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mercoledì 14 marzo 2018

NOTE SUL LAVORO DI ADIEGO LAJARA

Ignasi-Xavier Adiego Lajara, dell'Università di Barcellona (Universitat de Barcelona) è l'autore dello studio Lenguas anatolias y protoindoeuropeo (in inglese Anatolian Languages and Proto-Indo-European), pubblicato sulla rivista archeologica e filologica Veleia (n. 33, 2016, codice DOI: 10.1387/veleia.16819). Il lavoro, che si trova sul sito Academia.edu, è consultabile e scaricabile liberamente seguendo questo link:


Riporto l'abstract, tradotto dal sottoscritto:

"Questo articolo è un rapporto sullo stato dell'arte sulla posizione dialettale del gruppo anatolico (che comprende l'hittita, il luvio, il palaico, il licio, il milio, il cario, il pisidio e il sidetico) all'interno della famiglia linguistica indoeuropea. Valuta le due principali posizioni con cui finora si sono cercate di spiegare le forti divergenze tra le lingue anatoliche e lo stadio linguistico ricostruito di proto-indoeuropeo: da una parte, c'è l'ipotesi che assume un generale processo di perdita di categorie linguistiche in anatolico a partire dalla lingua comune; dall'altra, abbiamo l'ipotesi che assume una precoce separazione dalla lingua comune. A questo proposito, evidenzio alcune opinioni di parte sul cambiamento linguistico, che hanno condizionato questa discussione. Inoltre enfatizzerò il progresso nello studio delle lingue anatiliche diverse dall'hittita e il loro contributo alla questione sulla posizione dialettale dell'anatolico nel gruppo indoeuropeo. La conclusione è che la presente situazione rende difficile decidere quale delle due posizioni sia giusta."

Ricostruzione di Brugmann (morfologia nominale):

1) Un sistema con tre categorie, genere, numero e caso. Queste categorie consistevano in tre generi (maschile, femminile, neutro), tre numeri (singolare, duale, plurale) e otto casi (nominativo, vocativo, accusativo, genitivo, ablativo, dativo, strumentale, locativo).
2) Da un punto di vista formale, è stato assunto un sistema di temi caratterizzato dal suono finale del tema stesso. È stata assunta una generale opposizione tra temi in -o e temi atematici. I temi in -o, chiamati anche temi tematici, sono caratterizzati da una vocale tematica -o/e-, accento fisso o non mobile e assenza di alternanze apofoniche o ablautiche, mentre i temi atematici sono caratterizzati da alternanze apofoniche e in molti tipi da accento mobile. Tra i temi atematici, un'importante sottoclasse è quella delle radici in -a:, che per lo più esprimono il genere femminile e che hanno sviluppato un particolare insieme di uscite flessive.
3) Per gli aggettivi, l'espressione di gradazione è ottenuta tramite specifici suffissi. Nel caso del grado comparativo, un suffisso *-ies-/-ios- può essere ricostruito con sicurezza.

Ricostruzione di Brugmann (morfologia verbale):

1) Un sistema di tre temi (tritematismo), ossia presente, aoristo, perfetto, basato principalmente - ma non esclusivamente - sull'espressione dell'aspetto. Ogni tema era formata dalla radice verbale per mezzo di diverse procedure caratteristiche con una varità di costruzioni per il tema del presente (radicale, raddoppiata, con infisso nasale, con diversi suffissi), contro una varietà  più limitata per il tema dell'aoristo (radicale, sigmatico, raddoppiato) e una formazione praticamente esclusiva del tema del perfetto (il perfetto raddoppiato). È notevole anche l'esistenza di una differenziazione chiaramente definita tra i temi tematici e atematici, con caratteristiche simili ai corrispondenti temi nominali (invariabilità delle forme nella flessione tematica rispetto alla variabilità apofonica e di accento nella flessione atematica).
2) L'esistenza della distinzione di voce tra attivo e medio-passivo, la distinzione di numero tra singolare, duale e plurale, così come la distinzione tra prima, seconda e terza persona, tutte espresse tramite uscite personali.
3) L'uso di diverse uscite personali aggiunte al tema del presente indicativo come mezzo per distinguere tra presente e passato (il cosiddetto imperfetto).
4) L'esistenza dei modi indicativo, congiuntivo e ottativo, gli ultimi due espressi tramite suffissi aperti aggiunti al tema.
5) L'esistenza di un modo imperativo caratterizzato dall'uso di specifiche uscite personali.
6) L'uso di un insieme di uscite per il tema del perfetto.
7) La presenza di aumento in alcune lingue come tratto del tempo passato, opposto all'uso senza aumento per il cosiddetto modo ingiuntivo.
8) L'assenza di ogni espressione formale del tempo futuro, rimpiazzato dall'uso del presente pro futuro.

Ecco invece ciò che emerge dal terremoto anatolico:

La morfologia nominale è molto diversa da quella proposta per il proto-indoeuropeo prima dell'interpretazione della lingua hittita:

1) L'hittita ha due generi (comune e neutro) senza alcuna traccia del femminile, sia nei sostantivi che negli aggettivi.
2) Non c'è il duale.
3) Un unico insieme di uscite dei casi è usato per tutti i temi nominali, cosicché non possiamo propriamente parlare di temi "tematici" e di temi in -a: come flessioni differenziate dal resto delle flessioni atematiche.
4) Non si possono osservare tracce di gradazione aggettivale.

Morfologia verbale:

1) Non c'è tritematismo: c'è soltanto una forma tematica da cui tutta la coniugazione è creata per ogni verbo. Contro il sistema presente-aoristo-perfetto del proto-indoeuropeo di Brugmann, l'hittita mostra un sistema monotematico.
2) Cosa ancor più interessante, non ci sono affatto chiare tracce di tutti i marcatori dei temi dell'aoristo e del perfetto.
3) Ci sono soltanto due modi, l'indicativo e l'imperativo. Non esistono tracce di ottativo e di congiuntivo.
4) Ogni verbo appartiene a una delle due classi di coniugazione, dette coniugazione in -mi e coniugazione in -hi, e queste classi sono caratterizzate da insiemi di uscite flessive in parte diverse. I criteri secondo cui i verbi primari e derivati sono assegnati a una o all'altra classe restano non chiari. Mentre le uscite della coniugazione in -mi si confrontano facilmente con le uscite primarie e secondarie del proto-indoeuropeo di Brugmann, le uscite singolari della coniugazione in -hi mostrano evidenti connessioni con le uscite del perfetto e del medio del proto-indeuropeo brugmanniano - ma è formalmente impossibile pensare che la classe in -hi sia un semplice esito di una "riconversione" dei perfetti e dei medi proto-indoeuropei in una classe di coniugazione.
5) In modo simile al modello brugmanniano, l'hittita distingue tra presente e passato tramite uscite personali.
6) L'esistenza di due voci espresse tramite uscite personali è anch'essa comune al modello brugmanniano.
7) L'hittita mostra particolari mezzi per esprimere il modo e l'aspetto: ha sviluppato un perfetto perifrastico, usa suffissi come -ske-/-ska per derivare temi con significato di imperfetto o ricorre a particelle per esprimere sfumature modali (potenziale, irreale, ottativo).
8) L'hittita non ha né duale né aumento.

È notevole che un tipo di formazione di temi nominali considerata residuale nel proto-indoeuropeo di Brugmann, i temi eteroclitici in -r-/n-, fosse pienamente produttiva in hittita e in luvio.

Prova della natura arcaica delle lingue anatoliche

Sono uno strenuo sostenitore della tesi della natura arcaica delle lingue anatoliche: esse non presentano traccia alcuna di molte caratteristiche morfologiche indoeuropee perché non le hanno mai sviluppate. Se le lingue anatoliche fossero derivate da una protolingua affine all'indoeuropeo brugmanniano o a quello ricostruito dai laringalisti, sarebbero di certo rimasti residui della situazione più antica. Ad esempio, non è possibile che l'usura fonetica sia stata così radicale da far scomparire ogni traccia di un'ipotetica antica distinzione del genere femminile nei sostantivi e negli aggettivi, e neppure di certe caratteristiche della flessione verbale (raddoppiamento, pluralità dei temi, etc.): sarebbe rimasta in ogni caso qualche reliquia. Non va dimenticato che tali lingue non hanno avuto un'erosione quasi completa dell'apparato grammaticale, paragonabile a quella che possiamo constatare nell'inglese. Hanno mantenuto una grammatica abbastanza complessa. Dovremmo quindi immaginare una perdita selettiva, che avrebbe fatto sparire certe caratteristiche brugmanniane ma conservando tutto il resto, come se ad agire fosse stato un diavoletto di Maxwell, un genietto maligno con in mente un progetto ben definito. Inutile dire che cose simili non accadono nell'evoluzione delle lingue.

Per quanto possa rendermi impopolare, non esiterò ad affermare una verità scomoda. Tecnicamente parlando, le lingue anatoliche non sono lingue indoeuropee vere e proprie. Sono lingue preindoeuropee derivanti da una protolingua geneticamente imparentata con il protoindoeuropeo: il punto di divergenza è da collocarsi ben a monte dell'indoeuropeo ricostruito da Brugmann. In altre parole, la teoria a parer mio più vicina alla realtà è quella dell'indohittita. Il nome è brutto e sarebbe il caso di modificarlo, ma per comodità può andar bene.

Le invereconde baggianate di Renfrew

Noto una certa tendenza nel Web ad associare l'ipotesi indohittita con le deliranti teorie pseudoscientifiche dell'indoeuropeizzazione neolitica enunciate da Colin Renfrew, che respingo con fermezza. È chiaro che le lingue anatoliche hanno avuto origine più a nord, fuori dall'Anatolia e che si sono espanse in Asia minore solo in un secondo momento. Ritenere che l'Anatolia sia l'origine dell'indoeuropeizzazione è semplicemente folle, anche perché ancora in epoca storica persistevano in quelle terre lingue non indoeuropee. Lo stesso nome degli Hittiti deriva da quello della terra di Hatti, abitata anticamente da genti non indoeuropee poi assorbite e assimilate. Com'è ovvio che sia, la radice in questione non ha alcun parallelismo nelle lingue indoeuropee e non può essere spiegata tramite la ricostruzione brugmanniana. Va ricordato inoltre che la lingua delle antiche genti di Hatti ci è attestata, perché gli Hittiti se ne servivano per scopi religiosi: era una lingua non indoeuropea, chiamata proto-hattica dagli studiosi, appartenente alla molteplicità nord-caucasica (con somiglianze soprattutto con le lingue caucasiche nordoccidentali). Per usare un paragone rozzo che renda l'idea, la differenza tra l'hittita e il proto-hattico sembra quella che passa tra il latino e il cinese. A complicare il quadro, bisogna ricordare che lo stesso lessico dell'hittita è molto composito e in buona parte di origine oscura per non dire ignota - non necessariamente con corrispondenze in proto-hattico. I seguaci di Renfrew ignorano che anche parole con la stessa radice di termini indoeuropei possono gettare un po' di luce sulla lontana preistoria. Così apprendiamo molto dall'uso di un termine hittita, hartagga- "orso" (parente dell'IE *ṛkθo- "orso"), che indica anche un tipo di sacerdote: il ministro di culto doveva indossare la pelle dell'animale e impersonarlo, e questo ci appare come un lampante residuo di sciamanesimo, correlabile a un'origine settentrionale della popolazione.

È evidente che l'Anatolia non può essere stata a maggior ragione il luogo d'origine dell'indoeuropeo di Brugmann. Non è in quella terra che sono derivate le lingue indoeuropee moderne, come appare chiaro già analizzando la sua situazione linguistica nell'antichità, in cui dominano le lingue anatoliche. Ma forse Renfrew, che NON È un linguista, crede che un diavoletto di Maxwell abbia fatto evolvere la protolingua indohittita nelle lingue indoeuropee moderne in Europa e nelle lingue anatoliche in Asia Minore, postulando assurdi meccanismi selettivi.

Epilogo

L'articolo di Adiego Lajara non prende posizione in modo netto. Si limita a fare un riepilogo dei fatti conoscibili, per affermare che non si può giungere in alcun modo a conclusioni certe. Questo è in un certo qual senso l'ammissione di una sconfitta. Posso capire la sua sfiducia. La discussione è dominata da posizioni preconcette, che rallentano e ostacolano gli studi, complice anche l'estrema frammentarietà del mondo accademico. Uno studioso che segue il metodo scientifico deve raccogliere dati e far passare sotto il loro giogo le proprie teorie. Non può e non deve in alcun caso manipolare la realtà documentabile e accertabile per piegarla alle proprie idee preconcette. Se lo fa, è un falso uomo di Scienza e un malfattore. Ci sono neogrammatici e laringalisti che adorano con feticismo estremo le proprie teorie, al punto di costringere le lingue anatoliche nel letto di Procuste delle loro ricostruzioni, considerate assolute e definitive.

giovedì 8 febbraio 2018

ETRUSCO ZAMTHI- 'ORO' - LATINO SANTERNA 'CRISOCOLLA'

Una fibula d'oro porta la seguente iscrizione in lingua etrusca (ET Cl 2.3): 

mi araθia velaveśnaś zamaθi mamurke mulvenike tursikina

La traduzione è molto semplice:

"io sono l'oro di Arath Velavesna, Mamurce Tursikina <mi> ha donato"

Il lemma zamaθi significa "oro", anche nel senso di "oggetto d'oro", "gioiello d'oro". Anche in italiano si usa "gli ori" in una simile accezione. Purtroppo, dal momento che questo uso della parola "oro" non si trova in inglese, gli accademici anglosassoni si rifiutano di credere a questa traduzione, così insistono col voler tradurre zamaθi con "fibula". Nonostante sia stato fatto notare che un tempo l'inglese gold poteva indicare anche un oggetto d'oro e non soltanto il metallo in sé, nessuno sembra averne preso atto. Ricordo ancora polemiche furibonde nate dalla discussione di questo argomento. Sappiamo che gli anglosassoni hanno la brutta tendenza ad applicare le categorie della propria lingua all'intero Universo, cosa che spesso li porta in un vicolo cieco. Se in una qualsiasi lingua una parola traduce sia "gold" che "golden object" o "golden jewel", ci sono persone che vanno fuori di testa e hanno un subitaneo travaso di bile. Impossibile, essi dicono, arrivando a diventare più paonazzi del fallo di un priapico imbottito di viagra. Seguendo voli pindarici, ci fu persino chi arrivò a ipotizzare una parentela con l'urritico zalamši-, zalmatḫi- "statua" (un prestito dall'accadico ṣalmu "statua") - e questo a dispetto della materialità dell'oggetto (!), come se le difficoltà semantiche fossero irrilevanti.

Ora elenchiamo due dati di fatto incontrovertibili:

1) La radice in analisi compare anche nel Liber Linteus come forma aggettivale zamθi-c "d'oro, aureo" con la variante zamti-c. Il testo ha caperi zamθic (VIII, 10) e caperi zamtic (XII, 12), traducibile come "nel vaso d'oro", nel qual caso dovremmo ammettere un aggettivo indeclinabile. Data la scarsa comprensione di entrambi i passaggi del documento in cui compaiono le riportate attestazioni, potrebbero anche esistere altre soluzioni, anche se risulta evidente che il significato di "fibbia" non ci azzecca proprio per nulla.

2) Esiste in latino il vocabolo santerna "crisocolla", che non viene semplicemente considerato dagli etruscologi, a dispetto della sua terminazione caratteristica. La crisocolla, a scanso di equivoci, è un minerale non pregiato, che all'epoca veniva utilizzato per l'estrazione del rame e per la produzione di un omonimo pigmento, anche noto come colla d'oro, viride, verde di banda, hispanicum, lutea e orobitis. Appartiene alla famiglia dei silicati e ha un bel colore verde brillante o bluastro. La classificazione Strunz è 9.ED.20 e la formula chimica è (Cu,Al)2H1Si2O5(OH)4·n(H2O). Benissimo. Dovrebbe saltare all'occhio che crisocolla (lat. chrysocolla) è dal greco χρυσόκολλα, che deriva direttamente da χρυσός "oro". È del tutto lapalissiano dedurre che il termine santerna è direttamente dall'etrusco *zamθerna e che zamθi- è proprio la traduzione del greco χρυσο-! Fine della dimostrazione. 

Si noterà che l'enigmatico termine greco ξανθός /ksan'thos/ "giallo" è un relitto pre-ellenico imparentato con il lemma etrusco in analisi.

Concludo con una riflessione. Se si dimostra qualcosa con l'uso della logica, giungendo alla certezza dove regnava il dubbio, bisogna far in modo esista un'autorità scientifica in grado di porre la parola fine a ogni disputa e alla proliferazione di inutili quanto nocive ipotesi pseudoscientifiche. Teorie vecchi e superate, ormai smentite dai fatti, non dovrebbero saltare fuori come cadaveri putrefatti da una palude. Invece si nota che manca ogni forma elementare di controllo sulle falsità palesi e di diffusione attiva delle informazioni attendibili, evidentemente perché i settari archeologi si oppongono con ogni mezzo: sembra che ci sia un diffuso interesse a impedire di giungere a una buona conoscenza della lingua dei Rasenna. 

martedì 18 luglio 2017

UN THREAD SULL'OPERA DI PIERO BERNARDINI MARZOLLA

Quando frequentavo ancora il liceo, era il lontano 1984, acquistai il libro L'etrusco: una lingua ritrovata, di Piero Bernardini Marzolla. Giovane com'ero, non avevo ancora mezzi sufficienti per capire che si trattava di qualcosa di poco credibile. Quel volume mi conquistò e mi convinse. Il presupposto dell'autore era mirabolante: a suo dire, l'etrusco sarebbe stato imparentato col sanscrito, l'augusta lingua dell'antica India. Come in un diario cresciuto di notte, il Marzolla riportava le sue traduzioni, una dopo l'altre. Sembravano ben convincenti. Si aveva l'impressione, leggendo quel resoconto di un'impresa titanica, che la maschera millenaria che aveva reso irriconoscibile la lingua degli Etruschi fosse stata finalmente rimossa, pezzo dopo pezzo. Per molto tempo mi occupai d'altro, ma rimanevo incredibilmente confortato al pensiero che qualcosa di ignoto fosse stato finalmente aggiunto al reame del noto. Una volta all'anno riesumavo il volume del Marzolla e mi immergevo nella sua lettura. Poi qualcosa cambiò e cominciarono a fermentare me i dubbi. Al crescere delle mie conoscenze, l'assunto marzolliano appariva sempre meno plausibile, tanto che a un certo punto compresi di essere stato vittima di un grande abbaglio. 

Era il 2010 quando ritrovai menzione dell'opera del Marzolla in un blog ospitato sulla piattaforma Blogspot, intitolato Sanscrito e civiltà dell'India (sanscritonline.blogspot.it). Il post che ha attratto la mia attenzione è Il sanscrito e le lingue dell'Italia antica: il caso dell'etrusco. Riporto in questa sede in thread.

Antares666:
Quello che si può provare (ma sarebbe troppo lungo in questa sede) è che le tesi di Marzolla sulla lingua degli Etruschi sono il frutto di una gigantesca allucinazione cognitiva. All'epoca anch'io ero rimasto affascinato dal libro "L'etrusco - una lingua ritrovata", ma ho poi compreso che è di una fragilità logica molto spinta.

Giacomo Benedetti:
Non si può lanciare il sasso e poi tirarsi indietro! Vorrei sapere quali sono le prove dell'allucinazione di Marzolla. Naturalmente le interpretazioni di Marzolla sono discutibili, ma come si possono confutare?

Antares666:
Prendiamo ad esempio i numerali etruschi: THU "1", ZAL "2", CI "3", HUTH "4"(*), etc.
Persino il Marzolla non può contestare il valore di numerali di queste parole e la loro assoluta divergenza dai numerali sancriti. Orbene, è logico pensare che una lingua complessa e di così magnifica tradizione come quella sanscrita perda proprio i numerali per prenderli a prestito da una lingua ignota? In realtà questi numerali una parentela ce l'hanno: con le lingue del Nord Caucaso, come il Ceceno, l'Ingush, l'Avaro, l'Urartaico (ad esempio nella lingua degli Hurriti KIGA significa "tre").
Consideriamo poi il pronome MI "io", con il suo accusativo MINI "me". Marzolla, constatata la divergenza dal sanscrito AHAM "io" (parente del latino EGO, del gotico IK, etc.), deriva il pronome etrusco dal sanscrito ASMI "io sono", voce del verbo AS- "essere", che nei pracriti è diventato AMMI. Ma come spiegare l'accusativo in -NI? Come spiegare la perdita di un pronome e l'adozione di un verbo? Non ha senso.

(*)In seguito alla presentazione di nuove e convincenti prove, ho aderito all'interpretazone ŚA "4", HUTH "6". Per approfondimenti rimando ai seguenti post:


Giacomo Benedetti: 
Queste osservazioni mi lasciano un po' perplesso, perché il Marzolla non sostiene che tutto l'etrusco deriva dal sanscrito, ma solo una parte minore del suo vocabolario. Lui ammette una componente non indoeuropea della lingua come quella principale, anche se ora non ho il libro sotto mano e non posso fare citazioni. Anche il pronome MI non lo faceva derivare dal sanscrito, ricordo che lo metteva tra gli elementi specifici dell'etrusco, dove hai trovato la derivazione da ASMI?
A proposito dei numerali, quello che dici sarebbe molto interessante, perché riconnetterebbe l'etrusco all'area del regno di Mitanni, dove la lingua più diffusa era l'hurrita... d'altronde, ho trovato piuttosto convincente la ricostruzione di Georgiev, che riconosce nell'etrusco una forte componente ittita.

Antares666:
Noto che altri due commenti da me apposti, che erano molto significativi, non sono stati pubblicati. Spero di vederli comparire, sempre che non siano andati dispersi. Quanto ho scritto sul pronome di I persona singolare si trova per l'appunto nel libro di Marzolla "L'etrusco - una lingua ritrovata": basta leggere con attenzione. Lì è esposta a chiare lettere la derivazine dell'etrusco MI dal sanscrito ASMI, con tutto quello che ne consegue. Posso riconoscere al Marzolla grandi doti di poeta, ma difficilmente le sue conclusioni potrebbero essere ritenute valide. Egli non riconosce l'origine indiana di una piccola parte del lessico etrusco, come tu sostieni, ma della sua massima parte, per poi attribuire a una seconda lingua, ignota e separata, tutto quello che non può spiegare. Addirittura è arrivato ad affermare che dire che l'etrusco da lui "tradotto" non è indiano è come affermare che il verso "schön singt die Nachtigall" non è tedesco. Naturalmente esistono molti prestiti da lingue del ceppo ittita in etrusco, ma di questo il Marzolla non parla, a quanto mi è noto.

Giacomo Benedetti:
Caro Antares, a quanto pare il Marzolla ha cambiato idea tra il suo libro del 1984 e quello che ho letto io, del 2005, come è comprensibile. Forse esaminando anche quello ti farai un'idea diversa delle tesi del Marzolla. In effetti lui non parla dell'ittita, ma, al di fuori dell'ambito indiano, parla solo di prestiti iranici, greci e semitici. Ti prego di riinviarmi gli altri tuoi due commenti. 

Antares666:
Consideriamo poi l'uscita del nominativo singolare dei sostantivi maschili in -AS nel sanscrito vedico, evoluta in -AH nel sanscrito classico, scomparsa nelle attuali lingue dell'India. Ebbene, il Marzolla si immagina tutta una serie di esiti in etrusco: -AS, -S, -US, -UR, -U, -ES, -E, etc. Essi spaziano da forme di sapore vedico a forme contemporanee. Naturalmente in sanscrito classico c'è la trasformazione della desinenza -AH a seconda del suono iniziale della parola seguente. Nello pseudo-etrusco di Marzolla non c'è nulla di tutto ciò. Nessuna regola. Quello che Marzolla propone è una trasformazione caotica di una desinenza sanscrita in una serie di uscite etrusche incompatibili (scelte spesso per far tornare le sue traduzioni).
Marzolla pretende di scardinare tutte le chiare conoscenze grammaticali ottenute da generazioni di studiosi tramite l'applicazione del metodo combinatorio.

Antares666: 
Non sembra un po' strano che le iscrizioni che Marzolla traduce meglio e che sembrano più indiane siano proprio quelle in scriptio continua? Semplice: egli le può ritagliare come vuole, facendo poi collimare le sillabe ottenute con le voci trovate in un vocabolario sanscrito. Ad esempio in un'iscrizione egli interpreta APLU (che è il nome di Apollo) con il verbo sanscrito APLU- che significa "bagnarsi", "immergersi".
I suoi trucchetti non funzionano con molti dei testi più recenti, in particolare con il Liber Linteus, così egli afferma che quei testi sono in un'altra lingua. Non sapendo spiegare una lingua, ne inventa due: una, più antica, simile al sanscrito; l'altra, più recente, di natura ignota, anche se a sua detta con numerosi prestiti iranici e semitici.
Aggiungo altre brevi considerazioni.
1) L'etrusco è una lingua agglutinante, che funziona più come le lingue dravidiche che non come quelle indoarie;
2) Dove sono i composti, così abbondanti nel sanscrito?
3) Dove sono i prefissi?
4) Dove sono i termini del lessico di base, quelli ad esempio indicanti la parentela? Possibile che si sia conservata una parola tecnica per dire "figlio legittimo" e si siano persi termini elementari per dire "madre", "padre", etc.?
5) Certe "illuminazioni", tipo XIMTHM tradotto come "dal freddo raggio" (mentre in realtà significa "e in tutti"), non spiegano l'occorrenza di termini simili (ad esempio XIMTH, XIM), in contesti in cui le traduzioni "poetiche" del Marzolla non hanno senso.
Evidentemente c'è qualcosa che non quadra.

Antares666:
Onestamente, non ho letto il libro del 2005, ma ho trovato una sua descrizione nel web. Essa dice così:
"A distanza di anni dalla pubblicazione del suo libro L'etrusco - una lingua ritrovata, l'autore riprende qui e sviluppa la sua scoperta di una fitta rete di rapporti tra lessico etrusco e lessico sanscrito, mostrando dettagliatamente come i vari tipi di mutazioni fonetiche rispetto al sanscrito siano gli stessi, ben noti, subiti in etrusco dai prestiti dal greco, e illustrando una serie d'importanti aspetti tra i quali il fatto che il lessico etrusco di origine "indiana" è, logicamente, di tipo "satEm" e che anche la "formazione delle parole" corrisponde a quella del sanscrito, con identità di prefissi e suffissi nonché di composti. L'autore avanza oggi l'ipotesi che l'etrusco "indiano" continui in qualche modo l'indoario, lingua che ha lasciato di sé poche ma sicure tracce (metà del II millennio a.C.) nel Vicino Oriente (alta Mesopotamia e Asia minore). Il grosso del libro è costituito dalla traduzione di iscrizioni, finora incomprensibili, resa possibile dall'individuazione degli equivalenti sanscriti di parole etrusche. Un capitolo è dedicato a iscrizioni su specchi di bronzo figurati, e il volume si chiude con un ricco Vocabolario etimologico etrusco."


Non mi sembra che ci siano stati cambiamenti significativi rispetto al primo libro; da quanto leggo nel tuo post, certe "perle" marzolliane sono rimaste praticamente immutate.

Giacomo Benedetti: 
Caro Antares, la descrizione che hai trovato forse non fa capire che Marzolla nel libro del 2005 non identifica l'etrusco con una lingua indoaria, ma solo una parte del suo vocabolario. La derivazione che citi di APLU è stata abbandonata, visto che il Marzolla riconosce che si tratti del nome di Apollo. A proposito di XIMTHM, mi pare che non lo abbia citato nel nuovo libro. Ti invito a leggerlo, se vuoi farti un'idea aggiornata delle teorie del Marzolla, che evidentemente a smussato certi eccessi 'giovanili'... Ho trovato alcune sue traduzioni piuttosto convincenti (particolarmente interessante quella della Resxualc & co.), altre più forzate, comunque per lo meno cerca di rispettare delle leggi di trasformazione fonetica, diversamente dal Semerano...

Giacomo Benedetti:
Ho trovato le fotocopie del libro, dove il Marzolla afferma che persino nel libro del 1984 egli dichiarava di non avere "nessuno speciale interesse a difendere a oltranza l'indoeuropeità integrale dell'etrusco" e poneva la questione se esso fosse una lingua non indoeuropea contaminata da una lingua di stampo indiano o una lingua di stampo indiano sommersa da quella non indoeuropea di una classe (o di un popolo) dominante. In conclusione (par.14), osserva: "La parte non indiana, con ogni probabilità non indoeuropea, è purtroppo quella di gran lunga prevalente. I testi di maggior dimensione restano almeno per ora intraducibili."

    A questo punto, snervato, ho abbandonato il thread, tanto il Benedetti non sembrava interessato a discutere i punti da me evidenziati. In seguito è intervenuto Alessandro Morandi, un accademico le cui idee sulla lingua degli Etruschi non sono a mio avviso molto distanti da quelle di Francesco Pironti. Il concetto interessante espresso dal Morandi è il seguente: il Marzolla si è servito di numerose idee enunciate a suo tempo da Alfredo Trombetti, mascherandole fino a renderne la fonte irriconoscibile. Riporto l'intervento di Morandi.

Alessandro Morandi:
Sono parte di quel mondo "accademico" che non ha accolto positivamente, anzi le rifiuta, le opere di P. Bernardini Marzolla. Quando mi va di farmi "quattro risate" con gli amici leggo alcune delle più divertenti traduzioni del B.M.:la cutrettola di Volterra, dominatrice del bosco, la fanciulla barbara che rifiuta il ballo... Molto indietro, ben nascoste, ci sono le idee del nostro povero Alfredo Trombetti, La Lingua Etrusca, saccheggiato cripticamente dal dilettante di turno.

mercoledì 22 febbraio 2017

ALCUNE CONSIDERAZIONI SCETTICHE SUGLI IPERPOLIGLOTTI



Il contadino che conosce 100 lingue: "Ricordatemi per il mio lavoro, non come fenomeno"
Riccardo Bertani, 86 anni, dopo le elementari ha studiato da autodidatta idiomi dimenticati: dal mongolo alle lingue siberiane, pubblicando oltre 1000 volumi. La sua casa è diventata un Fondo e lui invita gli appassionati di lingue scomparse ad andarlo a trovare

di GIACOMO TALIGNANI
(continua a leggere

L'articolo in questione, pubblicato su Repubblica, ha destato il mio vivo interesse, come tutto ciò che di straordinario e di mirabolante ha a che vedere con i misteri del linguaggio umano. Già qualche tempo prima mi ero imbattuto nella figura di Riccardo Bertani da Campegine nel corso di alcune mie letture sugli iperpoliglotti, persone che parlerebbero fluentemente un gran numero di lingue. La definizione di iperpoliglotta spesso cambia a seconda degli autori, ma potremmo ritenere tale, senza timore di smentite, una persona in grado di padroneggiare almeno dieci lingue.   

Wikipedia elenca un certo numero di poliglotti e di iperpoliglotti a partire dall'Evo Antico e dal Medioevo per arrivare a tempi più recenti, fornendo per ciascuno la data di nascita e di morte, annotando brevemente molti nominativi con qualche dettaglio biografico. Si parte da Mitridate, Re del Ponto, che gli Antichi ci dicono fosse capace di amministrare la giustizia nelle ventidue lingue parlate nel suo regno, passando per Federico II di Svevia, soprannominanto Stupor Mundi, percorrendo secoli e giungendo infine a soggetti ancora viventi, come l'attore Viggo Mortensen - che a quanto pare parlerebbe soltanto sei lingue.


Non è certo mia intenzione negare a priori l'esistenza del fenomeno dell'iperpoliglottismo. Semplicemente non posso evitare di nutrire qualche dubbio. Nella sostanza, sento di essere profondamente scettico. Cominciamo con l'analizzare alcuni contesti in cui più facilmente possono trovarsi soggetti in grado di parlare diverse lingue. Presso le popolazioni in cui si ha convivenza di lingue diverse, spesso da secoli, è naturale che si sviluppi una certa capacità di parlare o almeno di comprendere diversi idiomi oltre al proprio. Posso citare i seguenti casi:

1) Gli Israeliti sono abituati a parlare diverse lingue e ne apprendono facilmente di nuove. Non per nulla sono spesso chiamati cosmopoliti dai gentili. In non pochi casi le loro famiglie sono composte da coniugi di diversa origine. Rammento i signori S., che conobbi a Sassello e che ormai sono defunti (Z''L). Il capofamiglia proveniva dall'Austria e parlava tedesco, oltre allo Yiddish. Sua moglie era di origine turca e conosceva il turco, il tedesco e lo Yiddish. Entrambi si esprimevano in un buon italiano e parlavano l'ebraico in modo fluente, tanto che intercalavano i loro discorsi con parole ed espressioni di tale lingua (e si mostrarono sommamente inquieti quando diedi prova di capire quello che dicevano). 
2) I Cinesi apprendono facilmente per motivi di affari lingue assai diverse dalla propria nella fonetica e nella struttura. Possono trovare utile apprendere anche lingue in via di estinzione, al punto che ho potuto udire un cinese rispondere a tono in perfetto brianzolo alle provocazioni di T., un anziano parlante di quel dialetto gallo-italico. Accadde in un ristorante cinese. Comportandosi da cafone, T. aveva borbottato qualcosa come "U mangià da schivi". Al che il cameriere, per nulla intimorito, lo seccò con un "Basta che te pàghet". Se noi dovessimo imparare il cinese, non riusciremmo neanche a memorizzare poche espressioni stereotipate, senza contare le infinite possibilità di essere fraintesi per via della natura tonale della lingua e delle numerosissime omofonie. Le genti della Cina invece già solo gestendo un ristorante arrivano a imparare sempre meglio la nostra lingua, tanto dissimile dal loro idioma natio nei suoni e nel modo in cui sono formate le parole.
3) Tra le genti Papua della Nuova Guinea ci sono uomini capaci di apprendere numerose lingue di tribù vicine, spesso molto distanti dalla propria. Le condizioni di diversità linguistica in certe aree impervie e poco conosciute sono a dir poco incredibili, tanto che in una singola valle si possono trovare tribù che non hanno nulla in comune. Non sempre quelle genti mostrano curiosità e interesse per i loro vicini: lo stato di belligeranza non è una rarità e si danno anche episodi di esocannibalismo, tutte cose che non favoriscono lo scambio di informazioni. Uno studioso ha provato a registrare le voci di un gruppo che viveva a un'estremità di una valle e le ha fatte poi sentire a un altro gruppo che viveva all'imbocco della stessa valle, a pochi chilometri di distanza. Risultato: le frasi risultavano del tutto incomprensibili, come se fossero giunte da un altro pianeta.
4) Nel Nordovest dell'Argentina imperava il caos linguistico. Vi erano genti come i Diaghiti, che oltre alla propria lingua Kakán conoscevano spesso anche il Tonocoté, il Quechua e una lingua affine all'Atacameño. I membri di non poche popolazioni parlavano di norma quattro o cinque lingue, avendo conoscenza passiva di altrettante per via della convivenza in zone ristrette di un gran numero di etnie dissimili. Ancora oggi nella regione del Gran Chaco può capitare di trovare casi di multilinguismo di contatto come quelli descritti, in cui convivono lingue di ceppo Mataco (Mataguayo) con lingue di ceppo Guaycurú, anche se tutte sono minacciate dall'azione corrosiva dello spagnolo, vero e proprio idioma infestante responsabile della perdita di un gran numero di idiomi che un tempo avevano moltissimi parlanti. 
5) Le genti del Caucaso abitano in valli di altissima densità linguistica. Come già visto nel caso della Papua Nuova Guinea, anche nel Caucaso esistono distribuizioni strane di lingue diversissime all'interno di aree ristrette. Vi sono enclavi in gran numero e i casi di multilinguismo non si contano. Le lingue del ceppo nord-caucasico sono tra loro tanto diverse che si fatica non poco a ricostruirne una protolingua che renda conto di tanta diversità. Esistono anche lingue del ceppo kartvelico o sud-caucasico, come il georgiano, che non hanno alcuna relazione con le lingue nord-caucasiche: la denominazione è soltanto di carattere geografico. Il georgiano è una lingua di una tale complessità che ben pochi stranieri sono riusciti a impararla. Convivono con queste lingue difficilmente classificabili alcune lingue di diversa origine come quella degli Osseti, che è indoeuropea di tipo iranico e che discende dalla lingua degli Alani. Per inciso, stupirà molti sapere che un tempo esistevano parlanti della lingua alanica anche nella pianura padana, giunti con i Longobardi. Poco a sud dell'area del Daghestan si estende l'Azerbaijan, la cui lingua è di tipo turcomanno, appartenente al gruppo altaico.

Cosa spicca nell'analisi di tutte queste situazioni? Innanzitutto si vede subito che sono parlate sì diverse lingue, ma sempre in numero limitato: abbiamo a che fare con poliglotti, non con iperpoliglotti. Di norma si tratta al massimo quattro o cinque lingue e in alcuni casi sono tra loro imparentate; già non si arriva a trovare persone che ne parlino dieci. Le persone capaci di parlare diverse decine di lingue sembrano figure mitologiche e a quanto pare si trovano con la stessa facilità dello Yeti, degli unicorni o delle sirene. Tutto ci porta ad essere profondamente critici ogni qual volta si discute della stessa esistenza di genuini iperpoliglotti in grado di parlare cento lingue con la stessa naturalezza della propria. Inoltre l'apprendimento delle varie lingue avviene per esposizione diretta col parlato fin dalla più tenera età e non per studio tramite materiale scritto. Nessuno è mai diventato poliglotta grazie all'istituzione scolastica, alla scrittura e ai corsi. 

Dovremmo tutti porci una domanda. Come mai un tempo si parlava tanto degli iperpoliglotti e in questi tempi non se ne parla quasi più? Per capirlo è necessario fare un bizzarro paragone antropologico.

Un tempo esistevano numerosissimi settimini, ossia bambini prematuri che le giovani madri mettevano al mondo dopo soli sette mesi di gestazione. I primi figli in certe zone della Lombardia erano quasi tutti settimini. Perché questo? Semplice. Perché i fidanzati copulavano in gran segreto e non esistevano metodi contraccettivi, demonizzati dalla Chiesa Romana, così quando una ragazza si smutandava davanti a un uomo, restava incinta e si gonfiava subito. Ecco dunque la necessità delle cosiddette nozze riparatrici organizzate in fretta e furia. Molta gente ignorante e ingenua credeva che ci fosse davvero un motivo fisiologico per tale abbondanza di settimini: si pensava o si fingeva di pensare che una donna primipara mettesse naturalmente al mondo un bambino prematuro. Tuttavia quando giunse l'emancipazione sessuale, la Chiesa Romana si indebolì fino a decadere, si propagò la pornografia e fu possibile usufruire di stratagemmi per evitare la gravidanza, i settimini sparirono all'improvviso. Non se ne trovano quasi più. 

Voi mi direte: "Che c'entrano i settimini con gli iperpoliglotti?" C'entrano eccome. Un tempo l'uomo che aveva fama di essere iperpoliglotta era considerato un fenomeno da baraccone. Si esibiva. Mostrava a tutti le sue presunte capacità di parlare decine di lingue. Il punto è che di ogni lingua il presunto iperpoliglotta conosceva soltanto un elenco di parole più o meno nutrito e un frasario di base, il resto era spesso un grammelot simulato. Molta gente ignorante ha poi l'idea che basti conoscere qualche parola per parlare una lingua e rimane subito impressionata. Questo non avviene soltanto in Italia. In Inghilterra numerosissime persone ottuse sono convinte di parlare italiano perché sanno dire "buon giorno", "buona sera", "buon appetito", "pizza", "spaghetti", "mandolino", "mafia". Se poi sanno dire anche "picciotto", "padrino", "stiletto", "vendetta", "ricatto", "pizzo", "minchia", "famiglia", allora si ritengono dantisti. Poi non sanno reggere una normale conversazione, in quanto ignorano persino le parole per dire "acqua", "terra", "fuoco", "pietra", "mano", etc. A prender per buone le millanterie di questi inglesi, si avrebbe un'idea del tutto distorta della realtà. Per fissare le idee, penso che gli iperpoliglotti abbiano subìto lo stesso fato dei settimini, sparendo nel nulla non appena si è diffusa una maggior conoscenza delle lingue e soprattutto non appena si è avuta la possibilità di verificare le informazioni. Si vuole affermare ad ogni costo l'esistenza di autentici iperpoliglotti? Si può dimostrare che si tratta in ogni caso di allucinazioni cognitive.

Non conosco il signor Bertani e di certo ho per lui il massimo rispetto, perché in ogni caso bisogna riconoscere che ha dedicato l'intera sua vita allo studio. Nutro tuttavia il fondato dubbio che le sue conoscenze siano più che altro tratte dai libri e che non abbia altrettanta dimestichezza con le lingue parlate. Forse è per questo che declinò sempre gli inviti in Russia. Probabilmente non temeva tanto di trovarsi di fronte alle rovine della Grecia dopo essersi nutrito di Omero, ma di impappinarsi, di non distinguere bene i suoni pronunciati dai suoi interlocutori, di fare una brutta figura passando dal russo dei libri a quello articolato da persone in carne ed ossa, che spesso ha suoni sfuggenti e indistinti. Cosa umanissima e comprensibilissima. Le miei ipotesi non sono poi così peregrine. Basti ascoltare con attenzione le parole dello stesso Bertani, documentate nel video da me riportato in questo mio contributo. Egli con grande onestà intellettuale ci dice di trovarsi perfettamente a suo agio con il russo scritto, ma di avere qualche difficoltà col russo parlato. Risulta un ottimo traduttore delle lingue scritte, che usando grammatiche e dizionari riesce a venire a capo di testi difficilissimi. Essere un ottimo traduttore delle lingue scritte non implica necessariamente essere in grado di seguire un parlante madrelingua in una normale conversazione. Sono due capacità diverse, con buona pace di quei navigatori che non riescono a distinguere tra lingua parlata e lingua scritta.

Per inciso, certe opinioni dello stesso Bertani sono a dir poco sconcertanti. Sentir affermare che i Longobardi fossero "genti ugriche" e che fossero originari degli Urali e della Russia meridionale, è cosa che ad esser sinceri lascia come minimo di sasso. Evidentemente lo studioso ha assimilato concetti antiquati, che potevano essere creduti veri all'epoca di Bram Stoker. Infatti nel capolavoro dello scrittore irlandese il Conte Dracula affermava che i suoi antenati erano le tribù ugriche dell'Islanda. Siccome le parole hanno un loro significato ben preciso, va ricordato che ugrico è un aggettivo usato per indicare le lingue del ceppo uralico a cui appartiene l'ungherese, non indoeuropee e molto distanti dalle lingue germaniche. Orbene, uno studioso che non ha chiari questi concetti di per sé semplicissimi potrebbe essere definito un esperto di filologia germanica solo in un mondo in cui tale disciplina è per la massima parte delle persone un libro chiuso e un tabù. Sorprende il fatto che il contadino di Campegine affermi di non conoscere l'inglese e neppure il tedesco. Condizioni ideali per approfondire lo studio della filologia germanica e per avere accesso alla letteratura scientifica! Il perché di queste gravissime lacune è un mistero. Non voglio credere che tutto si riduca a una viscerale quanto banale avversione politica per la Germania dei brutti e cattivi nazisti e per l'America dei brutti e cattivi capitalisti! 

Reazioni nel Web

Tutte le mie perplessità le ho illustrate seguendo un filo conduttore razionale. Eppure quando si parla di iperpoliglotti, si scopre che non pochi navigatori nel Web affrontano l'argomento di pancia, scossi da furori e da flussi ormonali, reagendo con stizza indicibile ogni volta che un utente mette in discussione l'autenticità dell'iperpoliglottismo. Così pure si noterà che gli scettici sono sorprendentemente pochi. Non solo, non mi pare di averne trovato nemmeno uno in grado di argomentare e di tenere testa ai furibondi fan degli iperpoliglotti. Tutto parte da alcuni commenti sui video di falsi poliglotti postati in gran copia su Youtube. Gli autori di questi filmati non possono essere nemmeno lontanamente paragonati agli antichi fenomeni da baraccone, in quanto manca qualsiasi interattività: si capisce lontano un miglio che si tratta di sciorinatori di frasettine apprenditicce ripetute a macchinetta, con assoluta impossibilità di verifica della loro capacità di dire qualsiasi altra cosa. Sono un po' come quei presentatori russi dell'epoca sovietica che potevano presentare un programma in italiano perché avevano studiato la loro parte a memoria senza capire assolutamente nulla e senza saper dire assolutamente null'altro.

Riporto un interessante video dell'utente Flaze3, intitolato "Disonestà del mondo poliglotta", con link alla pagina di Youtube con i commenti: 



Flaze3 afferma giustamente: "Molti cosiddetti poliglotta ritengono di riuscire a palare in più di 8, 9 lingue, ma se le uniche cose che sanno dire sono 'mi piace imparare lingue' e 'questa lingua è bella', per me non costituisce 'parlare in un'altra lingua', e infatti è piuttosto disonesto."

Felix lama commenta: "Come dico sempre, più lingue si conoscono, più è basso il livello della media delle lingue parlate. La maggior parte dei "poliglotti" non sono tali."

Ecco la reazione scomposta di un certo Alessandro B., le cui affermazioni sarebbero considerate naïf persino tra i Puffi: "Falso! Quelli che come dici tu si spacciano per poliglotti e parlano oltre 8, 9 lingue lo hanno dimostrato in dei convegni parlando queste lingue con dei madrelingua! Inoltre sono stati intervistati da TV straniere! E non sanno dire solo "mi piace imparare lingue" . Queste persone che sono su youtube e che in realtà sono pochissime, i loro nomi escono addirittura su wikipedia. Il caso più famoso di poliglottia era Emil Krebs parlava e scriveva 68 lingue e ne aveva studiati altre 120! questa è storia non cavolate! Sono casi rarissimi!!! in quest' ultimo caso! Infatti il cervello di krebs funzionava diversamente! In vita c'è un Italiano che attualmente detiene un record si Chiama RICCARDO BERTANI è Italiano! Parla 100 lingue! La sua conoscenza è attualmente utilizzata dal "Grande Dizionario UTET" con cui collabora. Parliamo di persone cui le loro competenze sono state DIMOSTATE E SONO DI AIUTO AL MONDO DELLE ENCICLOPEDIE! E tu dici che è falso. ahahahahahahahahha"

Certo, Emil Krebs è su Youtube ed è stato intervistato da TV straniere. Come no! Oltre al fatto che Youtube ha notoriamente la stessa autorità del Vangelo 😄. Appurato che Riccardo Bertani scrive in 100 lingue e che traduce da 100 lingue, più che parlarle in modo fluente, dubito molto che il Grande Dizionario UTET contenga assurdità come l'attribuzione dei Longobardi al ceppo ugrico.

Nel mondo anglosassone qualcuno ci va giù abbastanza duro, come si vede dai seguenti articoli: 



In un farneticante thread apparso su Reddit, si leggono le incredibili parole dell'utente Electronp, che adduce aneddoti su Tesla come prova dell'esistenza dell'iperpoliglottismo. Oh bella! Forse ignorano che Tesla non fa testo perché era un alieno rettiliano 😀. Lo stesso Electronp, che vive nel mondo incantato delle favole, non si limita ad enumerare i miracoli compiuti dal fisico extraterrestre naturalizzato serbo. Arriva ad affermare quanto segue:

"Europeans have a very high standard for fluency; lots of euros I know will hold a conversation in perfect fluent English--after apologizing, in perfect fluent English, for their poor English. your English must be excellent, as I have never heard a European using the tone and terminology of your sentence: " ... anecdotal BS that makes for a good story but nothing else. How convenient the man is dead..."
you sound exactly like a snotty, 20-30 year old American male!
good job.

Certo, certo! Le genti dell'Unione Europea parlano tutte le lingue del pianeta in modo fluente senza sforzo alcuno e in particolare sono esperte di fonetica inglese! Se questo è vero, allora il pene di Jimmy Savile era inoffensivo! 😁

mercoledì 30 dicembre 2015

ANCORA SUI FORMANTI ANTROPONIMICI IBERICI

Proseguiamo l'analisi dei formanti che compaiono negli antroponimi della lingua iberica. Dopo le 92 radici analizzate nel nostro precedente articolo sull'argomento, ne aggiungiamo altre 68, arrivando così a un totale di 160 voci. In pratica quasi tutti i formanti antroponimici trattati da Jesús Rodríguez Ramos nei suoi lavori, escludendo alcuni elementi che si sono dimostrati cattive letture (come quelli in cui la sillaba ta era letta erroneamente bo) e includendone alcuni nuovi. Questi sono i link agli articoli di tale autore:



Si tenga conto che questo materiale è praticamente inedito in Italia: non sono riuscito a trovare studi di alcun genere condotti nella nostra lingua sull'iberico, a parte le mie elucubrazioni pubblicate in questo blog. Ecco la seconda lista dei formanti antroponimici: 

1) aŕbi, ALBE /'arbi, 'albe/ "lato, fianco; pendio,
        montagna"
  
     basco alpi 'lato, fianco'
Attestazioni: ALBENNES (= lat. Montanus), ARBISCAR, aŕbiskaŕ, kaisuraŕbitan, śikaŕbi  

2) ASTE(R) "studio"
    basco azterren 'studio, indagine'
Attestazioni:
ASTERDUMARI*, ASTEDUMAE, astebeikeaie *Attestato in contesto vasconico, è evidente la sua natura iberica. Anche le voci basche devono essere prestiti iberici.

3) atun /'atun/ "cento; immenso" 
Orduña Aznar (2005) propone che possa essere il corrispondente iberico del basco ehun "cento". Accolgo la proposta; che la parola iberica sia imparentata con quella basca mi appare in ogni caso dubbio.
Attestazioni: atun-iu (con congiunzione), ATULLO.

4) AUSTIN- "prossimo"
   basco auzo 'prossimo; abitante'
Il vocabolo basco funge sia da sostantivo che da aggettivo ("comunale"), una caratteristica che è molto comune in iberico. Attestazioni: AUSTINCOauśtikum (Botorrita)*, auśtunikum (Botorrita)*
*Elementi onomastici iberici in contesto celtiberico

5) ban /man, -ban, -pan/ "caro"
    basco maite 'caro' < *banite 
Falsi parenti: iberico ban "uno" è chiaramente un omofono (o un quasi-omofono), dato che è evidente la sua occorrenza in contesti molto diversi. 
Per molto tempo si è ritenuto che basco maite fosse un celtismo: cfr. irlandese maith "buono". Soltanto che la parola gaelica è dal celtico (ibernico) *mati-, che non sembra un buon corrispondente della forma basca.

Attestazioni: baniteḿbaŕ, bilosban, kaŕesban-ite (ablativo) 

6) baŕstin /'barstin/ "sommo"
   < IE precelt.
   celtiberico barskunes
La forma celtiberica è la prima attestazione nota del nome dei Vascones.
Attestazioni: baŕstintike[

7) basto /'batsto/ "roccia; costa" 
    basco bazter 'costa', Baztan (topon.)
Evidentemente è la base da cui le parole basche citate sono state formate con l'ausilio di suffissi. Potrebbe trattarsi di antichi prestiti dall'iberico. È a parer mio da scartarsi l'ipotesi di un'origine dalla radice celtica *ba:s- "morire", essa stessa d'incerta etimologia.
Attestazioni: BASTOGAUNIN, bastobaśor-en (genitivo), bastokitaŕ, BASTUGITAS

8) bekon, bekoŕ /'bekon, 'bekor/ "cavallo, stallone" 
   basco behor 'giumenta', behoka 'puledro'
È possibile ricostruire, dalla stessa radice, la forma *bekiŕ "torello", corradicale di basco behi "vacca". Tale sarebbe infatti la protoforma da cui è derivato lo spagnolo becerro. Il trattamento dell'occlusiva velare implica un prestito precoce.
Attestazioni: bekoniltiŕ, bekoniltun, bekonkine, bekontekeŕ

9) beloŕ /'belor/ "ardente"
   basco bero 'caldo'
Si trova in pochi antroponimi, e in un caso Rodríguez Ramos segnala la possibilità di una cattiva lettura.
Attestazioni: beloŕtin, aibeloŕ-ar (genitivo), unibelo[

10) berton /'beṛton/ "mortale" < celtib.
Abbiamo attestato in celtiberico kormertones < *kobmertones.
Attestazioni: lauŕberton-te (ablativo), lauŕberton-ar (genitivo)

11) boŕ /bor/ "pugno; combattivo"
   basco borroka 'battaglia';
   basco bortz 'cinque' < *pugno
Per la semantica, confronta la lingua latina. Il numerale iberico bors "cinque" è dalla stessa base; l'alternanza tra le due rotiche è dovuta a qualche dettaglio perduto della protolingua.
Attestazioni: aŕkeboŕ, eikeboŕ-en (genitivo), kuleśbuŕ-ka (ergativo), SILLIBOR-I (dativo), tuitubor-en (genitivo)

12) boś /bos/ "combattivo" < *borś
Formato dalla radice boŕ tramite un suffisso sigmatico.
Attestazioni: anbośiltun-u (con congiunzione), ganikbos

13) boton /'bodon/ "battagliero"  < celt.
La radice celtica è *bodw- "battaglia", e di ritrova in antico irlandese nel nome della dea Bodb.
Attestazioni: botoltiŕ, BODONILUR, botoleis, bototaś, bototiki

14) ekaŕ /'egarr/ "bramoso"
    basco egarri 'sete'
In ultima analisi il termine basco pare un derivato di gar "fiamma". Ho notato che alcune mie proposte di traduzione sono simili a quelle di Silgo Gauche, ma in altri casi si distinguono. Non mi sembra infatti che il verbo basco egari "sopportare" (dal significato un po' distinto da quello di ekarri "portare") sia credibile in questo contesto. Se all'origine ci fosse un verbo transitivo, dovremmo avere un prefisso oggetto (cfr. takeŕ, tikirs, etc.). Anche ugari "quantità, molto" non sembra molto meglio.

Separo questo formante da eke(r)s (vedi nel seguito).
 
Attestazioni: ekaŕbilos, ekaŕśor-e (dativo)

15) eke(r)s, -kes /'ege(ṛ)ts, -gets/ "uomo"  
    basco gizon 'uomo'
    aquitano CIS(S)ON, GISON-; -GES
    paleosardo (etnonim.) -KES-
Come suffisso -qes si ritrova aggiunto a nomi di luogo la cui radice finisce in vocale (Serra, 1956). Una formazione simile deve essere postulata per il paleosardo, visto che ancora si trovano etnonimi in -kesu come Fonnikesu "uomo di Fonni" e Bittikesu "uomo di Bitti".
Attestazioni: ENNEGES*, koroiekers La lingua dei Vascones ha presi il suffisso a prestito dall'iberico
Etnonimi: ARSAQES (da Arsa), CALAQURIQES (da Calagurris), OLAISEQES (da Olaise), Pulaqes (da Pula). 

16) ELAN /'ellan/ "rondine"   
   basco elai 'rondine' < *eLana
A differenza di Rodríguez Ramos, separo questa forma da eleŕ (vedi sotto), che è di diversa origine.
Attestazioni: ELANDUS (Turma Salluitana) 

17) eleŕ /'eller/ "gregge; gruppo"     basco eli "gregge" Attestazioni: eleŕbaś, elerte[ke]r

18) eŕter /'erdeṛ/ "straniero"
    basco erdera 'lingua straniera' 
È diverso da erter /'eṛdeṛ/ "metà" (basco erdi), che è attestato tra i valori monetari (vedi Orduña Aznar).
Attestazioni: eŕtebaś-ka (ergativo), lakueŕter

19) eter /'edeṛ/ "splendore" 
    basco eder 'bello'
La forma iberica ha una rotica non trillata, a differenza di quella basca. Va anche detto che la forma iberica è un sostantivo, mentre quella basca, che è un aggettivo, ha un suono rotico trillato che potrebbe essere un suffisso. Lakarra ricostruisce *de-deR come antenato della forma protobasca.
Attestazioni: etenbilos, eteiltuŕ, eteitor, EDESCO

20) eton /'eton/ "sommo" 
   basco: -to, -do *'sommità'
Si trova come suffisso fossilizzato in formazioni come aizto "coltello" < *(h)anez-to (lett. "punta di pietra"), etc.
Attestazioni: BILESETON, SERGIETON 

21) -i- /i/ "e" (congiunzione)  
Già citato come elemento produttivo nella formazione dei numerali, era usato anche negli antroponimi per separare due aggettivi o due sostantivi. Attestazioni: aiunibaiser, anieskoŕ, basibalkar, iaribeŕ

22) ibeś, ibei(s) /'ibes, 'ibei(ts)/ "impeto; impetuoso"
    basco ibai 'fiume'
È ben possibile che l'aggettivo iberico abbia la stessa radice che è alla base dell'etnonimo Iberi. L'alternanza era bai- / ibei-. Al basco manca una simile flessibilità.
Attestazioni: ibeisur, ibeśor-en (genitivo), soribeis, basibeś-ka (ergativo)

23) -ike- /ike/ "e" (congiunzione)
    basco: -
Già citato come elemento produttivo nella formazione dei numerali, era usato anche negli antroponimi per separare due aggettivi o due sostantivi.
Attestazioni:
aiunikaŕbi, aitikeltun, tueitikeiltun Falsi formanti: keltun = ike + iltun

24) ike /'ike/ "altezza"
   baso: ike 'salire; costa pendente'
     (variante di igan 'salire')
Attestazioni: eike[, ikeatin, eikeboŕ-en (genitivo) 

25) ikoŕ /'ikor/ "duro, strenuo"
   basco gogor 'duro'
Mentre in basco si ha una forma reduplicata < *go-goR, in iberico abbiamo una forma semplice con un prefisso i-, comunissimo in questo gruppo di lingue. Un suffisso -kor col senso di "duro" si trova in alcune parole basche di sostrato, e va detto che spesso in iberico una k- sorda corrisponde in basco a una sonora g-.
Attestazioni: ikoŕbeleś, ikoŕbeleś-e (dativo), ikoŕiskeŕ, ikoŕtaŕ, ikoŕtas-te (ablativo), ikoŕtaś, ikoŕtibaś, taŕbanikoŕ, tikirsikoŕ

26) itor /'itoṛ/ "sommo" 
   basco: -tor, -dor *'sommità'
Si trova come suffisso fossilizzato in formazioni come gandor "sommità", etc.
Attestazioni: eteitor, lakeitor

27) kakeŕ /'kaker/ "curvo"
Derivato dalla stessa base del basco kako "gancio" con un suffisso aggettivale -eŕ che si trova anche in altri casi. 
Attestazioni: kakeŕikoŕ, baŕkakeŕ

28) CACU /'kaku, 'kako/ "curva, gancio"
    basco kako 'gancio'
Attestazioni: kuku, CACUSUSIN (Turma Salluitana) 

29) kaŕko /'gargo/ "selvaggio" < celt.
Attestazioni: kaŕkeskeŕ, kaŕkoskaŕ

30) kani /'kani, 'gani/ "sommità; sommo"
    basco gain 'sommità'
Attestazioni: kanibeŕon-ka (ergativo), ganikbos, κανικωνε, kanio

31) keltaŕ, kertaŕ /'keltar, 'keṛdar/ "nobile" < celt.
Distinguo questo raro formante dalla forma kelti- (vedi nel seguito), anche per motivi semantici.
Attestazioni: keltaŕerker, balakertaŕ, keltaio

32) kelti /'kelli/ "riva, costa, greto"
   paleosardo KILI- "ruscello, letto roccioso"
Considerato un lemma idronimico, date le evidenze della Sardegna, era a mio parere relativo alle rocce che costituiscono le rive o il letto del corso d'acqua, per motivi etimologici: lo riconduco al nord-caucasico *q̇wiłǝ "pietra, roccia, scogliera".
Attestazioni: keltibeleś, keltibeleś-ite (ablativo)
Il nome, data la sua frequenza di attestazione, non sarà sempre un antroponimo, ma un toponimo (vedi Blasco Ferrer).

33) kine /'gine/ "carne, midollo, parte centrale"
   basco giharre 'parte magra della carne'
      < *gin(h)aRe
Lo stesso vocabolo indica anche la parte interna del legno di un albero. 
Attestazioni: bekonkine, betukine-te (ablativo), ildiŕgine, tikirskine

34) koŕo /'gorro/ "sangue"
    basco gorri 'rosso'
Attestazioni: aŕskoŕo-ite (ablativo), goŕotigi-nai (con nai "io sono"), koŕasiŕ-en (genitivo), γολοβιυρ (con dissimilazione)

35) koŕś /kors/ "duro; strenuo" 
   basco gogor 'duro'
Attestazioni: tautinko : ŕś

36) lakeŕ /'laker/ "appariscente"
   basco lako 'somigliante a'
Derivato dal formante laku con il suffisso aggettivale -eŕ.
Attestazioni: lakeŕbelauŕ, lakeŕeiar, iskelaker, LACERIL-IS (gen. lat.)

37) leis /leits/ "desideroso; desiderio"
   basco lehia 'desiderio'
Attestazioni: leibiur, leisir, leisir-en (genitivo), bilos leistikeŕ, leistikeŕ-ar (genitivo), botoleis 

38) nere /'neṛe/ "donna"
    basco andere 'signora'
    aquitano ANDERE 'signora', ER(H)E- 'femmina' 
In un caso la forma aquitana ANDERE è scritta ANNERE.
Attestazioni: nereiltun

39) neron /'neṛon/ "giovane, fiorente"  
Si tratta di un derivato del formante nere "donna" (vedi sopra). 
Attestazioni: neron-ken (genitivo plurale)

40) NES /nets/ "uomo"
A parer mio si tratta di una variante di -kes (abbreviazione di eke(r)s), con la differenza che occorre soltanto aggiunta a nomi che finiscono in consonante. Così abbiamo BELENNES = beleś + -nes. Esiste una variante -NAS. Queste forme non hanno alcun parallelo in basco. 
Attestazoni: AGIRNES, ARRANES, BELENNES, ORDENNAS, NESILLE, niskeŕe 

41) niś /nis/ "donna"
    basco neska 'ragazza'
    aquitano NESCATO 'ragazzina'
    paleosardo NIS- 'donna'
    sorotaptico (ligure IE) NISCAS 'ninfe' (< vasc.)
Attestazioni: niśuni-ar (genitivo), niśunin 

42) olor, oloś /'oloṛ, 'olos/ "tutto; popolo" 
   basco oro 'tutto'
Rodríguez Ramos mostra la frequenza di questo elemento nella toponomastica catalana (Olor-, Oler-, Oles-), e arriva a proporre che in una lingua di sostrato significasse "villaggio, centro abitato". Un corrispondente basco in realtà esiste, anche se dotato di grandi anomalie (si usa dopo plurali in -ak, ma non vuole mai tale suffisso; si trova solo nei dialetti orientali). 
Attestazioni: olośortin, olośaiŕ, olortikirsbeŕian

43) ośor /'ossoṛ/ "lupo"
    basco otso 'lupo'
    aquitano OXSON-, OSSON-
Attestazioni: ośortaŕban
Toponimi: OSSONUBA 

44) sabaŕ /'tsabar/ "ventre; panciuto"  
   basco sabel 'stomaco'
Secondo Rodríguez Ramos il formante è incerto. Propongo questa interpretazione, avendo ragione di ritenere che il corrispondente iberico del vocabolo basco zabal 'largo' avesse un'occlusiva iniziale t-.
Attestazioni: sabaŕida-i (dativo), sabaŕbas-de (ablativo)

45) saiŕ /tsair/ "duro, strenuo"
    basco zail 'duro; arduo'
Attestazioni: beleśaiŕ (con assimilazione), olośaiŕ, toŕosair (con dissimilazione), iltuŕsaiŕ-sai

46) sekel, seken /'tsekel, 'tseken/ "avido"
   basco zeken 'avaro'
La consonante liquida finale è eccezionale in iberico. In ultima analisi può essere un prestito da IE *segh- "detenere, stringere", con una affricata come esito della sibilante originaria. Si noti anche la consonante velare sorda come esito di IE /gh/
Attestazioni: sekel-ka (ergativo), sekenius-u (con congiunzione), lakuseken, TASCASECER-IS (gen. lat.)

47) selki /'tselgi/ "catturato, prigioniero" < celt.
   basco: -
Le iscrizioni duali mostrano che l'occlusiva velare è sonora. La sibilante celtica mostra una corrispondenza irregolare, avendo come esito una affricata in iberico. Va comunque detto che la radice celtica *selga:- "caccia" non ha chiara origine ed è priva di corrispondenze IE credibili. Dev'essere un relitto di sostrato.

Attestazioni: selkibeleś, selkiskeŕ, selkinius-tai, selkisosin-kaste, selgitaŕ, [s]elgitibaś

48) seti, SEDE /'tsede/ "trono; regale" < celt.
Dalla radice IE *sed- "sedersi" deriva anche l'etnonimo SEDETANI.
Attestazioni: σεδεγων, setibios, -beŕiseti-, ḿbaŕseti

49) sike /'tsike/ "flusso, impeto" < IE precelt.  
   basco: -
Si tratta della radice *sik- attestata nell'idronimia in Spagna e altrove. Probabilmente l'antica sibilante era percepita come laminale ed è diventata una affricata. Da questa antichissima radice deriva l'idronimo ispanico Sicanus (oggi Júcar), da cui gli antichi autori romani facevano derivare il popolo dei Sicani, secondo una tradizione che li riteneva migrati in Sicilia dall'Iberia. Non ritengo tuttavia plausibile che la radice dell'etnonimo sia la stessa degli idronimi, a dispetto dell'omofonia.
Attestazioni: SICAE, siketaneś-ka (ergativo), sikeunin, sikounin

50) sine /'tsine/ "giuramento; leale"
   basco zin 'giuramento; leale'
Attestazioni: sinebetin, sinekun

51) sir /tsiṛ/ "splendore; splendido" 
  basco zirats 'bello'
La parola basca è formata con il suffisso -tsu "pieno di", poi abbreviato in -ts.
Attestazioni: sirbaiser, kaŕesir-te (ablativo), leisir, kuleśir (con assimilazione) 

52) SOCED(E) /so'kede/ "guardiano" 
Una radice dall'aspetto decisamente inconsueto. Rodríguez Ramos suggerisce un prestito culturale dal semitico škd "vigilare". La forma d'origine potrebbe essere fenicio /*ʃo:'ke:d/, piuttosto che neopunico /*su:'xe:d/
Attestazioni: SOCEDEIAUNIN, SOCED

53) sor, soŕ /tsoṛ, tsor/ "fortuna; fortunato"
    basco zori 'fortuna'
Attestazioni: soribeis, soŕike, beleśur, etesur, ibeśor-en (genitivo), kanisoŕ

54) śakin, SAGIN /'sagin, 'tsagin/ "piacere"
    basco: atsegin 'piacere'
Non è improbabile che la tradizionale spiegazione del basco atsegin (hats "respiro" + egin "fare") sia paretimologica.
Attestazioni: ENASAGIN, beleśakin-eai (dativo)

55) śitu /'situ/ "lungo; durevole" < celt.
Un prestito dal celtico (non è chiaro se dal celtiberico o da una lingua affine al gallico). Non deve essere troppo remoto, visto che ha ś /s/ per celtico /s/, mentre abbiamo appurato che negli strati più antichi di prestiti si ha s /ts/ per celtico e IE preceltico /s/.
Attestazioni: śitubolai

56) taŕkun /'tarkun/ "molto virile"
   basco ar 'maschio' 
Attestazioni: taŕkunbiuŕ

57) taś /tas/ "virile" < *taŕś
Attestazioni: atintaś, baisetaś, balketaś, bototaś, ikoŕtaś

58) tasbeŕ /'tatsberr/ "giovane maschio"
Attestazioni: tasbeŕiun, tasbarikibas 

59) teita /'deita/ "visibile, splendente"
     < IE precelt.
La radice è *dey- / *dya- "dare luce, essere visibile". Per la formazione, cfr. protogermanico *taita- "chiaro, visibile". Da questa radice deriva anche l'etnonimo DEITANI
Attestazioni: TEITABAS, teitataŕ

60) tetel /'tetel/ "balbuziente" 
    basco zezel 'balbuziente'
Attestazioni: tetel-i (dativo), biuŕtetel, URCHATETELL-I (dativo)

61) tilauŕ /'tilaur/ "egli lo accorcia, lo rimpicciolisce" 
   basco labur 'corto'
Forma verbale transitiva derivata dalla stessa radice di lauŕ "corto" - da non confondersi con laur "quattro". Ancora una volta vediamo come l'iberico aveva una flessibilità sconosciuta al basco. La comprensione della lingua è molto difficile anche per questo: il basco ha sclerotizzato pochi verbi transitivi dotati di flessione, mentre il sistema flessivo in iberico era pienamente sviluppato.
Attestazioni: biuŕtilauŕ

62) tileis /'tileits/ "egli lo desidera"
     basco lehia 'desiderio'
Attestazioni: aluŕtileis, kuleśtileis

63) tolor /'toloṛ/ "bianco, chiaro"
    basco: -
In alcune varietà di castigliano sopravvive la parola tolba "caolino bianco" < iberico *toluba. La possibilità che il toponimo Tolosa sia formato da questa radice iberica, con riferimento a terra argillosa chiara, non è poi così remota.
Attestazioni: bardaśtolor, TOLOCO, toloku, tolośar, taŕtoloi-keta-  

64) torsin /'toṛtsin/ "virile"
    basco -ots, -dots 'maschio di animale'
    aquitano -HOX (e varianti), 'maschio'
Attestazioni: torsinkeŕe, TORSINNO

65) tuitu /'tuitu/ "giusto, retto"
   -tuin /-tuin/ "giusto, retto"
   basco zuzen 'giusto, retto';
   basco zuin 'solco' < *'linea retta'
La forma più antica della radice era tueit-.
Attestazioni: tuitubolai, tuituiboŕ-en (genitivo), tuituiskeŕ-ar (genitivo), tueitikeiltun 

66) tuŕkes, tuŕkin /'turkets, 'turkin/ "alto"  
   paleosardo (topon.) TURKI 'fortezza'
Attestazioni: tuŕkeatin, TURCIRADIN, tuŕkeskeŕ, tuŕgosbetan

67) ulti /'uldi/ "gloria, glorioso" < IE precelt.
Cfr. protogermanico *wulθuz "gloria". Le iscrizioni in scrittura duale provano che l'occlusiva dentale era sonora. Questo morfo non può essere un prestito dal celtico, che invece conserva integro il nesso -lt- indoeuropeo. Possiamo ammettere che sia stato preso da una lingua indoeuropea preceltica, simile al lusitano, in cui la sonorizzazione di occlusive in nessi di questo genere era frequente (es. Pelendones, etc.).
Attestazioni: ultibaiser-te (ablativo), ultibei-kate, ultibeleś

68) ustain /'utstain/ "pesante, grave; peso"
    basco astun 'pesante'

Il termine ricorre anche come nome comune in un contesto combinatorio che ne permette l'attribuzione di un significato connesso con una qualche unità monetaria. Quindi l'identificazione con il vocabolo basco appare sensata, nonostante l'aspetto fonetico non sia molto simile. Si noti la differenza di sibilante, la metatesi vocalica e il fatto che la parola iberica è anche un sostantivo mentre quella basca soltanto un aggettivo. 

Attestazioni: uśtalaibi, ustainabaŕ-ar (genitivo), ustarike, ISTAMIUR-IS (gen. lat.) 

Il prossimo passo sarà la trattazione esaustiva dei morfi iberici non pertinenti al dominio dell'onomastica personale, in particolare dei verbi. Sono convinto che da tutto questo si potranno porre le basi per capire in che modo il protobasco e l'iberico, lontani parenti, si sono separati dal comune antenato. Se in Italia nessuno si occupa di questi argomenti, spero che in Spagna gli studiosi avranno accesso a questo mio materiale, che proprio per la sua audacia potrebbe contribuire al progresso delle conoscenze.