sabato 30 maggio 2015


ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA
FINE DELLA BLOGOSFERA

I blog sono sempre più in uno stato comatoso, hanno perso ogni vitalità e non sono capaci di apportare allo stato delle cose alcun mutamento significativo. Inutile sperare che da un blog giungano le parole di un nuovo Bodhisattva o del Messia. Non a caso Bruce Sterling nel 2007 ha preconizzato l'estinzione della blogosfera entro una decina di anni. Penso che le sue parole fossero profetiche: andando avanti di questo passo, nel 2017 nessuno si arrischierà più a pubblicare nel Web anche soltanto post sulla diarrea del proprio gatto. Le condizioni in cui languono i diari online è paragonabile a quella di un uomo agonizzante in preda ai rantoli e alla demenza terminale. E allora perché, per le budella di Satana, il mondo politico fa di tutto, dico di tutto, per annientarli?! Tutti i tentativi - che vengano dal fronte della diffamazione, della pubblicazione delle intercettazioni, del copyright o della privacy - equivalgono dal punto di vista etico all'usare sodomia a un vecchio sul letto di morte. Chiunque proponga inique regolamentazioni e minacci multe draconiane è moralmente assimilabile a un novello Jimmy Savile, che infierisce sui poveri sbudellandoli per assicurare ai potenti nuove notti di orge e di cocaina. È proprio così, ognuno di loro ha la stessa responsabilità di un piccolo Jimmy, di un predatore da obitorio, di un profanatore di tombe.

sabato 23 maggio 2015

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: CUPRESSUS E CYPRESSUS

Al greco κυπάρισσος "cipresso" corrisponde in latino la parola cupressus, che è da tutti pronunciata con il suono velare (ossia "duro"), anche dai sostenitori della pronuncia ecclesiastica. In italiano la parola "cipresso" ha invece un suono palatale (ossia "molle"), che contrasta in modo netto con latino cupressus.

Una variante cypressus comincia ad apparire soltanto nel latino tardo, ed è questo l'antenato della parola italiana, che ha evoluto un suono palatale a causa della vocale anteriore /i/, scritta con la lettera y.

Questo prova che la parola non può avere avuto un suono palatale da sempre - scontrandosi con la certezza di un suono velare in cupressus. Quindi il suono palatale si è sviluppato tardi a partire dalla variante con vocale anteriore, cypressus.

A proposito dell'etimologia della parola greca κυπάρισσος, si comprende che deve essere un prestito da un sostrato pre-greco. L'origine ultima di questo fitonimo è a mio parere semitica, basti confrontare questa radice con il vocabolo ebraico גפר gopher, che è usato per indicare l'albero dal cui legno Noè avrebbe costruito l'Arca. Anche in alcune lingue caucasiche nordorientali esiste un fitonimo dall'apparenza simile, che pure indica una specie del tutto diversa (Avaro ʁaráš, Lezghi q:ibriš "uva spina", etc.).

Sul fatto che la parola greca sia giunta in latino tramite l'etrusco, possiamo citare un nominativo che lo confermerebbe: Annia Cupressenia Herennia Etruscilla. Vediamo che Cupressenia è formato tramite un caratteristico suffisso aggettivale etrusco. Possiamo così ricostruire etrusco *cuprese (> cupressus), donde l'aggettivo *cupres-na (> Cupressenius).

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: GIBBUS E *GUBBUS

Alla parola italiana gobbo corrisponde in latino il vocabolo gibbus. Questo termine è rientrato nella lingua dei dotti come gibbo, donde ad esempio deriva il nome del gibbone, grossa scimmia ben nota agli etologi per le sue pratiche incestuose.

Appurato che italiano gobbo e latino gibbus hanno la stessa identica origine dal greco κυφός, vediamo che deve essere esistita una variante *gubbus. È proprio questa variante *gubbus ad aver dato la forma italiana, con regolare evoluzione della /u/ breve in /o/, dapprima chiusa e successivamente aperta /ɔ/. Ancora in epoca romana la parola greca κυφός aveva nella lingua colta una pronuncia /ky:'phos/ con vocale bemollizzata, ed è stata adattata come gibbus, con ogni probabilità tramite un intermediario etrusco, che potremmo ricostruire come *ciφe /'kiphə/ o *cuφe /'kuphə/.

È plausibile che la variante *gubbus riflettesse un diverso adattamento della parola greca in etrusco, anziché una variante dorica con /u/ non bemollizzata. Nell'adattamento delle parole etrusche in latino spesso si trovano occlusive sonore per rendere occlusive sorde e anche occlusive aspirate, come provato da numerosissimi esempi che avremo modo di discutere in altre occasioni. Una cosa è certa: se la parola fosse giunta in latino direttamente dal greco, avrebbe avuto una forma molto diversa.

In ogni caso vediamo che il latino gibbus non può aver avuto una pronuncia palatale della g- ab aeterno, perché tale suono non avrebbe la benché minima raison d'être nel contesto in cui la parola è entrata nella lingua. Niente gibboni romani, insomma, sarebbero qualcosa di insulso.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: GG PER NG, GC PER NC

È risaputo che i Greci scrivevano la consonante nasale velare [ŋ] ricorrente davanti a /k/, /g/, /kh/ usando il carattere γ. Così si hanno le sequenze γγ [ŋg],  γκ [ŋk] e γχ [ŋkh]. Questa nasale era chiamata dai grammatici ἄγμα /'agma/.        

Accio propose di seguire l'esempio dei Greci e di esprimere questo suono gutturale in latino usando la lettera g anziché n: aggulus per angulus; aggens per angens; iggerunt per ingerunt; agceps per anceps. Questa è la citazione tratta da Varrone:

Ut Ion scribit, quinta vicesima est litera, quam vocant agma, cuius forma nulla est, et vox communis est Graecis et Latinis, ut his verbis: 'aggulus', 'aggens', 'agguila', 'iggerunt.' in eiusmodi Graeci et Accius noster bina g scribunt, alii n et g, quod in hoc veritatem videre facile non est. Similiter 'agceps', 'agcora.'
(Varro ap. Prisc. i. p. 30 H.)

È evidente che se fossero esistiti suoni palatali seguiti da vocale anteriore in parole come angens, ingerunt, anceps - come i nostri avversari sostengono - la proposta di scrivere la nasale come -g- non sarebbe mai potuta sussistere, perché la presenza di una nasale velare prima di suoni affricati sarebbe a dir poco assurda e senza fondamento.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: CANDELA E CICINDELA

Il termine latino cicindela "lucciola", è evidentemente un reduplicativo costruito a partire da candela. La base è in ultima analisi la radice *kand-, indicante lo splendore e presente anche nel ben noto candidus.

Come è stato possibile avere un simile mutamento nella vocale? Semplice: si è partiti da una reduplicazione *ke-kand-, poi assimilata in *ke-kend-. La parola è infine divenuta ci-cind-ela quando già l'accento si era fissato sulla vocale lunga del suffisso.

Per quanto nella pronuncia ecclesiastica italica di questo termine si abbia un'affricata (consonante "molle"), è chiaro che in origine il suono doveva essere velare (consonante "dura"), perché questo ci dice l'etimologia - che non è un'opinione. Così si vede che l'ecclesiastico /čičin'dela/ è successivo al classico /ki'kinde:la/.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: AUDIO E OBOEDIO

A tutti è ben noto il verbo italiano obbedire, variante ubbidire. Da dove deriva questa voce? Semplice, è dal verbo latino oboedio, oboedis, oboedivi, oboeditum, oboedire, scritto col dittongo -oe-.

I nostri avversari vorrebbero che tale dittongo fosse sempre e comunque meramente grafico, e questo fin dai tempi di Romolo e Remo. Abbiamo già dimostrato con ottimi argomenti che questo non è possibile, ma vediamo di fornire una prova in più proprio a partire dall'etimologia di oboedio.

Anche se a scuola non insegnano ad indagare l'origine delle parole, dirò questo: dovrebbe essere a tutti evidente che il verbo in questione deriva dal prefisso ob- (confronta la preposizione ob "verso; davanti a; a causa di") e dal verbo audio, audis, audivi, auditum, audire "udire". Come mai allora si trova un dittongo -oe-? Semplice, perché si è partiti dalla forma arcaica *ob-audio, e attraverso un indebolimento su è giunti ad *ob-oudio. A questo punto la sequenza -ou- + -i- si è evoluta in -oi- + -i- per assimilazione, generando in epoca successiva il dittongo -oe-. L'origine del verbo obbedire si sintetizza così:

oboedio < *ob-oidio < *ob-oudio < *ob-audio 

Questo dimostra che il dittongo -oe-, naturale evoluzione di -oi-, non può essere stata una semplice notazione grafica per /e/ in questa parola. La futile idea della pronuncia ecclesiastica italica vigente sin dal Paleolitico si scontra in infinite occasioni con la stessa realtà dei fatti, in quanto è incapace di rendere conto dell'etimologia di importanti parole.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LA NEGAZIONE NOENUM HA DATO ORIGINE A NON

L'antica negazione *ne-oinom, alla lettera "non uno", ha dato dapprima *noinom e quindi noenum (quest'ultima forma è ben attestata). Da noenum è infine derivata la forma non, a tutti ben nota. Non sarebbe stato possibile avere una pronuncia /*e/ di -oe- in noenum, visto l'esito non, con una /o:/ lunga.

Ammettere un antico dittongo -oe-, regolarmente da *oi, porta a spiegare con facilità una varietà di esiti successivi. Per contro, postulare un dittongo meramente grafico corrispondente a un suono /e/, come fanno i nostri avversari, non permette di spiegare diversi fatti innegabili. Una spiegazione che rende conto di cento dati di fatto al contempo è da preferirsi a una spiegazione che a stento rende conto di una cosa ma è incapace di spiegarne novantanove.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: IL DITTONGO SECONDARIO IN COEPI

Il verbo coepi "io inizio" (tr.), "io ho origine" (intr.), è morfologicamente un perfetto (II pers. s. coepisti, etc.), ma ha il significato di un presente. È un verbo difettivo ed anomalo, anche se è chiara la sua derivazione da coepio, coepis, coepere, di identico significato. Dal sostantivo derivato coeptum "opera intrapresa" (anche coeptus, gen. coeptus, IV decl.), deriva il causativo coepto, coeptas, coeptavi, coeptatum, coeptare "iniziare, intraprendere" (tr.), "cominciare, avere inizio" (intr.). L'origine dei vocaboli in questione non è misteriosa: 

coepi < *kom-apei
coepio < *kom-apio:
coeptum < *kom-aptom
coeptus < *kom-aptus
coepto < *kom-apto:

La base di queste forme è la stessa radice del verbo apio, apis, apere "allacciare, legare" con il derivato aptus "legato, connesso, associato, unito; pronto" (donde le parole italiane atto (agg.), adatto) e di apto, aptas, aptavi, aptatum, aptare "adattare, preparare" (donde l'italiano riattare). Cos'è successo nel corso dei secoli durante la fase che dal latino arcaico ha portato al latino classico? Semplice: la vocale -a- si è indebolita in -e-, poi si è formato un dittongo secondario. Nella pronuncia ecclesiastica queste forme hanno /če-/: /'čepjo/ e /'čepto/. È evidente che la pronuncia ecclesiastica si è generata senza tenere conto dell'origine delle parole e che non spiega in alcun modo la loro formazione.

sabato 16 maggio 2015

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULL'ETIMOLOGIA DI CANNETO DI CARONIA

Si è appurato che i fuochi che divampavano a Canneto di Caronia, in Sicilia, erano un imbroglio ovvero il prodotto delle macchinazioni e degli artifizi di un sofisticato piromane. Per molto tempo il fenomeno ha tenuto in scacco la comunità scientifica, al punto che molti vedevano con favore una spiegazione soprannaturale. In particolare si segnala l'opinione di padre Gabriele Amorth, che attribuiva gli incendi alla supposta abitudine dei paesani di partecipare a riti satanici. Se la memoria non m'inganna, a parer suo le offerte di pane con mandorle seguendo un antico rito pagano sarebbero state in grado di materializzare dal nulla lingue di fuoco infernale. Alla luce dei fatti, simili affermazioni si sono rivelate inconsistenti. Resta in ogni caso una singolare coincidenza etimologica che non mi era sfuggita già all'epoca.

Così scrivevo qualche anno fa (10/11/2007) sul blog Esilio a Mordor:

L'inquietante fenomeno dei incendi spontanei occorsi a Caronia ha fatto strepitare giornalisti, scienziati ed esorcisti. Nessuno sembra però aver notato un fatto singolare: il nome Caronia è di origine greca e significa senza dubbio LUOGO DI CARONTE. Dovrebbe così essere chiaro a tutti che già nell'antichità quel sito era ritenuto un ingresso del Mondo Infero. Riporto la definizione del termine, tratta da un ottimo dizionario online

Chârôn-ios (later Chârôn-eios), on, A. of or belonging to Charon: hence, 1. Ch. thyra the gate through which criminals were led to execution, Zen. 6.41, Suid.; also Charônion, to, Poll. 8.102, Hsch. 2. Ch. klimakes, a staircase in the theatre, leading up to the stage as if from the underworld, by which ghosts entered, Poll. 4.132. 3. charônia, ta, caverns filled with mephitic vapours, being looked on as entrances to the nether world, Str. 12.8.17; sg., Id. 14.1.11,44: charônêïa, prob. in Aret. SA1.7; in full, charôneia barathra Gal. 17 (1).10; ch. chôria Id. 15.117.

Si sorvoli sulle fittissime citazioni di autori, non sono necessarie per la comprensione del concetto. Riporto una traduzione per chi non conoscesse l'inglese:

Chârôn-ios (tardo Chârôn-eios), -on, A. appartenente a Caronte: da cui, 1. Ch. thyra, il cancello attraverso il quale i criminali erano condotti all'esecuzione, Zen. 6.41, Suid.; anche Charônion, to, Poll.8.102, Hsch. 2. Ch. klimakes, una scala nel teatro, che conduce al palcoscenico come se salisse dal mondo infero, attraverso la quale fanno il loro ingresso i fantasmi, Poll. 4.132. 3. charônia, ta, caverne piene di vapori mefitici, viste come l'entrata del mondo infero, Str. 12.8.17; sg., Id. 14.1.11,44: charônêïa, prob. in Aret. SA1.7; in forma completa, charôneia barathra Gal. 17 (1).10; ch. chôria Id. 15.117. 

CHARONEIA BARATHRA significa ABISSI DI CARONTE. 

domenica 10 maggio 2015


LA MOSTRA DELLE ATROCITÀ
di James G. Ballard
Recensione di 7di9

Pubblicato in Italia nel 1992, e quindi con notevole ritardo rispetto all'anno di uscita dell'edizione originale risalente al 1969, La mostra delle atrocità è una conferma dell'intento profondamente analitico di cui è portavoce James G. Ballard, autore forse tra i più rappresentativi di quel filone letterario fantascientifico che predilige l’analisi sociologica dell’interazione tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda alla mera creazione di mondi alternativi rispetto alla normalità, alieni.
Il romanzo è diviso in quindici capitoli, ciascuno composto da varie sezioni, più un’appendice, costituita da cinque racconti, e aggiunta dall’autore successivamente alla pubblicazione della prima edizione. Ogni capitolo può essere letto come un racconto a sé stante, essendo l'intero romanzo un puzzle di frammenti tra loro incastrati e legati, nonostante la specifica e relativa autonomia che distingue i singoli passi. Come frattali, i passi sviluppano tematiche che possono essere rintracciate con continuità in tutto il romanzo. La mostra delle atrocità è principalmente – ma non esclusivamente – la storia di un uomo, il cui nome varia in ogni capitolo, anche se mantiene la T iniziale (Travis, Talbot… Molteplicità che rappresenta le diverse fasi del suo io) e del suo rapporto con la realtà,vista in particolare in quei elementi che in un qualche modo sono connessi alla sessualità e al modo in cui essa viene alterata dagli eventi, biologici e non – in particolare massmediatici – che la investono.
Ma La mostra delle atrocità non è una semplice opera di fantasia. E’ anche, e potremmo dire soprattutto, un romanzo tendenzialmente autobiografico. Come simbionti, i ricordi e l'esperienza biografica di Ballard si mescolano al plot, alternandosi in maniera omogenea al flusso narrativo,creando un'interessante ed equilibrato – e volutamente fuorviante – effetto di estraneità. L'autore sembra quasi voler ricoprire due ruoli: interprete del proprio processo creativo – e quindi non solo scrittore, ma anche esegeta del proprio testo – e allo stesso tempo reale protagonista della storia, “anima” nascosta dietro le maschere indossate dai vari personaggi che la popolano. Ne emerge una lettura estremamente complessa, stratificata. Di fatto fortemente coinvolgente, poiché soddisfa, per mezzo del suo carico di note esplicative e spiegazioni – scientificamente fondate o del tutto inventate – la profonda curiosità, spesso latente, di chi legge.
Ballard sembra quasi voler divenire egli stesso cavia della sua tesi sociologica. Voler dimostrare come la psiche del cittadino moderno – e in particolare la sfera riguardante le sue pulsioni sessuali 1 – sia ormai divenuta un'estensione della società circostante, dei media, della tecnologia, del parco giochi costituito da quella che è l’attuale (del suo tempo come del nostro) società postindustriale. Per supportare questa prospettiva, Ballard viviseziona la propria personalità attraverso un’attenta e minuziosa autopsia dei personaggi del romanzo, elencando, come in una dettagliatissima cartella clinica, l'insieme dei processi psicologici e associativi che lo hanno portato alla stesura delle varie parti della storia, spesso anche facendo ricorso a veri e propri interventi di autoanalisi, ora puramente letteraria, ora invece psichiatrica. L'autore si fa rappresentante di quella stessa realtà sociale che ha deciso di analizzare, come in un processo di identificazione tra paziente e medico.
In generale, il romanzo può essere analizzato attraverso l'enucleazione di tre elementi fondamentali: la memoria dell'autore (nella quale è bene far confluire anche il carico delle variabili esterne: le vite private dei personaggi dello spettacolo che ne hanno influenzato l’immaginario sessuale e non, i fenomeni mediatici ecc.), il processo creativo (apparentemente unico spazio veramente libero concesso a chi scrive: a chi vive?) e il romanzo stesso, l'ibrido finale scaturente dalla fusione dei primi due elementi, “mostra delle atrocità” della quale si è in fin dei conti semplici spettatori e protagonisti solo parziali.
Da un punto di vista della storia della letteratura, appare evidente come l'intero percorso di costruzione del romanzo di Ballard costituisca una cesura rispetto ai canoni del romanzo dei primi anni del novecento, il cosiddetto romanzo moderno, la cui linearità e chiarezza diegetica lo differenziano radicalmente dall'estetica postmoderna abilmente sublimata ne La mostra delle atrocità. Non più la semplice narrazione, l'invenzione fine a se stessa, ma anche, e soprattutto,l'indagine attenta, vera – o almeno verosimile – dei processi che conducono alla creazione, alla selezione delle componenti “altre” rispetto al processo meramente letterario – stimoli biografici, curiosità, eventi storici, sapere tecnico e così via – che per mezzo della penna dello scrittore confluiscono in maniera voluta e tangibile nella sua psiche. Se in sintesi è questo il nucleo della poetica postmoderna, allora La mostra delle atrocità ne è un illustre ed esemplare rappresentante. A tal proposito però, è necessario un distinguo nell'analisi del confronto tra l'opera di Ballard e l'antro letterario dal quale questa è emersa. Se infatti il citazionismo (sia letterario che di altra natura) si pone come ingranaggio centrale delle letteratura definita dal postmodernismo, nel romanzo di Ballard esso supera il suo significato stretto, divenendo dichiarazione espressa, dunque esso stesso romanzo, oltre che strumento di sovrapposizione tra la vita dell'autore e il plot, tra le impressioni –spesso contingenti e slacciate da quello che potrebbe costituire un unicum letterario – e le necessità strutturali della narrazione. 2
Lo stile di Ballard è impeccabile. La prosa risulta fluida, di altissimo livello, elegante, sia da un punto di vista strettamente sintattico che di gestione del periodo. L'autore, inoltre, attingendo dalla sua esperienza di studente di medicina, ricorre spesso all'uso di termini appartenenti a questo specifico campo del sapere. Nel pieno rispetto della tesi sopra sostenuta, avviene che la scrittura risulta irrimediabilmente contaminata dalla cultura personale dello scrittore, dalla sua stessa vita,che è messa a nudo nella sua totalità. La scelta stilistica descritta appare pienamente condivisibile, anche alla luce dell'intento decostruttivo del romanzo stesso: le architetture, i corpi, sono sezionati nelle loro componenti di base, quasi fossero oggetti da laboratorio, vittime di un intervento di chirurgia sintattica, oltre che riflessiva. Ballard pone sotto il suo sguardo attento – ma sempre soggettivo – la complessità del mondo che lo circonda, nel quale vive, decostruendola attraverso un sistema che potrebbe risultare paradossale: il caos letterario, che nella sua pur (illusoria) non-linearità, costituisce concretamente un museo di quella che è la realtà attuale, una mostra di efferatezze “alla quale i pazienti” non sono stati invitati e che presenta “un segno inquietante: tutti i temi” insistono “sul tema della catastrofe planetaria”. 3 

1 Scrive William S. Burroughs nella prefazione al romanzo "[...] le radici non sessuali della sessualità".  
2 Esempio pregevole di questo tipo di letteratura è dato certamente da Thomas Pynchon, manipolatore colto del genere del pastiche e della contaminazione, degli stili letterari così come dei vari settori del sapere.
3 Citazioni tratte del primo capitolo del romanzo, intitolato La mostra delle atrocità