giovedì 4 giugno 2015


PIANETA TERRA: ANNO ZERO

Titolo originale: 日本沈没, Nihon chinbotsu
Titoli americani: The Submersion of Japan;
  Tidal Wave
Lingua originale: giapponese
Paese di produzione: Giappone
Anno: 1973
Durata: 140 min
Colore: colore
Audio: sonoro
Genere: fantascienza
Regia: Shirō Moritani
Soggetto: Sakyō Komatsu (romanzo)
Sceneggiatura: Shinobu Hashimoto
Effetti speciali: Teroyoshi Nakano
Casa di produzione: Toho Company
Musiche: Masaru Satō
Interpreti e personaggi:
  Hiroshi Fujioka: Onodera Toshio 
  Ayumi Ishida: Abe Reiko  
  Keiju Kobayashi: Professor Tadokoro 
  Tetsuro Tanba: Primo Ministro Yamamoto
  Rhonda Leigh Hopkins: Fran
  Lorne Greene: Ambasciatore Warren Richards 
  Shogo Shimada: Watari
  John Fujioka: Narita
  Andrew Hughes: Primo Ministro australiano
  Nobuo Nakamura: Ambascatore del Giappone
  Haruo Nakajima: Autista del Primo Ministro
  Hideaki Nitani: Dottor Nakata
  Hitsao Natsuyagi: Yuki
  Yusuke Takita: Professore assistente Yukinaga

Trama e recensione (da Fantafilm.net):

A bordo di un sottomarino alcuni scienziati, studiando il comportamento di una immensa faglia sui fondali delle isole giapponesi, si rendono conto che è imminente uno sconvolgimento sismico di portata colossale. Nessuno crede alle loro voci allarmate e quando cominciano a verificarsi terremoti di intensità inaudita è ormai troppo tardi per effettuare l'evacuazione del paese. Una formidabile serie di eruzioni sprofonda il Giappone negli abissi marini.

Pur appartenendo propriamente al filone catastrofico, il film è spesso considerato una drammatica metafora fantapolitica dei difficili rapporti tra il Giappone e l'Occidente. Non a caso nel corso della vicenda il Giappone si ritrova da solo ad affrontare l'emergenza, un po' per la superficialità dei suoi governanti, ma anche per il rifiuto del mondo occidentale ad accogliere l'ipotesi di ospitare una straripante massa di profughi. L'incubo della catastrofe che da sempre accompagna la produzione cinematografica giapponese, stavolta, è interpretato in chiave più tragica poichè non risolto con la finzione dei vari Godzilla, ma proiettato in uno scenario apocalittico nel quale l'identità culturale isolazionistica orgogliosamente e fedelmente ribadita si frantuma senza speranza. Distribuito in America, il film fu ampiamente sforbiciato fino a durare 90 dei 140 minuti originari e - secondo una prassi non nuova - integrato con sequenze interpretate da Lorne Greene e filmate dal regista Andrew Meyer.

Aggiungo alcune mie riflessioni: 

Uno dei primi film di fantascienza che ho visto, all'epoca ero ancora uno scolaretto. Mi ha lasciato profondamente turbato, perché in pochi attimi ha squarciato il guscio di quotidiana tranquillità in cui ero rinchiuso nella mia esistenza larvale. In particolare qualcosa è cambiato in me quando alla fine del film - e non posso evitare lo spoiler - si annunciava una notizia che all'epoca ho ritenuto spaventosa: il catastrofico processo tettonico che aveva annientato il Giappone si sarebbe esteso all'intero pianeta, trasformandolo in una distesa di acqua senza alcuna terra emersa. Questo ha innescato in me una consapevolezza nettissima dell'incombente distruzione del mondo da me conosciuto e dell'intero genere umano. Un percorso senza ritorno: si capisce che non si può dar nulla per scontato e che l'ordine cosmico in cui tutti viviamo è posticcio, può venir meno da un istante all'altro, in modo irreversibile, come una maschera che si stacca da un fantoccio, come un fuscello spazzato via da uno tsunami. A distanza di tanti anni, la natura profetica di questo film è sotto gli occhi di tutti. 

Suicidio etnico  

Riguardando il film in tempi recenti, dopo molti cicli solari dall'epoca in cui frequentavo la scuola media, sono rimasto colpito da un particolare che era stato cancellato dai mei banchi di memoria stagnante. Credo che questa rimozione chirurgica sia stata provocata dell'orrore eccessivo che le informazioni ricevute avevano causato in me, anche se ero solo un moccioso. Passo a descrivere le sequenze in questione. Il Giappone è condannato, sta rovinando e presto sarà inghiottito dalle acque. Le città bruciano e la popolazione è in via di evacuazione, ma resta un anziano nella sua casa simile a un tempio shintoista, in un distretto montuoso e difficilmente accessibile. Il saggio si rifiuta di abbandonare la sua terra natia, ben consapevole della sua prossima fine. Questo è il dialogo che ha con il protagonista, il professor Tadokoro, e con i suoi compagni: 

Maestro:
- Così dovremo dare un addio ai laghi e alle dolci montagne del Giappone. Che cosa abbiamo fatto per meritare questo castigo? Dimmi, Tadokoro, perché una così grave sciagura si deve abbattere sul nostro Paese? 


Discepolo:
- Non lo so, Maestro, ma so che la Scienza è impotente di fronte a cataclismi di questo genere. Non possiamo fare altro che restare a guardare, aspettare la fine del nostro popolo, aspettare la nostra ora.   

 
Discepolo:
- Maestro, è inutile farsi delle illusioni. Ora è il momento di agire. Dobbiamo pensare alla salvezza della nostra gente.

Maestro:
- E delle nostre tradizioni.

Discepolo:
- Già. 

 
Maestro:
- Solamente se la nostra gente non sarà dispersa. Solo se potremo concentrare il nostro popolo in un unico territorio potremo salvarle. La nostra poesia, la nostra filosofia, non devono morire in questo cataclisma. 

 
Discepolo:
- Purtroppo le cose non sono così semplici. Il nostro popolo supera i 100 milioni. Capisce? Nessun continente è in grado di ospitare tanta gente. Il governo è orientato a chiedere alle altre nazioni di ospitare la nostra gente a piccoli gruppi. 

 
Maestro:
- Se è così, è davvero la Fine, signori. 


L'anziano saggio ha ancora l'illusione di poter impedire che la cultura giapponese possa essere salvata, ma presto il procedere degli eventi calamitosi lo induce ad abbracciare l'Estinzione. All'inizio egli credeva che potesse esistere un nesso di causa-effetto tra il popolo del Giappone e la catastrofe, qualcosa di razionalmente comprensibile. Di fronte alla portata degli eventi, questa illusione si dilegua, sostituita dalla consapevolezza della colpa ontologica. Le tradizioni nipponiche, la lingua peculiare di quella nazione gloriosa, sono legate indissolubilmente all'esistenza fisica del Paese delle Montagne, Yamato, con i suoi kami, le sue divinità. Se Yamato sprofonda nelle acque, sbriciolato dai terremoti, allora la stessa identità della sua gente deve per necessità perire. Ecco un secondo dialogo - il testamento del Maestro - più breve della conversazone sopra riportata, ma ben più terribile:

Discepolo:
- Addio, Maestro! 

 
Maestro:
- Addio. Il nostro compito è finito. Il nostro popolo non esiste più. La prego, insegni ai giapponesi sparsi in tutto il mondo il rispetto per le leggi e i costumi dei popoli che li hanno ospitati e che si integrino. Bisogna evitare che formino dei gruppi etnici separati dagli altri: sarebbe una disgrazia più grande di quella che è loro capitata. 


La perdita di una lingua e di una cultura è una tragedia per ogni gruppo umano. L'idea stessa che un popolo possa ridursi a gruppuscoli di esuli simili a fantasmi, incapaci di ricordare la loro stessa essenza passata, mi riempie di sgomento e mi fa rabbrividire. Trovo che sarebbe preferibile di gran lunga il totale annientamento fisico a una simile sopravvivenza spettrale.

sabato 30 maggio 2015

POSSIBILI STRATIFICAZIONI LESSICALI NELLA LINGUA KLINGON

Premesso che non sono un trekker (non condivido il culto del futuro archeologico di quella setta), pongo l'attenzione su un'interessantissima questione sollevata in Facebook da Lukha Kremo Baroncinij sulla natura della lingua dei Klingon:

"L'idea stessa della lingua Klingon è ingenua, la lingua è il risultato fonetico di una cultura stratificata, che pure l'esperanto ha."

A parer mio le stratificazioni culturali si riflettono direttamente in stratificazioni lessicali. In una lingua le stratificazioni del vocabolario sono infatti dovute a molteplici influenze da parte di altre lingue, occorse in diversi periodi storici. Oltre alle parole ereditate per via diretta e ininterrotta fin dalle origini della lingua, esistono elementi di vario genere:

1) parole di sostrato, dovute a lingue preesistenti;  
2) parole di superstrato, dovute a lingue di popoli dominatori;
3) parole di adstrato, dovute a lingue di popoli vicini o comunque interagenti;
4) parole erranti (Wanderwörter), dovute a influenze culturali e commerciali a distanza, anche senza contatto diretto tra popoli;
5) dottismi, dovuti a lingue dotate di prestigio culturale e usate a scopi religiosi, letterari o scientifici.

Ad esempio, nella lingua italiana mettiamo in evidenza varie stratificazioni:

I - lessico ereditato dal latino volgare e dottismi reintrodotti:
a) vocaboli di origine latina presi dall'etrusco, volgari e dotti: mondo, persona, satellite, milite, etc.;
b) vocaboli di origine latina presi da lingue italiche: bue, lupo, scrofa, etc.;
c) vocaboli di origine latina presi da lingue celtiche: carro, camicia, allodola, salmone, cervogia, etc.;
d) vocaboli di origine latina presi dal greco, anche attraverso un intermediario etrusco: oliva, mandorla, cima, àncora, etc.;
e) elementi introdotti direttamente dal latino e dal greco nella lingua letteraria: floreale, diabolico, taurino, ecclestiastico, plumbeo, aureo, vigilia, quadrivio, bellico, puerile, poetico, nautico, filosofia, etc.;  f) altro.

II - prestiti da lingue diverse a partire dal latino tardo:
a) elementi di sostrato provenienti da lingue locali preromane, indoeuropee e non indoeuropee (lingue italiche, ligure, etrusco, etc.):
bifolco, debbio, lampone, faraglione, farfalla, gora, etc.;
b) elementi di superstrato gotico e longobardo: bega, tacca; zacchera, zaino, strozza, arraffare, trincare, strale, etc.;
c) elementi di adstrato arabo: algebra, tara, tariffa, cifra, zero, cotone, etc.;
d) elementi di adstrato francese, assimilati e non assimilati: comodino, beige, purè, abat-jour, garage, etc.;  
e) strati di vocabolario di origine inglese, soprattutto culturale e tecnico: film, manager, computer, mouse, etc.;
f) altro.

Allo stesso modo possiamo analizzare il lessico della lingua inglese:

I - lessico ereditato dal germanico comune o da un suo sottogruppo (germanico occidentale):
a) vocaboli antichi privi di etimologia indoeuropea e ascrivibili a un sostrato perduto: sea, soul, blood, threshold, sheep, to drink, to help, etc.
b) vocaboli antichi presi dal celtico: lead, leather, rich, etc.
c) vocaboli antichi presi dallo scitico: path, hamster, etc.
d) vocaboli presi dal latino di epoca imperiale: wine, copper, pound, inch, etc.

II - presiti successivi da lingue diverse:
a) elementi di adstrato latino, tecnici o legati alla cristianizzazione (la cui origine ultima è spesso greca): monk, nun, bishop, chalk, cheese, etc.; 
b) elementi di sostrato celtico britannico: hog, dog, doe, coomb, dun, etc.;
c) elementi di superstrato norreno: big, black, skipper, fellow, skirt, to get, to take, to cast, to call, etc.;
d) elementi di superstrato francese (antico): cauldron, river, heir, mountain, to push, to carry, marriage, voyage, flower, etc.; 
e) elementi introdotti direttamente dal latino e dal greco nella lingua letteraria: divinity, celestial, fraternal, university, problem, system, philosophy, mathematics, geometry, physics, etc.;  
f) altro.

Chi ha inventato la lingua dei Klingon ha pensato a tutto questo? Le possibilità sono varie:

1) L'inventore del Klingoniano credeva fermamente che i Klingon avessero un'unica lingua non analizzabile, la sola parlata fin dalla più lontana preistoria;
2) L'inventore del Klingoniano credeva che i Klingon parlassero in epoca preistorica molte lingue, come i terrestri, avendole poi perdute in favore di un'unica lingua internazionale - senza ricordare nulla di tale epoca; 
3) L'inventore del Klingoniano credeva che i Klingon parlassero ancora in epoca storica diverse lingue, come i terrestri, avendole poi perdute in favore di un'unica lingua internazionale - conservando conoscenza e documenti di tale epoca, non troppo antica;  
4) L'inventore del Klingoniano credeva che i Klingon parlassero lingue diverse ancora all'epoca dei fatti narrati da Star Trek, essendo il Klingoniano a noi noto soltanto la lingua internazionale, come lo è da noi l'inglese. 

Non ho conoscenze sufficienti per rispondere, anche se mi pare possibile che l'ipotesi 1) sia la più plausibile: in genere i creatori di conlang non costruiscono culture dotate di una storia tanto articolata da tener conto di prestiti da antiche lingue scomparse. L'idea più comune - soprattutto in ambienti anglosassoni - è infatti quella della natura monolitica di ogni cultura. Come cercare la presenza di eventuali stratificazioni in lingua Klingon? È un bel problema. Innanzitutto inserisco il link a una descrizione della conlang in questione:


La descrizione fonetica fa emergere un fatto singolare: alcuni Klingoniani realizzerebbero il fonema /d/ (ossia la prenasalizzata [nd]) come /n/ e il fonema /b/ (ossia la prenasalizzata [mb]) come /m/. Non si fa però riferimento alla collocazione geografica di questi parlanti. Potrebbe trattarsi della prova di un antico sostrato?
Per quanto riguarda il vocabolario, si vede che moltissime parole sono monosillabi, come in inglese e in cinese. Difficile poter scoprire qualcosa di utile. Si dovrebbe cercare se esistono radici con più sillabe e sprovviste di una convincente etimologia a partire da radici monosillabiche: questi vocaboli sarebbero sospetti e con ogni probabilità prestiti da qualche lingua sconosciuta. Tra le parole bisillabiche più bizzarre, che non sono riuscito ad analizzare, posso citare senz'altro i seguenti sostantivi: bIghHa' "prigione", bobcho' "modulo", bortaS "vendetta", chamwI' "tecnico", chovnatlh "esemplare"DuSaQ "scuola", ghopDap "asteroide", lalDan "religione", laSvargh "fabbrica", lInDab "spionaggio", QonoS "diario", Surchem "campo di forze", teblaw' "giurisdizione", wanI' "fenomeno, occorrenza", yIvbeH "tunica". In chamwI' "tecnico" scorgo un noto suffisso agentivo -wI', ma la radice cham- è sconosciuta. Molte di queste parole sembrano appartenere al lessico culturale e tecnico, che è notoriamente soggetto a prestiti. È tuttavia ben possibile che i vocaboli in questione mi appaiano strani e non analizzabili per via della mia mancanza di esperienza con questa conlang.

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA
FINE DELLA BLOGOSFERA

I blog sono sempre più in uno stato comatoso, hanno perso ogni vitalità e non sono capaci di apportare allo stato delle cose alcun mutamento significativo. Inutile sperare che da un blog giungano le parole di un nuovo Bodhisattva o del Messia. Non a caso Bruce Sterling nel 2007 ha preconizzato l'estinzione della blogosfera entro una decina di anni. Penso che le sue parole fossero profetiche: andando avanti di questo passo, nel 2017 nessuno si arrischierà più a pubblicare nel Web anche soltanto post sulla diarrea del proprio gatto. Le condizioni in cui languono i diari online è paragonabile a quella di un uomo agonizzante in preda ai rantoli e alla demenza terminale. E allora perché, per le budella di Satana, il mondo politico fa di tutto, dico di tutto, per annientarli?! Tutti i tentativi - che vengano dal fronte della diffamazione, della pubblicazione delle intercettazioni, del copyright o della privacy - equivalgono dal punto di vista etico all'usare sodomia a un vecchio sul letto di morte. Chiunque proponga inique regolamentazioni e minacci multe draconiane è moralmente assimilabile a un novello Jimmy Savile, che infierisce sui poveri sbudellandoli per assicurare ai potenti nuove notti di orge e di cocaina. È proprio così, ognuno di loro ha la stessa responsabilità di un piccolo Jimmy, di un predatore da obitorio, di un profanatore di tombe.

sabato 23 maggio 2015

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: CUPRESSUS E CYPRESSUS

Al greco κυπάρισσος "cipresso" corrisponde in latino la parola cupressus, che è da tutti pronunciata con il suono velare (ossia "duro"), anche dai sostenitori della pronuncia ecclesiastica. In italiano la parola "cipresso" ha invece un suono palatale (ossia "molle"), che contrasta in modo netto con latino cupressus.

Una variante cypressus comincia ad apparire soltanto nel latino tardo, ed è questo l'antenato della parola italiana, che ha evoluto un suono palatale a causa della vocale anteriore /i/, scritta con la lettera y.

Questo prova che la parola non può avere avuto un suono palatale da sempre - scontrandosi con la certezza di un suono velare in cupressus. Quindi il suono palatale si è sviluppato tardi a partire dalla variante con vocale anteriore, cypressus.

A proposito dell'etimologia della parola greca κυπάρισσος, si comprende che deve essere un prestito da un sostrato pre-greco. L'origine ultima di questo fitonimo è a mio parere semitica, basti confrontare questa radice con il vocabolo ebraico גפר gopher, che è usato per indicare l'albero dal cui legno Noè avrebbe costruito l'Arca. Anche in alcune lingue caucasiche nordorientali esiste un fitonimo dall'apparenza simile, che pure indica una specie del tutto diversa (Avaro ʁaráš, Lezghi q:ibriš "uva spina", etc.).

Sul fatto che la parola greca sia giunta in latino tramite l'etrusco, possiamo citare un nominativo che lo confermerebbe: Annia Cupressenia Herennia Etruscilla. Vediamo che Cupressenia è formato tramite un caratteristico suffisso aggettivale etrusco. Possiamo così ricostruire etrusco *cuprese (> cupressus), donde l'aggettivo *cupres-na (> Cupressenius).

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: GIBBUS E *GUBBUS

Alla parola italiana gobbo corrisponde in latino il vocabolo gibbus. Questo termine è rientrato nella lingua dei dotti come gibbo, donde ad esempio deriva il nome del gibbone, grossa scimmia ben nota agli etologi per le sue pratiche incestuose.

Appurato che italiano gobbo e latino gibbus hanno la stessa identica origine dal greco κυφός, vediamo che deve essere esistita una variante *gubbus. È proprio questa variante *gubbus ad aver dato la forma italiana, con regolare evoluzione della /u/ breve in /o/, dapprima chiusa e successivamente aperta /ɔ/. Ancora in epoca romana la parola greca κυφός aveva nella lingua colta una pronuncia /ky:'phos/ con vocale bemollizzata, ed è stata adattata come gibbus, con ogni probabilità tramite un intermediario etrusco, che potremmo ricostruire come *ciφe /'kiphə/ o *cuφe /'kuphə/.

È plausibile che la variante *gubbus riflettesse un diverso adattamento della parola greca in etrusco, anziché una variante dorica con /u/ non bemollizzata. Nell'adattamento delle parole etrusche in latino spesso si trovano occlusive sonore per rendere occlusive sorde e anche occlusive aspirate, come provato da numerosissimi esempi che avremo modo di discutere in altre occasioni. Una cosa è certa: se la parola fosse giunta in latino direttamente dal greco, avrebbe avuto una forma molto diversa.

In ogni caso vediamo che il latino gibbus non può aver avuto una pronuncia palatale della g- ab aeterno, perché tale suono non avrebbe la benché minima raison d'être nel contesto in cui la parola è entrata nella lingua. Niente gibboni romani, insomma, sarebbero qualcosa di insulso.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: GG PER NG, GC PER NC

È risaputo che i Greci scrivevano la consonante nasale velare [ŋ] ricorrente davanti a /k/, /g/, /kh/ usando il carattere γ. Così si hanno le sequenze γγ [ŋg],  γκ [ŋk] e γχ [ŋkh]. Questa nasale era chiamata dai grammatici ἄγμα /'agma/.        

Accio propose di seguire l'esempio dei Greci e di esprimere questo suono gutturale in latino usando la lettera g anziché n: aggulus per angulus; aggens per angens; iggerunt per ingerunt; agceps per anceps. Questa è la citazione tratta da Varrone:

Ut Ion scribit, quinta vicesima est litera, quam vocant agma, cuius forma nulla est, et vox communis est Graecis et Latinis, ut his verbis: 'aggulus', 'aggens', 'agguila', 'iggerunt.' in eiusmodi Graeci et Accius noster bina g scribunt, alii n et g, quod in hoc veritatem videre facile non est. Similiter 'agceps', 'agcora.'
(Varro ap. Prisc. i. p. 30 H.)

È evidente che se fossero esistiti suoni palatali seguiti da vocale anteriore in parole come angens, ingerunt, anceps - come i nostri avversari sostengono - la proposta di scrivere la nasale come -g- non sarebbe mai potuta sussistere, perché la presenza di una nasale velare prima di suoni affricati sarebbe a dir poco assurda e senza fondamento.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: CANDELA E CICINDELA

Il termine latino cicindela "lucciola", è evidentemente un reduplicativo costruito a partire da candela. La base è in ultima analisi la radice *kand-, indicante lo splendore e presente anche nel ben noto candidus.

Come è stato possibile avere un simile mutamento nella vocale? Semplice: si è partiti da una reduplicazione *ke-kand-, poi assimilata in *ke-kend-. La parola è infine divenuta ci-cind-ela quando già l'accento si era fissato sulla vocale lunga del suffisso.

Per quanto nella pronuncia ecclesiastica italica di questo termine si abbia un'affricata (consonante "molle"), è chiaro che in origine il suono doveva essere velare (consonante "dura"), perché questo ci dice l'etimologia - che non è un'opinione. Così si vede che l'ecclesiastico /čičin'dela/ è successivo al classico /ki'kinde:la/.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: AUDIO E OBOEDIO

A tutti è ben noto il verbo italiano obbedire, variante ubbidire. Da dove deriva questa voce? Semplice, è dal verbo latino oboedio, oboedis, oboedivi, oboeditum, oboedire, scritto col dittongo -oe-.

I nostri avversari vorrebbero che tale dittongo fosse sempre e comunque meramente grafico, e questo fin dai tempi di Romolo e Remo. Abbiamo già dimostrato con ottimi argomenti che questo non è possibile, ma vediamo di fornire una prova in più proprio a partire dall'etimologia di oboedio.

Anche se a scuola non insegnano ad indagare l'origine delle parole, dirò questo: dovrebbe essere a tutti evidente che il verbo in questione deriva dal prefisso ob- (confronta la preposizione ob "verso; davanti a; a causa di") e dal verbo audio, audis, audivi, auditum, audire "udire". Come mai allora si trova un dittongo -oe-? Semplice, perché si è partiti dalla forma arcaica *ob-audio, e attraverso un indebolimento su è giunti ad *ob-oudio. A questo punto la sequenza -ou- + -i- si è evoluta in -oi- + -i- per assimilazione, generando in epoca successiva il dittongo -oe-. L'origine del verbo obbedire si sintetizza così:

oboedio < *ob-oidio < *ob-oudio < *ob-audio 

Questo dimostra che il dittongo -oe-, naturale evoluzione di -oi-, non può essere stata una semplice notazione grafica per /e/ in questa parola. La futile idea della pronuncia ecclesiastica italica vigente sin dal Paleolitico si scontra in infinite occasioni con la stessa realtà dei fatti, in quanto è incapace di rendere conto dell'etimologia di importanti parole.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: LA NEGAZIONE NOENUM HA DATO ORIGINE A NON

L'antica negazione *ne-oinom, alla lettera "non uno", ha dato dapprima *noinom e quindi noenum (quest'ultima forma è ben attestata). Da noenum è infine derivata la forma non, a tutti ben nota. Non sarebbe stato possibile avere una pronuncia /*e/ di -oe- in noenum, visto l'esito non, con una /o:/ lunga.

Ammettere un antico dittongo -oe-, regolarmente da *oi, porta a spiegare con facilità una varietà di esiti successivi. Per contro, postulare un dittongo meramente grafico corrispondente a un suono /e/, come fanno i nostri avversari, non permette di spiegare diversi fatti innegabili. Una spiegazione che rende conto di cento dati di fatto al contempo è da preferirsi a una spiegazione che a stento rende conto di una cosa ma è incapace di spiegarne novantanove.

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: IL DITTONGO SECONDARIO IN COEPI

Il verbo coepi "io inizio" (tr.), "io ho origine" (intr.), è morfologicamente un perfetto (II pers. s. coepisti, etc.), ma ha il significato di un presente. È un verbo difettivo ed anomalo, anche se è chiara la sua derivazione da coepio, coepis, coepere, di identico significato. Dal sostantivo derivato coeptum "opera intrapresa" (anche coeptus, gen. coeptus, IV decl.), deriva il causativo coepto, coeptas, coeptavi, coeptatum, coeptare "iniziare, intraprendere" (tr.), "cominciare, avere inizio" (intr.). L'origine dei vocaboli in questione non è misteriosa: 

coepi < *kom-apei
coepio < *kom-apio:
coeptum < *kom-aptom
coeptus < *kom-aptus
coepto < *kom-apto:

La base di queste forme è la stessa radice del verbo apio, apis, apere "allacciare, legare" con il derivato aptus "legato, connesso, associato, unito; pronto" (donde le parole italiane atto (agg.), adatto) e di apto, aptas, aptavi, aptatum, aptare "adattare, preparare" (donde l'italiano riattare). Cos'è successo nel corso dei secoli durante la fase che dal latino arcaico ha portato al latino classico? Semplice: la vocale -a- si è indebolita in -e-, poi si è formato un dittongo secondario. Nella pronuncia ecclesiastica queste forme hanno /če-/: /'čepjo/ e /'čepto/. È evidente che la pronuncia ecclesiastica si è generata senza tenere conto dell'origine delle parole e che non spiega in alcun modo la loro formazione.