Immaginiamo che uno studioso del lontano futuro debba studiare il problema dell'estinzione delle lingue gallo-romanze nelle regioni settentrionali dell'Italia. Supponiamo che riesca a recuperare alcuni film della seconda metà del XX secolo per indagare la questione tramite quelle che dovrebbero essere testimonianze importantissime e di prima mano, dotate di una potentissima forza probatoria. Cosa troverebbe nel corso delle sue ricerche? Anche se molti lo troveranno sorprendente, posso dirlo per certo: giungerebbe a conclusioni totalmente errate.
Ricostruiamo la ricerca di questo linguista futuribile seguendo le sue mosse, come se fosse un breve racconto. Immaginiano che per prima cosa il nostro archeologo si imbatta nella serie di film interpretati da Fernandel e da Gino Cervi, rispettivamente nei panni di Don Camillo e di Peppone. Le pellicole in questione sono le seguenti:
Don Camillo (1952),
di Julien Duvivier
Il ritorno di don Camillo (1953),
di Julien Duvivier
Don Camillo e l'onorevole Peppone (1955),
di Carmine Gallone
Don Camillo monsignore... ma non troppo (1961),
di Carmine Gallone
Il compagno don Camillo (1965),
di Luigi Comencini
di Julien Duvivier
Il ritorno di don Camillo (1953),
di Julien Duvivier
Don Camillo e l'onorevole Peppone (1955),
di Carmine Gallone
Don Camillo monsignore... ma non troppo (1961),
di Carmine Gallone
Il compagno don Camillo (1965),
di Luigi Comencini
Tutti questi film, che ho visto in gioventù un gran numero di volte, hanno qualcosa in comune: sono recitati in lingua italiana e testimoniano soltanto esilissime tracce di una realtà preesistente all'italianizzazione. Così ricordiamo ne Il compagno don Camillo la scena in cui Peppone, prossimo al coma etilico per aver vinto una gara di bevuta di vodka, appena vede don Camillo, subito bofonchia: "C'at vegna un chèncar", ossia "Che ti venga un cancro". Nello stesso film ricorre anche un termine singolare, che un archeolinguista potrebbe ritenere un elemento di sostrato adattato alla sonorità dell'italiano: bazza "mento". Don Camillo era in sciopero della fame per protestare contro il gemellaggio tra Brescello e una cittadina sovietica. Peppone cercava di farlo desistere, così gli parlava di manicaretti che i due avevano gustato quando erano partigiani. Tra questi cibi sopraffini, il sindaco baffuto menzionava il pollo alla creta della Desolina e certi ravioli grondanti di parmigiano fuso che lasciavano la bazza tutta unta. In un altro film della serie, non rammento più quale, veniva usato il verbo scapuzzare "inciampare", che si potrebbe essere tentati di ascrivere al sostrato. Il punto è che facendo le necessarie ricerche, si scopre che bazza e scapuzzare sono soltanto termini italiani caduti in disuso e non genuine sopravvivenza di una lingua defunta. A ingannare il filologo sarebbe il fatto che queste parole non trovano corrispondenza nell'italiano comunemente usato nella seconda metà del XX secolo. Può darsi che, oltre all'esclamazione di Peppone ubriaco, qualche altra esigua reliquia del gallo-italico emiliano compaia qua e là nella serie in questione, soltanto che non mi riesce di estrarre le prove dai miei banchi di memoria stagnante.
Dall'analisi degli elementi in questione, senza ulteriori informazioni, Don Camillo e Peppone porterebbero lo studioso futuribile a dedurre quanto segue:
1) Esisteva nel XIX secolo, fino agli inizi del XX, una singolare lingua non italiana nella Bassa Padana;
2) La scolarizzazione e la Grande Guerra hanno portato alla decadenza di suddetta lingua fino a ridurla allo stato residuale;
3) Benito Mussolini è riuscito nel corso del Ventennio ad eliminare quasi ogni traccia della lingua locale, lasciando soltanto poche memorie di frasi telegrafiche in alcuni parlanti;
4) Nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale la Bassa Padana era interamente italianizzata.
2) La scolarizzazione e la Grande Guerra hanno portato alla decadenza di suddetta lingua fino a ridurla allo stato residuale;
3) Benito Mussolini è riuscito nel corso del Ventennio ad eliminare quasi ogni traccia della lingua locale, lasciando soltanto poche memorie di frasi telegrafiche in alcuni parlanti;
4) Nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale la Bassa Padana era interamente italianizzata.
Precisiamo che queste conclusioni sono del tutto errate. La realtà dei fatti è invece questa:
1) Le varietà linguistiche gallo-italiche, parlate nella Bassa Padana nel XIX secolo, erano tali ancora nella prima metà del XX;
2) Durante il Regno, la scolarizzazione si è dimostrata fallimentare e non è riuscita ad accrescere in modo significativo i parlanti monolingui dell'italiano: le parlate gallo-italiche restavano vernacolari in tutto il Settentrione. La Grande Guerra, che "ha mischiato sangue e pidocchi di tutta Italia" (cit.), ha appena migliorato la comunicazione tra italiani;
3) Benito Mussolini ha dichiarato guerra alle lingue locali, chiamate dialetti, cercando con ogni mezzo di eradicarle. Pur conseguendo sostanziali successi nell'alfabetizzare il Paese, le lingue locali sono sopravvissute;
4) Nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale la Bassa Padana non era affatto italianizzata; la lingua locale vi predominò per decenni e si affievolì soltanto con la diffusione capillare della televisione. Il processo di estinzione delle lingue locali fu innescato da Mike Bongiorno con il suo Lascia o raddoppia. Nonostante nessuna lingua locale si sia conservata in buona salute, il processo di estinzione non è ancora completo ai nostri giorni, agli inizi del XXI secolo. Persino i distretti più italianizzati possono riservare sorprese.
2) Durante il Regno, la scolarizzazione si è dimostrata fallimentare e non è riuscita ad accrescere in modo significativo i parlanti monolingui dell'italiano: le parlate gallo-italiche restavano vernacolari in tutto il Settentrione. La Grande Guerra, che "ha mischiato sangue e pidocchi di tutta Italia" (cit.), ha appena migliorato la comunicazione tra italiani;
3) Benito Mussolini ha dichiarato guerra alle lingue locali, chiamate dialetti, cercando con ogni mezzo di eradicarle. Pur conseguendo sostanziali successi nell'alfabetizzare il Paese, le lingue locali sono sopravvissute;
4) Nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale la Bassa Padana non era affatto italianizzata; la lingua locale vi predominò per decenni e si affievolì soltanto con la diffusione capillare della televisione. Il processo di estinzione delle lingue locali fu innescato da Mike Bongiorno con il suo Lascia o raddoppia. Nonostante nessuna lingua locale si sia conservata in buona salute, il processo di estinzione non è ancora completo ai nostri giorni, agli inizi del XXI secolo. Persino i distretti più italianizzati possono riservare sorprese.
Immaginiamo ora che rovistando negli archivi, lo studioso analizzi e scarti moltissimi film interamente in italiano, riuscendo infine a trovarne altri due degni di interesse:
Che tempi! (1948), di Giorgio Bianchi, con Gilberto Govi, Walter Chiari e Alberto Sordi;
Piedipiatti (1991), di Carlo Vanzina, con Renato Pozzetto e Enrico Montesano
Piedipiatti (1991), di Carlo Vanzina, con Renato Pozzetto e Enrico Montesano
Che tempi! è un film ambientato a Genova, le cui sequenze sono ambientate alla vigilia della guerra, nel 1939, per proseguire nel 1945, nell'immediato dopoguerra. Eppure la realtà che descrive è un ambiente essenzialmente italianizzato. Ci sono pochissime vestigia sparse della lingua locale, analogamente a quanto avviene nella serie di Don Camillo e di Peppone. Il nome del signor Alessandro, Lüsciandru, è in gallo-italico genovese. Questo avaro Lüsciandru, interpretato da un ottimo Paolo Stoppa, intende sposare la figlia dell'ancor più avaro Felice Pastorino, interpretato magistralmente dall'immortale Gilberto Govi. L'arcano potrebbe essere compreso dal ricercatore soltanto se riuscisse a riesumare la commedia teatrale Pignasecca e Pignaverde, di Emerico Valentinetti, da cui il film è stato tratto. Un filmato della commedia in tre atti esiste su Youtube e ci mostra una realtà totalmente diversa rispetto a quella descritta in Che tempi!. Si nota che Govi e gli altri attori parlano un genovese abbastanza denso, anche se spesso in condizioni di code switching con l'italiano. Si può riportare come esempio la scena dei sigari. Notando che Pastorino sta fumando un sigaro tenendolo in un modo decisamente anomalo, con la parte accesa rivolta in alto, ecco che Lüsciandru gli chiede in genovese: "Dime un pó, Feliçe, perché ti téni sempre u sigàru cu fögu vurtóu versu u sufìtu?". La risposta giunge in italiano. Pastorino invoca una legge della fisica, sostenendo che se si tiene il sigaro in quel modo si ha meno tiraggio. Nel film lo stesso sketch ricorre in un contesto del tutto diverso, ma la domanda di Lüsciandru è in italiano, ridotta a una frase stringata: "Perché fumi in quel modo?". Nella risposta, parimenti in italiano, a Pastorino scappa però la forma gallo-italica fümu "fumo".
Ecco il video di Pignasecca e Pignaverde:
Noi comprendiamo che il film Che tempi! sia stato realizzato in italiano per rendere i dialoghi comprensibili agli spettatori di tutta Italia. La reale situazione linguistica di Genova era irrilevante per il regista. Tutto ciò sfuggirebbe all'archeologo del futuro. Senza poter fare confronti con Pignasecca e Pignaverde, la comprensione dei fatti gli restebbe preclusa per l'eternità.
Veniamo ora al film di Carlo Vanzina, Piedipiatti, ambientato sul finire del XX secolo. In esso sentiamo il brigadiere Silvio Camurati, interpretato da Renato Pozzetto, pronunciare qualche frase nel gallo-italico di Milano (es. te salüdi; và a dà via i ciapp). Non soltanto: quando l'indisciplinato brigadiere Vasco Sacchetti, romano de Roma intrepretato da Enrico Montesano, assiste al dialogo in milanese tra il collega Camurati e un suo agente, fa loro notare che ci vorrebbero i sottotitoli. L'incomprensibilità del gallo-italico lombardo è molto esagerata per motivi comici: una donna romana, udendo i deliri proferiti dal Camurati nel suo sonno inquieto, confonde il vocabolo ciapp "chiappe" col Ciappi, un cibo per cani all'epoca molto noto. Se l'emiliano e il genovese nei film sopra discussi sopra sono mostrati morenti in un'epoca in cui erano ancora vitali, possiamo dire che per contro Vanzina abbia scelto di attribuire al meneghino una nuova vita, simile a quella dell'Araba Fenice. Forse è esagerato considerare l'opera del regista come l'artificiosa ricostruzione di una lingua desueta allo scopo di rendere più efficace la commedia, tuttavia non è lontano dal vero affermare che la Milano degli anni '90 era prevalentemente italofona.
Conclusioni
La storiella che ho narrato illustra bene le insidie dell'archeologia. Il punto è che il nostro archeologo futuribile non potrà mai essere consapevole del suo misero fallimento: crederà in ogni caso di poter parlare in modo cattedratico, disponendo di prove pesanti come macigni da portare a sostegno delle sue tesi.
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