sabato 31 ottobre 2015

GALLETTI REALI E FANTOMATICI CECI

La pietra dello scandalo questa volta è un brano delle Satire di Orazio, in cui è descritto il personaggio di Cicirrus, un antenato di Pulcinella. A dare il nome alla macchietta è la parola cicirrus, che significa "galletto" e che doveva essere in uso nel paese degli Osci. Questo vocabolo corrisponde alla perfezione alla glossa greca κίκιρρος, riportata da Esichio e tradotta con ἀλεκτρυών, ossia "galletto da combattimento". Non ci vuole l'intelligenza di un Einstein per dedurre che questo lemma cicirrus, κίκιρρος è in ultima analisi di origine onomatopeica, e corrisponde grossomodo al nostro chicchirichì. Non si ha motivo di pensare che l'onomatopea sia un vizio esclusivamente moderno solo perché nelle scuole si insegna una lingua latina non colloquiale.


Perché Orazio ha dato questo nome a un suo personaggio guittesco? Secondo alcuni perché era litigioso come un galletto. Così è infatti descritto: 

Nunc mihi paucis
Sarmenti scurrae pugnam Messique Cicirri,
Musa, velim memores et quo patre natus uterque
contulerit litis.

"Ora Musa vorrei
che tu ci ricordassi in poche parole la guerra del buffone Sarmento
e di Messo Cicirro e da quale padre nati l'uno e l'altro
vennero alla zuffa.

Quale che possa essere il motivo di un simile antroponimo, la sua identità con la glossa di Esichio è il punto di partenza di ogni ulteriore speculazione. 

Eppure un nostro avversario, un archeologo, pur di screditare le conoscenze scientifiche e far prosperare la pseudoscienza, si ostina a negare una realtà dei fatti tanto evidente (e se vogliamo persin banale), sostendo assurdamente che il termine cicirrus significherebbe invece "cece", e che Messo Cicirro avrebbe tratto il suo nome da un grosso neo piriforme che aveva in faccia: sarebbe quindi stato, incredibile dictu, una sorta di Bruno Vespa dell'epoca. Questo è quanto ha da dire sull'argomento:

«Il tutto appare completamente logico, se non fosse che i cicirri sono i ceci, termine italico e non greco, tuttora chiamati così nel sud (http://ilquotidianodellabasilicata.ilsole24ore.com/it/ e Vespertine Vignettes a review of Sicilian Vespers by Cedric Hampson in PDF) e non i galli e che Esichio, che scrive in greco, non sapendolo ha preso una cantonata. Quasi solo su questo è stata costruita l'ipotesi della restituta.
Il brano di Orazio (satira 1,5) è questo:
"L’illustre stirpe di Messio sono gli Osci; vive ancora la Signora di Sarmento: i nati da questi due antenati vennero allo scontro. Per primo Sarmento: “Dico che sei simile ad un cavallo selvaggio.” Ridiamo e lo stesso Messio: “Va bene” e muove la testa: “o se la tua fronte non avesse il corno tagliato”, disse, “cosa faresti quando minacci così con le corna tagliate ?” Una ignobile cicatrice gli deturpava la fronte pelosa dalla parte sinistra della faccia. Dopo aver lanciato molti motti in faccia e sulla malattia campana chiedeva se ballasse la danza del pastore Ciclope: diceva che non aveva bisogno della maschera e dei tragici coturni. Cicirro all’indirizzo di questi motteggi diceva molte cose: chiedeva se aveva già donato al Lari la catena per grazia ricevuta; per il fatto che era scrivano, per nulla minore era su di lui il diritto della sua padrona; chiedeva infine perché qualche volta era fuggito lui, al quale sarebbe bastata una libbra di farro dato che era così piccolo e gracile. Insomma la cena si prolungava piacevolmente."»

A sentir lui, Cicirro avrebbe la stessa origine di Cicerone. La spiegazione sarebbe la cosiddetta malattia campana, che "faceva verrucosi e come cornuti nel volto" e che Orazio cita esplicitamente. Questo però non è una prova a favore della teoria del cece. Infatti a leggerne le descrizioni, questa malattia non consisteva in un semplice neo o in una singola verruca, ma in qualcosa di ben più deturpante. Vengono in mente i condilomi giganti acuminati, che in alcuni casi possono portare alla formazione di strutture simili a corna e che sono chiamati popolarmente "creste di gallo". Così, ammettendo la malattia campana come origine dell'antroponimo, Messo Cicirro sarebbe letteralmente Messo il Galletto, a motivo delle sue creste di gallo.

Questo però non basta. Veniamo infatti ad apprendere che secondo l'archeologo - che sarà anche un buon archeologo ma che quando pretende di occuparsi di linguistica proferisce soltanto assurdità - nei dialetti dell'Italia Meridionale, la parola "cicìrri", con l'accento sulla seconda sillaba, significherebbe "ceci".

Vediamo invece come stanno le cose. Prendiamo un sito nel Web, e riportiamo senza modifiche i dati che riporta, limitandoci ad aggiungere un paio di note: 

Dialetto

Voce

Basilicata

cic’r

Calabria

ciciaru

Campania

cìcero

Liguria

çeìxo (sing.), çeìxi (pl.)*

Piemonte

cisi

Puglia

cìcere

Sardegna

cixiri (pronuncia: cijiri), basolu pittudu o tundu

Sicilia

cìciru



*In realtà è çeixo /'seiʒu/, pl. çeixi /'seiʒi/: l'autore della lista ha collocato male l'accento, che cade sulla e. Così fainâ de çeixi "farinata di ceci".

E ancora:

ceci

aiolu pizzutu

Sardegna

siniscola

ceci

cic’r

Puglia

Bari

ceci

ciceri

Calabria

locride

ceci

ciceri

Puglia

Soleto (Lecce)

ceci

ciciari

Calabria

Reggio Calabria

ceci

ciciri

Calabria

Casabona

ceci

ciciri

Calabria

Delianova
(Reggio Calabria)

ceci

cìciri

Puglia

nardò

ceci

ciciri

Puglia

Salento Sud

Ceci abrustoliti

càlia

Calabria

Reggio Calabria

cecio

cic’

Lazio

Pastena (FR)

cecio

ciciru

Puglia

Salento Sud

cecio o ceci

ciciru o ciciri

Sicilia

Avola SR



**Il lemma càlia è l'unico nella lista a non continuare la parola latina per "cece": è infatti dal verbo caliari "seccare al sole", di chiara origine araba (< qala "arrostire"). 

Anche se non sempre riportato nelle liste di vocaboli di cui sopra, l'accento è sistematicamente sulla prima sillaba: si dice cìciri, non *cicìrri. Anche se qualcuno scrive impropriamente cicirri, come nel documento pdf in inglese allegato dal sostenitore delle pronuncia ecclesiastica, questo è soltanto un espediente grafico per trascrivere il siciliano cìciri /'tʃitʃiri/ o il lucano cic'r /'tʃitʃərə/. Il motivo è anche piuttosto chiaro a chi abbia una minima nozione di lingua latina scolastica e di filologia romanza: in latino è cicer, genitivo ciceris, con -e- breve, e quindi con accento sulla prima sillaba. Non esiste la benché minima giustificazione per una forma con accento sulla seconda sillaba.

Tutto è molto semplice: dire che nei dialetti meridionali la parola *cicìrri significa "ceci", anziché il corretto cìciri, è una falsificazione. Bisognerà poi capire se siamo di fronte a una falsificazione inconsapevole o consapevole.

Vediamo di riassumere il procedimento del nostro avversario, che si ostina a definire "non scientifica" la conoscenza contenuta nelle opere dell'intero mondo accademico sulla lingua latina. Vediamo invece quanto sia "scientifico" il suo modo di ragionare.

1) Egli prende una parola dagli odierni dialetti dell'Italia Meridionale;
2) Ne altera l'accento e la pronuncia, foggiando un falso per poterlo usare per i propri scopi;
3) Proietta questa parola all'indietro nei secoli:
4) Prende una parola attestata in Orazio e la identifica con la parola da lui fabbricata e illecitamente proiettata nel passato romano. 

Non c'è che dire: Galileo si starà rigirando nella tomba come una trottola.

domenica 25 ottobre 2015

ANTICHI PRESTITI LATINI IN GALLESE E CONSERVAZIONE DELLA QUANTITÀ VOCALICA IN SILLABA TONICA

Riporto una serie di antichi prestiti latini in gallese allo scopo di mostrare i diversi esiti delle vocali toniche latine a seconda della loro quantità. Come si può vedere, le originarie vocali brevi toniche latine hanno esiti molto diversi da quelli delle corrispondenti vocali lunghe. Questo si può notare anche quando nelle parole gallesi l'accento si è ritratto.   

1) La vocale a breve latina in sillaba tonica rimane a:

Addaf "Adamo" < lat. Adam
aml "abbondante"
 < lat. amplu(m) 
arf "arma"
 < lat. arma
bagl "gamba; stampella"
 < lat. baculu(m)
barf "barba"
 < lat. barba(m)  
cadair "sedia" < lat. cathedra(m) 
calch "calce" < lat. calce(m) 
ffagl "torcia" < lat. facula(m)
fflam "fiamma; fuoco"
< lat. flamma(m)
llafur "lavoro; fatica"
 < lat. labor
maneg "guanto"
< lat. manica(m)
Pader "Padre Nostro" < lat. Pater

In caso di metafonia, si muta in ei: 

lleidr "ladro" < lat. latro: 

2) La vocale a lunga latina in sillaba tonica a seconda del contesto diventa aw [au̯] oppure o

caws "formaggio" < lat. ca:seu(m)
Ionawr "Gennaio" < lat. <me:nse(m)>
     Ia:nua:riu(m)
(dydd) Mawrth "Martedì"
 < lat. <die(m)> Ma:rtis
Mawrth "Marzo" < lat. <me:nse(m)> Ma:rtiu(m)

awdurdod "autorità" < lat. aucto:rita:te(m)
canol "mezzo, centro"
 < lat. cana:le(m)
cardod "carità"
 < lat. carita:te(m)
ciwdod "città"
 < lat. ci:vita:te(m)
diwrnod "giornata"
< lat. (mediev.) diurna:ta(m)
estron "straniero"
 < lat. extra:neu(m)
gwyddor "principio"
 < lat. abeceda:riu(m)

parod "pronto" < lat. para:tu(m)
pechod "peccato"
 < lat. pecca:tu(m)
plo "fato, maledizione" < lat. pla:ga(m)

pysgod "pesci" < lat. pisca:tu(m)  
Ymherodr (ant. Ymherawdr) "Imperatore"
       < lat. Impera:tor

I rari casi in cui la vocale a lunga latina rimane immutata sono dovuti a prestiti dal latino ecclesiastico:

pagan "pagano" < lat. pa:ga:nu(m)
pla "peste"
< lat. pla:ga(m)**

*Per l'esito genuino di un derivato della parola latina, si veda il toponimo Powys
**Per l'esito genuino della parola latina, si veda sopra il lemma plo "fato, maledizione".


3) La vocale e breve latina in sillaba tonica rimane e

creu "creare" < lat. creo:
cyllell "coltello"
 < lat. cultellu(m)
elfen "elemento"
 < lat. elementu(m)
ffenestr "finestra"
< lat. fenestra(m)
gefell "gemello"
 < lat. gemellu(m) 

gwiwer "scoiattolo" < lat. vi:verra(m) 
llew "leone" < lat. leo:
meddyg "medico"
 < lat. medicu(m)
offeren "messa"
 < lat. offerenda
porchell "maialino"
 < lat. porcellu(m)
pregeth "predica"
 < lat. praeceptu(m)  

ysblennydd "splendido" < lat. splendidu(m) 
ysgrifen
"scritto"
< lat. scri:bendu(m)


In un caso si muta in a

sarff "serpente" < lat. serpe:ns

4) La vocale e lunga latina in sillaba tonica diventa wy [ʊi̯]:

cadwyn "catena" < lat. cate:na(m)
cwyr "cera"
 < lat. ce:ra(m)
cynnwys "contenuto"
< lat. conde:nso:
dwys "intenso"
< lat. de:nsu(m)
eglwys "chiesa"
 < lat. eccle:sia(m)
gwenwyn "veleno"
 < lat. vene:nu(m)
mwys "paniere; piatto"
 < lat. me:nsa(m)
plwyf "parrocchia"
 < lat. ple:be(m)

proffwyd "profeta"
 < lat. prophe:ta(m)
pwys "libbra"
< lat. pe:nsu(m)
rhwyd "rete"
< lat. re:te
swydd "lavoro; ufficio"
 < lat. se:de(m) 

Se è sparita una consonante mediana, l'esito è più complesso: 

Powys, una provincia del Galles <lat. 
     pa:ga:ne:nse(m)
 

rheol, rhyol "regola" < lat. re:gula(m)

5) La vocale i breve latina in sillaba tonica diventa y [ɨ]

addysg "educazione" < lat. addisco:
disgybl "discepolo"
 < lat. discipulu(m)
dysgu "insegnare"
 < lat. disco:
ffydd "fede" < lat. fide(m)
gwydr "vetro"
 < lat. vitru(m)
gwyrdd "verde" < lat. viride(m)
llyfr "libro" < lat. libru(m)
llythyr "lettera"
 < lat. littera(m)
myrdd "diecimila"
 < lat. myrias
pysg "pesce" < lat. pisce(m)
sych "secco" < lat. siccu(m)
syml "semplice"
 < lat. simplex

Se è sparita una consolante mediana, si forma un dittongo: 

gŵyl "giorno di festa" < lat. vigilia(m)

Se anticamente seguiva -a, e in qualche altro contesto, diventa e:

saeth "freccia" < lat. sagitta(m)
senedd "parlamento"
 < lat. synodu(m)

Un importante caso di vocale i breve rimasta immutata è dovuto all'analogia col diffusissimo suffisso -ig, di origine celtica: 

Nadolig, Nodolig "Natale" < lat. Na:ta:licia

6) La vocale i lunga latina in sillaba tonica rimane i:

gwin "vino" < lat. vi:nu(m) 
lladin "latino" < lat. lati:nu(m)
melin "mulino"
 < lat. moli:na(m) 

mil "mille" < lat. mi:lia
prif "principale" < lat. pri:mu(m)
selsig "salsiccia"
 < lat. salsi:ciu(m)
trist "triste"
 < lat. tri:ste(m)

7) La vocale o breve latina in sillaba tonica rimane o:

abostol "apostolo" < lat. apostolu(m)
cloff "zoppo"
 < lat. cloppu(m)
corff "corpo"
 < lat. corpus
modd "modo"
 < lat. modu(m)
pobl "popolo"
 < lat. populu(m)

pont "ponte" < lat. ponte(m) 

ysgol "scuola" < lat. schola(m)

In caso di metafonia, si muta in y [ɨ]: 

myfyr "studio, meditazione" < lat. memoria(m)
ystyr "significato"
 < lat. historia(m)

8) La vocale o lunga latina in sillaba tonica diventa u [ɨ(:), i(:)], più raramente aw

awdur "autore" < lat. aucto:re(m)
awr "ora"
 < lat. ho:ra(m)
ffurff "forma"
 < lat. fo:rma(m) 

henadur "assessore" < lat. sena:to:re(m) 
nawn "mezzogiorno" < lat. <ho:ra(m)< no:na(m)
urdd "ordine (religioso)"
 < lat. o:rdo:

9) La vocale u breve latina in sillaba tonica diventa w [ʊ]

cwmwl "nube" < lat. cumulu(m)
ffwrn "forno"
 < lat. furnu(m)
(dydd) Sadwrn "Sabato" < lat. <die(m)> Saturni:

Se è sparita una consonante mediana, si forma un dittongo:

Awst "Agosto" < lat. <me:nse(m)> Augustu(m)

Se anticamente seguiva -a, diventa o: 

boch "guancia" < lat. bucca(m)
fforch
"forchetta" < lat. furca(m)
porffor "porpora"
< lat. purpura(m)

In caso di metafonia, si muta in y [ɨ(:)]

cŷn "scalpello" < lat. cuneu(m)
pydew "pozzo"
 < lat. puteu(m)

10) La vocale u lunga latina in sillaba tonica diventa i nei prestiti più antichi, u [ɨ(:), i(:)] in quelli più recenti: 

cib "tazza" < lat. cu:pa(m)
dir "acciaio"
< lat. du:ru(m) 
nifer "numero"
< lat. nu:meru(m)  

astud "diligente" < lat. astu:tu(m) 
(dydd) Llun "Lunedì" < lat. <die(m)> Lu:nae
mesur "misura"
 < lat. me:nsu:ra(m)
mur "muro"
 < lat. mu:ru(m)
pluf "piuma" < lat. plu:ma(m)
pur "puro" < lat. pu:ru(m)
segur "inattivo"
 < lat. se:cu:ru(m)
(dydd) Sul "Domenica" < lat. <die(m)> So:lis

sabato 24 ottobre 2015

FONOLOGIA DELLA LINGUA LATINA: QUANTITÀ VOCALICA E SUA DECADENZA

Nel latino dell'epoca classica la quantità delle vocali non era una mera masturbazione mentale dei poeti, come si tende ad insegnare nel sistema scolastico italiano, ma qualcosa di vivo e vitale: esistevano realmente vocali lunghe e vocali brevi nella lingua parlata.

Riporto alcuni interessanti brani tratti da Introduzione allo studio del latino volgare, di C.H. Grandgent (traduzione di N. Maccarone, edito da Hoepli), che trattano della quantità delle vocali e di alcuni importantissimi cambiamenti nel sistema vocalico che la lingua latina parlata subì nel corso dei secoli. 


C. - Quantità

    159. Bisogna far distinzione tra quantità vocalica e quantità sillabica. Ogni vocale latina poteva essere per natura lunga o breve; quanto grande fosse la diffrenza noi non sappiamo, ma possiamo congetturare che nel linguaggio comune fosse maggiore nelle vocali toniche che nelle atone.
Una sillaba era lunga se comprendeva 1) una vocale lunga o un dittongo, 2) una vocale breve e una consonante seguente. Se, tuttavia, la consonante era finale e la parola seguente cominciava con vocale, la consonante, nel discorrere fitto, era senza dubbio trasportata nella sillaba seguente o non faceva posizione: vedi § 133. Per la divisione della sillaba formata di muta + liquida, vedi §§ 132, 134.

...

2. QUANTITÀ VOCALICA. 

    165. Originariamente, forse, le vocali lunghe e brevi erano distinte soltanto dalla durata, cioè le vocali avevano, per es., lo stesso suono in lātus e lătus, in dēbet e rĕdit, in vīnum e mĭnus, in nōmen e nŏvus, in ūllus e mŭltus. Sia o non sia stato così, il fatto è che in latino e, i, o, u lunghi e brevi differivano in ciò, che erano aperte le vocali brevi, chiuse le lunghe: vẹndo sęntio, pịnus pįper, sọlus sǫlet, mụlus gųla. Ossia, la lingua per le vocali di breve durata non si sollevava tanto quanto per quelle più lunghe. Più tardi, nella maggior parte dell'impero, į e ų si pronunciarono sempre più basse, e divennero e : vedi §§ 201, 208. Per a, che è pronunziato colla lingua giacente piatta sul suolo della bocca, non vi fu tale differenziazione.
Secondo il Meyer-Lübke, Lat. Spr., 467, la diversità di timbro delle brevi e delle lunghe si sentiva chiara circa il primo secolo della nostra era. In Vok., I, 461, II, 146, III 151, 212, è addotta la testimonianza dei grammatici, tutti di età più tarda; in Vok., II e sgg. la prova delle iscrizioni. Mario Vittorino, verso il 350 dell'era volgare, distingue due suoni di e (S. 175, 182); Pompeo, verso il 480, cita Tertulliano per un e simile ad i, e parecchi grammatici del quinto secolo distinguono nettamente
da ę (S. 176, 182); sin dal secondo secolo ae fu spesso usato per ę nelle iscrizioni (S., 183-184). Terenziano Mauro, verso il 250, distingue da ǫ (S., 175, 211) e così fanno altri grammatici (S., 211). Scrttori che distinguano chiaramente e į, non si trovano fino a Consenzio, nel quinto secolo (S., 193); e, tuttavia, è spesso usato per i nelle iscrizioni, come menus, ecc., e i per e, come minses, ecc. (S. 195, 200-201). Nessuno dei grammatici, come sembra, distingue e ų, ma o è usato per u nelle iscrizioni, come ocsor, secondus, ecc. (S., 216-217).

...

c. Scomparsa dell'antica quantità.

   173. La differenza di quantità fu probabilmente più grande e più costante nelle vocali accentate che non nelle disaccentate. Le distinzioni di qualità, che derivano dalla quantità originale, perdurarono, nelle sillabe toniche, durante il periodo latino e si svilupparono di più nelle lingue romanze; nelle sillabe atone le distinzioni furono senza dubbio più lievi, e furono spesso soppresse.
    174. L'antica quantità si andò anch'essa perdendo, in massima parte durante l'impero. Pare che sia scomparsa dalle sillabe atone verso il terzo o quarto secolo; ma si avverte la confusione fin dal secondo. Il nomin. singol. -ĭs e il plurale -ēs andarono confondendosi verso il 150 dell'era volgare (S., 75), e ae fu spesso usato per e nelle iscrizioni (S., 183-184: benae, ecc.). Terenziano Mauro, circa il 250, ci dice che au è breve in sillabe disaccentate, come in aut (S., 66). Altri grammatici ci mettono in guardia contro una quantità di errori. Commodiano, nel terzo e quarto secolo, pare che osservi la quantità nelle sillabe toniche ma la trascuri nelle atone, e troviamo numerosi errori metrici in altri poeti seriori: cfr. J. Cornu, Versbau des Commodian in Bausteine, 576.
   D'altra parte, le parole latine prese a prestito dalla lingua brettone, massimamente nel terzo e quarto secolo, mostrano, attraverso un ambiamento d'accento, conservata la quantità nelle sillabe postoniche: Loth, 72, 65. Inoltre, le parole latine prese a prestito dall'antico alto tedesco attestano la conservazione di i e u lunghi davanti all'accento: Franz.
   È possibile che la quantità delle vocali atone si sia meglio mantenuta nelle provincie che in Italia.
   175. Nelle sillabe accentate appaiono esempi sporadici di confusione verso il secondo secolo, come aeques per eques nel 197 (S., 225); ma probabilmente la scomparsa dell'antica distinzione non fu generale prima della fine del sesto. Servio, nel quarto secolo, critica Rŏma (S., 106). S. Agostino dichiara che «Afrae aures de correptione vocalium vel productione non judicant» (Lat. Spr. 467). Pompeo e altri grammatici biasimano la confusione di aequus e ĕquus (S., 107, 178). Molte poesie tarde non osservano affatto la quantità.
   D'altra parte, le parole latine prese a prestito dal brettone dal secondo al quinto secolo, ma massimamente nel terzo e quarto, mostrano conservata la quantità delle vocali lunghe: Loth, 64. Le parole latine dell'anglo-sassone, tolte a prestito nel quinto e sesto secolo, conservano la quantità dellevocali su cui sta l'accento: Pagatscher. Le parole latine nell'antico alto-tedesco distinguono pure quantitativamente ī e ĭ, ē e ĕ, ō e
ŏ, ū e ŭ; ŏ, ĕ si distinguono anche qualitativamente, cioè ē > î sta di contro ĕ > e o i; ō > û o ô sta di contro a ŏ > o: Franz.

domenica 18 ottobre 2015

SPIEGAZIONI DEL DITTONGO SPURIO AE PER E BREVE IN LATINO

I nostri avversari, riportando casi di scambio del dittongo -ae- con il monottongo -e- in numerose parole latine, pretendono di dimostrare che lo stesso dittongo sia sempre stato meramente grafico, anche nelle epoche più antiche. In particolare sembrano non badare alla quantità vocalica, visto che nelle loro liste di vocaboli ambigui includono anche alcune forme con vocale -e- breve.

Ne ho trovate due:

aequus per equus
caedrus per cedrus

Questi doppioni non sono affatto assimilabili a quelli del tipo ceterus per caeterus, in cui la -e- tonica era invece sicuramente lunga: devono quindi essere trattati e interpretati a parte. 

Dal punto di vista etimologico, è chiaro che la scrittura caedrus è priva di significato, essendo la parola cedrus dotata di una vocale -e- breve, come dimostra in modo incontrovertibile la sua provenienza dal greco κέδρος. In latino esisteva anche un'altra forma, citrus, dotata ovviamente di -i- breve, che proveniva dalla stessa parola greca κέδρος, ma tramite la mediazione della lingua etrusca:

greco κέδρος > etr. *citre /'kitrə/ > lat. citrus

La presenza di simili doppioni non è infrequente, data l'influenza che la lingua etrusca ebbe in epoca antica su quella di Roma. La variante caedrus è invece sicuramente tarda e volgare, essendo attestata nelle Glossae Placidi Grammatici. Di per sé non prova nulla: quando si produsse, ormai il dittongo etimologico /ae/ si era già da tempo monottongato: deve trattarsi di un caso di vocale breve divenuta lunga sulla bocca di parlanti incolti, in un'epoca in cui la lingua latina stava rapidamente scadendo.

Ugualmente tarda è la variante aequus per equus, stigmatizzata da Pompeo grammatico (V secolo d.C.): 

"Plerumque male pronuntiamus et facimus vitium, ut brevis syllaba longo tractu sonet aut iterum longa breviore sono: si qui velit dicere Ruoma aut si velit dicere aequus pro eo quod est equus, in pronuntiatione hoc fit." 

Stando alle parole del grammatico africano, in equus la vocale tonica era erroneamente prolungata da parlanti che mostravano scarsa dimestichezza col latino, producendo così una vocale aperta /ɛ:/, che veniva scritta naturalmente servendosi del dittongo ae, essendo diversa dalla e lunga ereditata, che aveva invece un suono chiuso. La forma aberrante Ruoma invece era nata da una pronuncia erronea con /ɔ/ breve e aperta anziché con /o:/ lunga e chiusa, tipica dell'Africa. Doveva così essersi sviluppato un dittongo ascendente: /'rwɔma/ anziché /'ro:ma/. Lo stesso Agostino di Ippona ci parla delle difficoltà delle genti africane a intendere la quantità vocalica. Allego alcuni interessanti link a documenti che trattano di questi affascinanti argomenti: 



Diversa è invece la precoce comparsa della grafia -ae per -e breve nella parola bene, scritto erroneamente benae: è naturale che la monottongazione dell'originario dittongo ae sia iniziata nelle sillabe atone e solo in seguito abbia colpito anche le sillabe toniche.

Anche a questo è possibile trovarne una spiegazione logica. Nella parola in questione il dittongo ae era spurio, ossia meramente grafico. Serviva ad esprimere una vocale -e- molto aperta e diversa dalla comune -e- breve simile a quella dell'italiano tetto. Doveva invece suonare come una a anteriore /æ/ (simile alla pronuncia americana dell'inglese bat).

Verso l'inizio dell'Impero certi parlanti incolti dovevano aver cominciato a pronunciare in certi contesti la vocale /ɛ/ breve più aperta del normale, fino a spingersi ad /æ/. Un po' come certi ragazzi d'oggi che sono arrivati a pronunciare "vabbane" anziché "va bene". È assai verosimile che questi soggetti usassero la grafia ae come ipercorrettismo, a causa della loro ignoranza e della loro bassa condizione sociale. Questo comporta anche la mancata distinzione tra vocali brevi e lunghe da parte di questi parlanti difettosi.

mercoledì 14 ottobre 2015

L'ENIGMA DELL'ETIMOLOGIA DI SCRAUSO: UNA SOLUZIONE

Nel dialetto di Roma esiste il termine scrauso "brutto; scadente", ben attestato anche con la variante sgrauso. Da dove proviene questa strana parola? Intanto cominciamo a tracciare a grandi linee la sua documentazione. Sembra essere emersa verso la fine del XX secolo nel gergo dei coatti, con i significati sopra riportati. Ad esempio ricorre nel film Amore tossico di Claudio Caligari (1983), con riferimento a droga di pessima qualità (robba scrausa). Se andiamo indietro nel tempo, ci imbattiamo in un'unica attestazione nota risalente al XVI secolo, per la precisione all'anno 1527: nella confessione autografa di una strega, Bellezze Ursini da Collevecchio, la parola scrauso sembra avere il senso di "sciocco". Non si può quindi trattare di un'insostanziale invenzione giovanile moderna. 

La mia ipotesi è che la parola risalga alla lingua longobarda: si tratta della radice germanica *graus- "terribile, orribile; orrore", attestata grazie agli antroponimi GRAUSO e GRAUSULUS. Abbiamo anche ADELGRAUSUS e ALDEGRAUSUS, sempre con l'aggiunta della terminazione latina -us. Il termine non è di per sé enigmatico: ancora nel tedesco attuale troviamo il sostantivo Graus "terrore, orrore" (poetica), e il verbo  grausen "inorridire". In medio alto tedesco abbiamo griusig "orribile", in antico inglese abbiamo gréosan "spaventare". La forma longobarda, pur essendo omofona della forma tedesca attuale, ha il dittongo /au/ ereditato dal protogermanico, mentre il tedesco Graus è invece dalla variante *gru:s-, col dittongo regolarmente sviluppato dalla vocale lunga /u:/.

La parola romanesca non può essere nativa, dato il ben strano dittongo -au-, che non può del resto risalire ad epoca troppo remota, o sarebbe stato ridotto a un monottongo. La s- iniziale non è un problema così insormontabile. Basti citare l'italiano sguattero, che viene da un precedente guattero "inserviente di cucina", di origine longobarda e corrispondente all'antico alto tedesco wahtāri "guardiano".

All'inizio la parola doveva significare "terribile; orribile", donde "brutto" e "scadente", detto di cosa o di persona. Ipotizzo che esistesse un tempo una locuzione del tipo "scemo scrauso", qualcosa di simile a "brutto scemo", donde lo slittamento semantico documentato nel processo alla strega romana del XVI secolo. O forse, da "scadente" nel senso di "minorato" (all'epoca non esisteva alcun rispetto per le persone con qualche problema, e neppure pietà o misericordia). Altri significati attestati nel gergo dei coatti sono "escremento" e "matto", tutti con forte connotazione negativa.

I romanisti sembrano impotenti di fronte a questo vocabolo, e farfugliano frasi prive di senso. Non sembrano tenere conto dell'attestazione del XVI secolo e tentano di derivarlo dalla voce scausa "scaglia", per inserimento di una fantomatica -r- peggiorativa che pare generata dai loro sogni, per poi dire che il significato originale della parola dovesse essere "prostituta", dato che in molti gerghi italiani scaglia indica la peripatetica. Tutto molto fumoso, mi pare, in netto contrasto con la chiarezza cristallina dell'origine longobarda.

In ogni caso, dai tempi di Bellezze Ursini la parola se ne sarebbe rimasta a covare sotto la brace per conoscere fortuna soltanto qualche secolo dopo, spargendosi come un meme. Oggi è ben diffusa nel linguaggio colloquiale su vasti territori, tanto che la si ritrova anche a Milano, a Genova e altrove. A quanto pare, a Genova sono attualmente chiamati così i camalli. Nessuno pare accorgersi che si tratta di un articolo di importazione.

Queste sono alcune sorprendenti attestazioni ritrovate nel web:


Palermo. Riferito a oggetti: scadente, taroccato; riferito a persone: antipatico, arido. Es: se qualcuno si rifiuta di uscire la sera, si dice 'non fare lo scrauso'. 

Friuli. Indica qualcosa che costa poco e non è di alto livello. Es: un computer con windows95 senza prese usb è considerato scrauso. 

Olbia. Qua si dice per indicare qualcosa di bassa qualità. 

Bologna. Aggettivo spregiativo. Es: hai un cellulare strauso (rotto, vecchio). 

Il Corriere di Bologna dà scrauso come vocabolo del gergo giovanilese, al pari di sciallo e di fighettismo


A questo punto dovremmo porci come una parola longobarda sia giunta a Roma, visto che l'Urbe non è mai stata sotto il potere dei Longobardi. Probabilmente il termine vi fu portato da un longobardo che vi si era trasferito, e per ventura è piaciuto al volgo locale, finendo con l'essere adottato all'inizio da un gruppo di conoscenti dell'esule, poi da sempre più persone, finendo così con l'avere esiti incontrollabili - doffondendosi per effetto boomerang anche in terre di lunga tradizione longobarda, dove la radice germanica *graus- era caduta in un oblio profondo, rimanendo tuttavia ben documentata nei cognomi. Abbiamo infatti Grauso e un più raro Crauso.

UN ANNOSO PROBLEMA: L'ETIMOLOGIA DI FROCIO

Il termine romanesco frocio "omosessuale; effeminato, arga", variante froscio - ormai bandito dal politically correct e per paradosso tollerato più dagli omosessuali che dai buonisti - è da sempre una crux per gli etimologi. Le proposte escogitate per spiegarlo sono numerose, ma nessuna è davvero convincente. Hanno tutte le caratteristiche delle paretimologie. Le riporto sinteticamente: 

1) Da feroci, donde froci, con allusione ai violentissimi saccheggi operati dai Lanzichenecchi. La tradizione riporta che i Lanzichenecchi avrebbero sodomizzato la popolazione di Roma senza distinzione tra i sessi, guadagnandosi l'epiteto di Feroci. Da froci si sarebbe poi formato un singolare analogico frocio anziché *froce, così come in romanesco da ceci si è retroformato cecio, da bruci si è avuto brucio e da buci si è avuto bucio. Obiezione: la parola frocio è connessa soprattutto con comportamenti passivi e vale "effeminato", non è quindi molto adatta a descrivere forme di violenza carnale. 

2) Dalla voce precedente, ma con interpretazione sarcastica, per satirizzare la mancanza di virilità e di aggressività in una persona. Non è difficile immaginarsi un bullo romano sfottere un effeminato apostrofandolo: "Anvedi che ferocione!" Di qui la frase si sarebbe sincopata in "Anvedi che frocione!" 

3) Da frogia "narice" (parola di origine celtica, cfr. gallico *frogna "naso"), con allusione ai nasi paonazzi degli Svizzeri ubriachi che si inchiappettavano. Le varianti frocia e froscia sono effettivamente documentate a Roma e altrove. Anche se i Lanzichenecchi hanno accusato da sempre gli Svizzeri di sodomia e persino di intrattenere rapporti carnali con le loro pecore, la cosa appare poco probabile; per altri le froge rubizze sarebbero invece state proprio quelle dei Lanzichenecchi. In ogni caso le difficoltà semantiche sono notevoli. Non si capisce perché gli ubriaconi autoctoni non dovessero essere etichettati come "frocioni", visto che il troppo vino rende rubicondo il naso di tutti i bevitori. Non si spiega neppure come mai l'omosessuale non sia chiamato *frogio o *frogione: tali forme dovrebbero invece essere le più comuni. 

4) Dalla fantomatica Fontana delle Froge, ossia Fontana dei Nasoni, dove i sodomiti si sarebbero dati convegno. Non soltanto non si capisce il perché della denominazione della fontana, ma di essa non si trova menzione alcuna nella toponomastica romana, presente o passata. Si presentano inoltre gli stessi problemi che rendono improbabile la summenzionata derivazione da frogia.

5) Da *francio "francese", voce sarcastica, pronunciata dapprima *froncio o *fronscio con vocale nasale, ad imitazione dei suoni della lingua francese, donde direttamente frocio o froscio. Il termine avrebbe avuto almeno all'inizio il senso di "francese; straniero" e sarebbe solo in seguito passato a significare "sodomita passivo": tale abitudine sessuale sarebbe stata attribuita ai Francesi per via dei loro modi, raffinati in confronto a quelli del volgo romano. In uno stornello antifrancese un padre geloso minaccia uno straniero che gli corteggia la figlia, e dice:

"Fiore de pera;
quer frocio che a mi fija fa la mira,
ha voja de cenà l'urtima sera".
 

Qualcuno argomenta che se lo straniero fosse stato omosessuale, difficilmente avrebbe ronzato intorno a una donzella. Questo però non è secondo me necessario: se qualcuno impreca dicendo "cornuto" a un cane che lo ha morso, questo non implica affatto un nesso causale con l'incapacità dell'animale di imporre la monogamia alle sue femmine: si tratta dell'espressione di un'ira eruttiva e anteriore alla logica. 

6) Dal tedesco Frosch "rana", rivolto ai francesi come epiteto insultante o derisorio. Questo singolare uso sarebbe stato comune agli inglesi, che a loro volta chiamavano i francesi frogs. È una riedizione della tesi di coloro che ritengono il termine frocio un epiteto indicante genericamente gli stranieri. Li indicava sì, ma per schernirli, per insultarli, perché erano odiati. Se un siciliano di oggi chiamasse i continentali "cornuti", cosa bisognerebbe dedurne? Che nella Sicilia dei primi del XXI secolo "cornuto" significa "straniero"? No di certo. 

7) Dal tedesco Friese "frisone", passato poi a indicare tutti gli stranieri. Il Belli ad esempio chiamava Frocioni i Frisoni. È tuttavia possibile che il Belli abbia voluto fare un gioco di parole sagace per denigrare i Frisoni di cui parlava, e che già fosse sottinteso un doppio senso incentrato sulla sodomia. Va riportato che esisteva una famosa scuola di cantori Frisoni a Roma: i ragazzi potrebbero essere stati inclini a subire pederastia, ma anche di questo non esiste documentazione alcuna. 

8) Da floscio, con fl- mutato regolarmente in fr- (ad esempio in Belli si trova fraggello per flagello). L'origine ultima è lo spagnolo flojo "uomo senza carattere o volontà" (da cui deriva l'italano floscio). L'allusione sarebbe a una pretesa incapacità erettile di chi non ama il genere femminile, credenza popolare molto diffusa fino a tempi abbastanza recenti e forse non ancora del tutto spenta tra il volgo. Resta però difficile spiegare come si sia prodotta la forma frocio, che è di gran lunga la più diffusa. In Brianza quando ero giovane ho sentito molto spesso floscio anziché frocio, ma si sarà trattato del risultato di una falsa etimologia popolare.


Si segnala a questo punto la presenza dei cognomi rari Frocione e Frocioni, che menziono in questa sede per motivi di conoscenza e senza alcuna intenzione di scherno verso chi li porta (un'ottantina di persone circa in tutta Italia). A quanto pare esisteva anche una variante Froscioni, che oggi risulta estinta. Per ovvi motivi, questi cognomi sono ritenuti imbarazzanti. Quale ne è l'origine?

Sono connessi a frocio o non lo sono? Si tratta forse di una mera assonanza generatasi per una sorte beffarda? Erano forse i Frocione chiamati un tempo Frisone, e i Frocioni chiamati Frisoni? Devo ammettere che al momento non ne ho idea. Se i cognomi Frocione e Frocioni derivassero davvero dalla voce frocio, potrebbe essere l'indizio di una maggior antichità della parola, la cui origine permane oscurissima. Riporto un'interessante discussione sull'argomento, che ho trovato in un forum nel corso delle mie ricerche nel Web.


Un'audace ipotesi

Non posso evitare di menzionare l'esistenza dei cognomina Fraucus e Fraucius nell'Antica Roma: ci è noto ad esempio un Lucius Fraucus. Questi cognomina erano di origine etrusca e corradicali del gentilizio maschile Fraucni, varianti Frauχni, Frauni, Farauni, femminile Fraucnei, ben documentato tra i Rasna. Esiste una voce latina fraucus, citata dal Pittau e tradotta con "campo non lavorato", e quindi incolto o sterile (con ogni probabilità una glossa o un termine tecnico). A partire da questi dati si ricostruisce in etrusco un termine *frauc, *frauχ "campo improduttivo". Il senso centrale della radice doveva essere proprio "improduttivo, sterile", donde "persona dappoco, spregevole". Di qui un aggettivo *fraucius, che evolvendo in romanzo sarebbe diventato regolarmente frocio. Formalmente sarebbe come l'aggettivo saucius "ferito" < etr. *sauci, formato dalla radice sauc-, sauχ- "ferita" presente nel teonimo Savcne-s (gen.) e nel gentilizio Saucni. Se questa fosse davvero l'origine di frocio, la parola sarebbe dunque antica, anche se non attestata nei secoli ed emersa come un fiume carsico; la varante froscio dovrebbe essersi prodotta in seguito per via di una pronuncia analoga a quella di Gigi Proietti, che parlando di un caffè in una pubblicità diceva "me piasce", oppure per l'influenza di froscio "floscio".

La catena di deduzioni mi pare impeccabile fino alla ricostruzione della forma etrusca per "campo improduttivo", e altamente probabile per quanto riguadra un aggettivo col senso di "improduttivo, sterile". Prima di affermare per certo che il romanesco frocio ne è la prosecuzione diretta, attendo che siano trovate attestazioni più antiche rispetto a quelle che possediamo.