domenica 15 maggio 2022

LA COMPAGNIA DELLE LARVE

Ancora nella mensa ipogea. Sembra la stessa sequenza che si ripete da un’eternità come una manciata di fotogrammi impazziti. Tutto nasce dai fumi alcolici e si disperde nella nebbia impenetrabile che avvolge ogni mia percezione del futuro. Sono un etilista terminale. Non so neanch’io come abbia fatto a ridurmi in questo stato. Tutto viene dal Nulla e procede verso il Nulla. Non conservo alcun ricordo preciso della mia esistenza, salvo qualche tabella e qualche grafico nei file .xls che elaboro quotidianamente in stato di semincoscienza. Dopo aver lottato contro la sonnolenza, vengo qui in questo sotterraneo saturo di radon a ingurgitare qualcosa. Che lavoro svolgo davvero in quell’ufficio-prigione, in quel loculo? Non lo ricordo già più. Quando vi farò rientro, finita la pausa pranzo, riprenderò i miei automatismi, svanendo poi nell’Oblio che contraddistingue ogni tardo pomeriggio. Mi riempio una grossa caraffa da un litro di vino bianco frizzante estratto dalla spina. A volte lo rendo rosato aggiungendovi qualche spruzzo di rosso. Ne bevo subito qualche sorso per placare il tremore, quindi passo a rabboccare di nuovo la caraffa. Dopo aver pagato alla cassa, mi avvio verso un tavolo nella zona più isolata della mensa, stando attento a mantenermi in equilibrio. Non c’è quasi nessuno oltre a me, solo qualche operaio russo che mastica rumorosamente il suo cibo insipido, avanzandone la maggior parte. Non bado a quei subumani. Mi verso invece la bevanda intossicante in un bicchiere di plastica trasparente e comincio a bere, perdendo i già esili contatti con la realtà di veglia. Qualcosa prende forma attorno a me sul tavolo. Presenze a me familiari, dato che costituiscono la mia sola compagnia. Dialogo con quei grossi bruchi variopinti e pieni di flagelli semoventi, partoriti dal mio delirium tremens. Di solito farfuglio parole in una lingua che io stesso non capisco. “Oldens enumens, entairom olders”, saluto i budelli, poi proseguo i miei discorsi. Alcuni segmenti ricorrono di frequente. “Enimenda soktodal”. So soltanto che “soktodal” significa “fulmine”, ma il resto non mi è chiaro. A volte ripeto quella parola isolata un gran numero di volte, come un mantra per allontanare la malasorte. Soktodal, soktodal, soktodal, soktodal… Forse parlo senza neanche saperlo dei Massimi Sistemi, anche se dubito di essere capito. Ogni volta che mi succede, ci sono bruchi diversi per colore e per forma che si affollano sul mio tavolo. Ricordo ancora bene che ieri è venuta a trovarmi la larva di una farfalla sfinge, era verde come lo smeraldo e grande quanto un mio avambraccio. Aveva due flagelli rossi sulla coda, proprio in prossimità del “boccone del prete”, simili a tentacoli con le estremità avvolte a spirale. Ogni tanto faceva guizzare questi flagelli e li contraeva di nuovo, mentre faceva la gobba. Stando attento, mi riusciva di vedere gli intestini muoversi sotto la pelle sottile mentre muoveva gli pseudopodi. Non osava avvicinarsi a me più di tanto. Negli occhi composti da ommatidi non brillava alcuna luce di consapevolezza, ma forse c’era più capacità di comprendere l’ambiente in quel bruco che non negli operai russi.
Faccio una pausa dalla mia amara meditazione, approfittando per svuotare il bicchiere. Il sapore del vino è asprigno, ma non mi curo delle proprietà organolettiche di ciò che bevo. L’importante è che abbia un suo tenore alcolico. Se appena ci rifletto, mi rendo conto che il ricordo dei miei visitatori invertebrati rappresenta una delle poche cose nitide e certe della mia infelice esistenza. Proprio adesso vicino alla caraffa strisciano due frutti della mia follia. Uno è più grande e l’altro non arriva neanche alla metà del primo. Eppure si tratta di visioni che pochi sopporterebbero. In fondo questo pianeta, pur avvicinandosi così tanto alla definizione di Inferno, non è il peggio che si possa immaginare. A quanto pare, in Natura non vi sono specie di bruchi di proporzioni simili. Le salsicce deambulanti che indugiano sulla superficie di plastica del tavolo sono molto simili tra loro. I loro corpi sono adorni di giallo, di rosso e di bruno, cosparsi di vibrisse sottili. Dal dorso inarcato si dipartono appendici molli e animate che sembrano tentacoli o frustini, di un nero untuoso come quello di certo petrolio greggio. Ogni dettaglio mi appare chimico, ripugnante, al punto da smuovere ondate di nausea nel mio stomaco. Gli ocelli sui fianchi molli delle creature dell’incubo sono macchie azzurre sui fianchi con in mezzo un’apertura minuscola che li rende simili ad atrettanti sfinteri. “Inutile che cerchiate con tanta insistenza”, dico loro in preda alla stizza, “Tanto qui non c’è nulla di commestibile per voi”. Ritorno alle mie libagioni. Un rigurgito acido sale dal mio stomaco, ricordandomi che morirò quasi di certo soffocato nel sonno, anche se dei miei sonni non mi resta alcuna memoria. Due flashback irradiano in me, come se una macchina fotografica aliena avesse colto spezzoni della mia vita subliminale che io non riuscivo a richiamare a livello conscio. In uno di questi psicodrammi mi vedo mentre inginocchiato vomito nella tazza del cesso i rimasugli del mio fegato ridotto a poltiglia violetta. Nell’altro, sono sicuro di scorgere il mio corpo dall’alto, essendomene separato, mentre i rianimatori si accalcano attorno alla carcassa nel vano tentativo di richiamarmi nella prigionia corporale. Sono ricordi del passato o ricordi del futuro? Non saprei dirlo. Non distinguo più nulla del flusso temporale, a parte i miei amici bruchi. Non sono neanche sicuro di poter definire i compagni della mia sventura con il termine “larve di lepidottero”, perché mi appare ridicola la sola idea che un giorno potranno impuparsi e sfarfallare, lasciandosi alle spalle la loro precedente esistenza di masticazione. Provo a interrogare i miei muti interlocutori sul significato delle esperienze di pre-morte. Anche se non mi attendo una risposta comprensibile, data l’assenza di organi fonatori, sono sicuro che il brusio assordante nelle mie orecchie possa contenere qualcosa di razionale, quasi una risposta diretta alle mie allocuzioni. Il discorso mi sale dalle labbra. “Entimenenda sintamanda soktoks felimenda astamoks fenima ondomaima ondeks fanomu endimos onondagamas…” Non sento alcuna alterazione nelle frequenze bassissime che premono contro i miei timpani sovraccarichi. Eppure la metarazionalità dei flussi ricevuti dai miei nervi acustici va a nutrire il mio inconscio. O si tratta di qualche residuo di sedute di analisi che ho sopportato in qualche mia vita precedente? “Ontoma sinted anomoina fenomu anostriks enosoktodal enima entimanoskuma…” Non so dire se sia un dialogo vero o piuttosto un monologo degno di un Aleister Crowley in preda alla demenza furiosa. Mentre fisso le due apparizioni spettrali, eppure fin troppo concrete, noto che i loro corpi molli si stanno irrigidendo. Perché continuo ad aspettarmi una risposta, quando neppure comprendo il senso delle mie domande?
Ho trangugiato quasi tutto il contenuto della caraffa. Non credo di avere il tempo di andarne a prendere una nuova, ma tanto per il pomeriggio posso confidare su un recipiente di etanolo puro che tengo assicurato alla cintola, ben nascosto dal maglione. Presto cesserà l’attività della mia coscienza, diventerò un servo robotico e sprofonderò nella nebbia. Ad emergere dalla formattazione dei miei neuroni sarà il prossimo pranzo in questo sepolcro che gli altri si ostinano a chiamare mensa. Qualcosa però mi convince a trattenermi, nonostante l’orologio appeso alla squallida parete di fronte a me mi avvisi che il mio tempo sta per finire. I due bruchi sono adesso quasi immobili. La loro stessa struttura fisica è cambiata. Si sono gonfiati a dismisura. Ho la netta impressione che un’orribile pressione minacci di farli esplodere dall’interno da un momento all’altro. I gibbi e le protuberanze compaiono sempre più numerose sulla loro cute inspessita, come oscene verruche. Un essudato spurga, lo capisco dalla lucidità. Le appendici sensoriali sul dorso sono ora prive di vita, non guizzano più come prima. Non mi ricordano più le chiome di una gorgone, ma una qualche formazione algosa ormai priva di vita. Negli abissi del mio essere c’è sconvolgimento. Percepisco il pelo della mia anima come la superficie del Mare Avvelenato agitato dal Serpente del Mondo. Le onde si sollevano e cozzano le une contro le altre, perdendo qualsiasi coerenza. I germi dell’inaudito sono all’opera, in me come nelle larve sprofondate nel loro stato comatoso. La pressione interna cresce ancora nelle loro viscere, al punto che comincio ad intravedere qualche piccola spaccatura, da cui cola un sangue di un color giallo marcio, semitrasparente. Un fetore di cavoli marci si sprigiona dai corpi in metamorfosi, ed è tanto aspro e pungente che non credo riuscirò a sopportarlo a lungo. Non posso alzarmi, non posso allontanarmi dal tavolo prima di aver visto, prima di aver ricevuto la rivelazione finale del teatrino entelechiano che ho davanti agli occhi. Ecco che si fa più vicino l’esito. Masse si muovono, mi ricordano il pullulare di piccoli cagnotti nella carne marcia. Finalmente alcuni di questi figli della necrogenesi fanno capolino. Le loro robuste mandibole stanno masticando quello che resta dei loro genitori. Sono decine, e ciascuno di loro è una copia in miniatura dei bruchi appena morti. Si riproducono in questo modo, esclamo tra me e me, esterrefatto e catturato dallo spettacolo macabro quanto ipnotico di quella germinazione. Lo avevo sempre sospettato, ma adesso ne ho una conferma incontrovertibile. Cosa sono queste forme infernali che affliggono i miei sensi esausti e piagati? Nulla di più lontano dai bruchi delle farfalle, che si trasformano in qualcosa di bello. Questi non portano nessuna gioia nel cuore, ma non fanno altro che replicare il loro schema all’infinito. Non hanno in sé le potenzialità della meraviglia. La loro ontologia non ha nulla a che vedere con quella dei lepidotteri.
“Quanto sono stupido!”, esclamo all’improvviso. “Sto scambiando per realtà oggettiva quello che è l’infetto prodotto della mia follia allucinatoria! Non mi era mai capitato di subire un rapimento così profondo, un solipsismo così assoluto…” Proprio quando cerco di convincermi dell’irrealtà di quanto mi circonda, mi rendo conto che uno dei giovani bruchi mi ha morso una mano. Mi agito e urlo in preda all’obbrobrio, scagliando lontano il piccolo predatore. Quando guardo la ferita, vedo che sanguina e che si corrode lentamente, come se la saliva lasciata dalle fauci della larva stesse digerendo la mia carne. Non avverto sensazioni dolorose, ma di anestesia. Quella piccola puttana mi ha anestetizzato la mano per poterla mangiare indisturbata. “Non è possibile!”, impreco con furia, “Le allucinazioni non lasciano ferite, non straziano le carni…” Non mi sono accorto di nulla, non riesco a capacitarmi di come sia potuto accadere. Ora però ogni cosa mi è chiara. Con infinito orrore vedo che tutti i bruchi voraci hanno abbandonato il tavolo e sono saliti sul mio corpo, iniziando a fare il loro banchetto con le carni delle mie braccia e delle mie gambe. Di nuovo le mie urla folli lacerano l’aere. “Mi sta entrando in un occhio! Mi divorerà il cervello! Aiuto!”, strillo come un’aquila. Niente da fare. La cameriera filippina non si accorge di nulla. Mi vede mentre cerco disperatamente di strapparmi la faccia dal teschio, e non dice una sillaba. Si limita a ritirare la caraffa ormai vuota e si allontana come se fosse la cosa più normale del mondo. Il buio si fa strada in me, gelido come la morte essenziale. Mi immedesimo con Thanatos e so che nulla esiste al di fuori. È stato un attimo, tutto quello che ho creduto di vivere, e ora sta per finire con la morte eterna. L’anestesia ha raggiunto i miei centri cognitivi. Tra poco non sentirò più nulla. Ecco, il Dio della Morte è giunto, finalmente, con il suo pungiglione. Non c’è più nulla, il mio corpo non esiste più. Non c’è più il lavoro con i grafici e le tabelle .xls, non c’è più la mensa ipogea. Non ci sono più gli pseudoricordi, i flash di mie esistenza alternative. Tutto acquista la sua concretezza, il suo senso definitivo. Il Non-Essere. Ho soltanto un dubbio. Perché sto continuando a pensare?

Marco "Antares666" Moretti 

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