Nel latino dell'epoca classica la quantità delle vocali non era una mera masturbazione mentale dei poeti, come si tende ad insegnare nel sistema scolastico italiano, ma qualcosa di vivo e vitale: esistevano realmente vocali lunghe e vocali brevi nella lingua parlata.
Riporto alcuni interessanti brani tratti da Introduzione allo studio del latino volgare, di C.H. Grandgent (traduzione di N. Maccarone, edito da Hoepli), che trattano della quantità delle vocali e di alcuni importantissimi cambiamenti nel sistema vocalico che la lingua latina parlata subì nel corso dei secoli.
C. - Quantità
159. Bisogna far distinzione tra quantità vocalica e quantità sillabica. Ogni vocale latina poteva essere per natura lunga o breve; quanto grande fosse la diffrenza noi non sappiamo, ma possiamo congetturare che nel linguaggio comune fosse maggiore nelle vocali toniche che nelle atone.
Una sillaba era lunga se comprendeva 1) una vocale lunga o un dittongo, 2) una vocale breve e una consonante seguente. Se, tuttavia, la consonante era finale e la parola seguente cominciava con vocale, la consonante, nel discorrere fitto, era senza dubbio trasportata nella sillaba seguente o non faceva posizione: vedi § 133. Per la divisione della sillaba formata di muta + liquida, vedi §§ 132, 134.
Una sillaba era lunga se comprendeva 1) una vocale lunga o un dittongo, 2) una vocale breve e una consonante seguente. Se, tuttavia, la consonante era finale e la parola seguente cominciava con vocale, la consonante, nel discorrere fitto, era senza dubbio trasportata nella sillaba seguente o non faceva posizione: vedi § 133. Per la divisione della sillaba formata di muta + liquida, vedi §§ 132, 134.
...
2. QUANTITÀ VOCALICA.
165. Originariamente, forse, le vocali lunghe e brevi erano distinte soltanto dalla durata, cioè le vocali avevano, per es., lo stesso suono in lātus e lătus, in dēbet e rĕdit, in vīnum e mĭnus, in nōmen e nŏvus, in ūllus e mŭltus. Sia o non sia stato così, il fatto è che in latino e, i, o, u lunghi e brevi differivano in ciò, che erano aperte le vocali brevi, chiuse le lunghe: vẹndo sęntio, pịnus pįper, sọlus sǫlet, mụlus gųla. Ossia, la lingua per le vocali di breve durata non si sollevava tanto quanto per quelle più lunghe. Più tardi, nella maggior parte dell'impero, į e ų si pronunciarono sempre più basse, e divennero ẹ e ọ: vedi §§ 201, 208. Per a, che è pronunziato colla lingua giacente piatta sul suolo della bocca, non vi fu tale differenziazione.
Secondo il Meyer-Lübke, Lat. Spr., 467, la diversità di timbro delle brevi e delle lunghe si sentiva chiara circa il primo secolo della nostra era. In Vok., I, 461, II, 146, III 151, 212, è addotta la testimonianza dei grammatici, tutti di età più tarda; in Vok., II e sgg. la prova delle iscrizioni. Mario Vittorino, verso il 350 dell'era volgare, distingue due suoni di e (S. 175, 182); Pompeo, verso il 480, cita Tertulliano per un e simile ad i, e parecchi grammatici del quinto secolo distinguono nettamente ẹ da ę (S. 176, 182); sin dal secondo secolo ae fu spesso usato per ę nelle iscrizioni (S., 183-184). Terenziano Mauro, verso il 250, distingue ọ da ǫ (S., 175, 211) e così fanno altri grammatici (S., 211). Scrttori che distinguano chiaramente ị e į, non si trovano fino a Consenzio, nel quinto secolo (S., 193); e, tuttavia, è spesso usato per i nelle iscrizioni, come menus, ecc., e i per e, come minses, ecc. (S. 195, 200-201). Nessuno dei grammatici, come sembra, distingue ụ e ų, ma o è usato per u nelle iscrizioni, come ocsor, secondus, ecc. (S., 216-217).
Secondo il Meyer-Lübke, Lat. Spr., 467, la diversità di timbro delle brevi e delle lunghe si sentiva chiara circa il primo secolo della nostra era. In Vok., I, 461, II, 146, III 151, 212, è addotta la testimonianza dei grammatici, tutti di età più tarda; in Vok., II e sgg. la prova delle iscrizioni. Mario Vittorino, verso il 350 dell'era volgare, distingue due suoni di e (S. 175, 182); Pompeo, verso il 480, cita Tertulliano per un e simile ad i, e parecchi grammatici del quinto secolo distinguono nettamente ẹ da ę (S. 176, 182); sin dal secondo secolo ae fu spesso usato per ę nelle iscrizioni (S., 183-184). Terenziano Mauro, verso il 250, distingue ọ da ǫ (S., 175, 211) e così fanno altri grammatici (S., 211). Scrttori che distinguano chiaramente ị e į, non si trovano fino a Consenzio, nel quinto secolo (S., 193); e, tuttavia, è spesso usato per i nelle iscrizioni, come menus, ecc., e i per e, come minses, ecc. (S. 195, 200-201). Nessuno dei grammatici, come sembra, distingue ụ e ų, ma o è usato per u nelle iscrizioni, come ocsor, secondus, ecc. (S., 216-217).
...
c. Scomparsa dell'antica quantità.
173. La differenza di quantità fu probabilmente più grande e più costante nelle vocali accentate che non nelle disaccentate. Le distinzioni di qualità, che derivano dalla quantità originale, perdurarono, nelle sillabe toniche, durante il periodo latino e si svilupparono di più nelle lingue romanze; nelle sillabe atone le distinzioni furono senza dubbio più lievi, e furono spesso soppresse.
174. L'antica quantità si andò anch'essa perdendo, in massima parte durante l'impero. Pare che sia scomparsa dalle sillabe atone verso il terzo o quarto secolo; ma si avverte la confusione fin dal secondo. Il nomin. singol. -ĭs e il plurale -ēs andarono confondendosi verso il 150 dell'era volgare (S., 75), e ae fu spesso usato per e nelle iscrizioni (S., 183-184: benae, ecc.). Terenziano Mauro, circa il 250, ci dice che au è breve in sillabe disaccentate, come in aut (S., 66). Altri grammatici ci mettono in guardia contro una quantità di errori. Commodiano, nel terzo e quarto secolo, pare che osservi la quantità nelle sillabe toniche ma la trascuri nelle atone, e troviamo numerosi errori metrici in altri poeti seriori: cfr. J. Cornu, Versbau des Commodian in Bausteine, 576.
D'altra parte, le parole latine prese a prestito dalla lingua brettone, massimamente nel terzo e quarto secolo, mostrano, attraverso un ambiamento d'accento, conservata la quantità nelle sillabe postoniche: Loth, 72, 65. Inoltre, le parole latine prese a prestito dall'antico alto tedesco attestano la conservazione di i e u lunghi davanti all'accento: Franz.
È possibile che la quantità delle vocali atone si sia meglio mantenuta nelle provincie che in Italia.
175. Nelle sillabe accentate appaiono esempi sporadici di confusione verso il secondo secolo, come aeques per eques nel 197 (S., 225); ma probabilmente la scomparsa dell'antica distinzione non fu generale prima della fine del sesto. Servio, nel quarto secolo, critica Rŏma (S., 106). S. Agostino dichiara che «Afrae aures de correptione vocalium vel productione non judicant» (Lat. Spr. 467). Pompeo e altri grammatici biasimano la confusione di aequus e ĕquus (S., 107, 178). Molte poesie tarde non osservano affatto la quantità.
D'altra parte, le parole latine prese a prestito dal brettone dal secondo al quinto secolo, ma massimamente nel terzo e quarto, mostrano conservata la quantità delle vocali lunghe: Loth, 64. Le parole latine dell'anglo-sassone, tolte a prestito nel quinto e sesto secolo, conservano la quantità dellevocali su cui sta l'accento: Pagatscher. Le parole latine nell'antico alto-tedesco distinguono pure quantitativamente ī e ĭ, ē e ĕ, ō e ŏ, ū e ŭ; ŏ, ĕ si distinguono anche qualitativamente, cioè ē > î sta di contro ĕ > e o i; ō > û o ô sta di contro a ŏ > o: Franz.
174. L'antica quantità si andò anch'essa perdendo, in massima parte durante l'impero. Pare che sia scomparsa dalle sillabe atone verso il terzo o quarto secolo; ma si avverte la confusione fin dal secondo. Il nomin. singol. -ĭs e il plurale -ēs andarono confondendosi verso il 150 dell'era volgare (S., 75), e ae fu spesso usato per e nelle iscrizioni (S., 183-184: benae, ecc.). Terenziano Mauro, circa il 250, ci dice che au è breve in sillabe disaccentate, come in aut (S., 66). Altri grammatici ci mettono in guardia contro una quantità di errori. Commodiano, nel terzo e quarto secolo, pare che osservi la quantità nelle sillabe toniche ma la trascuri nelle atone, e troviamo numerosi errori metrici in altri poeti seriori: cfr. J. Cornu, Versbau des Commodian in Bausteine, 576.
D'altra parte, le parole latine prese a prestito dalla lingua brettone, massimamente nel terzo e quarto secolo, mostrano, attraverso un ambiamento d'accento, conservata la quantità nelle sillabe postoniche: Loth, 72, 65. Inoltre, le parole latine prese a prestito dall'antico alto tedesco attestano la conservazione di i e u lunghi davanti all'accento: Franz.
È possibile che la quantità delle vocali atone si sia meglio mantenuta nelle provincie che in Italia.
175. Nelle sillabe accentate appaiono esempi sporadici di confusione verso il secondo secolo, come aeques per eques nel 197 (S., 225); ma probabilmente la scomparsa dell'antica distinzione non fu generale prima della fine del sesto. Servio, nel quarto secolo, critica Rŏma (S., 106). S. Agostino dichiara che «Afrae aures de correptione vocalium vel productione non judicant» (Lat. Spr. 467). Pompeo e altri grammatici biasimano la confusione di aequus e ĕquus (S., 107, 178). Molte poesie tarde non osservano affatto la quantità.
D'altra parte, le parole latine prese a prestito dal brettone dal secondo al quinto secolo, ma massimamente nel terzo e quarto, mostrano conservata la quantità delle vocali lunghe: Loth, 64. Le parole latine dell'anglo-sassone, tolte a prestito nel quinto e sesto secolo, conservano la quantità dellevocali su cui sta l'accento: Pagatscher. Le parole latine nell'antico alto-tedesco distinguono pure quantitativamente ī e ĭ, ē e ĕ, ō e ŏ, ū e ŭ; ŏ, ĕ si distinguono anche qualitativamente, cioè ē > î sta di contro ĕ > e o i; ō > û o ô sta di contro a ŏ > o: Franz.