sabato 16 gennaio 2016


NICHILISMO GNOSEOLOGICO 

Ormai è appurato che il Web diffonde la demenza: ne ha fatto una malattia altamente contagiosa, dando origine a una spaventosa pandemia. Ha ridotto il cervello di centinaia di milioni di persone a una densa zuppa prionica. A causa di Zuckerberg la gente ha smesso di credere all'esistenza di dati oggettivi. Contestano ogni cosa, anche il numero di lati di un triangolo o il fetore dello sterco: uno diventa dogmatico e insopportabile anche se afferma realtà di per sé evidenti, come il fatto che se si beve un bicchiere di acido cianidrico si muore. La gente fa dell’ignoranza un fatto positivo, cerca di imporre con ogni mezzo i propri giudizi dissennati, al punto di arrivare a negare la matematica, la fisica e la stessa grammatica della lingua latina. Per colmo del paradosso questo accade proprio quando il Web rende possibile reperire in poco tempo qualsiasi informazione. Questa è l’ironia della sorte. Il Diavolo ride di tutto ciò.

CORSO DI LATINO
PER METALLARI

Se l'abbacinante luce dello schermo non mi privasse delle forze, riprenderei un'idea che mi era venuta qualche anno fa: organizzare un corso di latino per metallari e simili. Una cosa senza troppe pretese, non troppo approfondita, con una semplice pronuncia scolastica e senza complessi discorsi sull’origine della lingua e sui suoi cambiamenti nei secoli. Lo scopo è infatti uno solo: porre fine a uno scempio che dura ormai da troppo tempo. Mi sono stancato di vedere frasi in uno pseudolatino con parole fornite di desinenze casuali. Si deve smettere di credere che le declinazioni siano un'opinione!

mercoledì 13 gennaio 2016

WEIRD 

Per ragioni che nessuno, nell’ambito della comunità scientifica, seppe mai chiarire, nel mese di febbraio del 2016 si verificò un fenomeno inaudito: la merda prese vita.
Dalle condotte fognarie iniziarono ad uscire delle figure antropomorfe composte interamente di feci. Il loro numero crebbe giorno dopo giorno: nel giro di un mese, le strade delle grandi città erano percorse da torme di manichini escrementizi. La gente cacava, come aveva sempre fatto, solo che questa volta gli stronzi, una volta pervenuti in fogna, si aggregavano, compattandosi, sino a formare corpi dotati di gambe e braccia. Le autorità municipali corsero ai ripari sigillando i tombini nelle vie del centro, ma fu tutto inutile: gli organismi fecali trovarono altre uscite.
Quando fui chiamato dal Questore a riferire sulla situazione, questa era ormai ampiamente fuori controllo: gli stronzi avevano preso possesso della città.
“Avete effettuato un censimento della popolazione di stronzi?”
“Non servirebbe: ogni giorno ne spuntano di nuovi.”
“Sarebbe utile, tuttavia, sapere quanti sono, ad oggi, gli stronzi presenti in città. L’avevo pregata di provvedere.”
“Dottore, non se ne viene a capo: sono tutti uguali, non hanno una fisionomia ben definita. Mica possiamo prendergli le impronte digitali.”
“Non faccia dell’ironia che non è aria.”
L’aria era in effetti satura di miasmi, vista la quantità di stronzi in circolazione.
“Ne avete interrogato qualcuno?”
“Ci abbiamo provato: sono muti come pesci.”
“Ma camminano e spargono lezzi pestilenziali. Le autorità sanitarie sono preoccupate. Il ministero della Salute ha diramato un’ordinanza.”
“Ne abbiamo arrestati un po’, ma gli agenti vomitano, i cellulari puzzano come latrine.”
Fui congedato senza troppi complimenti.
In piazza c’era un assembramento di stronzi tale da togliere il fiato. Gente in giro se ne vedeva pochissima, in compenso gli stronzi erano ovunque. Scantonai immediatamente, imboccando una viuzza poco frequentata. Anche lì, tuttavia, incrociai degli stronzi, uno dei quali per poco non mi urtò. Da un portone uscì una coppia di stronzi a braccetto. Era la prima volta che vedevo una cosa del genere e ne fui alquanto sorpreso.
Arrivato a casa, corsi al cesso a cacare. Prima di tirare lo sciacquone, osservai con timore il prodotto dei miei intestini: sentivo che presto o tardi l’avrei rivisto sulla pubblica via. 

Pietro Ferrari, gennaio 2016

domenica 10 gennaio 2016


HIMMELSKIBET
(LA NAVE DEL CIELO)
La prima attestazione di memi New Age
in Occidente

Anno: 1918
Paese: Danimarca
Titolo danese: Himmelskibet (La Nave del Cielo)
Titolo inglese: A Trip to Mars
Aka: L'Astronave; Viaggio verso Marte
Regia: Holger-Madsen
Fotografia: Friederik Fuglsang, Louis Larsen
Scenografia: Carlo Jacobsen
Direttore artistico: Axel Bruun
Sceneggiatura:
Sophus Micha
ëlis
Adattato da: Himmelskibet, romanzo di Ole Olsen
Genere: Fantascienza
Produzione: Nordisk Film
Lunghezza: 1993 metri (6 bobine)
Formato: Bianco e nero, muto
Sottotitoli: danese e inglese
Cast:
  Gunnar Tolnæs (Avanti Planetaros)
  Zanny Petersen (Corona)
  Nicolai Neiiendam (Professor Planetaros)
  Alf Blütecher (Dottor Krafft)
  Svend Kornbeck (David Dane, l'Americano)
  Philip Bech (Il Grande Saggio marziano)
  Lilly Jacobson (Marya, la Principessa di Marte)
  Frederik Jacobsen (Professor Dubius)
  Birger von Cotta-Schønberg (compagno di
      viaggio orientale)
  Alfred Osmund (sacerdote marziano)
  Nils Asther (cittadino marziano ferito)

Trama e recensione (da mymovies.it):
Il capitano di marina Avanti Planetaros viene spinto dal padre astronomo a viaggiare nello spazio interstellare per raggiungere nuovi mondi. Diventa così aviatore ed è, insieme col giovane scienziato dottor Krafft, tra coloro che premono per costruire una navicella spaziale. Nonostante l’opposizione del beffardo professor Dubius, Planetaros mette insieme un equipaggio di intrepidi e parte. Durante il lungo viaggio, l’equipaggio diviene inquieto e per poco si sfiora l’ammutinamento. Alla fine raggiungono Marte e scoprono che il pianeta è abitato da un popolo che ha raggiunto un più alto stadio di sviluppo, senza malattia, dolore, violenza, cupidigia, pulsioni sessuali né paura di morire. Avanti si innamora di Marya, figlia del principe della Saggezza, capo dei marziani. Marya, che lo ricambia, decide di partire con lui per portare la saggezza dei marziani agli arretrati terrestri.Quest’ambiziosa produzione su un viaggio nello spazio è, in un certo senso, una pietra miliare nel genere fantascientifico. Il fascino dell’epoca per l’aviazione è evidente: la navicella spaziale ha ali e propulsore e i membri dell’equipaggio indossano divise da aviatore in pelle. Anche se i marziani, simili a druidi, possono sembrare involontariamente comici, dal punto di vista della storia culturale le idee del film su un mondo utopico sono affascinanti. Ole Olsen, menzionato nei credits come coautore della sceneggiatura, sperava, insieme col noto scrittore Sophus Michaëlis, che il film avrebbe parlato ai cuori degli spettatori ispirando loro “sentimenti ideali”, specie il pacifismo. Ma i critici danesi dell’epoca derisero la seriosa stupidità del film ed indicarono senza esitare i suoi molti difetti rispetto a The Birth of a Nation, proiettato per la prima volta a Copenaghen un mese dopo Himmelskibet.
(Casper Tyberg)

N.B.
Il film non va confuso con l'omonimo Himmelskibet (2014), che parla di tutt'altro.

Recensione e considerazioni antropologiche: 
Questo film è stato proiettato al Cineforum Fantafilm nel settembre del 2009: proprio in quell'occasione l'ho visto per la prima volta. Quello che mi ha sorpreso è stata una cosa che nessuno sembra finora aver notato. La popolazione di Marte descritta nel film non era formata da semplici pacifisti: erano veri e propri Hippies ante litteram. E non basta. Vi erano già definiti, uno per uno, tutti i temi di quella pandemia memetica che decenni più tardi sarebbe stata chiamata New Age. In altre parole, non mi convince affatto la vulgata corrente, che nella sua banalità vuole i Marziani di Himmelskibet una semplice reazione agli orrori della Grande Guerra. Si tratta piuttosto della prima documentazione in assoluto di un movimento di cui all'epoca nessuno poteva ancora avere sentore. Un seme che si sarebbe sviluppato appieno soltanto in seguito, generando un albero mostruoso. Si deve notare che putacaso la New Age non ha origini chiare e ben documentate: ho letto diverse e contrastanti versioni a proposito della sua formazione. C'è chi la vuole nata nella California dei tardi anni '60.
Solo per fare un esempio, questo è quanto riporta Wikipedia (10/01/2016): 

"Il termine "New Age" (letteralmente "nuova era") iniziò a essere diffuso dai mass media statunitensi nei tardi anni sessanta, per descrivere le forme di controcultura spirituale interessate a pratiche e concetti come la meditazione, il channeling, la reincarnazione, la cristalloterapia, la medicina olistica, l'ambientalismo e numerosi "misteri" di difficile interpretazione come gli UFO o i cerchi nel grano, o anche i bambini indaco.
Questa corrente di pensiero esiste certamente già dagli anni settanta, e probabilmente deriva almeno in parte dalla controcultura degli anni sessanta. Le generazioni precedenti erano già arrivate a interessarsi ad alcuni (ma non a tutti) degli elementi principali del "sistema di sistemi di credenze" (o paradigma) della New Age, per esempio a pratiche come lo spiritualismo, la teosofia, l'antroposofia o la medicina alternativa." 


Altri parlano di gruppi operanti nell'Inghilterra degli anni '50, ma in genere non si va molto indietro. Soltanto Massimo Introvigne intuisce che il fenomeno ha radici più antiche, arrivando ad attribuirne l'origine alla teosofa Alice Bailey (anni '20). Si rimanda al sito del CESNUR per approfondimenti. Gli antropologi che si occupano del fenomeno dovrebbero tenere conto anche della testimonianza di Himmelskibet e spostare indietro la cronologia. Evidentemente il nucleo di tutto ciò che sarebbe seguito è stato una comunità di cultori della Teosofia formatasi in Danimarca già prima del 1918, tutta intrisa di dottrina swedenborghiana e di suggestioni pseudo-induiste. Di quella stessa setta dovevano far parte proprio Holger-Madsen, Sophus Michaëlis e Ole Olsen. Il nome Sophus, corradicale del greco Sophia, è ben evocativo. Orbene, risulta che tale antroponimo fosse proprio il primo dei suoi nomi di battesimo (gli altri sono August Berthel), e questo è a parer mio un indizio del fatto che i suoi genitori fossero teosofi. Essendo nato a Odense nel 1865, si può dedurre che il virus attivo dai tardi anni '60 del XX secolo era già definito nel suo corredo memetico un centinaio di anni prima. Si arriva così a concludere che la New Age è nata da una semplice mutazione memetica della Teosofia. Peccato che il mondo accademico non compia indagini davvero approfondite su questi argomenti. 

La Teosofia non era cosa da operai. Era in grado di sussistere e di svilupparsi soltanto tra gente ricchissima che conduceva esistenze dorate, che poteva permettersi di passare la vita a baloccarsi in elucubrazioni esoteriche ingarbugliatissime. La percezione degli orrori che devastavano il mondo, come la Grande Guerra, giungeva in tali cenacoli soltanto per interposta persona. Dubito fortemente che un solo teosofo abbia mai visto i campi del massacro di Verdun con i propri occhi. La soluzione a tutto ciò che rende la vita degli esseri umani un inferno veniva così definita in un modo del tutto nuovo, ossia nel vivere la Nuova Era utopica come se questa fosse già reale, dando origine a una trasmissione infettiva dei memi. Nel film questa idea è ben illustrata dall'unione tra Avanti Planetaros e la bellissima Marya, figlia del Grande Saggio di Marte. Questi accetta di concedere Marya al capitano terrestre e di farla partire con lui, a patto che i due piccioncini si impegnino in un'opera capillare di diffusione del sentire marziano tra le genti della Terra. Ecco il concetto di "cambio di paradigma" già espresso alla perfezione in Himmelskibet. Che poi la Principessa di Marte debba accettare il piccolo sacrificio di soggiacere alla libidine di Planetaros è un dettaglio in sostanza irrilevante.  


Per fortuna il film non è soltanto melensaggine e baggianate New Age marziane. Non mancano i momenti di sano e divertente grottesco. In particolare è memorabile il finale, in cui il Professor Dubius (nomen omen), reso folle dall'ira e dall'odio, sale su una montagna e invoca Thor affinché con un fulmine schianti la Nave del Cielo. Tuttavia l'Aso dalla barba rossa non solo non ascolta le preghiere di Dubius, ma rivolge contro di lui il Mjöllnir, folgorandolo e facendolo precipitare in un baratro.

mercoledì 6 gennaio 2016


L'ULTIMO TRAMONTO
SULLA TERRA DEI McMASTERS

Titolo originale: The McMasters
Paese: USA
Anno: 1970
Genere: Western, Blacksploitation
Durata: 97 min (originale) / 89 min
Regia: Alf Kjellin
Sceneggiatura: Harold Jacob Smith
Musiche: Coleridge-Taylor Perkinson
Cast:
   Richard Alden (Lester)
   R.G. Armstrong (Watson)
   Marion Brash (Sig.ra Watson)
   David Carradine (Penna Bianca)
   John Carradine (Predicatore)
   Dane Clark (Spencer)
   Neil Davis (Sylvester)
   Paul Eichenberg (Jud)
   Alberto Hockmeister (Sceriffo)
   Burl Ives (McMasters)
   L.Q. Jones (Russel)
   Nancy Kwan (Robin)
   Jack Palance (Kolby)
   Brock Peters (Benjie)
   Frank Raiter (Grant)
   Lonnie Samuel (Bull)
   Alan Vint (Hank)

Trama (da filmtv.it):
Benjie, soldato di colore arruolato nell'esercito nordista, ritorna nella cittadina di Ironwood nel Sud degli Stati Uniti dopo la guerra civile. Il vecchio proprietario terriero Mc Masters lo accoglie come un figlio e lo prende come socio nella sua fattoria. Purtroppo però la maggior parte dei cittadini, che parteggiavano durante il conflitto per i sudisti, si dimostrano ostili nei suoi confronti e anche dei Mc Masters, che gli hanno dato ospitalità. Benjie reagisce, ma le cose si complicano quando sposa una giovane pellerossa. Narrazione robusta e ritmo sostenuto, con qualche forzatura di troppo.

Recensione: 
Lo hanno definito più volte un film ideologico, ma a parer mio tratta una realtà di fatto che fino a non molto tempo fa era viva e vitale negli Stati del Sud. A chi in Italia continua a cianciare di razzismo, per lo più senza cognizione di causa, consiglio vivamente di guardare questo film crudo e disturbante. Un tempo veniva trasmesso spesso su reti televisive private: ricordo ancora di averlo visto diverse volte, reagendo alla sua visione come se avessi ricevuto un pugno nello stomaco. Ai nostri giorni questo costume di mandare in onda film salutari è purtroppo andato smarrito. Sarebbe opportuno ripristinarlo: l'auspicio è che di fronte alla violenza delle scene di razzismo autentico, saltino agli occhi le sudicie manipolazioni di chi vorrebbe attribuire l'etichetta di "razzista" a tutti coloro che non condividono le storture del politically correct


Guerre razziali nel culo del mondo

Guardando le tristissime sequenze di The McMasters si ha un'impressione cruda e sgradevole: se l'Universo avesse un orifizio anale, il desolato villaggio di Ironwood sarebbe collocato al suo interno, nel bel mezzo di una massa di emorroidi. Un microcosmo desertico abitato da forme di umanità degradata e insignificante, che pure si danno mazzate sul cranio di santa ragione per motivi di una futilità infinita. La lotta si articola in una specie di triangolo razziale: il primo vertice è costituito dai possidenti di Ironwood, tutti di origine anglosassone; il secondo vertice è formati dagli Indiani, che vivono in condizioni abiette nel deserto, sopravvivendo grazie ai furti di bestiame; il terzo vertice consiste nell'unico afroamericano presente nella narrazione, l'ex schiavo Benjie. Si nota una spaventosa sproporzione in questo spinoso problema a tre corpi: è come se un solo uomo, in virtù delle sue lontane origini nel Continente Nero, fosse dotato di un potere destabilizzante assoluto, che manda in frantumi ogni precedente equilibrio, come un singolo sassolino in grado di far ghiacciare all'improvviso un lago che si trova in condizioni di metastabilità. A far precipitare gli eventi è il matrimonio tra Benjie McMasters e una donna indiana, Robin, celebrato proprio nella chiesa del paese. Infatti i proprietari terrieri vedono questo evento non soltanto come un affronto, ma anche come un concreto pericolo, dal momento che sancisce l'alleanza tra un nero - corpo estraneo nel tessuto del paese - e la tribù indiana, sempre pronta ad insorgere in armi. In realtà l'alleanza tra i McMasters e gli Indiani non è così scontata: nonostante tutti i benefici ricevuti, Penna Bianca fa sapere che i suoi non hanno alcun interesse a difendere la proprietà di un nero che si comporta come un bianco, mettendo steccati e confini sulla terra. Persino quando la moglie di Benjie viene violentata dai visi pallidi, Penna Bianca non fa una piega. Gli anziani della tribù fanno anzi capire che per loro è una cosa normale. "Conosciamo i bianchi", fa sapere lapidario il capo. Alla fine Penna Bianca e i suoi uomini aiuteranno l'afroamericano ferito, uccidendo i suoi nemici a fucilate. Il protagonista non riuscirà a riprendersi dall'annientamento del suo mondo e dal fallimento dei suoi progetti. Rifiuterà di stare tra gli Indiani e, cocciuto all'ennesima potenza, aggrappandosi al dorso di un cavallo si trascinerà verso le ceneri del suo ranch. "Non hai più una casa!", è l'urlo finale che gli viene rivolto dall'indiano, che rimbomba fino all'orizzonte di terra arida e di sterpi.  

Il Dio dell'Odio e della Vendetta 

Il maggiore Kolby, interpretato dal disturbante Jack Palance, è un feroce pretoriano del Dio del Male, che in Persia era chiamato Ahriman. L'aspetto del reduce confederato è terribile: occhi piccoli e neri, ma in cui arde un'inestinguibile luce di odio, il braccio sinistro amputato ben sopra il gomito e ridotto a un moncherino. La manica dell'uniforme grigia del Sud, cucita per nascondere il residuo dell'arto mutilato, crea un effetto straniante, di innaturalità. In occasione del funerale di alcuni dei suoi uomini, uccisi nel corso di un'incursione al ranch di Benjie McMaster, ecco che Kolby prende la parola. Non soltanto egli difende il discutibile operato di quelli che or della fine sono soltanto stupratori e assassini, ma si impegna in argomentazioni teologiche. Finito il sermone del prete, il mitissimo Spencer, che prova nausea per la violenza imperante a Ironwood, invoca il Dio che ha come essenza l'Amore e la comprensione. Subito il maggiore mutilato si scaglia contro di lui, invocando il Dio della Spada Vendicativa. Marcione di Sinope non avrebbe avuto dubbi, se solo avesse potuto vedere il film di Kjellin. Veterotestamentaria nell'essenza più profonda, l'America menziona spesso Cristo, ma di fatto lo espellerebbe volentieri dalla propria esistenza per affermare il più belluino culto del Signore degli Eserciti, padre di ogni genocidio e di ogni persecuzione. Marcione distingueva in modo nettissimo tra il Dio dell'Amore, Padre di Gesù, e il Dio della Legge, ossia la spietata divinità dell'Antico Testamento, le cui opere sono interamente malvagie. Ecco, tra gli americani abbondano i fanatici che rivolgono le loro invocazioni al Dio della Legge, sempre inclini a benedire le impiccagioni. Senza saperlo, Kjellin ha scritto un'interessante pagina di Dualismo moderno, facendo scontrare due uomini che possono essere visti come emissari delle due Divinità. Questa ispirazione si perde nel Nulla di Ironwood, mentre il becchino getta palate di terra molle sui corpi dei morti.

Doppio finale  

Il film fu rilasciato in due versioni, di cui una più breve e nota come The McMasters... Tougher than the West Itself. In questa versione alternativa l'assalto finale vede il trionfo del maggiore Kolby e dei suoi mirmidoni, che freddano Benjie. Come si può ben capire, la natura dei due finali è profondamente diversa. Non che la cosa abbia avuto una qualche rilevanza, dato che la pellicola di Kjellin fu comunque un insuccesso. Secondo la critica, la duplicità del finale è un problema, perché oscura gli intenti morali del regista. Nel Web ho trovato ben poche informazioni; sembra in ogni caso che le due versioni si siano originate dall'impossibilità di decidere tra l'etica e il botteghino. Il pubblico americano, che vede l'etica in termini unicamente sessuali e che ama i linciaggi, avrebbe di certo preferito The Macmasters... Tougher than the West Itself. Nel resto del mondo, ci sarebbe stata invece una certa ripugnanza per un simile trionfo dei malvagi, così agli eventi è stato dato un corso che appare appena più favorevole al protagonista. Appena più favorevole, perché in ogni caso la vicenda di Benjie McMasters si conclude con una catastrofe.

I SUPERSTITI DEL WYOMING

Titolo originale: The Hunters
Autore:
 Jack Lovejoy
Anno: 1982
Pubblicazione in Italia: Urania 963 (5/2/1984)
Copertina: Karel Thole

Sinossi (da MondoUrania): 
Ai confini del Wyoming, dell'Idaho e del Montana, il Parco Nazionale di Yellowstone proteggeva fino a ieri orsi e coguari e altre specie minacciate di estinzione. Oggi protegge rari superstiti umani, dopo il fulmineo e mortale attacco alla Terra da parte di alieni mostruosi. Ma domani sarà di li che i sopravvissuti partiranno al contrattacco. Un lungo romanzo tutto d'azione di cui Andre Norton ha scritto che "ha il solo torto d'essere troppo breve". 
   

Recensione:
Condivido appieno l'opinione di Andre Norton su questo piccolo capolavoro. Pur essendo datato,
brilla ancora di una luce inestinguibile. In realtà è molto di più di un romanzo di SF: è un interessantissimo studio antropologico sulla fine di una civiltà tecnologica e sulla riorganizzazione dei sopravvissuti in nuove forme di società, spesso brutali e abiette. Il mondo all'indomani dell'arrivo degli invasori extraterrestri inizia ad assumere caratteri sempre più simili a quelli della più remota preistoria. Protetta da un'anomalia magnetica che respinge le astronavi, una sparuta comunità lotta per la sopravvivenza. Il loro capo, un giovane irrequieto, decide di intraprendere un viaggio nelle pericolose terre esterne, dove si imbatterà in pericoli spaventosi e vedrà innumerevoli orrori. L'autore ci rivela mondi incredibili e ci porta a capire infine la natura degli alieni, che renderà conto di molte cose a prima vista inspiegabili. Non proseguo oltre per non rovinare il piacere della lettura a chi si accinge ad immergersi in questo desolato mondo futuribile. 
 
Mi limiterò a poche note su un paio di particolari che trovo di grande interesse, la cui breve trattazione può solo invogliare i navigatori a leggere il romanzo di Lovejoy.

Corsi e ricorsi di Grendel

Uno ienodonte colossale terrorizza gli abitanti di un distretto, che sono piccoli e rachitici come Hobbit. Queste strane genti vivono nel sottosuolo in condizioni precarie, ma hanno alcuni costumi singolari. Ad esempio bevono idromele. Parlano in modo incomprensibile e chiamano Grendel il mostro che li perseguita. Il giovane protagonista scopre che questo Grendel non è davvero una reminiscenza della creatura della stirpe di Caino descritta nel Beowulf: si tratta invece di una pronuncia consunta ed evolutiva di Grey Devil "Diavolo Grigio". Anche l'idromele non è qualcosa di tramandato dalla remota antichità. Si tratta soltanto del dono di un benefattore che ha trovato in qualche documento la ricetta della bevanda e l'ha utilizzata per rendere potabile l'acqua, con grande successo.

domenica 3 gennaio 2016

ALCUNE NOTE SULLE ISCRIZIONI DELLA TOMBA DEGLI ANINA

Coloro che identificano i numerali etruschi huθśa con "quattro" e "sei" rispettivamente, non paghi dell'estrema fragilità logica dell'argomento Hyttenia, si rivolgono alle iscrizioni della Tomba degli Anina, nel vano tentativo di portar acqua al loro mulino.



"Questa tomba, nota per essere appartenuta alla famiglia aristocratica degli Anina, che ebbe per capostipite Larth Anina, si trova a poca distanza dalla necropoli di Monterozzi nella cosiddetta Necropoli Scataglini ed è stata scoperta nel 1967. E' composta di un'unica grande camera quadrangolare con soffitto piano e grezzo ed ai lati della porta sono dipinte le figure dei due demoni etruschi della morte: Charun, rappresentato con un martello in mano, per infliggere pene alle anime, e Vanth, il principale demone femminile, alato ed a seno nudo, con in mano la torcia per rischiarare il cammino verso gli abissi dell'oltretomba. Siamo evidentemente al tramonto della civiltà etrusca, quando apparve agli etruschi ormai inarrestabile il declino della loro civiltà ed il sottosuolo di Tarquinia si riempì di figure demoniache sconvolgenti (Fine III secolo a.C.)"

Le iscrizioni della Tomba degli Anina utilizzate dai nostri avversari sono etichettate come TLE 880 e TLE 882 nel Testimonia Linguae Etruscae. L'iscrizione TLE 882 comprende due diverse redazioni sovrapposte. Riporto in questa sede i testi in lingua etrusca, tratti da un backup del sito di Adolfo Zavaroni, ora scomparso dalla Rete. 

TLE 880
aninas : larθ : velus : arznal : apanes : śurnus : scunsi : cates : an : vacl : lavutn : [---]e : travzi : sam śuθi : ceriχun[ce] : θui zivas avils LXXVI

TLE 882 (prima redazione) aninas : vel : velus : apanes : śurnus travzi : scunsi : cates : zivas : ceriχu avils XXXXIII

TLE 882 (seconda redazione) aninas : vel : velus : apanes : śurnus : </s/c/an/> /? travzi : scunsi : cates : <tev> : <sacu> : svalce avils XXXXIII . sa śuθi ceriχunce saniśa θui puts

Le parole tra parentesi <> nella seconda redazione di TLE 882 sono restaurazioni compiute dallo stesso Zavaroni. Ho riportato tali letture, non potendo al momento compiere approfondimenti. Per quanto possa sembrare assurdo, non è facile reperire i testi online.  

I fautori dell'identificazione di huθ con 4 e di śa con 6, come ad esempio Carlo D'Adamo, sembrano usare queste iscrizioni come prova definitiva delle loro tesi. Infatti, constatato che la Tomba degli Anina contiene sei loculi, essi sostengono ad esempio che la sequenza sam śuθi ceriχunce di TLE 880 vada tradotta con "e sei tombe fece costruire". Invece significa "ed egli stesso la tomba fece costruire". Questo è quanto:

1) I lemmi sam (TLE 880) e sa (TLE 882) non hanno nulla a che fare con il numerale śa. In iscrizioni con i caratteri s e ś distinti a Tarquinia, ś esprime il suono palatale /ʃ/ dell'italiano scena e si distingue da s. Così nella sequenza sa(m) śuθi si vede chiaramente che mentre la parola śuθi è scritta correttamente con ś, il preteso numerale avrebbe la consonante sbagliata.
2) È chiaro che il termine
śuθi "tomba" si riferisce all'intero ambiente sepolcrale e non a ciascuno dei loculi. L'autore avrebbe scritto śa hupni se avesse voluto indicare le sei sepolture.

In letteratura si trova un lavoro su questo raro pronome personale sa

K. Wylin, Un terzo pronome/aggettivo dimostrativo etrusco sa
(Studi Etruschi, MMIV - Vol. LXX, Serie III, pubblicato nel 2004. Pagg. 255-267)

Detto questo, le argomentazioni del D'Adamo e dei suoi seguaci archeologi si possono dire neutralizzate.

LA SOLUZIONE DEL MILLENARIO ENIGMA DI HYTTENIA 'TETRAPOLIS'

Ancora oggi il greco Hyttenia (Ὑττηνία), antico nome di Tetrapolis, è usato come argomento per assegnare al numerale etrusco huθ il valore di "quattro", immaginando che il toponimo più recente traduca alla lettera il più antico. Ho già espresso una serie di opinioni sull'argomento, ma ora, approfondendolo, aggiungo qualche nota ulteriore. 

Quello che è sfuggito finora a tutti è che secondo la tradizione a fondare la lega Hyttenia è stato l'eroe Hyttenios (Ὑττήνιος). Ne emerge la somma improbabilità di una traduzione letterale Tetrapolis, visto che non si può interpretare l'eponimo pre-greco servendosi di un toponimo ellenico: si tratta di due categorie concettuali disomogenee.

Non si può nemmeno pensare a una creazione artificiale, un eponimo fittizio inventato per spiegare un toponimo: questo Hyttenios svolgeva un ruolo di primo piano nelle tradizioni locali. Così si legge nel Calendario dei Sacrifici di Maratona (American Journal of Archaeology 10, 209-226):

Nel mese Skiraphorion, prima della <festa> Skira. A Hyttenios, frutti di stagione, una pecora, dodici dracme. A Kourotrophos, un maiale, tre dracme, una porzione sacerdotale, due dracme, un obolo. Ai Tritopateres, una pecora, una porzione sacerdotale, due dracme. Agli Akamantes, una pecora, dodici dracme, una porzione sacerdotale, due dracme.  

Come risulta ovvio, nessuno si sognerebbe mai di fare offerte sacrificali in memoria di un eroe fittizio inventato da un dotto per spiegare un nome di luogo. Qui si tratta addirittura di una figura divinizzata. Che i sostenitori dell'argomento Hyttenia se ne facciano una ragione: Hyttenios è reale e ben fondato nella tradizione attica.

Come mai finora questo eponimo Hyttenios non era mai saltato fuori in nessuna trattazione etruscologica? Queste sono le risposte:

1) Disonestà intellettuale di colui che per primo ha proposto l'argomento;
2) Copiatura pedissequa da parte di coloro che hanno ripetuto l'informazione (un vizio insidioso che può colpire chiunque e che non mi ha certo risparmiato);
3) Inerzia mentale di chi non ha mai approfondito la questione cercando le notizie disponibili, foss'anche nel Web (anche questa è un'insidia sempre in agguato, da cui nessuno è immune).

Di fronte a Hyttenios dovremmo porci allora la seguente domanda: da dove viene questo antroponimo?

Data la natura dell'aspirazione che in greco classico precede sempre la vocale υ e le impedisce di iniziare la parola, e data la trasformazione di un'originaria sibilante in aspirazione, ci sono tre possibilità:

1) *UTTE:NIO- / *UTTA:NIO- 
2) *HUTTE:NIO- / *HUTTA:NIO-  
     (con h- confrontabile con lo stesso suono in tirrenico)
3) *SUTTE:NIO- / *SUTTA:NIO-

Quale delle tre? Come si vede, l'argomento Hyttenia - Tetrapolis è a dir poco labile.
Se valesse la ricostruzione 2) e la radice fosse tirrenica, allora sarebbe addirittura possibile che un antroponimo *HUTTENI- significasse "Sesto Nato" (in etrusco abbiamo hutni- "sesta parte, un sesto", attestato nel Liber Linteus).

Questo è un buon metodo: diffidare delle assonanze, sempre, e approfondire ogni suggerimento. Occorre attuare procedure di verifica che integrino dati linguistici ed extralinguistici. Curioso che i "seminatori di dubbi" tanto diffusi nel Web mostrino poi una fede cieca proprio nelle assonanze e nelle baggianate cabalistiche.

venerdì 1 gennaio 2016

I NOMI DELLE LETTERE GOTICHE IN UN MANOSCRITTO DI ALCUINO

Queste sono le lettere dell'alfabeto di Wulfila con il loro nome riportato in un manoscritto di Alcuino (Codex Vindobonensis 795):

𐌰    aza
𐌱    bercna
𐌲    geuua 

𐌳    daaz 
𐌴    eyz
𐌵    qertra 
𐌶    ezec 
𐌷    haal 
𐌸    thyth 
𐌹      iiz  
𐌹̈      iiz 
𐌺     chozma  
𐌻     laaz  
𐌼     manna  
𐌽     noicz  
𐌾     gaar  
𐌿     uraz  
𐍀     pertra  
𐍁     -  
𐍂     reda  
𐍃     sugil  
𐍄     tyz  
𐍅    uuinne  
𐍆     fe  
𐍇    enguz  
𐍈    uuaer  
𐍉    utal  
𐍊    

I nomi di queste lettere nella lingua di Wulfila sono stati evidentemente riportati da Alcuino secondo la pronuncia che doveva essere in auge ai suoi tempi. Questo significa che la lingua dei Goti era ancora parlata a quell'epoca e che aveva subìto un'evoluzione fonetica, arrivando ad allontanarsi non poco dalla pronuncia del IV secolo d.C. Sembra probabile che Alcuino abbia appreso questi nomi dalla viva voce di un parlante goto, ingegnandosi a trascriverli come poteva.

Alcuni mutamenti fonetici sono simili a quelli registrati in numerosi antroponimi attestati all'epoca del regno degli Ostrogoti. Così la vocale lunga /o:/ si è chiusa fino a diventare /u:/, mentre la sillaba finale /-us/ è divenuta /-əs/, scritta -as nell'antroponimo Sunjaifriþas (Atti di Napoli) e -az nel nome della lettera /'u:rus/, trascritto come uraz.

Vediamo qualcosa di molto singolare nella lettera che Alcuino ha trascritto come eyz. Questa è tradizionalmente interpretata come aiƕs "cavallo", attestato in aiƕatundi "pruno" (lett. "dente di cavallo") e di ottima tradizione indoeuropea (cfr. latino equus, greco ἵππος, celtico epo-). Tuttavia qualcosa non quadra. La parola gotica infatti suonava /ɛxws/ con la vocale /ɛ/ breve ed aperta. Invece la lettera gotica chiamata eyz esprime il suono di una vocale /e:/ lunga e chiusa, che non si confonde mai con la precedente. Nel gotico di Wulfila questo si vede bene, e la filologia germanica lo conferma.

Quanto esposto prova che eyz non può stare in alcun modo per il gotico aiƕs. Si nota che in numerosi trattati sulle rune si trova una diversa trascrizione, ossia egeis. Basta fare una rapida ricerca per trovare tale voce, che è presentata come un vocabolo realmente attestato. Il punto è che il lemma *egeis /'e:γi:s/ non significa affatto "cavallo". Significa "mare" e corrispondente alla perfezione al teonimo norreno Ǽgir, che indica il Signore del Mare. Lo stesso vocabolo dotto ǽgir si usava in poesia e traduceva "mare", "oceano". Qualche germanista serio deve avere ricostruito il corrispondente gotico *egeis a partire dal norreno, poi i runologi lo hanno male interpretato e diffuso. Questa è la spiegazione del nome eyz

L'identificazione erronea di eyz con aiƕs ha portato a una conseguenza drammatica. Meditando su questi argomenti, mi sono reso all'improvviso conto di cosa è successo in un testo neogotico che narra dei fatti accaduti all'epoca della Migrazione, di cui abbiamo trattato. L'autore scriveva attiuha eiz mein, e io non ero stato in grado di tradurre questo eiz. Ecco gli errori dello sconosciuto autore.
1) Ha preso il nome della lettera eyz da Alcuino, dando per buono il suo significato di "cavallo".
2) Ha sostituito -y- con -i- e ha ottenuto *eiz, credendolo la parola genuina per "cavallo".
3) Ha dato per scontato che questo *eiz fosse un neutro, e ha coniato il fantomatico attiuha eiz mein per dire "condurrò il mio cavallo".

Volendo ottenere un corretto testo neogotico, la frase "condurrò il mio cavallo" si deve invece tradurre attiuha aiƕ meinana. Questa frase Alarico e Teodorico il Grande l'avrebbero capita e ritenuta della lingua avita.

Riporto a questo punto i nomi nell'ortografia di Wulfila, omettendo l'asterisco.

𐌰    ahsa "spiga" (1) 
𐌱    bairkan "ramo di betulla"
𐌲    giba "dono"

𐌳    dags "giorno"

𐌴    egeis "mare"
 
𐌵    qairþra "boccone" (2) 
𐌶    - (3) 
𐌷    hagl "grandine"
𐌸   
þiuþ "il bene"
𐌹      eis "ghiaccio" 

𐌹̈      eis "ghiaccio"

𐌺    kusma "bubbone"

𐌻    lagus "acqua"

𐌼    manna "uomo"

𐌽    nau
þs "necessità"
𐌾     jer "anno"

𐌿     urus "uro" 

𐍀     pair
þra (4)
𐍁     - 

𐍂     raida "carro"

𐍃     sauil "sole"

𐍄     teiws "dio" 

𐍅    winja "gioia"

𐍆     faihu "bestiame; denaro"

𐍇    iggws "dio degli Ingevoni"  

𐍈    
ƕair "calderone" (5)
𐍉    o
þal "patria"
𐍊     -

(1) Probabilmente per motivi superstiziosi ha cacciato l'esito di proto-germanico *ansuz "(semi)dio".
(2) Cfr. antico alto tedesco querdar "boccone".
(3) Forma gotica al momento non ricostruibile. 
(4) Dati i dubbi e le difficoltà etimologiche, non fornisco la traduzione. Potrebbe significare "albero da frutto" o "grembo di donna". Se giungerò a conclusioni ragionevoli, non mancherò di pubblicare un intervento.
(5) La trascrizione di Alcuino, uuaer, non può - per ragioni etimologiche - contenere un dittongo. Sarà un mezzo grafico per esprimere una vocale molto aperta /æ/.

L'ANNOSO PROBLEMA DEL NOME GOTICO DELL'ELEFANTE

La ricostruzione della parola gotica per indicare l'elefante è finalmente un fatto compiuto. Possiamo con sicurezza porre gotico *ailipandus /'ɛlipandus/ "elefante". Nella trascrizione etimologica tradizionale si scriverebbe *aílipandus. Noi non usiamo questa ortografia, dato che ci riferiamo al gotico dell'epoca di Wulfila (IV secolo d.C.), e in quanto la scelta editoriale di esprimere le vocali brevi /ɛ/ /ɔ/ con i digrammi può risultare estremamente ingannevole, soprattutto per i lettori italiani. Così nella lingua gotica ricostruita (conlang neogotica), avremo ailipandus, e per i nostri fini potremo usarlo senza l'asterisco tanto caro agli accademici, che come è risaputo si baloccano nella loro torre d'avorio senza volersi applicare a concrete e sistematiche imprese di ricostruzione delle lingue antiche.

Le basi che provano la fondatezza e la bontà del lemma da noi ricostruito sono le seguenti: 

1) L'antroponimo Elipandus, portato da un dissidente religioso spagnolo (VIII-IX sec.) 
2) Antico alto tedesco elphant, helphant, elepant "elefante"
3) Antico inglese (anglosassone) elpend, ylpend "elefante"

Da questo vediamo che nella lingua di Wulfila *ailipandus "elefante" doveva essere ben distinto da ulbandus "cammello", proprio come in antico alto tedesco elphant "elefante" era ben distinto da olbenta "cammello" (variante olbento, antico sassone olbundeo). In altre parole si tratta di un doppione, entrato in gotico due volte da due fonti diverse (in una con vocale oscurata dalla liquida velare), e con significati diversi. La forma ulbandus sarà da un latino volgare *olifantus, che non è sconosciuto alle lingue romanze (si veda ad esempio il famoso Olifante, corno d'avorio del paladino Orlando, dall'antico francese olifant).
Questo pone fine, si spera una volta per tutte, all'annoso problema del vocabolo gotico per indicare il pachiderma proboscidato.

In particolare: 

1) Non si deve ricostruire *feils "elefante" sulla base del norreno fíll "elefante", che chiaramente ha la sua origine nell'arabo fīl. Questo notevole vocabolo è attestato in un verso risalente al X secolo (Fb. i. 209), che tuttavia alcuni ritengono non autentico. Molto probabilmente è giunto tra i Vichinghi attraverso il persiano, seguendo le rotte commerciali della Russia e di Costantinopoli.
2) Non si dovrebbe usare ulbandus col significato di elefante: l'antico alto tedesco e l'anglosassone distinguono chiaramente l'elefante dal cammello. Ad esempio abbiamo in anglosassone on horsum and on, múlum and on olfendum and on elpendum, tradotto con "equis et mulis et elephantis et camelis" (Nar. 9. 15). Tuttavia pare certo che qualche sovrapposizione potesse sussistere in alcuni casi, come mostrato dall'esempio del norreno, in cui 
úlfaldi "cammello" si può tradurre con "elefante" in un famoso detto latino elephantum ex musca facere "far di una mosca un elefante" (gera úlfalda úr mýflugu).