giovedì 28 luglio 2016


FLESH GORDON 

Titolo italiano: Flesh Gordon - Andata e ritorno...
    dal pianeta Porno! 

Titolo originale:
Flesh Gordon
Paese di produzione: Stati Uniti
Anno: 1974
Durata: 78 min
  82 min (1994 videocassetta italiana)
  90 min (Collector's edition)
Colore: colore
Audio: sonoro
Genere: fantascienza, erotico, commedia, trash,
     demenziale, sexploitation 
Regia: Michael Benveniste, Howard Ziehm
Soggetto: Michael Benveniste
Sceneggiatura: Michael Benveniste
Produttore: Bill Osco, Howard Ziehm
Compagnia di produzione: Graffiti Productions
Distribuzione: Mammoth Films
Fotografia: Howard Ziehm
Montaggio: Abbas Amin
Effetti speciali: Walter R. Cichy, Tom Scherman,
    Howard Ziehm
Musiche: Ralph Ferraro
Scenografia: Donald Lee Harris
Costumi: Ruth Glunt
Trucco: Bjo Trimble, Marcina Motter
Interpreti e personaggi:
    Jason Williams: Flesh Gordon
    Suzanne Fields: Dale Ardor
    Joseph Hudgins: Dott. Vaffa (Dr. Flexi Jerkoff)
    William Dennis Hunt: Imperatore Wang
        il Pervertito
    Candy Samples: Nellie, capo amazzoni
    Mycle Brandy: Amora
    John Hoyt: Prof. Gordon
    Lance Larsen: Principe Pirla (Prince Precious)
    Craig T. Nelson: Il mostro (voce)
    Robert V. Greene: Voce narrante
Doppiatori italiani:
    Cesare Barbetti: Flesh Gordon
    Micaela Esdra: Dale Ardor
    Luciano De Ambrosis: Dott. Vaffa (Dr. Flexi
         Jerkoff)
    Renato Mori: Imperatore Wang il pervertito
    Fiorella Betti: Nellie, capo amazzoni
    Flaminia Jandolo: Amora
    Giorgio Piazza: Prof. Gordon
    Gianni Marzocchi: Principe Pirla (Prince
         Precious)
    Sergio Fiorentini: Il mostro (voce)
    Romano Ghini: Voce narrante
Budget:
$470,000

Trama:
Siamo negli anni Trenta. La Terra è all'improvviso bombardata dai raggi sex-cosmici, che provocano epidemie di impazzimento erotico, trasformando le nazioni in gigantesche orge. La popolazione perde il controllo e si abbandona alla voluttà più sfrenata. Flesh Gordon e la giornalista Dale Ardor sono su un aereo che vivene colpito da un fascio di raggi sex, che precipita, dato che i piloti si uniscono ai baccanali lasciando i posti di guida. Flesh e Dale si salvano per miracolo, gettandosi col paracadute e finendo per puro caso nei pressi della casa del Dottor Vaffa, uno scienziato pazzo che ha costruito una prodigiosa astronave fallica in grado di sollevarsi su spirali di stronzio sintetico. I tre partono per una spedizione spaziale, al fine di stabilire quale sia la sorgente delle devastanti radiazioni che stanno dissolvendo ogni parvenza di ordine sociale. Il veicolo, che sembra un grosso pene metallico, attraversa la zozzonsfera, uno spesso strato di immondizia che gravita attorno alla Terra, dirigendosi quindi nelle profondità siderali. Alla fine viene raggiunto il pianeta Porno, sorgente dei raggi sex-cosmici. Atterrati, Flesh, Dale e il Dottor Vaffa si ritrovano nei domini del perfido Imperatore Wang il Pervertito, che i sudditi riveriscono con gli appellativi "Sua Schifosità" e "Sua Paraculaggine". Molti i pericoli e le meraviglie che i nostri eroi dovranno affrontare: i ruggenti e ciclopici penesauri, il sodalizio lesbico delle Amazzoni di Porno, i grotteschi robot trapanatori dotati di un rostro perforante piazzato tra le gambe, e per finire un mostro gigante che parla con inequivocabile accento siciliano. Abbattuta la tirannide di Wang il Pervertito e distrutta la sorgente dei temibili raggi sex, Flesh Gordon e i suoi compagni saranno acclamati come eroi dalla popolazione di Porno e torneranno sulla Terra carichi di gloria. 

Recensione:

Flesh Gordon è una parodia erotica del popolare Flash Gordon: il nome Flash, ossia Lampo, viene trasformato nel quasi omofono Flesh, ossia Carne. Tecnicamente parlando, il film può essere ritenuto un softcore o porno soft. Quando lo vidi per la prima volta, all'epoca in cui studiavo all'università, fui portato a credere che esistesse un originale in tutto e per tutto hard, in cui si vedevano erezioni e atti sessuali completi, che poi sarebbe stato abbondantemente sforbiciato per ottenere la versione disponibile. Nonostante le ricerche fatte da me e da miei amici, questa fantomatica Ur-Version non saltò mai fuori e sono ora convinto che si tratti di un mero parto della fantasia. In effetti la versione originale era classificata come X dalla Motion Picture Association of America (MPAA), ossia per adulti, ma in seguito alcune brevi scene furono tagliate perché il film fosse classificato come R (restricted, ossia vietato ai minori di 17 anni non accompagnati). Flesh Gordon appartiene al filone demenziale del cinema trash, ma mostra alcune caratteristiche proprie del genere fantastico, come gli effetti speciali non proprio rudimentali e la creazione di una locandina straordinariamente dettagliata. 

Il potere della Censura, illimitato nell'Italia della DC, ha imposto la trasformazione di Porno in Korno per eliminare ogni allusione erotica. Tuttavia, a quanto mi consta, la sostituzione è avvenuta soltanto sulla copertina, avendo i dialoghi del film conservato in modo inequivocabile la forma Porno in ogni edizione.

La questione dei nomi dei personaggi e della loro traduzione in italiano - che li ha spesso migliorati - è un argomento che merita a parer mio di essere approfondito. Due strane corrispondenze saltano subito all'occhio: 

Doctor Flexi Jerkoff => Dottor Vaffa
Prince Precious => Principe Pirla

Flexi Jerkoff sta chiaramente per flexible jerk off: il verbo jerk off significa "masturbarsi", detto di uomo o di ragazzo (es. The man was jerking off to a porn movie) e nel complesso il bizzarro nominativo evoca un gigantesco membro in perenne stato di semierezione. Senza dubbio l'italiano Vaffa è molto più diretto, anche se si perde il riferimento al nome del personaggio originale, Alexi Zarkov. Si noti l'ingegnoso uso dell'avverbio off (ormai ridotto a vero e proprio suffissoide) per rendere la caratteristica uscita -ov di molti cognomi russi (sorta da un genitivo plurale maschile).  
Prince Precious, ossia "Principe Prezioso", fa chiaro riferimento agli atteggiamenti del nobiluomo effeminatissimo, riconducibili in tutto e per tutto alla subcultura gay più fatua. Il personaggio, come il suo originale in Flash Gordon, è modellato sulla figura di Robin Hood, anzi, è semplicemente una sua versione extraterrestre e pagana.
Alcune allusioni sfuggono al pubblico italiano. Se è chiaro che Dale Ardor è così chiamata per via dei suoi ardori sessuali (il personaggio originale è Dale Arden), il nome di Wang il Pervertito è enigmatico. Ingenuamente credevo che fosse un ardito gioco di parole, fondato sulla sostituzione del nome dell'originale Ming con il cinese wáng "re, monarca" (scritto con l'ideogramma 王). Nulla di così dotto: ho poi scoperto che wang è un termine gergale inglese che indica il pene: di cinese ha soltanto la sonorità. Il mostro, chiamato Dio del Male, una sorta di immane satiro grottesco di color marrone merda che si esprime come un picciotto di Cosa Nostra (dice anche "fangulo"), è definito The Great God Porno nell'originale. Difficile non vederlo come una degradazione del Gran Dio Pan. Ignoro se il marcato accento siculo si trovi anche nella versione in inglese o se sia una geniale trovata dei doppiatori italiani.  

Il sacerdote che celebra il matrimonio tra l'Imperatore Wang il Pervertito e Dale Ardor intona una bizzarra litania nuziale in cui ricorre l'invocazione "diretto da Pier Paolo", chiarissima allusione a Pier Paolo Pasolini. Ho pensato che il riferimento specifico fosse la coprofagia descritta in Salò o le 120 Giornate di Sodoma, ma ho dovuto rinunciare alla spiegazione per motivi cronologici: Flesh Gordon è del '74 e Salò uscì l'anno successivo: forse si voleva alludere all'omosessualità dell'intellettuale. Non è tuttavia così assurdo immaginare che Dale Ardor e il suo augusto marito si sarebbero intrattenuti in giochi scat se la cerimonia non fosse stata interrotta dall'incursione dell'eroe. Non so come fosse il testo originale intonato dal prete salmodiante, ma senza dubbio la traduzione ha portato un significativo arricchimento. Senza dubbio più sensato di quanto accade nel film Flash Gordon (1980), in cui il matrimonio tra l'Imperatore Ming e Dale Arden avveniva sulle note della squallidissima marcia nuziale di Mendelssohn, come se quella lagna debba per necessità essere diffusa in tutto l'Universo conosciuto e oltre.

A questo punto non posso evitare alcune riflessioni filosofiche. Il Gran Dio Porno non è soltanto un grottesco simulacro animato. Rappresenta il Male Metafisico, Principio Primo Increato, dotato di propri codici e di una propria realtà oggettiva, innegabile quanto funesta. Nonostante le nazioni del mondo e le loro inique istituzioni abbiano cercato e cerchino tuttora in tutti i modi di imporre l'idea di Male come assenza, come negazione di una qualità positiva, si nota con soddisfazione che non hanno avuto pieno successo nel tentativo di soffocare la Verità. Continuano infatti ad esistere film e altri prodotti artistici che rappresentano la ribellione contro le deleterie dottrine di Agostino d'Ippona e della Scolastica. Possa non aver mai fine la strenua battaglia contro ogni tentativo di banalizzazione del Male!

Per concludere, segnalo queste due recensioni trovate nel Web:


domenica 24 luglio 2016


METTI LO DIAVOLO TUO NE LO MIO INFERNO

Titolo originale: Metti lo diavolo tuo ne lo mio
     inferno
Lingua originale: italiano
Paese di produzione: Italia
Anno: 1972
Durata: 85 min
Colore: colore
Audio: sonoro
Genere: commedia, erotico
Regia: Bitto Albertini
Soggetto: Bitto Albertini,
   Vittorio Vighi
Sceneggiatura: Marino Onorati,
   Bitto Albertini
Produttore: Wolfranco Coccia
Fotografia: Pier Luigi Santi
Montaggio: Alberto Moriani
Musiche: Stelvio Cipriani
Scenografia: Stefano Paltrinieri
Costumi: Adriana Spadaro
Interpreti e personaggi:
    Antonio Cantafora: Ricciardetto
    Melinda Pillon: Monna Violante
    Margaret Rose Keil: Amalasunta
    Piera Viotti: Monna Elisa
    Alessandra Maravia: "Madre Badessa"
    Renate Schmidt: La Taverniera
    Mario Frera: Fra' Gaudenzio
    Mimmo Baldi: Martuccio
    Luca Sportelli: Geppino
    Gennaro Masini: Arturo
    Mario De Vico: Cardinale
    Giorgio Bixio: padre di Isabella
    Gennarino Pappagalli: Monsignore
    Bruno Boschetti: frate dal Veneto
    Renate Schmidt: la Taverniera
Doppiatori italiani:
    Gianni Giuliano: Ricciardetto
    Lorenza Biella: Monna Violante
    Marzia Ubaldi: Amalasunta
    Franco Latini: Martuccio

Trama (da Comingsoon.it):
Maestro Ricciardo, un giovine pittore cui il podestà di Montelupone ha commissionato il ritratto della propria moglie, divide il suo tempo tra il sedurre le donne del paese e l'escogitare idee per favorire l'economia del medesimo. Indetto da Bonifacio VIII, l'Anno Santo poiché Montelupone rischia di perdere - a vantaggio del vicino paese di Buoncostume - il denaro dei pellegrini in viaggio verso Roma, Ricciardo fa in modo, distruggendo un ponte, che costoro siano costretti a evitare la cittadina rivale e a passare per Montelupone. Gli affari dei suoi abitanti cominciano a prosperare e Ricciardo; considerato un benefattore, può dedicarsi alla sua attività preferita di cacciatore di donne. Quando il podestà però, che si ritiene l'unico a non essere stato tradito dalla moglie scopre costei a letto con Ricciardo condanna il pittore ad essere evirato. L'intervento di una nobildonna, incallita peccatrice, salva Ricciardo dall'atroce punizione.

Recensione:

"Servendosi della trama unicamente quale pretesto narrativo, il film si profonde, con estrema monotonia di situazioni e privo di ogni memoria del buon gusto o del senso del pudore, in scenette pornografiche vagamente ispirate al materiale boccaccesco." (Segnalazioni Cinematografiche, vol. 75, 1972)

Memorabile la scena in cui l'amante si nasconde in una cassa di legno che si rivela un ingegnoso gabinetto dell'epoca. Tale cassa presenta due buchi in cima, su cui i signori della casa usano mettersi in posizione defecatoria, facendo cadere gli escrementi di sotto. Così accade che il pingue nobiluomo si siede su quell'ameno cesso assieme alla moglie ignaro del cavaliere che si nasconde là sotto, e comincia allegramente a rilasciare le feci. La telecamera riprende ciò che avviene all'interno del gabinetto: grosse pallottole di sterco piovono proprio sul naso dell'intruso nascosto, che distorce il volto in smorfie di assoluto disgusto. La moglie del nobiluomo è un po' stitica e fa fatica: dall'ano non le esce nulla. Il telespettatore è tenuto sotto tensione, nella spasmodica attesa di vedere anche la merda della donna addosso all'amante. Tuttavia, proprio quando lei riesce a liberarsi, ecco che le riprese cambiano e uno resta col fiato sospeso, volente o nolente, interrogandosi sulla merda della dama, sulla sua consistenza e sulla dinamica del suo impatto. La morbosità viene frustrata senza rimedio. Questa è una delle poche testimonianze di coprofilia che si trovino in un film italiano (un'altra è ovviamente in Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini) - e credo in assoluto l'unica in una commedia italiana.

Il titolo del film, "Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno", è - anche se di certo involontariamente - una delle poche interessanti manifestazioni di una dottrina dualista medievale nell'Italia moderna. Se per San Francesco la Natura è buona e composta per intero da Fratelli e Sorelle - pur dimenticandosi di Sorella Merda nel suo famoso Cantico - per i Catari la Natura è malvagia, irredimibile e creazione di Satana. Così chiamare "diavolo" il pene e "inferno" la vagina è in tutto e per tutto Dottrina dei Buoni Uomini, qualcosa che si distacca radicalmente dalla spiritualità mainstream dell'epoca e dalla teologia cattolica. Come sopra accennato, quello che duole è il fatto che tutto ciò non sia il prodotto di una mente consapevole. Ecco dove siamo ridotti a cercare barlumi di una religione un tempo gloriosa e ora obliata: nelle più turpi e grossolane commedie!

La recensione negativa del navigatore mm40, trovata su Filmtv.it, merita senza dubbio di essere riportata in questa sede:

"Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno ha un ruolo di culto fra i tanti decamerotici (commedie pecorecce farcite di nudi e volgarità, che vennero realizzate in serie e a bassissimo budget nel giro di 3-4 anni in seguito all'uscita del Decameron di Pasolini, 1971). Non si capisce bene perchè: forse per il curioso e arzigogolato titolo - tratto da una battuta del film -, perchè in effetti nè regista, nè interpreti, nè situazioni particolari della trama possono rimanere più di tanto impressi positivamente nella mente dello spettatore e aiutarlo magari a distinguere questo lavoro dagli innumerevoli similissimi che in quel periodo il cinema italiano sfornava senza posa. Bitto Albertini è fuori luogo: amante di un cinema esotico, da cartolina (Emanuelle nera, Nudo e crudele sono fra i suoi titoli più noti), qui si ritrova a dover imbastire una farsuccia scombiccherata a base di corna, nudi femminili e altre corna, con una sceneggiatura scritta peraltro proprio da lui con la collaborazione di Marino Onorati, mestierante non del tutto disprezzabile (Ultimo tango a Zagarol, L'esorciccio). Allo stesso modo il cast è assolutamente risibile: gli unici nomi che spiccano sono quelli di due caratteristi come Antonio Cantafora (qui protagonista) e Luca Sportelli (in un ruolo minore); si aggiungano pure le musiche dozzinali di uno Stelvio Cipriani fuori forma, nonchè le già note lacune tecniche del regista (in questo caso, data la realizzazione misera e frettolosa, perfino esuberanti): la frittata è fatta. Di Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno vale la pena segnalare soltanto una breve scena che vede marito e moglie seduti vicini sulle domestiche cloache; mentre i sottintesi erotici/sessuali si sprecano (l'amante di lei è nascosto nella 'tazza' di lui), lui sta defecando copiosamente e Albertini non manca di inquadrare dettagliatamente la produzione dell'atto, che va a spalmarsi leggiadra sul terzo (mai così tanto) incomodo. La storia del teatro e della letteratura mondiale potrebbe essere sconvolta: nasce il nuovo binomio Amore e Merda. 1/10."   

Che altro dire? Senza volerlo, mm40 evoca quello che a parer mio dovrebbe fondare ogni rappresentazione dei rapporti tra i sessi: l'indissuolubile unione dell'Amore e dello Sterco. Tutto inizia e finisce nella Merda. Che teatro e letteratura siano devastati da una Rivoluzione Fecale! 

Citazioni:
"A Montelupone si pecca bene e ci si purifica meglio."

Altre bizzarrie: 
Notevole è il personaggio di un mercenario svizzero, ardente sodomita attivo che cerca ogni pretesto per sfondare deretani, ricorrendo a un ingegnoso agguato.

mercoledì 20 luglio 2016


COLLASSO. COME LE SOCIETÀ
SCELGONO DI MORIRE O VIVERE

Titolo originale: Collapse: How societies choose
     to fail or succeed

Autore: Jared Diamond
Prima edizione: 2005
Lingua originale: Inglese
Genere: Antropologico/storico
Editore: Einaudi
Collana: Saggi
Curatore: L. Civalleri
Traduttore: F. Leardini

Sinossi (da Amazon.it): Sono molte le civiltà del passato che parevano solide e che invece sono scomparse. E se è successo nel passato, perché non potrebbe accadere anche a noi? Diamond si lancia in un ampio giro del mondo alla ricerca di casi esemplari con i quali mettere alla prova le sue teorie. Osserva somiglianze e differenze, storie e destini di antiche civiltà (i Maya, i Vichinghi, l'Isola di Pasqua), di società appartenenti al Terzo Mondo (Ruanda, Haiti, Repubblica Dominicana) o che nel giro di un solo secolo si sono impoverite, e individua le cause principali che stanno dietro al collasso: degrado ambientale, cambiamento climatico, crollo dei commerci, avversità dei popoli vicini, incapacità culturali e politiche di affrontare i problemi.

Indice:

    Prologo - Due fattorie
    Parte prima - Un caso di studio: il Montana
        1. I cieli sconfinati del Montana
    Parte seconda - Il passato
        2. Il crepuscolo degli idoli di pietra
        3. Gli ultimi sopravvissuti: le isole Pitcairn ed
            Henderson
        4. Gli antichi americani: gli anasazi e i loro
            vicini
        5. I Maya: ascese e cadute
        6. I vichinghi: preludi e fughe
        7. La verde Groenlandia
        8. La fine dei norvegesi in Groenlandia
        9. Due strade per la vittoria
    Parte terza - Il presente
        10. Malthus in Africa: genocidio in Ruanda
        11. Un'isola, due popoli, due storie: la
             Repubblica domenicana e Haiti
        12. La Cina, un gigante instabile
        13. L'Australia, grande miniera
    Parte quarta - Lezioni per il futuro
        14. Perché i popoli fanno scelte sbagliate?
        15. Business e ambiente
        16. Il mondo è il nostro polder

Recensione:

Questo libro di Diamond è un autentico gioiello, pieno zeppo di informazioni che non è facile reperire e che sono di grande pregio, vere e proprie boccate di ossigeno per la mente. Ovviamente le pagine più ispirate sono quelle che ritraggono civiltà che non hanno avuto successo nei loro tentativi di sopravvivere e che sono quindi incorse nel disastro. Trovo invece meno interessanti i tentativi di trarre una morale ottimistica dalla gigantesca mole di dati riportati. Se l'autore identifica correttamente la causa principale del genocidio del Ruanda, ossia la pressione demografica - arrivando a preconizzare un suo possibile ripresentarsi - non gli riesce di comprendere che tali mattanze non riguarderanno nel prossimo futuro soltanto l'Africa, ma fioriranno ineluttabilmente in Europa. Infatti proprio le nazioni del Vecchio Continente costituiscono il ricettacolo in cui si già adesso si stanno sversando le eccedenze demografiche delle regioni subsahariane, con tutto ciò che ne consegue. Credere che dalla globalizzazione possano scaturire motivi di speranza, seppur cauta, mi sembra assurdo come pensare che si possa curare un'infezione da Escherichia coli tramite pratiche di coprofagia. Non mi si dovrà dunque biasimare se affermo che il libro è tanto meno riuscito quanto più si procede nella lettura, andando dal capolavoro che è l'analisi del passato alla mediocrità delle conclusioni.  

La parte che illustra la storia della colonia norvegese in Groenlandia è piena di dettagli curiosi ed è quella che mi ha più colpito. Solo per fare un esempio, ci si imbatte in un fatto innegabile quanto strano: i discendenti dei Vichinghi stanziati nella Terra Verde non mangiavano pesce. Dall'analisi dei sedimenti di rifiuti di diversi siti, i residui ittici ammontano a circa lo 0,1% del totale (contro percentuali maggiori del 50% in Islanda e in Norvegia). Non si sono trovati quasi strumenti adatti alla pesca, come ami e lenze. In un sito addirittura fu mangiato un solo merluzzo nel corso di un secolo. Diamond riesce a resistere a tutti i tentativi cervellotici di spiegare questa anomalia, enunciando un'ipotesi geniale. Il fondatore della colonia, Erik il Rosso, fece una terribile indigestione di pesce e si salvò per miracolo. Come conseguenza per 450 anni il pesce in Groenlandia fu tabù, anche a costo della morte per fame.

Le condizioni di vita erano spaventose e si facevano sempre più dure con il passar dei decenni. I discendenti dei primi coloni, legati all'allevamento del bestiame bovino, si dimostrarono incapaci di far fronte al clima che procedeva verso una vera e propria piccola glaciazione. I bovini era liberi di pascolare per pochi mesi l'anno, poi venivano rinchiusi in poste che erano come sepolcri, dove rimanevano murati durante il terribile inverno. Gli escrementi non potevano essere rimossi e nel corso della stagione invernale si accumulavano fin quasi a soffocarli. I servi dovevano trascorrere i mesi bui in tali buchi di merda, impegnati a nutrire a forza gli animali. Soltanto la primavera successiva i bovini venivano liberati dalla loro atroce prigionia: le poste venivano aperte, lo sterco veniva spazzato via e il bestiame reso rachitico cercava di reggersi sulle proprie deboli gambe, avviandosi al pascolo. Era un allevamento che richiedeva una gran quantità di sforzi e che non rendeva nulla: venne continuato fino alla fine perché era ritenuto segno di prestigio sociale.

Nonostante le condizioni disumane di sopravvivenza, i Groenlandesi investivano gran parte delle loro risorse per costruire chiese e per mantenere i vizi del Vescovo, che faceva importare vino e campane di bronzo a costi proibitivi. Per alimentare queste pretese inique e per pagare le esose decime, venivano organizzate battute nel Norðrseta, il territorio di caccia del Nord. Erano spedizioni pericolosissime, che sottraevano una gran parte della forza lavoro alla comunità proprio nella stagione del maggior bisogno. Causa la scarsità di legno e di ferro, le imbarcazioni erano malsicure, le armi rudimentali e poco adatte ad affrontare le fiere. Eppure con questi mezzi, i cacciatori riuscivano a massacrare un gran numero di trichechi e di orsi polari. Le carcasse venivano macellate in loco: non c'era posto per la carne sulle navi. Veniva trasportato qualche esemplare vivo di orso polare vivo e di girifalco, oltre alle pelli degli animali uccisi e alle zanne dei trichechi. Si trattava di merci inestimabili, che pretendevano però uno spaventoso tributo di sangue. 

L'autore è assolutamente incapace di accettare che i Groenlandesi non abbiano adottato la tecnologia degli Inuit, che avrebbe permesso loro di sopravvivere - ad esempio cacciando le balene in mare aperto. Per molte pagine continua a chiedersi perché questi discendenti di Vichinghi abbiano dissipato risorse per la costruzione di chiese, per le pompe del Vescovo e per le spedizioni nel Norðrseta. Nonostante la sua acuta capacità d'analisi e la vastità delle sue conoscenze, Diamond non coglie appieno il nòcciolo della questione. Pur enunciando in termini freddamente razionali la corretta spiegazione dell'agire dei coloni, non è in grado di comprenderla: il suo pensiero laico ha il sopravvento, sembra quasi che egli si aspetti che ogni popolazione del globo in ogni epoca storica debba agire sempre e comunque secondo un principio laico. Tuttavia i Groenlandesi erano religiosi e ritenevano i pagani Inuit seme del Diavolo, non veri e propri esseri umani. Ogni forma di promiscuità con gli Skrælingar e con le loro usanze avrebbe avuto una conseguenza ben più tremenda della morte per fame: la Dannazione Eterna.

Trovo molto interessanti anche altre parti dell'opera, come quella che parla degli abitanti dell'Isola di Pasqua e quella dedicata agli Anasazi. In quello che oggi è il Sudovest degli Stati Uniti fiorirono diverse civiltà che edificarono strutture architettoniche mirabili. Queste culture si svilupparono e si estinsero in tempi diversi. Tra loro vi erano gli Anasazi, il cui nome significa Antichi nella lingua dei Navajo (l'endoetnico è sconosciuto). All'inizio l'area era ricca di conifere e di ginepri, che fornivano cibo e legname alla popolazione, integrando le risorse dell'agricoltura e della caccia. Nel corso dei secoli, la popolazione crescente e l'aridità del clima causarono seri problemi. Diamond descrive il disgregarsi della società fino al suo crollo finale, quando imperversarono lotte intestine e si verificò la prevalenza del cannibalismo. Un grave problema trattato da Diamond è quello degli studiosi negazionisti, che si sono a lungo ostinati a combattere con ogni mezzo l'idea che tra gli Anasazi potessero allignare costumi antropofagi. Tale forma di negazionismo è tutt'altro che raro in antropologia e ha la sua origine in motivazioni moralistiche che possono ben essere viste come un ramo del pestilenziale albero del buonismo. Il ragionamento di base è semplice, per quanto deleterio: "Se si ammettesse l'esistenza del cannibalismo svincolato da episodi estremi di necessità di sopravvivenza, si giungerebbe a conclusioni pessimistiche sulla natura umana". A tutto ciò si oppone - oltre che l'evidenza dei fatti - quanto detto da Kant: "Da un legno così storto come quello di cui è fatto l'uomo, non può uscire nulla di interamente diritto". Tramite le analisi di resti archeologici e di escrementi rinsecchiti si è riusciti a ricostruire con precisione la dinamica della tragedia in cui è perita la civiltà Anasazi. Intere famiglie sono state predate e sterminate, dai crani è stato prelevato lo scalpo (con buona pace di chi reputa la pratica non autoctona), le carni tagliate sono state cucinate assieme al mais, le ossa sono state spezzate per estrarne il midollo. Sono state trovate pentole usate per la cottura e nelle feci sono stati scoperti abbondanti resti di miosina umana. Escrementi depositati nel luogo del banchetto tiesteo, senza dubbio in spregio alle vittime che sono servite a satollare gli stomaci degli assassini. Questi sono i fatti di fronte ai quali nulla possono le menzogne dei buonisti di ogni genere.

sabato 16 luglio 2016

ALCUNE RIFLESSIONI SU ISLAM, TERRORISMO E RADIONUCLIDI

Si è obiettato infinite volte che "islamico" non è sinonimo di "terrorista" - e si continua a farlo in occasione di ogni atrocità compiuta da musulmani. Benissimo, sono il primo a riconoscere che i due concetti non sono affatto equivalenti. Tuttavia è bene fare qualche precisazione, e lo farò servendomi di semplici nozioni di fisica nucleare.

Ora spiegherò cosa sono gli islamici. Essi sono paragonabili a una gran massa di radionuclidi, come ad esempio il plutonio-239. La trasformazione di un islamico in un terrorista è paragonabile al decadimento di un atomo di plutonio-239. Nessuno può predire quando questo avviene, si sa soltanto che avverrà seguendo una legge probabilistica. Potrebbe accadere in qualsiasi momento come potrebbe non accadere per anni. Potrebbe benissimo non accadere mai nell'arco della vita della maggior parte degli islamici, ma questo all'atto pratico non cambia le cose. Non esiste nessun islamico immune dalla trasformazione, come non esiste nessun atomo di plutonio-239 immune da decadimento. Così il pizzaiolo egiziano che mi prepara la pizza maneggiando la carne di porco - un bravo ragazzo non particolarmente religioso che beve birra - un giorno potrebbe impugnare un coltellaccio e sgozzarmi. Se domani stesso dovessi apprendere che è andato in Siria e che tornerà per uccidere, la cosa non mi stupirebbe minimamente. 

Usare l'aggettivo "moderato" in riferimento agli islamici è un grave errore, in quanto attribuisce loro un'identità politica che non ha nessun riscontro con la realtà, che è una pura e semplice chimera. L'aggettivo corretto è "lassista". Si capisce bene che un islamico lassista è ben consapevole di essere in difetto, e il modello ideale a cui aspira è sempre e soltanto uno solo: il mujahid. I buonisti scambiano per identità politica l'accidia, la mancanza di volontà, l'incapacità di resistere alle tentazioni. Ancor più errano coloro che attribuiscono agli islamici lassisti l'adesione al concetto di "democrazia". Islam e democrazia sono due termini che fanno a pugni. Islam significa sottomissione alla volontà di Dio, mentre la democrazia è un tentativo balbuziente di affermazione della volontà umana.

Ho udito un imam sostenere, e non senza ragione, che al mondo i musulmani sono un miliardo e mezzo, aggiungendo che se fossero tutti come gli uomini del Califfo, la civiltà sul pianeta Terra non sarebbe possibile. L'Islam non è questo, continuava a dire, prendendo le distanze dal jihadismo. Grazie a Dio, l'Islam non è così, insisteva, pensando in questo modo di dare maggior forza alle sue argomentazioni. Però una chiara, inequivocabile condanna di chi uccide in nome di Dio non gliel'ho sentita mica pronunciare, in nessuna occasione. Ed è naturale. Se esistono versetti del Corano in cui si dice che gli infedeli devono essere sterminati, e che coloro che si arrendono devono essere sottomessi, nessun imam potrà mai davvero biasimare chi mette quei comandamenti in pratica. E come potrebbe senza contraddire la sua stessa religione? 

Qualcuno si chiede come le "fatwe" (sic) siano pronunciate contro vignettisti, scrittori, personaggi di spettacolo e mai contro i terroristi che infangano il Profeta e l'Islam con i loro crimini orrendi. Altri, rabbiosi, sciorinano decine di occorrenze di condanne - non certo veementi - pronunciate da imam nei confronti dei jihadisti, definiti "non islamici". Tutti costoro si ingannano. Esistono le false fatawa (mi si perdoni se per comodità non uso i macron), così come esiste la menzogna per motivi religiosi: si chiama taqiyya. È una semplice quanto efficace strategia di sopravvivenza o per propiziarsi poteri ostili. Uccidere per motivi religiosi era del tutto normale ai tempi di Maometto, le stragi non erano "crimini orrendi" e il pensiero umanitario odierno non solo non sussisteva: era inconcepibile. Pretendere di applicare le proprie categorie a realtà che non le concepiscono porta soltanto a un risultato: il disastro.

Al di là di tutte le ipotesi e le supposizioni che si leggono su quanto sta accadendo, resta un dato di fatto incontrovertibile: la diffusione del jihadismo e del salafismo in Europa è stata resa possibile dai buonisti. Dire che i buonisti sono vigliacchi traditori è riduttivo: essi sono gli equivalenti in forma umana dell'AIDS. Li si riconosce all'istante: cercano di difendere in tutti i modi i tagliagole e di scagliarsi contro gli anticorpi. Costoro sono pericolosi come la loro stessa ignoranza, sono letali strumenti della peste memetica. A sentirli, sono tutti uguali, identici e indistinguibili come le particelle di un gas quantistico. Le loro parole non sono prodotti di pensieri individuali: vengono dal Contagio. In virtù di chissà quale conoscenza occulta, questi agenti patogeni credono di aver stretto un patto con le oscure forze di Nemesi e di essere invulnerabili. Tutti i difensori dei tagliagole sono convinti di sapere tutto. Per alcuni è una macchinazione dell'America, le cui cause devono essere politiche ed economiche, dato che a sentir loro nessuno può credere a tal punto da uccidere in nome di Dio. Per altri invece il terrorismo semplicemente non esiste: gli assassini sono in tutti i casi "depressi", la causa di ogni attentato è sempre il "disagio". Sapere queste cose - così sostengono - permetterà loro di passare tra una pallottola e l'altra, di non essere coinvolti in alcuna esplosione, di non avere la gola recisa.

martedì 12 luglio 2016

BASTA COL BUONISMO: I PUFFI DOVREBBERO CHIAMARSI STRONFI


Il nome originario dei Puffi è Schtroumpfs /ʃtrumpf/, parola dalla sonorità tedesca, usata da Peyo per trascrivere un verso gutturale da lui emesso non sapendo come indicare una saliera, in occasione di un pranzo con gli amici. Così disse qualcosa come "Passe-moi le... 'Schtroumpf'!" Quella strana vocalizzazione piacque e ne nacquero le simpatiche creature azzurrine dotate di evidenti simbolismi mithraici. Anzi, si tratta di una vera e propria comunità di fedeli di Mithra in berretto frigio, col Grande Puffo come Pater Patrum. Sui significati esoterici di questo singolarissimo fumetto torneremo in altra occasione.

Si capisce che il nome italiano dei Puffi avrebbe dovuto essere Stronfi, dal semplice adattamento fonetico di Schtroumpf. Tuttavia, data l'assonanza di Stronfi con stronzi, si dovette trovare un nome diverso, una sorta di eufemismo. Questa sostituzione di "Stronfi" con "Puffi" è uno dei tanti effetti deleteri del buonismo. I censori della Repubblica erano terrorizzati all'idea che i bambini di tutt'Italia cominciassero a usare la parola "stronfo" a ogni piè sospinto, inquinando l'aere. Ogni assonanza fecale andava stroncata sul nascere. Così qualche burocrate della Censura esercitò la sua pressione e un geniale traduttore pensò di prendere a prestito dal francese il vocabolo pouf /puf/ - che indica uno sgabello o poggiapiedi interamente costituito da imbottitura - dando così origine al fortunato nome dei Puffi.

Sarebbe un errore credere che il buonismo sia stato introdotto in Italia dai neocomunisti. Sue manifestazioni esistevano già in varie nazioni europee. Ad esempio aveva una tradizione radicata nella Germania Nazionalsocialista: la propaganda di Goebbels può ben essere definita a tratti come buonista. L'esempio più innocente di meme goebbelsiano buonista è il mito di Hitler astemio e vegetariano (in realtà il Cancelliere faceva i suoi assaggi di vino e amava il piccione arrosto di Amburgo). Simili trovate non sono che mezzi per nascondere la realtà e presentarla sotto il manto dell'ideologia. Nell'uso di questo strumento Goebbels deve essere considerato un dilettante: è nell'attuale regime democratico che si hanno i suoi esiti più aberranti e paradossali. In Italia, prima della fine dei PCI e della nascita di mostruose entità politiche come l'Ulivo, seguito dall'ancor più deleterio PD, il buonismo assumeva soprattutto l'aspetto del tabù verbale. Certe parole non si potevano pronunciare. Così i piedi dovevano essere chiamati "pioti" o "estremità"... e gli Stronfi dovevano essere chiamati Puffi.

domenica 10 luglio 2016

L'ETIMOLOGIA GENUINA DI ULM E ALCUNI FALSI TENTATIVI DI SPIEGAZIONE

Mi sono imbattuto, sempre negli angiporti del Web, in qualcosa di veramente insensato. Si tratta di un tentativo ridicolo di interpretare il nome della città tedesca di Ulm, che diede i natali ad Albert Einstein e che visitai molti anni fa, ritenendolo un acronimo della locuzione latina ultra limites militiae, ossia "oltre i confini della milizia". Ulm si trova nel Baden-Württemberg ai confini con la Baviera, e in effetti in epoca antica doveva essere un villaggio danubiano proprio poco oltre i limiti dell'Impero Romano. Questo però non significa che il suo nome avesse traesse da ciò la sua origine. Nel corso dei secolo sono state proposte altre simili fanfaluche fondate su fantomatiche sigle latine, come ad esempio l'abbreviazione di V Legionis Mansio o di V Legio Manlii. Quest'assurda e puerile moda di interpretare per mezzo di acronimi tutto ciò che non si conosce dovrebbe finire una volta per tutte: è una figlia indecorosa dell'ignoranza più crassa e belluina del volgo.

Il toponimo Ulm in realtà ha un'origine che non è davvero molto elevata: in protogermanico la radice *ulm- significava "fango, sozzura". Questi sono i dati riportati da Sergei Starostin nel benemerito sito The Tower of Babel (starling.rinet.ru):

Proto-Germanic: *ulm=
    Meaning: mould
    Norwegian: dial. ulma `schimmeln'
    East Frisian: olm, ulm `Fäulnis, bes. im Holz',
       ulmen `verfaulen',
    Middle Low German: ulmich `von Fäulnis
       angefressen'
    Middle High German: ulmic 'faulig, von fäulnis
       angegriffen'

Nelle lingue baltiche esistono paralleli coi significati di "percolato cadaverico", "acqua insanguinata", "siero sanguigno" e "pus"

Lithuanian: al̃mēs, dial. el̃mēs `aus dem Körper
     fliessende Materie, Blutserum, Blutwasser';
     almuõ `Eiter'

Esiste anche la proposta di derivare Ulm dal nome tedesco dell'olmo, che attualmente suona Ulme (f.), ed è riportato che tale pianta è comune nella zona (come in molte altre). Va però fatto notare che le forme più antiche per indicare l'olmo in alto tedesco avevano un diverso vocalismo, il che fa pensare che da un antico elm- (ben attestato) si sia dapprima formata una variante *olm- per arrotondamento della vocale, e che in seguito da questa si sua prodotta la forma Ulme, che si è poi generalizzata soltanto dopo l'epoca del medio tedesco. Una variante protogermanica *ulmo:(n) è ricostruita su basi abbastanza fragili. La radice ha la stessa origine indoeuropea del latino ulmus. Questo è quanto riporta Starostin:

Proto-Germanic: *ilma-z, *alma-z, *ulmō(n)
    Meaning: elm
    Old Norse: alm-r m. `Ulme; Bogen'
       Norwegian: alm
       Swedish: alm
       Danish: elm
    Old English: elm (ellm), -es m. `elm, elm-tree',
       ulm-trēow n. `id.'
    Middle Dutch: olme
       Dutch: olm m.
    Middle Low German: elm
    Old High German: elmo (um 800), elm (Hs.
        12.Jh.), ëlmboum (10.Jh.), ilma (Hs. 12.Jh.);
        ulm-boum (Hs. 12.Jh.)
    Middle High German: ëlm(e) st. f. 'ulme'
       German: Ulme f., frünhd. Ulme, Olme

L'estrema instabilità fonetica del fitonimo, unitamente all'assenza di suffissi (chiamare "Olmo" un luogo in cui gli olmi abbondano mi sembra poco soddisfacente), mi spingono a respingere questa etimologia.

La più antica attestazione della città di Ulm in un documento di Ludovico II il Germanico (854 d.C.) riporta la forma Hulma, con una h- spuria dovuta a ipercorrettismo, sicuramente da espungere. Ulma è la forma corretta, ben documentata, da cui l'attuale nome della città discende direttamente.

Esistono poi due toponimi formati dalla stessa radice *ulm- "putredine": Ulmach (antico Ulmaha) e Ulmau (antico Ulmauua), entrambi riportati nello Schwäbisches Wörterbuch mit etymologischen und historischen Anmerkungen di Johann Christoph Schmid, risalente al 1844. Ulmach significa "Fiume di Putredine", mentre Ulmau significa "Isola di Putredine" (il termine "isola" poteva anche indicare un campo interamente circondato da corsi d'aqua). La stessa fonte riporta le voci olm, olmig, olmerig, glossate faul, ossia "putrido", e il verbo olmen, glossato faulen, ossia "imputridire".

Il secondo membro del composto Ulmaha è l'equivalente alto tedesco del gotico ahva "fiume", che corrisponde al norreno ǫ́ "fiume" (scritto á dopo che la vocale /a:/ si è labializzata e confusa con /ɔ:/). Fuori dal mondo germanico, la parola ha il suo chiaro parallelo nel latino aqua.

Il secondo membro del composto Ulmauua è l'equivalente alto tedesco del norreno ey "isola". La forma gotica è *auja /'ɔ:ja/, gen. *aujos, n. pl. *aujos /'ɔ:jo:s/. Non è attestata nei brani della traduzione scritturale di Wulfila a noi giunti, ma è documentata da Iordanes nella sua opera De origine actibusque Getarum. Due sono i toponimi riportati da quell'autore che contengono questa radice: 

1) Oium (nome gotico del paese degli Sciti), sta per
     *Aujom /'ɔ:jo:m/ "Alle Terre Fluviali" (dat. pl.)
2) Gepidoios (isole alla foce della Vistola), sta per
    *Gaipidaujos
/'gɛpiðɔ:jo:s/ "Le Isole dei Gepidi".

La forma Oium documenta l'uso di forme al dativo in toponomastica ed è davvero notevole. È un vero peccato che finora i filologi non abbiano dedicato neppure un attimo di riflessione alle possibili consequenze di questo fatto.

mercoledì 6 luglio 2016

LA CHIESA GOTICA DI SVEZIA: UN FALSO STORICO



Sulla Wikipedia in inglese si trova la pagina dell'Arcidiocesi dei Goti e delle Terre del Nord, che traduco in questa sede a beneficio dei lettori: 

L'Arcidiocesi dei Goti e delle Terre del Nord è una Chiesa Ortodossa Orientale affiliata alla Vera Chiesa Ortodossa Russa (anche nota come "catacombista", un gruppo "deviato" che non deve essere confuso con la Chiesa Ortodossa Russa). È stata fondata nel 1994 a Mosca da Aleksey Sievers, che era stato ordinato arcivescovo col nome di Amvrosij (Ambrogio). È stata un corpo ecclesiastico e religioso registrato in Svezia a partire dal 2008.[1] 

Ambrogio ha ordinato "Vescovo di Gotland" in Svezia Teodorik Sutter nel dicembre 2011.
Rivendica successione apostolica tramite la Vera Chiesa Ortodossa Russa, e la gurisdizione territoriale derivante dal Metropolitanato di Gothia e Kaphas, la Chiesa dei Goti di Crimea nel Principato di Theodoro. Il Metropolitanato di Gothia era sotto la giurisdizione del Patriarca Ecumenico fino al 1783, quando, in conseguenza alla conquista russa della Crimea, fu trasferito alla Chiesa Ortodossa Russa.[2] La cattedra del vescovo fu lasciata vacante dal 1786. L'Arcidiocesi dei Goti rivendica anche la giurisdizione territoriale del Götaland, in Swezia, basandosi sulla storia della cristianizzazione della Scandinavia. 

Rivendica anche di essere la più antica autorità ecclesiastica in Scandinavia, con una presenza anteriore alla missione di Ansgario, presumibilmente con la chiesa di San Lorenzo nell'isola di Gotland, ora diroccata.[3][4] 

Secondo Aleksey "Ambrosius" Sievers, la Cristianità sarebbe giunta ai Goti precocemente, nella metà del I secolo ad opera di un viaggio missionario dell'Apostolo Andrea, molto prima della loro conversione all'Arianesimo sotto l'episcopato di Wulfila. "La giurisdizione ecclesiastica 'orientale' nel Västergötland, nell'Östgötaland e in Gotland era così ovvia a chiunque all'epoca, che persino Roma inviò il suo vescovo missionario, Sant'Ansgario, nello Svealand, dove il Cristianesimo al confronto era relativamente debole in quei tempi. E' abbastanza realistico parlare di inflenza gotica (bizantina) e celtica (poco dopo anglosassone) in Svezia, anziché di influenza romana [...]".[5] 

Queste rivendicazioni vanno contro il generale consenso degli storici del XX secolo, ma c'è qualche ricerca più recente che sembra corroboralre l'idea che il Cristianesimo possa essere stato presente in Svezia prima di quanto finora creduto, a partire dall'VIII o dal IX secolo, tramite trasmissione bizantina.[6] Questo presunto contatto culturale riflette l'espansione svedese ad oriente durante l'Era Vichinga (IX secolo), in cui fu stabilito il cosiddetto Khaganato di Rus' ai margini della sfera d'influenza bizantina.[7] 

Riferimenti (farlocchi?)

[1] I december förra året erkändes Gotiska Ärkestiftet som trossamfund i Sverige av Kammarkollegiet Marc Abramsson, Nationell Idag möter Katakombkyrkans gotiske ärkebiskop, Nationell Idag (2009)
[2] Demetrius Kiminas, The Ecumenical Patriarchate: A History of Its Metropolitanates with Annotated Hierarch Catalogs, 2009 p.19
[3] Gotlands allehanda, "Landsortskyrkor i fokus", 31/5-2010
[4] Bysantiska traditioner i Gotlands konst under 1100-talet, Svetlana Vasilyeva, 2009, Fornvännen 104 (PDF)
[5] Marc Abramsson, Nationell Idag möter Katakombkyrkans gotiske ärkebiskop, Nationell Idag (2009)
[6] Rhodin, Leon; Gren, Leif; Lindblom, Verner (2000). Liljestenarna och Sveriges kristnande från Bysans (PDF) 95. Fornvännen.se.
[7] e.g. Alfred Nicolas Rambaud, 'History of Russia', 1878.

A queste note aggiungo il link a un documento esteso reperito nel Web, in formato pdf, che raccoglie ogni genere di deliri, tanto che non so se classificarlo come testo ucronico oppure onirostorico:


Questa è l'iscrizione in caratteri runici riportata sull'emblema della Chiesa Gotica di Svezia e traslitterata:

Ufaraibiskopei Goþansk jah Norþlandsk

Il significato è questo:

Arcivescovado dei Goti e della Terra del Nord

Peccato che non si tratti di gotico di Wulfila, e nemmeno della lingua nota come gotico di Crimea. Inoltre si noterà che contiene diverse gravi inconsistenze.

La parola per "vescovado" dovrebbe alla meglio essere aipiskaupei /ɛ'piskɔpi:/, con la prima -p- non lenita. Sarebbe ben comprensibile un passaggio da -p- a -b- nel corso dei secoli. Un mutamento simile a quello che ha portato dal latino volgare all'inglese bishop e al tedesco Bischof "vescovo" - ma si noterà che la forma aipiskaupei (f.) è dotta e non trova corrispondenti. Non è inoltre detto che il suffisso ufar- "sopra" sarebbe stato usato per la traduzione della parola "arcivescovado". Più probabilmente sarebbe stato preso a prestito il prefisso greco ἀρχι- "primo, capo", come avvenne in altre lingue con mediazione latina, dando *arkiaipiskaupei. Un'altra alternativa è quella di usare la locuzione aipiskaupei hauha, ossia "alto vescovado", con paralleli anglosassoni (antico inglese hēah biscop "arcivescovo"). Vediamo invece che la forma goþansk è del tutto assurda. Innanzitutto, non presenta concordanza: dovrebbe avere un suffisso femminile. Poi il termine per indicare il concetto di "Goti, gotico" è guta-, gut-. Se si fosse trovato scritto Arkiaipiskopei Gutane, sarebbe stato decisamente più credibile. Il termine per indicare il nord dovrebbe scriversi *naurþr- /nɔrθr/, non *norþ-, essendo -o- il carattere che indica la vocale chiusa e lunga. Possiamo anche ammettere che nel tempo il suono aperto /ɔ/ della lingua di Wulfila si sia chiuso in /o/, ma dubito che sarebbe stato scritto usando il carattere che indica storicamente il suono lungo e chiuso /o:/.
"Arkiaipiskaupei Gutane jah Naurþralandis" sarebbe una denominazione ben plausibile, e Teodorico il Grande l'avrebbe capita alla perfezione.

Detto questo, la fantomatica organizzazione religiosa si fonda su pretese prive di fondamento e appartiene alla vivace galassia delle Chiese fondate dai cosiddetti Vescovi Vaganti. Se anche fosse dimostrata una labile presenza in Scandinavia del Cristianesimo Orientale giunto precocemente da Bisanzio qualche tempo prima della missione di Ansgario, questo non implicherebbe affatto che il signor Aleksey Sievers abbia titolo di proclamarsi Vescovo della Chiesa Gotica di Svezia e via discorrendo. Tra le due cose, ossia tra un fatto storico che potrebbe anche un giorno essere provato e un uomo del nostro secolo ordinato vescovo per corrispondenza, non sussiste il benché minimo nesso logico, né esiste una qualsiasi continuità. 

Nel Web si trova menzione del fatto ben singolare che questo Aleksey Sievers sarebbe riuscito a far riconoscere i Goti come minoranza linguistica in Svezia. Se così fosse, dovremmo ammettere che le autorità svedesi siano di un'ingenuità davvero degna dei Puffi, del tutto prive di consulenti competenti in grado di valutare la fondatezza delle rivendicazioni del primo stravagante che sorga dalla massa ignorante. Del resto cosa potremmo aspettarci da una nazione cieca che fa crescere una galassia di emirati islamici al suo interno pensando che il jihadismo non sia un problema? 

Il sito di tale Chiesa è linkato dalla pagina di Wikipedia:


Tuttavia si nota che questo url corrisponde oggi a uno squallido blog americano che tratta di politica, occupandosi di questioni relative ai massimi sistemi, come il fatto che Hillary Clinton si rifiuta di praticare la fellatio, e altre simili amenità. 

martedì 5 luglio 2016

GLI AQUITANO-RENANI: UNA COMUNITÀ AQUITANA TRAPIANTATA IN GERMANIA

Hagenbach è una piccola città della Renania-Palatinato (Rheinland-Pfalz), in Germania. In apparenza un centro abitato come tanti, che attualmente conta circa 5.300 abitanti. L'importanza di Hagenbach è tuttavia immensa per via dei reperti archeologici che vi sono stati scoperti. Si tratta di un gran numero di iscrizioni funerarie e votive di epoca romana, incise su placche d'argento (palmae argenteae). Sono state ritrovate durante i lavori di dragaggio di un ramo morto del fiume. La cosa di per sé non sarebbe così eccezionale, se non fosse che i nomi dei dedicanti che si leggono su molte di queste lamine sono tipici di un'area molto lontana da quella che all'epoca dell'Impero era la Germania Superiore. Infatti per trovare il luogo di provenienza ultimo di quegli antroponimi dobbiamo andare fino in Aquitania: sono riconoscibili a colpo d'occhio le radici basche della lingua aquitana, senza la minima possibilità. Il vasconista Joaquín Gorrochategui, dell'Università del Paese Basco (Universidad del País Vasco), ha dedicato uno studio all'argomento:   

J. Gorrochategui (2003), “Las placas votivas de plata de origen aquitano halladas en Hagenbach (Renania-Palatinado, Alemania)”, Revue Aquitania 19, 25-47.

So quanto il Web possa mostrarsi avaro di informazioni, a dispetto dell'opinione corrente: in non pochi casi gli accademici si rifiutano di rendere pubbliche conoscenze che appartengono per diritto all'intero genere umano, forse per una loro sordida e meschina indole, simile a quella del Gollum che rimirando l'anello continua a biascicare: "Il mio tessoro!" 
Lungi da me l'idea di attribuire nello specifico questa inclinazione proprio al valido Gorrochategui, ma sta di fatto che quando un navigatore cerca qualcosa di concreto, spesso si trova nell'impossibilità di ottenere risultati concreti ed è costretto a vagare da un sito insostanziale a un altro, trovando solo riferimenti. Per fortuna esiste un sito che riporta, nel corpus delle iscrizioni aquitane, anche le iscrizioni di Hagenbach: 


Nulla è stabile in questo mondo: si sono dati molti casi di siti Web venuti meno all'improvviso e mai ripristinati. Così raccolgo le iscrizioni che ho potuto reperire e le pubblico in questa sede: 

DOMINO / MA<R>TI AVG(usto) / IVLIAN-/NVS BIOXXI / FILIVS / DONVM SOLVIT / (Votum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

D(omino) MARTI / BEREXE / SEMBI / FILIA / vac / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

D(omino) MAR-/TI AVG(usto) / IVLIA-/NVS BIOX-/XI FILIVS / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

D(omino) M(arti) / AND-/OS | LEVRI-/SI / vac / vac / vac / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

D(omino) M(arti) / XALI-/NVS / SALI-/XI / vac / vac/ vac / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

VERECV[N]-/DV(s)  BELE-/XI  

D(omino) M(arti) / AND-/OSSVS / OBBELLEXXI   

D(omino) M(arti) / XEM-/BVS / BAM-/BIXXI / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

MARTI / VOTVM  rev.: CIVRXOS / DOXXI  

V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito) / D(omino) M(arti) / BAM-/BIX-/XVS / SEM-/BEOC-/CI  

SEVE-/RVS IVALLIS 

D(omino) M(arti) / BONXV(s) SE-/MBEDO-/NIS // IVLI / L  

SILIXIV[S] / CARER-/DONIS / D(omino) | M(arti) / V(otum)  

XEMB-/ESVS / HISSI / D(omino) M(arti) / [---] V(otum) S(oluit) L(ibens) / M(erito)   

DOMINO / MA<R>TI | A<V>GVSTO / [I]VLIVS / BONN-/OXVS / vac / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito) 

D(omino) MAR-/[TI] A<V>GV(sto) / BONXV(s) / [-]ONNI / [F]ILIVS/ [V(otum) S(oluit)] L(ibens) M(erito)  

CERE-/CO TE-/SSEB-/ARI / V(otum) S(oluit) L(ibens) M(erito)  

IVLIANA HANDOS DOMINI M(arti) V(otum)  

AMOIII /// MATI  

ANDOSSVS BANBIXXI  

VICTORIS SEMBI // VICTORIS  

Gli accademici sono inclini a ritenere che queste lamine d'argento risalgano al III secolo d.C. e che siano originarie di Lugdunum Convenarum (nella regione pirenaica, oggi Saint-Bertrand-de-Comminges). Per spiegarsi la loro presenza in una regione tanto distante, ipotizzano che siano finite in Germania come frutto di un bottino di guerra predato nel corso di una devastante spedizione della popolazione alemannica in pieno territorio aquitano. Questa ipotesi è stata suggerita anche dal ritrovamento di un secondo tesoro a Neupotz, un luogo non distante da Hagenbach, e al fatto che numerosi oggetti mostrino una provenienza diversa, dalla Gallia Celtica alla Belgica e all'Elvezia. Nel tentativo di comprendere come mai le lamine argentee si trovassero sul fondo di un fiume, gli studiosi hanno fatto ricorso alla loro sfrenata fantasia: gli Alemanni fuggiaschi, inseguiti dai Romani, si sarebbero liberati dello scomodo tesoro - forse per paura di essere incriminati dall'Ispettore Clouseau :) 

Respingo senza indugio questa ricostruzione dei fatti. Senz'altro il III secolo fu per Roma un'epoca traumatica funestata da numerosi sconvolgimenti. Il regno di Gallieno è considerato da alcuni - ben a ragione - come il punto più basso della decadenza dell'Impero, in cui tutto era in procinto di rovinare. Proprio verso l'anno 260, all'incirca l'epoca in cui gli accademici collocano l'importazione delle lamine d'argento in Germania, avvenne un fatto molto significativo: l'abbandono degli Agri Decumates, che Gallieno non poté più difendere dalle continue incursioni degli Alemanni. Ci si dimentica tuttavia di un fatto: l'Impero Romano fu una realtà cosmopolita, e lo fu addirittura in misura maggiore dell'Europa moderna. Non è affatto necessario postulare eventi traumatici per spiegare reperti come quelli di Hagenbach. Gli Aquitani in Renania dovevano essere una comunità formatasi ben prima della decadenza di Roma, partendo dallo stanziamento di legionari. Una volta terminato il servizio, questi militari anziché fare ritorno nella loro terra d'origine, rimanevano in quella a cui erano stati destinati. Anziché prendere con sé donne locali, dovettero far giungere in Germania le loro famiglie, abitando in quartieri propri. La realtà che si costituì dovette durare a lungo e mantenere la propria identità. Trovare riferimenti storici precisi non è poi così difficile. In Germania Superiore era tutto un pullulare di militari la cui lingua nativa era aquitana: in quella terra abbiamo notizia della COHORS I AQUITANORUM BITURIGUM, della COHORS I AQUITANORUM VETERANA (attestata nel I secolo d.C. proprio in Renania-Palatinato), della COHORS II AQUITANORUM EQUITATA (attiva già nel I secolo d.C.) e di altre ancora. Negli stessi luoghi dovevano vivere anche immigrati dalla Celtica e dall'Elvezia, il che spiega la natura composita dei reperti. Ad esempio abbiamo attestazione della COHORS I HELVETIORUM. Se diamo un'occhiata ai movimenti e agli stanziamenti di coorti e legioni nelle varie parti dell'Impero, rimaniamo disorientati. Vediamo Taifali nella Gallia Celtica e in Britannia, Aquitani in Britannia e in Rezia, Asturi e Traci in Germiania Inferiore, Lusitani in Pannonia e in Palestina, Iberici in Dacia, Sardi in Mauretania e via discorrendo. La presenza di un fante della Cohors I Aquitanorum Veterana è attestata addirittura ad Ancyra (attuale Ankara)!  

Il fatto che il tesoro di Hagenbach fu trovato in un ramo morto del Reno non è poi così misterioso: doveva essere parte della dotazione di un tempio di Marte che finì con l'essere distrutto da folle di fanatici cristiani, che gettarono nel fiume ogni reliquia pagana. Non vale nemmeno l'obiezione di chi pensa che i profanatori del tempio avrebbero fuso l'argento e l'avrebbero riutilizzato: si sa che i Cristiani ritenevano contaminati i tesori dei templi pagani. Così si sono trovate monete sparse sul pavimento di mitrei devastati, che nessuno si sognava di raccogliere e di usare, dal momento che erano credute proprietà del Diavolo. In altre parole, sono esistiti partigiani della nuova religione che non attribuivano validità alcuna al detto pecunia non olet.

L'ENIGMATICA DEA NEHALENNIA. UN TEONIMO AQUITANO?


In alcune regioni settentrionali dell'Impero Romano era assai popolare il culto della Dea Nehalennia. Tradizionalente ritenuta di origine germanica, in quanto fiorente nella regione del Reno affacciata sul Mare del Nord, questa devozione era tuttavia diffusa anche nella Gallia Belgica, in particolare tra il popolo celtico dei Morini (dalla parola celtica more "mare"). La notorietà di questa divinità raggiunse regioni molto lontane, grazie ai marinai e ai mercanti che le affidavano le loro vite e le loro merci. Si sono trovati altari che riportano ex voto e dediche anche da parte di persone native della Gallia Celtica e della regione alpina, come ad esempio il marinaio Vesigonius Martinus, che era cittadino dei Sequani e viveva a Vesontio (oggi Besançon), il mercante Placidus figlio di Viducus, cittadino di Rotomagus (oggi Rouen), Publius Arisenius Marinus, liberto di Publius Arisenius e mercante in Britannia, e Marcellus da Augusta Raurica (oggi Augst, in Svizzera), che ricopriva la carica di sevir augustalis della città.

Nel territorio oggi conosciuto come Zelanda, alle foci del Reno, della Mosa e della Schelda, il culto sopravvisse alla caduta dell'Impero d'Occidente: ci è noto un santuario di Nehalennia che si trovava nell'isola di Walcheren e che fu distrutto da San Willibrord, nel 694 d.C. La scoperta dei suoi resti nel luogo oggi noto come Domburg avvenne dopo quasi un millennio, nel 1645, e fece scalpore.

L'iconografia della Dea Nehalennia è densissima di simboli e di significati esoterici, connessi senza dubbio con il suo ruolo di guida dei viandanti e di protettrice dai pericoli del mare. Era spesso rappresentata con in mano un remo e accompagnata da un cane benigno, che nelle credenze dei devoti doveva fungere da psicopompo: si pensa che si trattasse di un segugio. Si trovano spesso altri attributi nautici, come ad esempio la prora di una nave, oltre a un canestro pieno di mele, che presso i Germani erano connesse con l'idea della vita eterna. A volte al posto delle mele sono rappresentate delle pagnotte. Per associazione di idee, si pensa subito a una divinità ben conosciuta del pantheon nordico: la Dea Iðunn, che ha come principale attributo un cesto di mele, frutti a cui gli Asi devono la loro immortalità. Con ogni probabilità alla radice di queste figure femminili c'è uno stesso mito neolitico. 

Detto ciò, non esiste alcuna etimologia germanica plausibile per il nome di Nehalennia. Si è voluto connettere questo nome di divinità femminile al protogermanico *no:w-, *naw- "nave", presente ad esempio in norreno nór "nave", Nóatún "Recinto delle Navi" (dimora di Njǫrðr), naust "rimessa di navi", oltre che nell'anglosassone nōwend "marinaio" (-o:- è il naturale sviluppo germanico di IE -a:-). Tuttavia si vede bene che non quadra assolutamente né il vocalismo (non esiste alcuna variante indoeuropea in cui la radice compaia con -e-) né il consonantismo (se la -h- è etimologica, non si capisce come possa essersi formata in una lingua germanica, dato che dovrebbe risalire a indoeuropeo -k-). Dove è finito l'elemento labiale -w- che si trova in latino navis /'na:wis/ e in greco ναῦς? O si ammette una lingua indoeuropea del tutto diversa, con mutamenti fonetici del tutto peculiari, o si deve ritenere che la radice da cui Nehalennia ha formato il suo nome sia tutt'altra. Si deve menzionare anche il tentativo di derivare il teonimo da una radice germanica quasi omofona di quella che indica la "nave": si tratta di *naw- "morto, cadavere", che ha esiti in diverse lingue del gruppo (gotico naus, norreno nár, anglosassone nēo) ma che a mio avviso è un relitto di sostrato. Paralleli si trovano nelle lingue slave e baltiche. Le difficoltà già analizzate si ripropongono una per una. Se i germanisti hanno ipotizzato una connessione con le radici protogermaniche per "nave" o per "cadavere", è altrettanto vero che sono stati superficiali e frivoli, evitando di tracciare il quadro dei complessi (e inverosimili) mutamenti fonetici necessari.

Non hanno avuto maggior fortuna coloro che propongono un'origine celtica: si vede che Nehalennia può esser gallico come maccheroni è inglese. Oltre al fatto che la -h- sarebbe ben enigmatica anche in questo caso, al pari del vocalismo. Nelle lingue celtiche storiche un fonema aspirato /h/ non sussisteva affatto, e se ne trovava traccia soltanto nelle forme più antiche di questa varietà, dove deriva da indeuropeo /p/. Es. l'antico nome della Foresta Nera, Hercynia Silva, la cui radice celtica è dall'IE *perkw- "quercia", donde anche latino quercus (con assimilazione pkw). 

Varie etimologie-paccottiglia sono state elaborate non vano tentativo di spiegare il nome della divinità. Solo per fare un esempio, fu fatto il tentativo di identificare grossolanamente il nome con il greco Νέα Σελήνη (Nea Selene) "Nuova Luna", cosa impossibile già per motivi fonetici. Uno studioso secentesco olandese, Marcus Zuerius van Boxhorn, cercò addirittura di far risalire Nehalennia alla lingua degli Sciti, senza arrivare da nessuna parte, potendo contare su metodi filologici ben scarsi. Pur essendo stato tra i primi ad accorgersi della somiglianza tra il latino, il greco, le lingue germaniche, il persiano e altre - e il primo a postulare la loro origine da una lingua comune, che chiamò "scitico" - i suoi argomenti hanno un sapore decisamente prescientifico. Nehalennia per lui era semplicemente l'olandese "Nat Eiland", ossia "Isola Umida", e nella sua disquisizione grossolana cercava di dimostrare tra l'altro che il francese sarebbe stato una lingua germanica. Una gran congerie di confusione, dubbi ed errori. Non si trova nelle lingue indoeuropee della Persia alcun parallelo credibile.  

Il teonimo non ha l'aria di essere riconducibile a lingue indoeuropee attestate nella regione del Mare del Nord. I casi sono due: o è un relitto preceltico e pregermanico, che documenta una lingua locale più antica e sconosciuta, oppure è stato importato da fuori in epoca imperiale. Avanzo l'ipotesi che il teonimo sia aquitano e che derivi da una radice *ne(h)al- non sopravvissuta in basco, con un tipico suffisso genitivale in -eN che continua nel genitivo basco attale -en. Essendo i vocaboli baschi inizianti in n- ben rari già nella lingua antica, è ben plausibile che la radice sia entrata da una lingua di altro ceppo, il che renderebbe conto della sua stranezza. Tuttavia il suffisso ci indica che il teonimo ha la forma di un nome di possesso, che la radice deve essere il nome dell'oggetto posseduto o di una qualità, verosimilmente un attributo divino importante. A questo punto ipotizzo che *ne(h)al sia un antico nome protobasco che significa "giovinezza". In ultima analisi si tratta di un prestito dalla radice indoeuropea *new- "nuovo", che mostra un dileguo della -w- intervocalica, come accadeva in lusitano, una lingua indoeuropea preceltica affine al sorotaptico e a parer mio da attribuirsi al gruppo delle lingue liguri, ormai estinte. Solo per fare un esempio, in lusitano è attestata la parola OILAM "pecora" (all'accusativo), che deriva dalla stessa base indoeuropea del latino ovis, con dileguo della consonante. Giungo alla conclusione che la radice di Nehalennia sia quindi di una parola di origine ultima indoeuropea, ma assimilata da una lingua non indoeuropea. La consonante -h- sarebbe il ben noto separatore iatale del protobasco. Se la mia proposta trovasse conferma, sarebbe provata in modo inequivocabile l'identificazione di Nehalennia con la dea scandinava Iðunn, avendo i due teonimi lo stesso significato (cfr. antico alto tedesco itis "donna" e anglosassone ides "vergine, signora, donna", in origine "giovane donna").  

Anche se a quanto pare in pochi ne sono a conoscenza, esistono attestazioni di antroponimi aquitani in una regione percorsa dal Reno, anche se lontana dal mare: evidentemente alcune comunità sono state deportate sotto l'Impero o più probabilmente si trattava delle famiglie di legionari nativi dell'Aquitania che li hanno seguiti dando vita a una nuova enclave allogena tra i Germani che vivevano sotto Roma. Fenomeni di questo genere non erano affatto rari: sappiamo ad esempio della presenza di Aquitani in Sardegna. In tale regione remota furono dislocati probabilmente per via della somiglianza tra la loro lingua e quella dei Sardi, nel tentativo di favorire la pacificazione delle popolazioni native. Così penso che la spiegazione più plausibile di Nehalennia sia riconducibile a stanziamenti di Aquitani, e probabilmente addirittura a una singola persona che chiamò con un nuovo epiteto una divinità locale antica, dedicandole un ex voto per essersi salvato da morte certa nel corso di un naufragio. Il nome divino coniato da questo aquitano sarebbe piaciuto e si sarebbe così diffuso. 

sabato 2 luglio 2016


SULLA NATURA DEI CONNETTORI

Un universo casuale non ammette i connettori. Se la società umana fosse una rete casuale, nel modesto campione di 400 persone esaminate da Gladwell - con la sua media di circa 39 contatti sociali - anche l'individuo più connesso non raggiungerebbe i 118 contatti. E se il Web fosse una rete casuale, le probabilità che esista una pagina con 500 link dall'esterno sarebbero 10-99, ossia praticamente zero, a indicare che una rete casuale non contempla gli hub. L'ultima rivelazione del Web, invece, considerando un campione pari a quasi un quinto dell'intera rete, trovò 400 pagine con quelle caratteristiche, nonché un documento che aveva addirittura due milioni di link dall'esterno. Trovare un nodo di questo genere in una rete casuale è più difficile che localizzare un certo atomo in tutto l'universo. Se Holliwood fosse una rete casuale, Rod Steiger non esisterebbe, perché la probabilità che esista un attore con un così alto numero di collegamenti è all'incirca 10-120, una cifra talmente bassa che non ci sono metafore per renderla. Si spiega allora la nostra sorpresa quando, nelle nostre prime ricerche sulle reti del mondo reale, individuammo per la prima volta gli hub nel Web e nella rete di Holliwood. Non eravamo preparati a una scoperta del genere, perché nodi così connessi non rientravano né nel modello Erdõs-Rényi né in quello Watts-Strogatz. Semplicemente, la loro esistenza non era mai stata contemplata.
La scoperta che, sul Web, pochi hub si annettono la maggior parte dei link, inaugurò una ricerca frenetica in varie aree. I risultati furono stupefacenti: scoprimmo che Hollywood, il Web e la società umana non sono casi isolati. Come ora sappiamo, gli hub sono presenti anche nelle reti d'interazioni chimiche fra le molecole all'interno della cellula vivente.
Alcune molecole, come quelle dell'acqua o l'adenosintrifosfato (ATP), sono i Rod Steiger della cellula: partecipano a un numero enorme di reazioni chimiche. Su Internet, la rete che connette materialmente i computer di tutto il mondo, pochi hub svolgono un ruolo cruciale nel garantire il funzionamento della rete in caso di malfunzionamenti. Erdõs è il più grande hub della matematica, con ben 507 colleghi dotati d'un numero di Erdõs pari a uno. Secondo uno studio condotto dalla AT&T, una piccolissima parte dei numeri telefonici è responsabile di una frazione straordinariamente alta di chiamate inviate o ricevute. Chi ha un adolescente in casa potrebbe nutrire seri sospetti sulla reale identità di alcuni di questi hub telefonici, ma i veri colpevoli sono probabilmente le aziende di telemarketing e i numeri del servizio consumatori. Gli hub sono presenti in quasi tutte le grandi reti complesse studiate finora. Compaiono ovunque e sono uno dei mattoni fondamentali del nostro mondo complesso e intrecciato. 

Albert-László Barabási - Link, la nuova scienza delle reti
(Esilio a Mordor, 30/06/2007)

Si capisce bene come i connettori sono lo strumento dell'Artefice di questo universo maligno. I connettori pongono le subdole e inique basi della competizione, e la competizione è inseparabile dalla natura assassina della materia. Anche i più elementari meccanismi cellulari alla base dell'esistenza biologica riflettono questo esiziale orrore, questa turpitudine innominabile. Chi comprende a fondo i princìpi e le conseguenze dalla cibernetica non può che scorgervi la prova irrefutabile della realtà della Colpa Ontologica. È inutile che lo neghiamo: in ogni nostra cellula si celano manipoli di spietati killer, ogni nostra determinazione non può che soggiacere allo spietato, mortifero dominio delle Cose Composte. Finché non troveremo il modo di liberarci dal corpo, saremo soltanto onde quantistiche di delirio intrappolate in una buca di potenziale simile a un pozzo nero senza fondo.  

(Esilio a Mordor, 30/06/2007)