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giovedì 16 novembre 2017

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: I DIMINUTIVI BACILLUM E SPECILLUM

Se ci si addentra nei meandri della lingua latina, si trovano innumerevoli situazioni che non sono spiegabili dai nostri avversari, coloro che ritengono la pronuncia ecclesiastica come una realtà sussistente ab aeterno.
Già abbiamo analizzato un caso di diminutivo formato col suffisso -ill-: pugillus "manciata", derivato da pugnus "pugno".


Ora analizziamo altri due vocabili di questo tipo:

1) BACULUM "bastone" - BACILLUM "bastoncino"

i) Derivati volgari di baculum:
   > it. bacchio "tipo di pertica"
  *bac(u)lare > bacchiare "percuotere col bacchio"

  *adbac(u)lareabbacchiarebacchiare
   abbacchio "agnello destinato al macello"
   Secondo alcuni l'abbacchio ha ricevuto questo nome perché era legato ad un bastone conficcato nel terreno; secondo altri perché in origine era ucciso a bastonate. Trovo più verosimile la seconda ipotesi. Da rigettarsi per motivi fonetici e morfologici i tentativi di ricondurre la parola a una forma diminutiva di ovis "pecora".
ii) Derivati dotti di baculum e di bacillum:
  > lat. scient. baculum "osso penico"
  > lat. scient. bacillus /ba'tʃillus/ (con cambio di genere)
iii) Derivati di bacillum in lingue non romanze:
  lat. bacilla (pl.) > basco makila "bastone"

2) SPECULUM "specchio" - SPECILLUM "specchietto; sonda" 

i) Derivati volgari di speculum:
  > it. specchio

ii) Derivati dotti di speculum:
   > lat. scient. speculum "strumento per scrutare un orifizio"
iii) Derivati di speculum in lingue non romanze:
  > tedesco Spiegel "specchio" (antico alto tedesco spiagal)
  > basco ispilu "specchio"
iv) Derivati dotti di specillum:
  > it. dotto specillo "tipo di strumento chirurgico"

Si capisce alla perfezione che i suoni palatali in bacillum e in specillum, attribuiti dal latino ecclesiastico nelle pronunce /ba'tʃillum/ e /spe'tʃillum/, sono secondari e prodotti dalla vocale anteriore del suffisso. Quindi non è possibile proiettarli all'infinito nel passato. La situazione d'origine era diversa.

Forme di partenza con suffisso strumentale -lo-:

*bak-lom la -l- era velarizzata ("oscura")
['bakłom]
così si ebbe nel latino classico /'bakulum/ ['bakʊłũ].

*spek-lom
la -l- era velarizzata ("oscura")
['spɛkłom]
così si ebbe nel latino classico /'spekulum/ ['spɛkʊłũ]

Diminutivi con suffisso diminutivo -lo- aggiunto all'omonimo suffisso strumentale:

*bak-l-lom
La prima -l- era sillabica, la seconda -l- era puramente consonantica e non era velarizzata:
['bakḷlom]
Così nacque la vocalizzazione con -i-, poi si spostò l'accento e si ebbe nel latino classico
/ba'killum/ [ba'kɪllũ].

*spek-l-lom
La prima -l- era sillabica, la seconda -l- era puramente consonantica e non era velarizzata:
['spɛkḷlom]
Così nacque la vocalizzazione con -i-, si spostò l'accento e si ebbe nel latino classico
/spe'killum/ [spɛ'kɪllũ]
.

lunedì 13 novembre 2017

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: IL PRONOME DIMOSTRATIVO ENFATICO HICE, HICCE

A partire dalla particella enfatica indoeuropea *ghe / *gho si è evoluto regolarmente il pronome latino hic /hi:k/ (f. haec /haek/, n. hoc /hok/), con l'aspirazione /h/ assai debole che si è persa presto. La -c finale tipica di molte forme del paradigma di hic, haec, hoc è frutto dell'evoluzione di un'antica particella rafforzativa, che in origine suonava /-ke/, derivante dal pronome dimostrativo indoeuropeo *k'e-, *k'ey- "questo". In poesia la forma neutra hoc davanti a vocale aveva una scansione anomala, come se fosse stata scritta *hocc, e Velio Longo ci dice che hoc est era pronunciato hoccest /'hokkest/. Il motivo della geminazione della consonante finale è chiaro: questo *hocc deriva da un precedente *hodce con assimilazione, dove la consonante -d è la stessa caratteristica dei neutri singolari pronomilali come quod, quid, aliud, istud, illud.

Ecco il paradigma:

Sing. M F N
Nom. hic
haec hoc
Gen. huius huius huius
Dat. huic huic huic
Acc. hunc hanc hoc
Abl. hoc hac
hoc
Pl. M F N
Nom. hi hae haec
Gen. horum harum horum
Dat. his his his
Acc. hos has haec
Abl. his his
his

Questo è il link al dizionario online Olivetti:


Esistono alcune varianti censurate dal sistema scolastico: al dat./abl. plurale di tutti i generi troviamo anche la forma hibus. Al dat. sing. m./n. si può trovare anche la forma hoc, mentre al dat. sing. f. si trova anche haec.

Da questo tema pronominale derivano alcune singolari forme avverbiali con valore locativo:

hic /hi:k/ "qui"
hac /ha:k/ "per di qua"
hinc /hink/ "da questa parte"
huc /hu:k/ "qui, in questo luogo; da questa parte"

Si noterà che si tratta di antiche forme di declinazione fossilizzate, cosa che a scuola viene taciuta. Possiamo identificare facilmente il relitto di un caso in seguito estinto: l'avverbio huc /hu:k/, che in origine era uno strumentale del pronome dimostrativo.

Il punto è che ancora in epoca classica esistevano anche forme conservative con l'antica particella -ce integra: hice /'hi:ke/ /f. haece /'haeke/, n. hoce /'ho:ke/), con la variante hicce (f. haecce, n. hocce). La forma hicce con consonante geminata è dovuta all'analogia: il neutro *hodce ha dato regolarmente hocce, e da questa forma si è estesa la geminazione anche ad altre forme del paradigma. Per contro, da hocce si è sviluppato hoce /'ho:ke/ con consonante semplice secondo la ben nota alternanza vocale breve + consonante doppia : vocale lunga + consonante semplice.

Tutte queste forme sono censurate dal sistema scolastico, o quanto meno ad esse non è data la benché minima rilevanza. Questo è il paradigma di base:

Sing.
M
F
N
Nom.
hice
haece
hoce
Gen.
huiusce
huiusce
huiusce
Dat. huice
huice
huice
Acc.
hunce
hance
hoce
Abl.
hoce
hace
hoce
Pl. M F N
Nom. hisce haece haece
Gen. horunce,
horunc
harunce,
harunc
horunce,
horunc
Dat. hisce hisce hisce
Acc. hosce haece haece
Abl. hisce hisce hisce

Questo è il link al dizionario online Olivetti:


Altre informazioni si possono trovare nel sito Perseus.tufts.edu


Vediamo che questo -ce compare anche al genitivo singolare: huiusce, attestato anche HVIVSQVE (la labiovelare è dovuta a ipercorrettismo). Questo pronome, spesso definito "arcaico" ed "enfatico", mostra forme oltremodo interessanti: nominativo plurale maschile hisce /'hi:ske/, con una notevole sibilante -s- che non si trova affatto nella forma semplice hi; genitivo plurale maschile e neutro horunc /'ho:runk/, ma anche horunce /ho:'runke/; genitivo plurale femminile harunc /'ha:runk/, ma anche harunce /ha:'runke/. Si noti che queste particelle sono attestate anche con altri pronomi dimostrativi: istic "costui, questo qua" (f. istaec, n. istuc); illic "quello là" (f. illaec, n. illuc).



Se facciamo pronunciare queste forme enfatiche secondo la pronuncia ecclesiastica, otteniamo forme assolutamente incoerenti: le forme con -s-ce come huiusce, hisce, verranno pronunciate con una sibilante palatale /ʃ/: /u'juʃʃe/, /'iʃʃe/, che non ha alcun senso; negli altri casi, -ce sarà pronunciato con un'affricata /tʃ/: /'i(t)tʃe/, /'untʃe/, etc.
La finale in -c sarà invece velare ("dura") come nella pronuncia restituta: horunc /'orunk/, harunc /arunk/, in nettissimo contrasto con le forme piene horunce /o'runtʃe/, harunce /a'runtʃe/. Se per assurdo la pronuncia ecclesiastica valesse ab aeterno, come i nostri avversari sostengono, questa situazione sarebbe inesplicabile.

L'avverbio hic(c)e, derivato dal pronome enfatico con -ce, era usato anche nella lingua popolare e sopravvisse a lungo. Infatti, nell'evoluzione dal latino al romanzo, vediamo che da hicce est, è derivato tramite palatalizzazione il moderno italiano c'è. Più in generale, la forma ci, ce, è poi derivata direttamente da hicce con valore locativo. Così hicce stat si è evoluto in ci sta.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: I VOCATIVI DEI NOMI IN -IUS

Come è ben noto, i nomi maschili della seconda declinazione (temi indoeuropei in -o-) hanno il vocativo in -e, di tradizione antichissima, che si contrappone in modo deciso al nominativo in -us (< IE -os).
Vediamo tuttavia che quando il nome termina in -ius, il vocativo di alcuni nomi comuni e di tutti i nomi propri di persona non termina in -ie come ci si potrebbe attendere, ma in -i (la vocale è lunga, /-i:/). In altre parole, si è prodotta una forma ridotta già in epoca antica.

Nomi comuni con vocativo ridotto:

filius /'fi:lius/ "figlio", voc. fili /'fi:li:/
genius /'genius/ "genio", voc. geni /'geni:/

Nomi comuni con vocativo regolare:

socius /'sokius/ "socio", voc. socie /'sokie/

Nomi propri (prenomi, nomi, teonimi, etc.):

Laurentius /lau'rentius/, voc. Laurenti /lau'renti:/
Lucius /'lu:kius/, voc. Luci /'lu:ki:/
Marius /'marius/, voc. Mari /'mari:/
Mercurius /mer'kurius/, voc. Mercuri /mer'kuri:/*
Pompeius /pom'pe:jus/, /pom'pejjus/, voc. Pompei
    /pom'pe:i:/

Publius /'publius/, voc. Publi /'publi:/
Valerius /wa'lerius/, voc. Valeri /wa'leri:/*

*Stando alle leggi dell'accentazione latina, avrebbe dovuto pronunciarsi con l'accento sulla prima sillaba, ma evidentemente la riduzione da -ie a -i è avvenuta dopo che l'accento si è fissato sulla penultima (altri pensano a un livellamento analogico).

Dall'analisi di questo elenco, una cosa salta subito all'occhio. Laurenti ha /t/ anche nella pronuncia ecclesiastica, rispetto a Laurentius che è pronunciato con un'affricata /ts/, come /lau'rentsjus/.
Siccome Laurenti proviene da un precedente *Laurentie, è chiaro che l'affricata /ts/ negli altri casi della declinazione non può essere ab aeterno. Se fosse come i nostri avversari vanno affermando, avremmo una forma *Laurentie pronunciata /*lau'rentsje/ dai preti e dagli insegnanti del liceo, dato che l'alternanza /ts/ - /t/ risulterebbe incomprensibile. Se poi notiamo che Laurentius è formato con un suffisso -i- a partire dal toponimo Laurentum "Laurento", e che esiste anche l'aggettivo laurentinus /lauren'ti:nus/, vediamo con la massima chiarezza che la forma più antica ha /t/ e che la forma ecclesiastica con /ts/ può soltanto essere derivata.

Non si creda che il vocativo Laurenti sia una reliquia senza importanza, sparita senza lasciare traccia: esso è sopravvissuto quasi immutato nel basco Laurendi "Lorenzo".

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: IL VERBO ONOMATOPEICO VAGIRE

La più comune e ovvia sillaba onomatopeica che descrive il verso del neonato è WA, con la variante WE. Ci si può attendere che in diverse lingue le parole per indicare questo concetto siano derivate da questo suono. Evidentemente per un antico romano il neonato faceva WAG, così da questo ideofono si formò il verbo vagio /'wa:gio:/ "vagisco" (paradigma vagis /'wa:gi:s/, vagii /'wa:gii:/ o vagivi /wa'gi:wi:/, vagitum /wa:'gi:tum/, vagire /wa:'gi:re/), dove il carattere IPA /g/ è la velare sonora, quella che i popolani chiamerebbero "g di gatto". Sappiamo che la vocale -a- della radice verbale è lunga. Nella lingua classica, lo stesso verbo indicava anche il verso della capra e del maiale. Questo è il link al lemma nel dizionario online Olivetti:


Coloro che postulano la pronuncia ecclesiastica ab aeterno, realizzano invece il verbo latino come /'vadʒ(i)o/, /'vadʒis/, /'vadʒii/ o /va'dʒivi/, /va'dʒitum/, /va'dʒire/, con un suono postalveolare o palatale /dʒ/, quello che i popolani chiamerebbero "g di getto". Il punto è che la presenza di questo suono è incompatibile con l'origine onomatopeica della parola, che risulta evidente e innegabile. 

Si deduce così che il verbo latino vagio, vagis, vagire ha alterato il suo suono nel corso dei secoli, perdendo il suo carattere onomatopeico. Un po' come è successo a pipio /'pi:pio:/ "colombo, piccione", dalla cui forma accusativa pipionem /pi:pi'o:nem/ (> /pi:'pjo:nem/) è derivato l'italiano piccione. In realtà vagire è un verbo dotto, che non è giunto in italiano dalla genuina e naturale usura popolare di un termine ereditato: è stato introdotto dal latino dei letterati in epoca abbastanza tarda, come è accaduto per tantissimi altri lemmi. Una lingua è un dialetto con un esercito e una marina, disse qualcuno. Non soltanto: una lingua è un dialetto con un esercito, una marina e uno stuolo di topi di biblioteca detti "grammatici" e "letterati", che costantemente importano voci morte da secoli, donando loro una vita artificiale.

lunedì 22 maggio 2017

LA PRONUNCIA ACCADEMICA INGLESE DEL LATINO

Ebbene sì, esiste qualcosa di ben peggiore della pronuncia ecclesiastica italica del latino. Tra le più stravaganti pronunce della lingua di Roma possiamo annoverare la pronuncia accademica inglese. Dovette senza dubbio partire da qualcosa di simile alla pronuncia riformata carolingia e iniziare la sua divergenza per passi impercettibili, fino a manifestare gravi alterazioni a partire dal secolo XVI. Ancora nella fase dell'inglese medio (Middle English), di tutto ciò non doveva sussistere alcuna avvisaglia, ma in seguito, nel corso della formazione dell'inglese moderno, si ebbero vistosi fenomeni di dittongazione. Così la vocale /i:/ lunga dovette dittongarsi prima in /eɪ/ e infine in /aɪ/, tanto in inglese che in latino. Stranamente l'analogo mutamento da /u:/ a /oʊ/ e quindi ad /aʊ/ che colpì le parole anglosassoni non si verificò nel latino accademico, che mutò invece /u:/ in /ju:/, mentre un suono /jʊ/ si sviluppò da molte /u/ anticamente brevi e non necessariamente in sillaba tonica. Uno dei mutamenti più tipici e generali è quello che si verificò quando la vocale /e:/ lunga divenne /i:/. Altrettanto notevole è la pronuncia di a come /æ/ in sillaba chiusa e come un dittongo /eɪ/ in sillaba aperta. Per maggiori informazioni e per approfondimenti si rimanda alla pagina di Wikipedia sul Great Vowel Shift:


Nel complesso si verificò una vera e propria rotazione vocalica. Ovviamente la quantità vocalica di riferimento non è quella del latino antico, ma è strettamente connessa alla struttura della sillaba tonica (vocale lunga in sillaba aperta - vocale breve in sillaba chiusa), come in tutte le forme di latino scolastico. 

Augustus /ɔ'gʌstəs/
Caesar /'si:zə/
Bacchus /'bækəs/

Venus /'vi:nəs/ 

Questa pronuncia è ancora particolarmente viva e vitale nei paesi anglosassoni, avendo dato decine di prestiti nella lingua dotta e scientifica, percolati poi nella lingua quotidiana. In questo pastone confluiscono sia genuini termini latini che vocaboli la cui ultima origine è greca. Il parlante medio considera molte parole come se fossero uscite da auna scatola magica e non ha la benché minima consapevolezza della loro natura. Questo è un breve elenco di prestiti accademici: 

algae /'ældʒi:/
alumni /ə'lʌmnaɪ/
anus /'eɪnəs/
apparatus /æpə'ɹætəs/, /æpə'ɹeɪtəs/
area /'æɹɪə/
bacteria /bækti:ɹɪəm/
circa /'sə:kə/
circus /'sə:kəs/
foetus(1) /'fi:təs/ 
fungus /'fʌngəs/
  fungi /'fʌndʒaɪ/
formula /'fɔ:mjʊlə/
genius /'dʒɪnjəs/ 
genus /'dʒi:nəs/ 
hippopotamus /hɪppə'pɔtəməs/
incubus /'ɪnkjʊbəs/
larvae(2) /'la:vi:/
libido
(3) /lɪ'bi:dəu/
media /'mi:dɪə/
mens rea(4) /menz 'ɹi:ə/
minus /'maɪnəs/
nucleus /'njʊklɪəs/
penis /'pi:nəs/
phocae /'foʊsi:/, /'fəʊsi:/
plus /plʌs/
propaganda /pɹɔpə'gændə/
status /'steɪtəs/, /'stætəs/ 
subpoena /sʌp'pi:nə/
terminus /'tə:minəs/
vagina /və'dʒaɪnə/
versus /'və:səs/
vertebra /'və:təbɹə/
vulva /'vʌlvə/

(1) In latino classico è fetus /'fe:tus/ ed è senza dittongo come in latino ecclesiastico. La forma con dittongo è dovuta a ipercorrettismo e non ad etimologia. 
(2) La parola in latino classico significava "maschere" o "spettri", solo con Linneo (XVIII sec.) venne in uso il significato attuale.
(3) L'uso popolare del termine libido è moderno: si diffuse in seguito all'opera di un sodomizzatore seriale di fanciulle chiamato Sigmund Freud. Così la vocale tonica si mantenne /i:/ e non si sviluppò alcun dittongo.
(4) In un esilarante sketch, Gene Wilder confondeva la mens rea con la gonorrea, dando in escandescenze al pensiero di essere stato contagiato da un compagno di sventure.

Moltissimi vocaboli sono stati assimilati in qualche misura e hanno perso le terminazioni, ma la loro origine latina accademica è certa:

alien /'eɪljən/ < alienus
anal /'eɪnəl/ < analis
apian /'eɪpɪən/ < apianus
(da apis)
auricular /ɔ'ɹɪkjʊlə/ < auricularis
insane /ɪn'seɪn/
< insanus
nuclear /'njʊklɪə/
< nuclearis
ominous /'ɔmɪnəs/
< ominosus (da omen)
oral /'ɔɹəl/ < oralis
sex /seks/ < sexus
sexual /'sekʃuəl/ < sexualis
sperm /spə:m/ < sperma


Sono frequenti i casi di formazioni con suffissi applicati in modo ridicolo:

arduous < *arduosus
nefarious < *nefariosus
pendulous
< *pendulosus
political < *politicalis

A volte viene il dubbio che in queste parole il suffisso -ous non venga davvero da -osus e che sia addirittura un brutale adattamento dell'uscita -us del nominativo singolare maschile. In alcuni casi, la formazione bislacca è attestata in latino medievale. Ad esempio infamous viene da infamosus, che per quanto possa suonare male era realmente in uso. Occorre distinguere questi prestiti dal latino accademico inglese dai prestiti giunti tramite il francese (antico, medio o moderno), come ad esempio erratic (scritto un tempo anche erratick, erraticke, erratique), dal francese antico erratique, a sua volta dal latino erraticus. L'impresa non è sempre facile: alcuni sostengono che sperm venga dal francese medio sperme, mentre credo sia assai più probabile che sia un accademismo latino (si ricorda che l'origine ultima è in ogni caso greca).

Tale è l'abisso che separa la pronuncia accademia inglese dalla pronuncia classica o restituta, che non possiamo considerare i rispettivi utenti come locutori della stessa lingua. Se un extraterrestre giungesse sulla Terra per una vacanza di studio e dovesse sentire leggere lo stesso testo in latino prima con la pronuncia accademica inglese e poi con la restituta, mai e poi mai crederebbe che si possa trattare dello stesso identico idioma.

giovedì 18 maggio 2017

LA PRONUNCIA CAROLINGIA DEL LATINO

La situazione della lingua latina ecclesiastica nella Gallia nella seconda metà dell'VIII secolo d.C. era a dir poco marasmica. Nessuno sembrava rendersene conto, tanto era densa e caliginosa l'ignoranza che imperversava tra il volgo e nello stesso clero. La carcassa dell'Impero Romano era ormai marcia e piena zeppa di cagnotti. Il latino della Chiesa di Roma era rimasto tagliato fuori dall'evoluzione della lingua viva, che ormai si era evoluta in una varietà di parlate protoromanze. Al contempo, la lingua del culto cattolico non era stata capace di conservarsi indenne dai mutamenti, finendo col dar luogo a una serie di pronunce anche molto diverse da luogo a luogo. In queste condizioni, nessun popolano poteva capire quanto i preti dicevano a messa. Immaginiamo di paragonare la lingua del clero e quella della gente comune a due treni. Il treno del clero viaggiava a velocità ridotta e non riusciva a star dietro al treno della gente comune, che accelerava fin quasi a sparire oltre l'orizzonte. Ad ogni metro percorso dal treno dei preti, quello del popolo aveva già percorso un miglio e la distanza tra i due cresceva a dismisura. 

Il primo a capire queste cose fu il dottissimo Alcuino di York (735-804), uomo di immense qualità venuto dall'Inghilterra: fu lui che mise al suo sovrano Carlo Magno la pulce nell'orecchio, dando così origine a un mutamento di portata storica. Con buona pace del corpo docente servile e di alcuni irriducibili accademici vetusti di questa Italietta, i Franchi non erano poi così romanizzati come la propaganda vorrebbe. Ancora all'epoca del Re Carlo erano un popolo germanico fierissimo, che si cullava nei suoi privilegi, vivendo in condizioni di quasi totale isolamento dalla popolazione gallo-romana sottomessa e disprezzata. Questa è la realtà dei fatti, di cui avremo modo di parlare in altre occasioni. All'inizio il Re Carlo non sapeva nemmeno che lingua parlassero i suoi sudditi. A corte si parlava la lingua germanica avita e i Franchi era convinti che la popolazione autoctona parlasse il latino, creduto immutabile ed eterno, cristallizzato e identico a quello parlato da Cesare e di Cicerone. Quando Alcuino dimostrò che le cose stavano ben diversamente, immenso fu lo scandalo. Si dà il caso che il Re Carlo fosse molto superstizioso. Si era fatto chissà come l'idea bislacca che Dio si sarebbe adirato se la pronuncia delle preghiere recitate in latino non fosse stata perfetta. Se il popolo non capiva più i suoi pastori e questi stessi avevano distorto il latino al punto che tra parrocchie diverse non c'era più mutua comprensione persino di testi semplici, Dio poteva soltanto essere in collera, sul procinto di scatenare catastrofi. Per paradosso, tanto adoravano il Dio cristiano questi Franchi, che lo concepivano furioso e folgoratore come il pagano Thonar, i cui templi venivano bruciati. 

Fu così che il Re Carlo, timoroso del disastro incombente, diede ad Alcuino l'incarico di ripristinare l'uso del latino classico, di ridargli una pronuncia accettabile e di farne la lingua veicolare dell'Impero. La Riforma carolingia ebbe così inizio. Il monaco sapiente aveva a disposizione diverse alternative. Avrebbe potuto ad esempio utilizzare la pronuncia usata dalla Chiesa d'Irlanda, i cui monaci fino alla metà del VII secolo erano stati molto attivi sul continente, impegnandosi in una fervida attività missionaria nelle terre dei Merovingi e fondando un gran numero di monasteri. La pronuncia ecclesiastica irlandese, che realizzava c come /kj/ davanti a vocale anteriore /e/ e /i/ (pur essendo diversa dalla restituta), non era tuttavia riuscita ad attecchire, dato che era troppo aliena al volgo e al clero di Francia. Così fu scartata e si mantenne l'uso di pronunciare c come /ts/ davanti a /e/, /i/. Alcuino utilizzò una serie di accorgimenti per riportare in vita un latino che gli pareva ragionevole. La sua più grande intuizione riguardò la pronuncia delle vocali e, i, o, u. Era costume del clero all'epoca del Merovingi e degli stessi Carolingi prima della Riforma pronunciare le vocali con una qualità che rispecchiava l'antica quantità vocalica, ormai perduta. Così fide (abl.) si pronunciava /'fede/ con una e chiusa, mentre gula si pronunciava /'gola/ con una o chiusa: si noterà che queste parole suonavano proprio come in italiano. La sillaba tonica di semper e di merda aveva una e aperta (in latino /'semper/, /'merda/ avevano infatti vocale tonica breve), mentre la e di vena e di renes era chiusa (in latino /'we:na/ e /'re:ne:s/ avevano infatti vocale tonica lunga). Le stranezze e le irregolarità non mancavano di certo. Vi erano ad esempio moltissimi casi di chiusura di e in i e di o in uficirunt, Novimbres, vidintur, vivindum, gloriusi, octuber, indictiune, respunsis. Distaccandosi da questi costumi, che gli parevano incomprensibili, Alcuino decise che tutte le i del latino scritto dovessero suonare /i/ e che allo stesso modo tutte le u dovessero suonare /u/. Decise anche che non dovesse esserci differenza di qualità tra la e di merda e quella vena, e neppure tra la o di forum (< /'forum/) e quella di nomen (< /'no:men/). Anche le consonanti erano andate alterandosi in molti casi nel latino ecclesiastico, così dovettero essere ripristinate. Per esempio, b intervocalica veniva pronunciata /v/, confondendosi con v. Questo si rifletteva nella scrittura confusa: kavallos, ebidenter, ellubiones, devitor. Erano tutt'altro che rari gli esempi di sonorizzazione di occlusive sorde e di ipercorrettismi: audentico, podibat, abogadus, similitter, vidittur, etc. Alcuino pose rimedio a questa confusione imperante, ripristinando la pronuncia più antica e la grafia corretta: caballos e non kavallos; evidenter e non ebidenter; debitor e non devitor; potebat e non podibat, etc.

Alcuino, pur essendo una mente fulgida, non possedeva i mezzi filologici adatti a ricostruire una pronuncia affine alla restituta: per i suoi tempi era un'impresa impossibile, come percorrere un sentiero accidentato di notte senza avere con sé un lume. Il monaco fece ciò che era in suo potere nel contesto in cui si trovava. Senza il suo intervento, con ogni probabilità lo stesso latino ecclesiastico avrebbe finito per usurarsi, deteriorandosi a tal punto da dover essere abbandonato. Per quanto riguarda il Re Carlo, il suo interesse non era rivolto alla Conoscenza in sé, ma unicamente al dominio politico e alla religione, che concepiva come un'unica entità più dura dell'acciaio e più feroce di Moloch.

Per approfondire questi interessanti argomenti rimando senz'altro all'opera di Carlton Cosmo Rice (1902), The phonology of Gallic clerical Latin after the sixth century : an introductory historical study based chiefly on Merovingian and Carolingian spelling and on the forms of old French loan-words. È uno studio molto rigoroso e valido, anche se un po' datato. Discute ogni dettaglio e riporta una casistica vastissima, senza trascurare nulla. Il testo in formato pdf si può consultare e scaricare gratuitamente dal sito Archive.org servendosi di questo link: 


La Riforma carolingia del latino si diffuse in modo capillare e moltissime scuole furono aperte a beneficio non soltanto delle classi alte, ma di chiunque desiderasse ricevere un'istruzione, che era gratuita. Se questo non cancellò magicamente le antiche consuetudini di pronuncia dall'oggi al domani, in ogni caso diffuse in modo potente la nuova pronuncia del latino. Se prima la o di schola era aperta e diversa dalla o chiusa di nobilis, dopo il regno di Carlo Magno le due parole ebbero la stessa vocale o aperta. Si noterà che il francese moderno conserva ancora questi due termini come prestiti dal latino carolingio: école "scuola" e noble "nobile" hanno la stessa identica vocale tonica, contraria alla naturale evoluzione latina, cosa che ci testimonia la concreta azione della Riforma. Se schola e nobilis avessero lasciato eredi naturali passati attraverso la genuina usura del volgo, oggi dovremmo dire *équeule e *nouvle.

In Italia queste notizie evidentemente non sono molto pubblicizzate e permangono accademici che le ignorano del tutto. La Setta degli Archeologi pare una monade immune a qualsiasi influenza esterna: a quanto pare in quell'ambito l'opera di Alcuino è ritenuta inesistente. Eppure il quadro che esce dall'analisi della pronuncia ecclesiastica del latino merovingio e carolingio, nonché del latino riformato da Alcuino, si dimostra incompatibile con la pretesa di una pronuncia unica e immutabile in tutto l'arco storico di esistenza della lingua. Forse non si tratta di mera ignoranza: la rimozione di queste conoscenze può ben essere avvenuta cum dolo per favorire la propria propaganda. Visto che nella congrega in questione si crede necessario sostenere con ogni mezzo un'unica pronuncia del latino, quella ecclesiastica italica, è stato cancellato tutto ciò che era prima della sua imposizione e che può provare l'infondatezza del dogma pseudoscientifico. La Rete, nata dai deliri dei fricchettoni e dalle loro perniciose utopie sulla cosiddetta "intelligenza dello sciame" (swarm intelligence), ha reso possibile la diffusione di simili morbi cognitivi, frutti avvelenati che minacciano di far marcire la Scienza.

lunedì 15 maggio 2017

UNA BREVE STORIA DELLA PRONUNCIA ECCLESIASTICA DEL LATINO

Vediamo ora di capire come si è formata la famosa pronuncia ecclesiastica del latino, che alcuni in Italia si ostinano a credere genuina, come se fosse propria dei Romani fin dalla notte dei tempi. Siccome è usata nell'insegnamento scolastico e per scopi liturgici - o lo è stata fino a poco tempo fa - sembra naturale a chi non ha fatto studi specifici credere che sia la sola possibile e che non presenti problemi di sorta, complice la diffusa credenza nell'immutabilità della Chiesa di Roma. Eppure le cose non stanno affatto così. La pronuncia in questione ha di certo la sua tradizione e il suo contesto, questo nessuno lo nega. Può essere un oggetto di studio e di approfondimento, ma riguarda una fase storica in cui la lingua latina è lingua dotta e artificiosa che non è più la lingua nativa di nessuna nazione della Terra.

Popolarmente si ritiene che il latino sia una lingua morta, ma questo è comunque impreciso: il latino scolastico era un tempo parlato fluentemente in certi ambienti e ci furono in ogni epoca alcuni locutori che assimilarono la lingua già nell'infanzia al pari di una lingua viva. Tra questi possiamo citare ad esempio il filosofo francese Michel de Montaigne e il teologo calvinista Isaac Casaubon. Tuttavia possiamo dire per certo che la trasmissione del latino ecclesiastico non avviene da madre in figlio. Non siamo dunque lontani dal vero se affermiamo che non è più una lingua naturale. 

In realtà non si dovrebbe parlare semplicemente di pronuncia ecclesiastica, ma di pronuncia ecclesiastica italica. Perché? Semplice. Perché sono esistite fino ad epoca abbastanza recente altre pronunce ecclesiastiche usate dalla Chiesa Romana nei vari paesi, molto diverse da quella a cui siamo abituati. In pratica ogni nazione aveva la sua pronuncia ecclesiastica, adattata ai suoni della propria lingua. Nel corso dei secoli, questo processo di assimilazione del latino agli usi fonetici locali diede origine a un gran numero di varianti con sistemi fonetici molto interessanti, che potremmo senz'altro definire "dialetti". Naturalmente, a causa del ruolo centrale che Roma e più in generale l'Italia rivestivano per il Cattolicesimo, la pronuncia ecclesiastica italica aveva notevole prestigio e finì per imporsi sulle altre. Questo accadde in un'epoca sorprendentemente vicina a noi. Alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX si pose in modo sempre più pressante la necessità di una pronuncia uniforme che valesse per tutta la Chiesa Romana. Avvenne così che nel 1912 Pio X in una lettera all'Arcivescovo di Bourges, Louis-Ernest Dubois, raccomandò che l'uso della pronuncia ecclesiastica in vigore in Italia fosse esteso a tutto il mondo cattolico. All'inizio ci fu qualche opposizione: alcuni porporati recalcitranti non volevano saperne di abbandonare la loro pronuncia nazionale, ma la reazione del Pontefice fu così veemente da ridurli all'obbedienza, al punto che già prima della Grande Guerra le sue disposizioni erano riuscite a prevalere. Riporto il testo della lettera papale, che ho preso dal sito dei Cattolici Romani e che ho trovato anche in altri recessi del Web (es. Rassegna gregoriana per gli studi liturgici e pel canto sacro, in Google Books): 

Vénérable frère,
Votre lettre du 21 juin dernier, comme aussi celles que Nous avons reçues d'un grand nombre de pieux e distingués catholiques français, Nous ont appris, a Notre grande satisfaction, que, depuis la promulgation de Notre Motu proprio du 22 novembre 1904 sur la musique sacrée, on s'applique avec un très grand zèle, dans divers diocèses de France, à faire en sorte que la prononciation de la langue latine se rapproche de plus en plus de celle qui est usitée à Rome; et que l'on cherche en conséquence à rendre plus parfaite, selon les meilleures règles de l'art, l'exécution des mélodies grégoriennes, ramennés par Nous à leur ancienne forme traditionelle.
Vous même, quando vous occupiez la siège episcopal de Verdun, vous étiez entré dans cette voie et vous aviez pris, pour y réussir, des dispostions utiles et importantes. Nous apprenons d'autre part, avec un vif plaisir, que cette réforme s'est déjà répandue en beaucoup d'endroits, et qu'elle a été introduite avec succès dans un grand nombre d'églises cathédrales, de séminaires, de collèges, et jusque dans des simples églises de campagne.
C'est qu'en effet la question de la prononciation du latin est intimement liée à celle de la restauration du chant grégorien, objet constant de Nos pensées et de Nos reccomandations, depuis le commencement de Notre Pontificat.
L'accent et la prononciation du latin eurent une grande influence dans la formation mélodique et rythmique de la phrase grégorienne; et par suite il est important que ces mélodies soient reporduites, dans l'exécution, de la manière dont elles furent artistiquement conçues à leur origine. Enfin la diffusion de la prononciation romaine aura encore cet autre avantage, comme vous l'avez fort bien remarqué, de consolider de plus en plus l'œuvre de l'unité liturgique en France, unité accomplie par l'heureux retour à la liturgie romaine et au chant grégorien.
C'est pourquoi Nous souhaitons que le mouvement de retour à la prononciation romaine du latin se continue avec le même zèle et les mêmes succès consolants qui ont marqué jusqu'à présent sa marche progressive; et pur les motifs énoncés plus haut, Nous espérons que, sous votre direction et celles des autres membres de l'épiscopat, cette réforme puisse heuresement se propager dans tous le diocèses de France.
Comme gage des faveurs célestes, à vous, vénérable frère, à vos diocésains et à tous ceux qui Nous ont adressé des demandes semblables à la vôtre, Nous accordons de tout cœur la bénédiction apostolique.
Du Vatican, le 10 juillet 1912.

PIUS PP. X

Sembra che il casus belli che portò alla crociata per imporre la pronuncia ecclesiastica italica si sia verificato nell'ambito del rilancio del canto gregoriano. Si notò infatti che le pronunce ecclesiastiche locali diverse da quella italica producevano risultati abbastanza sgraziati.

Riportiamo ora alcuni esempi concreti di queste pronunce ecclesiastiche locali, tanto per chiarire il concetto.

Nella pronuncia ecclesiastica italica ho potuto riscontrare una certa confusione tra il suono chiuso [e] con il suono aperto [ɛ], del suono chiuso [o] con il suono aperto [ɔ], anche se molti usano i suoni aperti in sillaba tonica chiusa e i suoni chiusi in sillaba tonica aperta, come in molte altre pronunce ecclesiastiche nazionali. Non ho mai saputo di un prete consapevole di questo problema: era costume tra quella gente usare i suoni aperti o quelli chiusi in dipendenza dal contesto sillabico e dal tipo di italiano parlato. Adotterò quindi una trascrizione semplificata /e/, /o/ - tranne che nella pronuncia ecclesiastica francese.
La quantità vocalica antica non è rappresentata in nessuna pronuncia ecclesiastica nazionale; in genere è lunga ogni vocale tonica in sillaba aperta, breve ogni vocale tonica in sillaba chiusa, così sarà omessa ogni notazione - tranne che nella pronuncia ecclesiastica tedesca.

Pronuncia ecclesiastica italica: 

Caesar /'tʃezar/
caelus /'tʃelus/
gens /dʒens/
magnus /'maɲ(ɲ)us/
ascendit /a(ʃ)'ʃendit/
excelsus /eks'tʃelsus/
natio /'natsjo/
Deus /'deus/*
Deum /'deum/*
dicunt /'dikunt/
quercus /'kwerkus/ 
Venus /'venus/

*Dovrebbe pronunciarsi in due sillabe: De-us, De-um. Nella pratica si sente pronunciare con un dittongo, [dɛus] e [dɛum], per quanto in Wiktionary si riporti soltanto con iato, addirittura come ['de:us].

Pronuncia ecclesiastica rumena: 

Caesar /'tʃezar/
caelus /'tʃelus/
gens /dʒens/
magnus /'magnus/
ascendit /as'tʃendit/
excelsus /eks'tʃelsus/
natio /'natjo/
Deus /'deus/
Deum /'deum/
dicunt /'dikunt/

quercus /'kverkus/
Venus /'venus/

Si noterà la somiglianza con la pronuncia ecclesiastica italica, tuttavia ha anche qualche caratteristica dissimile.

Pronuncia ecclesiastica tedesca: 

Caesar /'tse:zar/
caelus /'tse:lus/
gens /gens/
magnus /'magnus/
ascendit /as'tsendit/
excelsus /eks'tselsus/
natio /'natsjo/

Deus /'de:us/
Deum /'de:um/

dicunt /'di:kunt/
 

quercus /'kverkus/
Venus /'ve:nus/, /'fe:nus/

Pronuncia ecclesiastica spagnola:

Caesar /'θesar/, /'sesar/
caelus /'θelus/, /'selus/
gens /xens/
magnus /'maγnus/
ascendit /as'θendit/
, /a'sendit/
excelsus /es'θelsus/, /e'selsus/
natio /'naθjo/, /'nasjo/

Deus /'deus/
Deum /'deum/

dicunt /'dikunt/

quercus /'kwerkus/
Venus /'venus/

Pronuncia ecclesiastica francese: 

Caesar /se'zaR/
caelus /se'lys/
gens /ʒãs/
magnus /mag'nys/
ascendit /asã'dit/
excelsus /ɛgzɛl'sys/
natio /na'sjo/
Deus /de'ys/
Deum /de'ɔm/
dicunt /di'kɔ̃t/
quercus /kɥɛR'kys/
Venus /ve'nys/

Notiamo che tutte queste pronunce hanno fenomeni di assibilazione o di palatalizzazione: nessuna corrisponde alla pronuncia classica del latino, le cui forme differiscono spesso in modo drastico.

A questo punto, per poter fare un rapido confronto, riporto per le parole in analisi anche la trascrizione dei fonemi e di alcuni allofoni della pronuncia classica o restituta:

Caesar /'kaesar/
caelus /'kaelus/
gens /ge:ns/
magnus /'magnus/, /'maŋnus/
ascendit /a'skendit/
excelsus /eks'kelsus/
natio /'na:tio:/, /'na:tjo:/
Deus /'deus/*
Deum /'deum/*
dicunt /'di:kunt/
quercus /'kwerkus/
Venus /'wenus/

*Vocalis ante vocalem corripitur - tranne che in pochi casi.

Dall'esposizione di questi fatti ben documentati, si possono trarre le seguenti conclusioni:

  1) È un grave errore concettuale chiamare "tedesca" la pronuncia restituta del latino, come fanno i nostri avversari: semmai tale epiteto deve essere attribuito alla pronuncia ecclesiastica che vigeva in Germania e in Austria prima della riforma di Pio X.
  2) È un grave errore concettuale affermare qualcosa senza cercare prima notizie sulla sua attendibilità. Le disposizioni di Pio X sulla pronuncia ecclesiastica italica provano che essa non fu universale, ma soltanto un particolarismo locale che si impose nella stessa Chiesa Romana solo a partire da tempi a noi prossimi.

  3) Se la pronuncia ecclesiastica italica fosse stata la pronuncia degli antichi Romani, giunta a noi per tradizione ininterrotta, essa sarebbe naturalmente stata adottata già fin dall'inizio dell'evangelizzazione da tutte le genti, finendo poi per divenire l'unica possibile in tutta la Cristianità già nell'Alto Medioevo. Così non è. I nostri avversari, che danno per scontate moltissime cose senza provare il bisogno di conoscere nulla, non sono in grado di spiegare l'esistenza di un gran numero di pronunce ecclesiastiche, ossia di dialetti del latino scolastico. Già soltanto questo argomento non depone a loro favore.

Secondo lo studioso britannico Frederick Brittain (Latin in Church; the history of its pronunciation, 1955), la pronuncia ecclesiastica italica sarebbe semplicemente una pronuncia ortografica formatasi in Italia, applicando al latino le regole di pronuncia dell'italiano, considerando i dittonghi ae e oe come se al loro posto fosse scritta la lettera semplice e (non dimentichiamoci che nel latino medievale molto spesso si scriveva semplicemente e) e poche altre peculiarità grafiche. Certo, viene da chiedersi perché le altre pronunce ecclesiastiche dovrebbero essere ortografiche e quella italica dovrebbe invece essere genuina. Si scopre subito che è come chiedersi perché solo un dio dei pagani dovrebbe essere falso e non tutti quanti. Se uno analizza tutti questi sistemi di pronuncia, uno dopo l'altro, gli viene all'istante qualche sospetto. Sono creazioni artificiali e tutto sommato abbastanza recenti, che hanno sostituito tradizioni più antiche. In altre parole, la Chiesa Romana avrebbe subìto molteplici riforme della pronuncia nel corso della sua storia millenaria, in Italia e altrove, e le cose non sono affatto semplici come le si può credere a prima vista.

venerdì 12 maggio 2017

ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL LATINO AUSTRUM E OSTRUM 'PORPORA'

Il lemma latino ostrum "porpora" è dal greco ὄστρεον (ostreon) "conchiglia", donde deriva anche la parola italiana ostrica. L'origine ultima è la radice indoeuropea *ost- "osso", che ha dato latino os (gen. ossis) "osso" e greco ὀστέον (ostéon) id. Il dittongo au- della notevole variante austrum di ostrum non ha alcuna giustificazione etimologica e deve avere come causa una forma di ipercorrettismo. Questa è la semantica del vocabolo in questione:

1 porpora, materiale che si otteneva da un particolare tipo di molluschi
2 color porpora
3 veste o stoffa porpora
(fonte: Dizionario online Olivetti)

In greco la vocale o- del lemma ὄστρεον era breve, essendo scritta con la lettera omicron, e anche in latino doveva essere tale: /'ostrum/. A causa del nesso consonantico a un certo punto deve essersi prodotta una variante /'o:strum/, poi ipercorretta in /'austrum/ - essendo la vocale lunga e chiusa /o:/ scambata per una caratteristica rustica. 

Nessuno tra i (pochi) fautori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno si sogna di dire che taurus debba suonare /*'torus/ perché esistono doppioni come ostrum e austrum. Invece costoro ritengono, usando due pesi e due misure, che Caesar debba suonare /'tʃezar/ perché esistono doppioni come ceterus - caeterus.

martedì 9 maggio 2017

PROVE ESTERNE E INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: L'ETNONIMO AFRICANO MAZICES

Il nome dei Berberi deriva chiaramente dal latino barbari. Il vocabolo è stato preso a prestito nella lingua araba come barbar, che presenta entrambi i significati di "barbaro" e di "berbero". Ovviamente le genti autoctone della Barberia non si danno questo nome nelle varietà della loro lingua ancestrale. Un endoetnico molto comune è formato a partire dalla radice -mazigh- /-ma:ziɣ-/ (la consonante finale è una fricativa velare sonora):

Amazigh "Berbero"
Imazighen "Berberi"
Tamazight "lingua berbera" (lett. "la berbera")
Tamazgha "Terra Berbera" (neologismo)

Il significato originario di Imazighen è "Uomini Liberi" e di certo è molto antico, anche se a quanto pare è stato tramandato per tradizione, non essendo più vivo come parola comune nella lingua parlata. L'etnonimo Amazigh è usato nelle parlate attuali del Marocco e dei Tuareg, mentre è decaduto, evidentemente in tempi recenti, nelle isole berberofone dell'Algeria settentrionale e del Nord del Sahara. In particolare non si ha attestazione di Amazigh tra i Cabili, il cui endoetnico è Iqbayliyen. Cosa abbastanza curiosa, Amazigh è stato introdotto in Cabilia in epoca recente, tramite la canzone nazionalista di Mohand Idir Ait Amrane, Ekkr a mmi-s Umaziɣ, ossia "In piedi, figlio di Amazigh!". Presso i Tuareg la pronuncia di Imazighen è Imuhaɣ (con numerose varianti locali), termine che indica i nobili in contrapposizione al resto della società, che comprende i vassalli, i servi, i liberti, i religiosi e gli artigiani. Si noterà infine che nella lingua dei Berberi di Gourara, nell'Algeria meridionale, Dio è chiamano Amaziɣ, ossia "Il Libero"

Bibliografia:

1) Paul Provotelle (1911), Etude sur la tamazir't ou zénatia de Qalaât Es-Sened, Parigi (E. Leroux) 

2) Francesco Beguinot (1941), Il Berbero Nefûsi di Fassâṭo, Roma (Istituto per l'Oriente)  

3) Tommaso Sarnelli (1957), "Sull'origine del nome Imazighen", in Mémorial André Basset, Parigi (A. Maisonneuve)  

4) Esteban Ibañez (1959), Diccionario español-senhayi (dialecto bereber de Senhaya de Serair), Madrid (Cons. Sup. Inv. Científicas)  

5) Salem Chaker (1995), "Amaziɣ, '(le/un) Berbère', in S.Ch., Linguistique berbère. Etudes de syntaxe et de diachronie, Parigi-Lovanio (Peeters) 

Per maggiori informazioni rimando al sito dell'Encyclopédie Berbère, che tra l'altro a pagina 2465 riporta una mappa molto interessante con le aree di diffusione dell'endoetnico in questione.


Gli Imazighen nell'Antichità 

L'etnonimo Amazigh è ben attestato nell'antichità in documenti in lingua latina e in lingua greca. Le forme a noi trasmesse sono molteplici. Abbiamo forme plurali come Maxyes in Erodoto, Mazyes in Ecateo, Mazikes in Tolomeo. Gli autori di lingua latina ci testimoniano oltre alle varianti plurali Mazices, Mazaces, Mazazaces, anche forme singolari spesso usate come collettivi e non sempre assimilate alla morfologia della lingua di Roma: Mazax, Mazix, Mazic, Mazica, Mazicat, etc. Questo è quanto riportato nel dizionario online sul sito perseus.tufts.edu


MAZICES
Eth. MAZICES (Μάζικες, Ptol. 4.2.19; Eth. Mazax, Lucan 4.681; Claudian, Stil. 1.356), a people of Mauretania Caesariensis, who joined in the revolt of Firmus, but submitted to Theodosius, A.D. 373. (Amm. Marc. 29.5.17; Le Beau, Bas Empire, vol. iii. p. 471; comp. Gibbon, c. xxv.)
 

Si possono aggiungere le seguenti citazioni scelte:

"Gentes Mazices multas"
(Etico Istro, Cosmographia, vedi Riese, Geographi Latini minores, pag. 88)


"Ubi aiunt in minima parte ipsius deserti habitare barbarorum paucam gentem, quae sic uocatur Mazicum et Aethiopum." 
(Expositio totius mundi, vedi Riese, Geographi Latini minores, pag. 123)


"Cumque errantes eos per deserta, et deficientes iam fame, conspexissent a longe Mazices, quae gens cunctis nationibus immanior atque crudelior est: non eos ad effusionem sanguinis desiderium praedae sed sola ferocitas mentis instigat."
(Giovanni Cassiano, in Patrologiae cursus completus, De vitis patrum, Liber IV, Caput XLIV)

"Pridie nonas martias in Numidia apud Mazacos concilium Numidiarum episcoporum fuit."
(Agostino, Epistulae ad Romanos, Epistola 22).

L'antica consonante /k/ si è evoluta in una fricativa velare sonora /ɣ/ nelle lingue berbere moderne, in modo del tutto regolare. Così la parola latina causa ha assunto l'articolo femminile ta- e si è evoluta in taghawsa /ta'ɣausa/ "cosa". L'assenza del prefisso a- nelle forme antiche come Mazices non stupisce affatto, dato che si tratta di un semplice articolo maschile. Si prova così che l'antico Mazices con le sue varianti è perfettamente compatibile col moderno Amazigh, Imazighen, etc.

Coloro che affermano la pronuncia ecclesiastica del latino ab aeterno, non possono in alcun modo spiegare le forme usate dagli autori antichi per designare i Mazices della Numidia. Se infatti in latino la lettera c davanti a vocale anteriore e avesse per necessità reso un suono palatale (postalveolare) /tʃ/, non sarebbe mai stata usata per trascrivere un suono /k/ senza dubbio occlusivo. Vediamo così che i casi retti del plurale Mazices sono scritti con la stessa lettera usata per il genitivo Mazicum, l'uso di c è indipendente dal contesto (vi è persino la forma singolare Mazic). Se il suono /tʃ/ fosse stato usato in Cicero e in Caesar, come sostengono i nostri avversari, gli autori avrebbero usato unicamente trascrizioni come Mazikes, *Maziches o *Maziqes (non ho trovato attestazioni delle ultime due).

lunedì 8 maggio 2017

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: DUMECTA SCRITTO DUMECITA PER DUMETA

Queste informazioni sono riportate nel manuale del Grandgent, Introduzione allo studio del latino volgare (pag. 148, par. 266):

266. Kt in alcune parti d'Italia si assimilò in tt verso l'inizio del quarto secolo, nel mezzogiorno già fin dal primo secolo: FATA, OTOGENTOS, a Pompei, Lat. Spr., 476; AVTOR, LATTVCÆ (301 d.C.), OTOBRIS (380 d.C.), PRÆFETTO, ecc. S., 348; App. Pr., "auctor non autor"; Festo, "dumecta antiqui quasi dumecita appellabant quæ nos dumeta. S., 348.

Per chi abbia poca familiarità con queste parole, reputo necessario specificare che dumeta è il plurale di dumetum /du:me:tum/ "roveto", che in epoca antica aveva la variante dumectum /du:mektum/. Questo è quanto riporta il dizionario online Olivetti alla voce dumetum

1 pruneto, roveto
2 (in senso figurato) asperità, faccenda spinosa

L'origine ultima della parola è dumus /'du:mus/ "rovo, spino", di cui sono note anche le varianti arcaizzanti dusmus e dusimus, dal latino antico *dusmos, di origine ultima sconosciuta - per quanto molti accademici giurino e spergiurino che la radice è la stessa di de:nsus "denso", a dispetto delle insormontabili difficoltà fonetiche.

Risulta evidente che il (quasi) dumecita citato da Festo è una trascrizione di /du:'mekəta/ e che non può in nessun modo avere un suono palatale trascritto con la lettera c, dal momento che sarebbe una cosa completamente fuori dal contesto. È chiarissimo cosa intese scrivere Festo dicendo che dumecta suonava quasi come dumecita: esisteva una vocale impercettibile, che i linguisti moderni chiamano Schwa, che separava il suono occlusivo velare /k/ dalla seguente occlusiva dentale /t/.

Appurato questo, se la lettera c fosse stata usata per trascrivere un suono palatale all'epoca in cui Festo scrisse, egli avrebbe utilizzato un altro grafema per esprimere lo scontro da /k/ e /t/. Avrebbe ad esempio usato la lettera k, la lettera q oppure il digramma ch, cosa che non è. Dovendo trascrivere /du:'mekəta/ egli ha usato dumecita senza esitazione alcuna. Non ha riportato *dumekita, *dumeqita o *dumechita. Non ha neppure pensato di usare *dumecuta con una vocale intrusiva -u- per rendere chiaro il suono trascritto dalla lettera c. Questo argomento, seppur breve e semplicissimo, è di una potenza micidiale e basterebbe già da solo per abbattere gli sproloqui dei nostri avversari.