso i-, comunissimo in questo gruppo di lingue. Un suffisso -kor col senso di "duro" si trova in alcune parole basche di sostrato, e va detto che spesso in iberico una k- sorda corrisponde in basco a una sonora g-.
Attestazioni: ikoŕbeleś, ikoŕbeleś-e (dativo), ikoŕiskeŕ, ikoŕtaŕ, ikoŕtas-te (ablativo), ikoŕtaś, ikoŕtibaś, taŕbanikoŕ, tikirsikoŕ

26) itor /'itoṛ/ "sommo" 
   basco: -tor, -dor *'sommità'
Si trova come suffisso fossilizzato in formazioni come gandor "sommità", etc.
Attestazioni: eteitor, lakeitor

27) kakeŕ /'kaker/ "curvo"
Derivato dalla stessa base del basco kako "gancio" con un suffisso aggettivale -eŕ che si trova anche in altri casi. 
Attestazioni: kakeŕikoŕ, baŕkakeŕ

28) CACU /'kaku, 'kako/ "curva, gancio"
    basco kako 'gancio'
Attestazioni: kuku, CACUSUSIN (Turma Salluitana) 

29) kaŕko /'gargo/ "selvaggio" < celt.
Attestazioni: kaŕkeskeŕ, kaŕkoskaŕ

30) kani /'kani, 'gani/ "sommità; sommo"
    basco gain 'sommità'
Attestazioni: kanibeŕon-ka (ergativo), ganikbos, κανικωνε, kanio

31) keltaŕ, kertaŕ /'keltar, 'keṛdar/ "nobile" < celt.
Distinguo questo raro formante dalla forma kelti- (vedi nel seguito), anche per motivi semantici.
Attestazioni: keltaŕerker, balakertaŕ, keltaio

32) kelti /'kelli/ "riva, costa, greto"
   paleosardo KILI- "ruscello, letto roccioso"
Considerato un lemma idronimico, date le evidenze della Sardegna, era a mio parere relativo alle rocce che costituiscono le rive o il letto del corso d'acqua, per motivi etimologici: lo riconduco al nord-caucasico *q̇wiłǝ "pietra, roccia, scogliera".
Attestazioni: keltibeleś, keltibeleś-ite (ablativo)
Il nome, data la sua frequenza di attestazione, non sarà sempre un antroponimo, ma un toponimo (vedi Blasco Ferrer).

33) kine /'gine/ "carne, midollo, parte centrale"
   basco giharre 'parte magra della carne'
      < *gin(h)aRe
Lo stesso vocabolo indica anche la parte interna del legno di un albero. 
Attestazioni: bekonkine, betukine-te (ablativo), ildiŕgine, tikirskine

34) koŕo /'gorro/ "sangue"
    basco gorri 'rosso'
Attestazioni: aŕskoŕo-ite (ablativo), goŕotigi-nai (con nai "io sono"), koŕasiŕ-en (genitivo), γολοβιυρ (con dissimilazione)

35) koŕś /kors/ "duro; strenuo" 
   basco gogor 'duro'
Attestazioni: tautinko : ŕś

36) lakeŕ /'laker/ "appariscente"
   basco lako 'somigliante a'
Derivato dal formante laku con il suffisso aggettivale -eŕ.
Attestazioni: lakeŕbelauŕ, lakeŕeiar, iskelaker, LACERIL-IS (gen. lat.)

37) leis /leits/ "desideroso; desiderio"
   basco lehia 'desiderio'
Attestazioni: leibiur, leisir, leisir-en (genitivo), bilos leistikeŕ, leistikeŕ-ar (genitivo), botoleis 

38) nere /'neṛe/ "donna"
    basco andere 'signora'
    aquitano ANDERE 'signora', ER(H)E- 'femmina' 
In un caso la forma aquitana ANDERE è scritta ANNERE.
Attestazioni: nereiltun

39) neron /'neṛon/ "giovane, fiorente"  
Si tratta di un derivato del formante nere "donna" (vedi sopra). 
Attestazioni: neron-ken (genitivo plurale)

40) NES /nets/ "uomo"
A parer mio si tratta di una variante di -kes (abbreviazione di eke(r)s), con la differenza che occorre soltanto aggiunta a nomi che finiscono in consonante. Così abbiamo BELENNES = beleś + -nes. Esiste una variante -NAS. Queste forme non hanno alcun parallelo in basco. 
Attestazoni: AGIRNES, ARRANES, BELENNES, ORDENNAS, NESILLE, niskeŕe 

41) niś /nis/ "donna"
    basco neska 'ragazza'
    aquitano NESCATO 'ragazzina'
    paleosardo NIS- 'donna'
    sorotaptico (ligure IE) NISCAS 'ninfe' (< vasc.)
Attestazioni: niśuni-ar (genitivo), niśunin 

42) olor, oloś /'oloṛ, 'olos/ "tutto; popolo" 
   basco oro 'tutto'
Rodríguez Ramos mostra la frequenza di questo elemento nella toponomastica catalana (Olor-, Oler-, Oles-), e arriva a proporre che in una lingua di sostrato significasse "villaggio, centro abitato". Un corrispondente basco in realtà esiste, anche se dotato di grandi anomalie (si usa dopo plurali in -ak, ma non vuole mai tale suffisso; si trova solo nei dialetti orientali). 
Attestazioni: olośortin, olośaiŕ, olortikirsbeŕian

43) ośor /'ossoṛ/ "lupo"
    basco otso 'lupo'
    aquitano OXSON-, OSSON-
Attestazioni: ośortaŕban
Toponimi: OSSONUBA 

44) sabaŕ /'tsabar/ "ventre; panciuto"  
   basco sabel 'stomaco'
Secondo Rodríguez Ramos il formante è incerto. Propongo questa interpretazione, avendo ragione di ritenere che il corrispondente iberico del vocabolo basco zabal 'largo' avesse un'occlusiva iniziale t-.
Attestazioni: sabaŕida-i (dativo), sabaŕbas-de (ablativo)

45) saiŕ /tsair/ "duro, strenuo"
    basco zail 'duro; arduo'
Attestazioni: beleśaiŕ (con assimilazione), olośaiŕ, toŕosair (con dissimilazione), iltuŕsaiŕ-sai

46) sekel, seken /'tsekel, 'tseken/ "avido"
   basco zeken 'avaro'
La consonante liquida finale è eccezionale in iberico. In ultima analisi può essere un prestito da IE *segh- "detenere, stringere", con una affricata come esito della sibilante originaria. Si noti anche la consonante velare sorda come esito di IE /gh/
Attestazioni: sekel-ka (ergativo), sekenius-u (con congiunzione), lakuseken, TASCASECER-IS (gen. lat.)

47) selki /'tselgi/ "catturato, prigioniero" < celt.
   basco: -
Le iscrizioni duali mostrano che l'occlusiva velare è sonora. La sibilante celtica mostra una corrispondenza irregolare, avendo come esito una affricata in iberico. Va comunque detto che la radice celtica *selga:- "caccia" non ha chiara origine ed è priva di corrispondenze IE credibili. Dev'essere un relitto di sostrato.

Attestazioni: selkibeleś, selkiskeŕ, selkinius-tai, selkisosin-kaste, selgitaŕ, [s]elgitibaś

48) seti, SEDE /'tsede/ "trono; regale" < celt.
Dalla radice IE *sed- "sedersi" deriva anche l'etnonimo SEDETANI.
Attestazioni: σεδεγων, setibios, -beŕiseti-, ḿbaŕseti

49) sike /'tsike/ "flusso, impeto" < IE precelt.  
   basco: -
Si tratta della radice *sik- attestata nell'idronimia in Spagna e altrove. Probabilmente l'antica sibilante era percepita come laminale ed è diventata una affricata. Da questa antichissima radice deriva l'idronimo ispanico Sicanus (oggi Júcar), da cui gli antichi autori romani facevano derivare il popolo dei Sicani, secondo una tradizione che li riteneva migrati in Sicilia dall'Iberia. Non ritengo tuttavia plausibile che la radice dell'etnonimo sia la stessa degli idronimi, a dispetto dell'omofonia.
Attestazioni: SICAE, siketaneś-ka (ergativo), sikeunin, sikounin

50) sine /'tsine/ "giuramento; leale"
   basco zin 'giuramento; leale'
Attestazioni: sinebetin, sinekun

51) sir /tsiṛ/ "splendore; splendido" 
  basco zirats 'bello'
La parola basca è formata con il suffisso -tsu "pieno di", poi abbreviato in -ts.
Attestazioni: sirbaiser, kaŕesir-te (ablativo), leisir, kuleśir (con assimilazione) 

52) SOCED(E) /so'kede/ "guardiano" 
Una radice dall'aspetto decisamente inconsueto. Rodríguez Ramos suggerisce un prestito culturale dal semitico škd "vigilare". La forma d'origine potrebbe essere fenicio /*ʃo:'ke:d/, piuttosto che neopunico /*su:'xe:d/
Attestazioni: SOCEDEIAUNIN, SOCED

53) sor, soŕ /tsoṛ, tsor/ "fortuna; fortunato"
    basco zori 'fortuna'
Attestazioni: soribeis, soŕike, beleśur, etesur, ibeśor-en (genitivo), kanisoŕ

54) śakin, SAGIN /'sagin, 'tsagin/ "piacere"
    basco: atsegin 'piacere'
Non è improbabile che la tradizionale spiegazione del basco atsegin (hats "respiro" + egin "fare") sia paretimologica.
Attestazioni: ENASAGIN, beleśakin-eai (dativo)

55) śitu /'situ/ "lungo; durevole" < celt.
Un prestito dal celtico (non è chiaro se dal celtiberico o da una lingua affine al gallico). Non deve essere troppo remoto, visto che ha ś /s/ per celtico /s/, mentre abbiamo appurato che negli strati più antichi di prestiti si ha s /ts/ per celtico e IE preceltico /s/.
Attestazioni: śitubolai

56) taŕkun /'tarkun/ "molto virile"
   basco ar 'maschio' 
Attestazioni: taŕkunbiuŕ

57) taś /tas/ "virile" < *taŕś
Attestazioni: atintaś, baisetaś, balketaś, bototaś, ikoŕtaś

58) tasbeŕ /'tatsberr/ "giovane maschio"
Attestazioni: tasbeŕiun, tasbarikibas 

59) teita /'deita/ "visibile, splendente"
     < IE precelt.
La radice è *dey- / *dya- "dare luce, essere visibile". Per la formazione, cfr. protogermanico *taita- "chiaro, visibile". Da questa radice deriva anche l'etnonimo DEITANI
Attestazioni: TEITABAS, teitataŕ

60) tetel /'tetel/ "balbuziente" 
    basco zezel 'balbuziente'
Attestazioni: tetel-i (dativo), biuŕtetel, URCHATETELL-I (dativo)

61) tilauŕ /'tilaur/ "egli lo accorcia, lo rimpicciolisce" 
   basco labur 'corto'
Forma verbale transitiva derivata dalla stessa radice di lauŕ "corto" - da non confondersi con laur "quattro". Ancora una volta vediamo come l'iberico aveva una flessibilità sconosciuta al basco. La comprensione della lingua è molto difficile anche per questo: il basco ha sclerotizzato pochi verbi transitivi dotati di flessione, mentre il sistema flessivo in iberico era pienamente sviluppato.
Attestazioni: biuŕtilauŕ

62) tileis /'tileits/ "egli lo desidera"
     basco lehia 'desiderio'
Attestazioni: aluŕtileis, kuleśtileis

63) tolor /'toloṛ/ "bianco, chiaro"
    basco: -
In alcune varietà di castigliano sopravvive la parola tolba "caolino bianco" < iberico *toluba. La possibilità che il toponimo Tolosa sia formato da questa radice iberica, con riferimento a terra argillosa chiara, non è poi così remota.
Attestazioni: bardaśtolor, TOLOCO, toloku, tolośar, taŕtoloi-keta-  

64) torsin /'toṛtsin/ "virile"
    basco -ots, -dots 'maschio di animale'
    aquitano -HOX (e varianti), 'maschio'
Attestazioni: torsinkeŕe, TORSINNO

65) tuitu /'tuitu/ "giusto, retto"
   -tuin /-tuin/ "giusto, retto"
   basco zuzen 'giusto, retto';
   basco zuin 'solco' < *'linea retta'
La forma più antica della radice era tueit-.
Attestazioni: tuitubolai, tuituiboŕ-en (genitivo), tuituiskeŕ-ar (genitivo), tueitikeiltun 

66) tuŕkes, tuŕkin /'turkets, 'turkin/ "alto"  
   paleosardo (topon.) TURKI 'fortezza'
Attestazioni: tuŕkeatin, TURCIRADIN, tuŕkeskeŕ, tuŕgosbetan

67) ulti /'uldi/ "gloria, glorioso" < IE precelt.
Cfr. protogermanico *wulθuz "gloria". Le iscrizioni in scrittura duale provano che l'occlusiva dentale era sonora. Questo morfo non può essere un prestito dal celtico, che invece conserva integro il nesso -lt- indoeuropeo. Possiamo ammettere che sia stato preso da una lingua indoeuropea preceltica, simile al lusitano, in cui la sonorizzazione di occlusive in nessi di questo genere era frequente (es. Pelendones, etc.).
Attestazioni: ultibaiser-te (ablativo), ultibei-kate, ultibeleś

68) ustain /'utstain/ "pesante, grave; peso"
    basco astun 'pesante'

Il termine ricorre anche come nome comune in un contesto combinatorio che ne permette l'attribuzione di un significato connesso con una qualche unità monetaria. Quindi l'identificazione con il vocabolo basco appare sensata, nonostante l'aspetto fonetico non sia molto simile. Si noti la differenza di sibilante, la metatesi vocalica e il fatto che la parola iberica è anche un sostantivo mentre quella basca soltanto un aggettivo. 

Attestazioni: uśtalaibi, ustainabaŕ-ar (genitivo), ustarike, ISTAMIUR-IS (gen. lat.) 

Il prossimo passo sarà la trattazione esaustiva dei morfi iberici non pertinenti al dominio dell'onomastica personale, in particolare dei verbi. Sono convinto che da tutto questo si potranno porre le basi per capire in che modo il protobasco e l'iberico, lontani parenti, si sono separati dal comune antenato. Se in Italia nessuno si occupa di questi argomenti, spero che in Spagna gli studiosi avranno accesso a questo mio materiale, che proprio per la sua audacia potrebbe contribuire al progresso delle conoscenze.