giovedì 20 settembre 2018

IL PRURITO DEL DRAGO
(Parte Terza)
 

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VIII 

La città dava il peggio di sé nelle ore notturne, quando le mura degli edifici rilasciavano il calore assorbito durante il giorno. Ondate di aria rovente trasformavano le strette  strade del centro in altrettante fornaci. Rinchiusi nelle proprie abitazioni, gli elissini boccheggiavano disperati. Attendevano il sopraggiungere dell’alba e di un poco di un refrigerio.
Di tanto in tanto un grido d’agonia squarciava il silenzio: la città aveva perso un abitante, stroncato dall’afa. Unici a rimanere attivi in quelle notti da incubo, gli addetti alle pompe funebri. Raccolti in crocchi intorno alle fontanelle nei giardini pubblici, vegliavano con uno stock di bare sempre a portata di mano, attenti a cogliere anche il più flebile rantolo che preannunciasse un decesso. Quando ciò accadeva, scattavano come branchi di lupi. Talvolta squadre di agenzie rivali si incrociavano nell’androne di un palazzo: ne scaturivano risse violentissime. La squadra che aveva la meglio irrompeva poi, trafelata, nella casa del morto. Neutralizzata la vedova con del cloroformio, i necrofori provvedevano al lavaggio, stiratura, vestizione e imballaggio del cadavere. Queste operazioni si svolgevano a una velocità stupefacente, frutto di un intenso addestramento. Il momento più critico era quello dell’uscita dal palazzo, e non tanto per  la difficoltà di calare una bara giù per scale anguste e pericolanti, ma per il rischio di vedersi scippare il morto da una squadra rivale appostata all’esterno. Fu durante una di queste notti che Kavàla e Garm fecero ingresso in città. Lo sgrinz, fedele alla parola data, li aveva condotti sino all’imboccatura del ponte.
  - Ho mantenuto il mio impegno. Non procederò oltre. Ci salutiamo qui, e per sempre. Confido di non ritornare più su questa terra in alcuna forma. Vi auguro di riuscire in ciò che vi prefiggete. Addio amici miei!
Kavàla carezzò il testone dell’onesto animale e altrettanto fece Garm. Erano entrambi emozionati.  Rimasero a guardare lo sgrinz che si allontava, sino a perdersi nel buio.
  - Non lo rivedremo mai più - singhiozzò Kavàla.
  - Ma non lo dimenticheremo.
Si misero in cammino, per sfuggire agli sciami di zanzare. Traversato di gran carriera il ponte in pietra che sovrastava il Nitico, si affacciarono su un ampio viale ai cui lati si ergevano costruzioni massicce.
  - Siamo ad Elissinia, finalmente.
Data l’ora, non si vedeva in giro anima viva.
  - Saranno morti tutti?
  - Non dire sciocchezze Garm, staranno dormendo.
Il viale sfociava in una piazza dominata da un imponente gruppo scultoreo: raffigurava un uomo in ginocchio, in abiti da domestico, intento a lucidare gli stivali di un uomo riccamente abbigliato e dal portamento altero.   
  - E adesso dove andiamo?
  - Chiediamo a quel cane randagio.
Un cane di mezza taglia, magro e dal pelo arruffato, si stava dirigendo verso di loro con andatura ciondolante. Aveva l’aria di essere avvezzo alla vita errabonda. Nei suoi occhi bigi la bontà d’animo traspariva, come spesso capita di osservare nei cani, sotto a un denso velo di tristezza.
  - Avete qualcosa da mangiare?
  - Dagli una galletta, Garm.
  - Siete nuovi di qui, vero? - chiese il cane sgranocchiando di gusto il cibo ricevuto.
  - Sì, e non abbiamo dove riposare.
  - A quest’ora è tutto chiuso. Ci sarebbe un posto fresco e riparato: se volete vi ci accompagno.
  - Sei senza padrone?
  - Ce l’avevo. E’ morto due anni fa.
  - Era molto anziano?
  - Non tanto, ma era malato. Ho vissuto con lui per sette anni.
  - Non è poco.
  - Specialmente per un cane. Ora, alla mia non più giovane età, mi ritrovo a spasso.
  - Non ci siamo ancora presentati: io sono Kavàla, lui è Garm. E tu, hai un nome?
  - Il mio padrone mi chiamava Anacleto.
Stavano così parlottando quando improvvisamente da un balcone si sporse un uomo in mutande, il quale li apostrofò aspramente.
  - La volete smettere di far rumore? Qui c’è gente che dorme!
  - Ci scusi, non volevamo disturbarla - replicò Kavàla.
  - E allora levatevi di torno!
  - Le pare questo il modo di rivolgersi a una donna?
L’uomo in mutande avvampò  di rabbia.
  - Adesso scendo e vi sistemo io! Vi concio per le feste!
Dì lì a poco si udì un gran trambusto, quindi una serie di pesanti tonfi seguiti da un urlo di dolore. I lamenti che giungevano da dietro il portone del palazzo non lasciavano adito a dubbi: l’uomo era caduto per le scale.
  - Sentite - suggerì Anacleto - togliamoci di qui, è meglio.
Mentre si allontanavano, una squadra di addetti alle pompe funebri sopraggiungeva di gran carriera reggendo una bara rozzamente intagliata. Due di essi forzarono il portone e ne uscirono reggendo il corpo esanime dell’uomo in mutande. Lo deposero nella cassa che i colleghi avevano poggiato sul marciapiede. In un battibaleno il coperchio fu inchiodato alla bara e la squadra ripartì a tutta velocità.
  - E’ bell’e morto? - domandò Kavàla, incredula.
  - Immagino di sì. A volte però, se non sono proprio morti del tutto, gli danno un aiutino.
  - E cioè?
  - Un colpetto alla base del cranio, giusto per accelerare la dipartita.
  - Certo che era proprio un bruto.
  - Se solo avesse immaginato quel che l’aspettava!
  - Mai lasciarsi trasportare dalla collera.
  - Mi ha sempre intrigato il tema delle passioni. Di un temperamento focoso si dice che è passionale.
   - E’ una questione di misura. Un individuo irascibile è un individuo spiacevole.
  - Anche un soggetto apatico non è propriamente il massimo.
  - Io sono stato spesso accusato di avere un atteggiamento apatico nei confronti della vita.
  - In effetti, Garm, un po’ lo sei davvero. Non ti curi di nulla: da quanto tempo non cambi l’abito che indossi? Sembri uno spazzacamino.
  - Ma io sono uno spazzacamino. Era quello, il mio mestiere. O meglio, lo è stato finché mi è capitato un incidente.
  - Racconta.
  - Una volta sono rimasto incastrato in una canna fumaria. E’ stato terribile.
  - Povero!
  - Da allora non ho più lavorato.
  - Hai cambiato mestiere?
  - No, ho smesso di lavorare del tutto. Mi sono dato alla meditazione.
  - E come mangiavi?
  - Grazie alla generosità del mio maestro Firlfrind.
  - E non hai fatto altro che meditare, da allora?
  - Sì, ma ti garantisco che è spossante.
  - Di grazia, qual era l’oggetto delle tue riflessioni?
  - La natura transeunte dei fenomeni, la mutevolezza delle forme.
  - Potevi almeno mutare i vestiti.
  - Lasciate che vi racconti una cosa - disse il cane. - Il mio padrone non ha mai lavorato in vita sua. Mai. Non l’ho mai visto chinarsi a strappare le erbacce in cortile. Era un tipo malinconico, usciva pochissimo di casa. Parlava sempre da solo.
  - Di che viveva?
  - Dell’eredità ricevuta da uno zio. E’ morto dopo aver speso gli ultimi spiccioli rimastigli.
  - Che storia!
  - Non mi sento di biasimarlo. Mi ha sempre dato da mangiare. Era un individuo inadatto alla vita, tutto qui.
Cammina cammina i tre amici giunsero nei pressi di una costruzione in pietra.
  - Seguitemi - disse Anacleto  - ma fate attenzione ai gradini: sono molti ripidi.
Discesero quattro rampe di scale e si ritrovarono nelle catacombe di Elissinia.
  - Sono state scavate nel tufo, secoli fa.
  - Da chi?
  - Dai primi seguaci della Nube Purpurea.
  - E perché si sono segregati qui sotto?
  - Per non essere uccisi.
  - E questi teschi a chi appartengono?
  - A quei primi seguaci.
  - Sono morti lo stesso, quindi.
  - Che ragionamento! Morire, prima o poi, si muore tutti, ma c’è modo e modo.
  - Così hanno preferito vivere come talpe?
  - Esatto.
  - Chiamala vita.
  - Ragazzi, le cose non sono mai così semplici come voi credete… C’è gente che passa l’intera esistenza in uno scantinato e poi muore, senza aver mai veramente vissuto. La vita come voi la intendete non è alla portata di tutti.
  - Io in queste catacombe non ci voglio stare. Non ci rimango un minuto di più! - esclamò Kavàla battendo i piedi per il nervoso.
  - Non ti preoccupare, dove vi porto io gli spazi non sono così angusti, fidati.
  - Dai Kavàla, coraggio, andiamo!
Garm si mostrava insolitamente deciso, cosa che sorprese non poco la ragazza, abituata a vederlo sempre titubante, in preda all’ansia e agli spasmi intestinali.
Anacleto si muoveva spedito.
  - Conosco palmo a palmo questi cunicoli! Ecco, vedete quella luce laggiù?
Al termine della galleria brillava una luce azzurra, la cui intensità andava aumentando man mano che il terzetto procedeva in quella direzione.
Kavàla strattonò Garm per un braccio.
  - Non pensi di dovermi una spiegazione? All’improvviso ti vedo deporre le tue titubanze e partire a spron battuto appresso a un cane in queste orride catacombe. Dove mi stai conducendo? E tu, Anacleto, credi forse che io sia così sciocca da credere che il nostro incontro con te sia stato casuale?
Garm interruppe la propria corsa.
  - Hai ragione. E’ il momento che io metta le carte in tavola. La missione di cui ti ho parlato consiste nel restituire la libertà al mio Re, rinchiuso nel sottosuolo di Elissinia. E’ alla sua prigione che siamo diretti.
Anacleto prese a sua volta la parola.
  - Non ti reputo sciocca, anzi. Il mio compito è quello di condurvi sino a colui che Garm dovrà liberare. Un compito che mi è stato assegnato da Firlfrind, come avrai già indovinato.
  - E chi sarebbe questo Re?
  - E’ il sovrano da cui pure tu dipendi, anche se non lo sai: il Re del Nulla.
Kavàla si zittì.  
  - Non possiamo indugiare oltre! - disse Anacleto. - Seguitemi, presto.
Si rimisero in cammino. Le pareti di roccia del cunicolo presentavano striature argentee la cui brillantezza, esaltata dalla rifrazione dei raggi luminosi provenienti dall’uscita, colorava l’ambiente di riflessi cangianti. 
Un soffio d’aria maleodorante li investì nel momento stesso in cui varcarono la soglia.
Dinanzi a loro si apriva una grotta smisurata, pullulante di anziani, uomini e donne.
Kavàla e Garm trasalirono.
  - Ecco dov’erano finiti i vecchi!
  - Credevo che fossero tutti morti.
  - Ma no - intervenne Anacleto. - Li hanno solo nascosti quaggiù.
  - Guarda quelli: sembrano statue di sale.
  - Sono i catatonici: trascorrono intere giornate immobili, paralizzati dalla disperazione.
  - Terribile!
  - Sono consapevoli di non avere più alcun futuro.
  - E quelle donne scarmigliate che vanno avanti e indietro gesticolando? Perché gridano così?
  - Sono affette da demenza. In fondo però stanno meglio di quegli altri: perse come sono nel loro delirio non si rendono conto di nulla.
  - Chi li ha messi quaggiù?
  - I loro figli. Non che mi senta di biasimarli. Vivere con un genitore ridotto in quello stato non è facile, anzi. Il fatto è che la ruota gira. Siete tutti destinati a invecchiare e un domani toccherà a voi finire in queste grotte.
  - Quaggiù io vedo solo afflizione e miseria.
  - Perché sei una donna sensibile. Ma ti domando: la vita va giudicata dal suo epilogo o dal suo cominciamento?
  - Spiegati meglio.
  - Dinanzi a te sta una moltitudine di anzianissimi: individui giunti al termine della propria esistenza. Logico che, vista da qui, ovvero dal suo triste approdo, la vita appaia uno strazio. Ma se li avessi visti quand’erano ancora bambini vivaci, intenti al gioco? Il tutto ti apparirebbe sotto una luce diversa.
  - Non c’è il minimo dubbio. Fatto sta che il tempo non procede a ritroso. Dunque, è sulla base del presente che io emetto un giudizio. Né potrei fare altrimenti.
  - Kavàla ha ragione, Anacleto.
  - D’accordo. Ma l’oscurità di quaggiù non vi induca a dimenticare che, in superficie, il sole sorge ancora.
  - E meno male. Per intanto, qui, c’è una puzza tremenda di pipì.
  - Questi poveretti se la fanno tutta addosso.
  - Che tristezza. E’ questo dunque ciò che ci aspetta?
  - Sì, se non avrete la fortuna di morire al momento giusto.
   - E quale sarebbe, di grazia, il momento giusto?
  - Quando si è ancora se stessi. Ma è un privilegio riservato a pochi.
  - Quanti sono i vecchi concentrati quaggiù?
  - Migliaia. Ci sono almeno una decina di grotte grandi come questa, piene zeppe di anziani. 
  - E quel bassorilievo là? – chiese Garm indicando con la mano un simbolo scolpito nella parete opposta della grotta. - Cosa raffigura?
  - E’ un simbolo antichissimo.
  - Sembra una ruota.
  - Infatti. Sta proprio a significare il susseguirsi ciclico delle nascite e delle morti, e i suoi bracci rappresentano le varie forme che la vita può assumere: esseri umani, animali, piante, demoni. Una ruota che è in perenne movimento.
  - E cosa la fa muovere?
  - Il desiderio di vivere che è in ciascuno di noi.
Mentre Garm e Anacleto così discorrevano, Kavàla seguitava a osservare i vecchi.
  - Non possiamo far niente per loro? - domandò sconsolata. - Se solo qualcuno rivolgesse loro una parola buona…
  - In questa grotta sono novecento. Ti garantisco che dopo una settimana a contatto con loro fuggiresti a gambe levate.
  - Intanto - disse Garm - io suggerirei di proseguire e porre la giusta distanza fra noi e questo luogo di dolore.
  - Ottima idea - replicò Anacleto e si diresse di buona lena verso una galleria prospiciente. La galleria era ampia abbastanza da consentire il passaggio di un carro, ma ingombra di oggetti ammassati alla rinfusa: valigie, scarpe, abiti, lenzuola.
  - Di chi è tutta questa roba?
  - Dei vecchietti. E’ il loro corredo, per così dire. I figli lo confezionano con cura, senza sapere che poi finirà sparso in questo modo dal personale ausiliario.
Farsi largo in quel baillame richiese non poca fatica. La galleria era lunga un centinaio di metri: impiegarono più di mezz’ora per percorrerla.
Superato l’ultimo sbarramento di valigie, si ritrovarono in una grotta grande quanto la prima, ma del tutto deserta, il cui pavimento privo di asperità era ricoperto da uno strato uniforme di sabbia finissima. Al centro della grotta videro quello che pareva l’orlo di un pozzo, il cui diametro non era inferiore ai venti metri. Vi si avvicinarono con circospezione e fecero per sbirciare oltre il bordo,. Quand’ecco che, dall’abisso, si levarono grida stridule.  Spaventati, si affrettarono a rifugiarsi nuovamente nella galleria. Creature alate, dai tratti vagamente antropomorfi, emersero dal pozzo e si librarono sotto la volta della grotta, per poi rituffarsi nel tenebroso abisso.
  - E adesso che facciamo? - domandò Kavàla.
  - Dovete scendere nel pozzo - rispose Anacleto. - E’ lì che lo tengono prigioniero.
  - Firlfrind mi parlò di questo luogo. Il solo modo per arrivare alla cella del Re è quello di convincere i pipistrelloni ad aiutarci.
  - Dimmi come.
Garm aprì la bisaccia e ne tirò fuori una manciata di pistacchi.
  - Ne vanno ghiotti. Con questi ci faremo offrire un passaggio.
  - Ma capiscono almeno la nostra lingua?
  - Firlfrind questo non me l’ha detto.
  - Lo scopriremo subito.
Senza indugi, la bella Kavàla tolse la bisaccia a Garm, uscì allo scoperto e lanciò un grido del tutto identico a quelli emessi dalle creature alate. Dall’abisso le rispose un coro di acuti stridii, e poco dopo apparvero due di quegli esseri volanti, che si posarono proprio dinanzi a lei.
  - Guardate cos’ho per voi - disse Kavàla tendendo loro una manciata di pistacchi. Gli occhi lattiginosi delle strane creature si spalancarono per la sorpresa. Sui loro volti diafani, dai lineamenti semiumani, apparve una specie di sorriso. Kavàla lasciò cadere un po’ di pistacchi fra i loro artigli protesi.
  - Se mi aiuterete, ve ne darò un bel sacchetto. Dovrete trasportare in fondo al pozzo me e il mio amico, e poi riportarci qui, insieme a un’altra persona. Mi avete compreso? Siamo d’accordo?
Le due creature annuirono entusiaste, sgranocchiando i pistacchi.
  - Potete uscire. Ci aiuteranno.
Garm, seguito dal cane, raggiunse Kavàla.
  - E tu, Anacleto?
  - Io vi aspetto qui. La mia parte l’ho fatta. Vi ho guidati fin quasi alla meta. Ora tocca a voi.
I due giovani montarono in groppa ai pipistrelloni. Quando si furono ben sistemati, i due esseri alati si alzarono in volo. Compiuti alcuni giri concentrici intorno all’imboccatura del pozzo, calarono repentinamente nell’abisso.
Kavàla lanciò un grido. Se l’oscurità ammette gradazioni, quella racchiusa fra le pareti del pozzo era senz’altro del genere peggiore: talmente fitta da risultare impenetrabile. Parve, ai due giovani, di sprofondare in una cisterna di nerissimo inchiostro. Seguendo una traiettoria a spirale, gli esseri alati scesero in fondo all’abisso. Qui giunti, deposero i propri passeggeri.
  - Dove sei Garm? Non ti vedo!
  - Sono qui Kavàla! E ora ci abbandonano in queste tenebre?
Si udì un cigolio: una pesante porta si stava aprendo, sospinta dalle creature alate. Una lama di luce fendette l’oscurità, dapprima debolmente, poi con sempre maggior forza, man mano che l’apertura si ampliava. Una volta spalancata del tutto la porta, si rivelò agli sguardi dei due giovani un corridoio dalle pareti rivestite di lastre di marmo.
  - Questo passaggio non può che condurre alla cella del Re.
Garm prese per mano Kavàla e si inoltrò con lei nel corridoio, scavato nella roccia seguendo un tracciato irregolare, zigzagante. Percorsi alcune decine di metri, udirono dei suoni provenire da dietro l’ennesima svolta. Voci umane. Restando ben nascosti, tesero le orecchie per cogliere il contenuto della conversazione che si stava svolgendo a pochi passi da loro.        
  - Ti ho mai detto di mio zio? - disse una voce maschile.
  - Sentiamo.
  - Era un uomo di un’avarizia e un’avidità incredibili. Pensa che una volta lo vidi derubare un vecchio mendicante zoppo. Il poveretto lanciò un grido, fece per inseguire il briccone, ma inciampò in una sporgenza del terreno e precipitò dal ponte.
  - Ah. La scena si svolgeva su un ponte?
  - Un ponte altissimo. Ricordo che il fiume era in piena. Un massa d’acqua imponente, che precipitava ruggendo verso valle. Non so come, il povero vecchio riuscì a tornare a galla e si aggrappò a un tronco d’albero trascinato dalla corrente. In quel momento, un gabbiano calò su di lui e lo beccò più volte in testa.
  - Pure!
  - Sono storie tristi, che stringono il cuore.
  - E tu non facesti niente per salvarlo?
  - Gli gettai una cima. Ma mi ero dimenticato di assicurarla a un sostegno e fu inghiottita dalle acque.
  - Un intervento risolutore.
  - Lo zio, nel frattempo, si era dileguato nei vicoli della città vecchia.
  - Ed è ancora vivo, quel fior di galantuomo?
  - No: morì poche settimane dopo il fattaccio. Il suo decesso avvenne in circostanze misteriose.
  - Sarebbe a dire?
  - Il suo cadavere era, come posso spiegarti, arrotolato come un panno. Strizzato.
  - E chi lo strizzò?
  - Non lo si seppe mai. Il corpo fu ritrovato in una camera chiusa a chiave dall’interno.
  - Si sarà strizzato da solo.
  - Impossibile. Non diresti così, se tu l’avessi visto.
  - E i suoi denari? Ne avrà avuti parecchi, immagino. Te ne ha lasciati un po’?
 - Qui viene il bello: la cassaforte era vuota, e così pure il bauletto nascosto sotto l’impiantito del pavimento. Gli avevano portato via tutto quanto.
  - Perbacco. Ecco perché ti sei ridotto a montar la guardia in fondo a un pozzo.
  - A proposito, vengono o no a darci il cambio?
  - Ho rinunciato a sperarci.
  - Doveva accadere dieci anni fa!
  - Tant’è.
  - Sarà cambiato, il mondo di lassù?
  - Mi sa proprio di sì.
  - Pensa che bello, rivedere la luce del giorno, i prati in fiore, le donne che sculettano! Te la ricordi almeno la parola d’ordine?
  - Ishtar.
  - Mi domando quanto dovremo attendere prima di sentirla pronunciare.        
Garm e Kavàla si scambiarono uno sguardo d’intesa, presero un bel respiro e svoltarono l’angolo. Due uomini sulla cinquantina, seduti ciascuno dietro a una scrivania, ai lati di una porta in legno massiccio, li fissarono allibiti.
  - Siamo venuti a darvi il cambio - disse Garm.
Il più corpulento dei due aprì bocca come per parlare ma non proferì parola, restandosene con un’espressione stupefatta. Il più magro invece replicò prontamente. 
  - Parola d’ordine?
  - Ishtar! - esclamarono all’unisono i due giovani.
L’uomo balzò in piedi rovesciando la sedia, e si mise a danzare in preda all’euforia.
  - E’ finita! E’ finita!
L’omaccione, dal canto suo, cominciava a riaversi dalla sorpresa.
  - Finita… Siamo liberi.
Kavàla non aveva mai visto in vita sua uomini più trasandati di quelli, a parte Garm. Indossavano abiti rattoppati, logori e bisunti.
  - Prima di tutto, il passaggio di consegne! - dichiarò l’omaccione, prendendo il controllo della situazione. - Allora: qui, in questa scatola di latta che un tempo conteneva biscotti, c’è la chiave della cella. I cassetti delle scrivanie contengono, nell’ordine: moduli dell’amministrazione carceraria, carta carbone, timbri, tampone per timbri, boccette di inchiostro.
  - I viveri, i viveri! - suggerì l’altro.
  - La dispensa è qui dietro. In questo armadio incastonato nella roccia. Visto quante belle scatolette? In quella nicchia laggiù potete fare i vostri bisogni. Si dorme per terra, sul paglione. Vi ho detto tutto. E ora firmatemi questo modulo, per la presa di consegna della chiave.
Garm e Kavàla firmarono diligentemente.     
  - Vent’anni, capite? Vent’anni rinchiusi qui sotto! Senza interruzione! - urlò il carceriere magro senza interrompere la sua danza. - Dovevano essere dieci, li hanno raddoppiati senza una spiegazione, quei maledetti! Ma ora è finita! Si torna nel mondo dei vivi!
  - Non dovete portare nulla con voi? - chiese Garm.
  - Non possediamo altro che questi stracci che ci vedete addosso.
  - E un sacchetto di pistacchi per i pipistrelli.
Prima di accomiatarsi, i due sorveglianti strinsero la mano ai due giovani.
  - E’ stato un vero piacere! - disse lo smunto, e si allontanò in tutta fretta seguito dal suo corpulento compare.     
Kavàla si strinse a Garm.
  - Dietro quella porta…
  - Sì, Kavàla: il Re del Nulla.

IX

Il potere è sempre oggetto di contesa. Neppure i despoti più crudeli sono al riparo dalle congiure. Elissinia, città torpida tanto nell’esercizio della virtù quanto in quello del vizio, ospitava le sue camarille, concentrate all’interno di circoli dai nomi altisonanti. Si trattava di conventicole di notabili - dediti all’accumulazione di ricchezze ed incarichi di rilievo - con la passione dell’intrigo, facenti capo a questa o quella sezione della Confraternita del Triangolo, al vertice della quale, nella città sul Nitico, si trovavano i Diadochi: Labano, Galvano e Carcarodonte.
Tutta la città era al corrente delle loro malversazioni, eppure, tutta la città strisciava ai loro piedi. Nella miseria morale dei potenti consiste, del resto, la consolazione della massa anonima dei subordinati.
L’autorità di Sarmand si arrestava sul limitare delle lussuose dimore dei Diadochi. Non potendo esiliarli come avrebbe desiderato, il Catafratto dovette accontentarsi di farli confinare in casa, proibendo loro ogni partecipazione alla vita civica. Insieme al titolo di Diadochi, Labano Galvano e Carcarodonte conservarono però il diritto di apparire, in effigie, nel corso delle cerimonie pubbliche di maggior prestigio. Sin da subito, inoltre, trovarono il modo di aggirare il divieto imposto dal Catafratto: servendosi di passaggi sotterranei, riuscivano a superare agevolmente, del tutto inosservati, i confini delle proprie tenute. Ma la notizia degli incontri clandestini fra i Diadochi e i soci della Confraternita del Triangolo non tardò a giungere all’orecchio di Sarmand, che disponeva di numerosi informatori. Con suo sommo disappunto, il Catafratto dovette arrendersi all’impossibilità di impedire le escursioni notturne dei Diadochi. Per scoraggiarle, fece intensificare i controlli nei pressi delle sedi della Confraternita. Nessuno poteva entrarvi od uscirne senza essere identificato e perquisito. Queste misure vessatorie non fecero che accrescere l’odio dei Triangolari nei confronti del Catafratto. La vendetta della Confraternita non si fece attendere. Forti delle prerogative di cui il Catafratto non aveva potuto spogliarli, i Diadochi chiesero ed ottennero dal proconsole Fistulòs l’emissione di un ordine di arresto nei confronti del solo amico di cui Sarmand disponesse in tutto l’orbe terracqueo: un personaggio noto con il nome di “Re del Nulla”. Era, costui, un uomo di età indefinibile, né brutto né bello, né magro né grasso, né glabro né irsuto, né alto né basso. Nessuno avrebbe saputo descriverne l’aspetto, fornirne un ritratto fosse pure approssimativo. Nemmeno Sarmand. Non apparteneva forse, il Re del Nulla, a quella strana specie di creature che si muovono nelle intercapedini fra il mondo reale e quello dei sogni? Sarmand si imbatté per la prima volta in lui durante la lettura di uno scritto anonimo intitolato “Redigere ad nihilum”, di cui la biblioteca centrale accademica possedeva un esemplare rarissimo. Il Regno del Nulla, di cui sino ad allora aveva ignorato persino l’esistenza, gli si rivelò in tutta la sua incontaminata bellezza: cieli azzurri, boschi rigogliosi, stagni di acqua cristallina, prati sfavillanti di fiori dalle tinte vivaci e, all’estremo orizzonte, il mare. Un mare calmo e profondo, la cui superficie una tiepida brezza leggera dolcemente increspava. Quello del Nulla era il regno dell’atemporalità e della permanenza delle forme: corruzione e mutamento ne erano banditi. Niente vi accadeva, niente vi poteva accadere, poiché l’evento, qualsiasi evento, implica un inizio, uno svolgimento e una fine. Custode e garante della conservazione di questo assetto immutabile, il Re. Sovente, il Catafratto si recava in visita in sogno presso il sovrano. Insieme facevano lunghe passeggiate attraverso quei paesaggi incantati. Il Re, di tanto in tanto, si staccava da terra e fluttuava nell’aria, librandosi a parecchi metri dal suolo, insieme alle rondini in volo. Poi ridiscendeva al suolo e riprendeva a camminare accanto al Catafratto, come se niente fosse. Capitava talvolta che incontrassero un abitante del Regno. Si trattava di persone, uomini e donne, assai singolari: li si poteva osservare sdraiati all’ombra dei salici, intenti a dormire o a fantasticare, immersi nei propri pensieri.            
L’arresto del Re fu per Sarmand un brutto colpo, aggravato dal mistero circa il luogo della detenzione del sovrano. Ciò non fece che inasprire la misantropia del Catafratto, la sua insofferenza verso il notabilato di Elissinia, il suo disgusto nei confronti del mondo.  L’interno della cella reale misurava tre metri per quattro. Vi trovavano spazio un divano, un libreria e uno scrittoio. Il Re, disteso sul divano, dormiva un sonno profondo e sognava, sognava.
Una carrozza trainata da una pariglia di cavalli bianchi si fermò all’ingresso di un palazzo nobiliare. Il conducente, un uomo dalla corporatura massiccia, il viso incorniciato da due imponenti mustacchi, fece segno al proprio assistente di scendere a terra. Questi obbedì, non senza fatica, poiché aveva gambe di diversa lunghezza. Il conducente commentò:  - In casi come questi si è soliti dire che uno ha una gamba più corta dell’altra. Ma non sarebbe altrettanto corretto affermare che ha una gamba più lunga dell’altra?
  - Si parte dal presupposto che una delle due sia proporzionata al resto del corpo. Ed è la gamba giusta. L’altra, quella sproporzionata, è la più corta - replicò l’assistente.
  - Un attimo: e se quella sproporzionata fosse tale in virtù di un’eccessiva lunghezza? In questo caso sarebbe corretto dire: ha una gamba più lunga dell’altra.
  - No, perché quella giusta, quella proporzionata, sarebbe comunque la più corta.
  - Vedi che ti contraddici: se il metro di misura è la gamba proporzionata, e questa fosse più corta di quella difforme, si dovrebbe dire…
  - Allora, mi fate scendere o no da questa benedetta carrozza? - ruggì il granduca sporgendo il viso paonazzo dal finestrino della vettura. L’assistente si precipitò ad aprire, caracollando, e sistemò la scaletta.
  - Non so cosa mi trattenga dal licenziarvi entrambi! Possibile che stiate sempre a sproloquiare?
  - Perdoni eccellenza, è lui che cavilla, utilizzando argomenti capziosi.
  - E tu lascialo cavillare! Su, piuttosto, prendi i bagagli!
Il granduca scese a terra e agitando il bastone da passeggio si rivolse al conducente:
  - Hai guidato in modo barbaro. Sembra che tu faccia apposta a prendere tutte le buche!
  - Eccellenza, mi deve scusare, ma la strada è un groviera.
  - Buono solo a trovare scuse! Vai, vai che è meglio!
La carrozza si allontanò verso le scuderie. Dal palazzo, nel frattempo, era uscito il maggiordomo: un uomo gobbissimo, il cui cranio pelato riluceva sotto i raggi del sole come una mela cotogna. 
  - Sua eccellenza ha fatto buon viaggio?
  - Pessimo. Desidero riposare nelle mie stanze per le prossime tre ore. Nessuno osi disturbarmi.
  - Eccellenza…
  - Che c’è adesso?
  - Una visita.
  - Da parte di chi?
  - Un messo di Sua Maestà.
Al granduca, per lo sorpresa, cadde il monocolo.
  - E me lo dite così? E’ da molto che aspetta?
  - Non più di mezz’ora. L’ho fatto accomodare nella sala delle armature.
  - Neppure il tempo di sciacquarmi il viso… Beh, annunciatemi, lo vedrò immediatamente!
  - Certo eccellenza.
Il gobbo – che era pure un po’ claudicante – si diresse verso la sala delle armature, mentre il granduca si arricciava nervosamente i baffi, interrogandosi sulle ragioni di quella visita inattesa. Annunciato dal maggiordomo, il granduca fece ingresso nel salone.
Il messo sedeva accanto a una finestra.
  - Eccellenza, stavo ammirando il vostro splendido parco - disse alzandosi in piedi in atteggiamento deferente.
  - Non tenetemi sulle spine. Cosa vi ha condotto qui? - tagliò corto il granduca.
  - Il Re…
  - Ebbene?
  - E’ stato rapito!
Il granduca riperse il monocolo.
  - Rapito? Il Re? Ma è una follia! Chi ha osato?
  - Gli elissini.
  - E chi sarebbero questi briganti?  
  - Gli abitanti di una città chiamata Elissinia.
  - Ma non esiste una città con quel nome!
  - Esiste, ma non in questo mondo.
  - Capisco - disse il Granduca scuotendo il capo.  - Il Re sta di nuovo sognando.
  - Guarda Garm, si sta svegliando!
Il Re si rizzò a sedere, mezzo intontito, si stropicciò gli occhi, e stette per qualche istante a osservare i due giovani in piedi dinanzi al divano. “Un altro sogno”, mormorò, e fece per distendersi di nuovo.
  - Maestà, non è un sogno, siamo veri!
  - Sì, buonanotte.
Kavàla si avvicinò al re e gli diede un pizzicotto sulla guancia.
  - Convinto adesso?
Il re si accarezzò la guancia, poi cinse i fianchi di Kavàla.
  - Ohibò, dunque non sto sognando…
  - Ecco, maestà, se ora vuol essere così gentile da togliermi le mani dal sedere, le presento l’uomo incaricato di liberarla.
  - Certo, certo. Capirà, mi occorrevano prove inoppugnabili. Ma questo simpatico giovane odora di selvatico come un alce maschio nella stagione degli amori!
  - Il mio nome è Garm, vengo da Gyelheim su incarico di Firlfrind.
  - Il buon vecchio mago! E lei, cara  fanciulla, come si chiama?           
  - Kavàla.
  - Un nome assai suggestivo, le si attaglia perfettamente. Dunque, a che devo il piacere della vostra visita?
Kavàla guardò Garm, sconcertata, quindi torno a rivolgersi al re.
  - Maestà, come le ho detto poco fa siamo qui per liberarla.
Il re poggiò un gomito sul bracciolo del divano e stropicciandosi il mento, mormorò:
  - La libertà è una chimera.
  - Maestà - disse Garm serio serio  - Non c’è tempo per i filosofemi, dobbiamo andarcene, e alla svelta.
  - Capisco. Apprezzo molto ciò che state facendo, credetemi. Sono pronto.
Il Re si alzò dal divano, rassettandosi gli abiti impolverati, e si dispose a seguire la coppia dei suoi liberatori.
  - Vent’anni di prigionia non son pochi - disse gettando un’ultima occhiata alla cella.
  - Sua Maestà non ha bagaglio? - domandò Kavàla.
  - Solo gli abiti che indosso.
  - Andiamo allora.
Garm con piglio determinato fece strada verso l’uscita.   
A metà circa del corridoio, un rumore di passi proveniente dalla direzione opposta li bloccò.
  - Chi potrà mai essere? I carcerieri hanno cambiato idea?
  - Ne dubito - replicò Kavàla, preoccupata.
Da dietro l’angolo sbucarono due figure, una maschile e l’altra femminile, che si immobilizzarono alla vista del terzetto.
  - Maestà! - esclamò l’uomo. Si trattava del Catafratto, con Lucretia al proprio fianco. La diavolessa, estratta la spada dal fodero, fece per affrontare i due giovani.
  - Calma, calma! - si interpose il re. - I ragazzi sono giunti da molto lontano apposta per liberarmi. Nessuno si azzardi a far loro del male.
Lucretia ripose l’arma.
  - Sarmand, quanto tempo! Cosa ti porta quaggiù? - disse il re rivolto all’amico di un tempo.
  - Sono stato tanto in pena per voi! Solamente ieri sono venuto a sapere dov’eravate tenuto prigioniero, e mi sono precipitato subito in vostro soccorso!
Il re, commosso, abbracciò prima Sarmand e poi Lucretia, quest’ultima con particolare trasporto.
  - Lasciate che vi presenti - disse il re. - Costui, cari ragazzi, è il grande Catafratto in persona, l’uomo più odiato di tutta Elissinia.
  - Troppo gentile, Maestà - si schermì Sarmand con un inchino.
  - Loro si chiamano Garm e Kavàla. E lei…
  - Lucretia, X Legio Infernalis - esclamò la diavolessa scattando sull’attenti.
  - Non sapevo che un demone potesse essere così grazioso. Bella soda, non c’è che dire.
  - Al re piace toccare con mano - bisbigliò Kavàla all’orecchio di Garm.
  - Ho notato - replicò questi, senza riuscire a nascondere un certo disappunto. Non aveva gradito le  palpazioni che il sovrano aveva riservato alla sua compagna di viaggio, e ancor meno la condiscendenza di lei, condiscendenza dovuta - peraltro - a mero compatimento. Ma la mente di Garm non era in grado di cogliere certe sfumature: difettava di quell’elasticità che solo l’uso protratto del mondo è in grado di conferire. 
  - Maestà, dovremo rinviare i convenevoli ad un altro momento: urge che ci si allontani di qui al più presto! - esclamò Sarmand.
La combriccola guadagnò l’uscita, lasciando spalancata la porta d’accesso così da rischiarare almeno un poco il fondo del pozzo.
  - Garm, i pistacchi!
  - Non servono pistacchi né altra frutta secca - disse Lucretia. Con tono imperioso, pronunciò un ordine in una lingua sconosciuta ed ecco che subito calarono dall’alto tre esseri alati.  Lucretia dispiegò le ali, e cinse il Catafratto per la vita.
  - Ciascuno di voi si stringa a uno di loro - disse, e si levò in volo.
Aggrappati alle strane creature, i tre si ritrovarono fuori dal pozzo in pochi minuti. Lucretia e Sarmand li stavano aspettando in prossimità dell’imbocco di una galleria. Anacleto li accolse scodinzolando.
  - E’ andato tutto bene, vedo.
  - Anacleto caro, visto che ce l’abbiamo fatta?
  - Non ne ho mai dubitato, Kavàla!
Il re del nulla diede una carezza al cane e domandò ai suoi liberatori:
  - E adesso?
  - Dobbiamo uscire di qui – rispose Garm.
Sarmand si avvicinò al sovrano.
  - Vogliate seguirmi, Maestà.
  - Quella non è la direzione da cui siamo venuti noi! – osservò Garm.
  - Siete passati dalle catacombe, vero? Conosco un percorso più sicuro che conduce direttamente ai sotterranei dell’accademia, dove io sono signore e padrone.
  - Verrò dove vorrete – puntualizzò il Re. – Purché vi mettiate d’accordo sulla direzione da prendere.
  - Se mi consentite, avrei un suggerimento – intervenne Anacleto. – Elissinia non è il luogo più adatto dove condurre il Re.
  - Se è per quello, nemmeno la provincia offre particolari garanzie! – obiettò stizzito il Catafratto. – Il Re ha nemici ovunque!
  - Tranne che nel proprio regno.
  - Il cane ha ragione, Sarmand. Non avrebbe senso trasferire il Re da queste grotte al mortorio dove trascorri le notti. Dobbiamo restituirlo alla luce del sole, all’aria pura, agli spazi aperti del suo regno.
Il Catafratto rifletté per qualche istante sull’osservazione di Lucretia.
  - Sia come voi dite – sospirò. – Sempre che ne siate capaci.
  - Lasciate fare a me. Mica per niente milito nella X Legio Infernalis!
  - Dunque, Maestà – disse Sarmand in tono accorato – ci separiamo un’altra volta?
  - Solo temporaneamente, mio caro.
Il sovrano prese sottobraccio l’amico e si allontanò con lui di qualche passo dal resto del gruppo.
  - Quando sarò tornato nel mio regno, potremo incontrarci ancora, per conversare come eravamo soliti fare in passato.
  - Incontrarci…e come?
  - In sogno, Sarmand, in sogno!
Il Catafratto annuì, e sul suo viso spigoloso apparve un timido, timidissimo sorriso.
  - Ed ora, amici, a noi! – disse il Re rivolto ai suoi liberatori. –Vi ringrazio tutti di cuore. Ci attende un lungo viaggio. Ma per fortuna – soggiunse indicando la bella diavolessa - abbiamo una guida d’eccezione.
Lucretia sguainò la spada e, pronunciando formule misteriose, la puntò verso l’alto. Subito la lama si accese di una luce abbagliante: se ne irradiarono raggi multicolori che avvolsero uno ad uno i presenti. Un vento impetuoso, proveniente da distanze inconcepibili, prese a soffiare nella grotta, sollevando turbini di sabbia. Quando la sabbia si posò, non vi era più alcuna traccia di Lucretia né dei suoi compagni. 

Epilogo 

I giardini del palazzo reale, affollati di persone festanti per il ritorno del sovrano, sfavillavano nel meriggio di una moltitudine di colori. Il clima era dolce, l’aria profumava di viole. Il re sedeva all’ombra di un gazebo, circondato dall’affetto dei sudditi. Fra essi i parenti di Kavàla, cui il buon mago Firlfrind, spezzando il sortilegio del viandante, aveva restituito forma umana.
  - Maestà, ci dica, cos’è questo mondo di cui tanto si parla? – gli fu chiesto.                   
  - E la vita, Maestà, cos’è mai la vita, di cui si favoleggia? – domandò una fanciulla che indossava un vezzoso cappellino.
  - Uno alla volta, miei cari, uno alla volta – rispose il Re del Nulla e si accinse a rispondere, non senza aver prima gettato un’occhiata benevola a una coppia di giovani intenti a passeggiare a braccetto nel parco, seguiti a breve distanza da un cane di mezza taglia.
Garm e Kavàla si gustavano il tepore di quella giornata radiosa.
  - Che meraviglia eh, Garm? – disse la ragazza in tono languido.
Il giovane, lindo e ben vestito, rimase per alcuni istanti in silenzio, sorridendole semplicemente.
  - Kavàla – disse infine – c’è una cosa che desidero mostrarti da tempo.
E scomparì con lei dietro a una siepe.

Pietro Ferrari, 2010 

L'intero racconto è disponibile all'account Scribd della Redazione di Kronstadt: 

IL PRURITO DEL DRAGO
(Parte Seconda)
 

Vai alla Parte Prima

IV

Garm si risvegliò con un grido. Kavàla, che gli riposava accanto, si voltò a guardarlo.
  - Che ti prende?
  - Ho avuto un incubo. Un gatto mi inseguiva.
  - Non mi sembra un sogno tanto sconvolgente.
  - Il gatto era grosso come un vitello.
  - E ti metti a gridare per una sciocchezza simile?
  - Fai presto tu a dire così: sono in un bagno di sudore.
  - Lasciami dormire, và, e vedi di non scoreggiare troppo.
Kavàla si girò su un fianco, volgendo la schiena a Garm che, sudato fradicio, esalava vapori quanto un letamaio a dicembre. Per sua fortuna, nelle immediate vicinanze sorgeva un’intera colonia di phallus impudicus – miceto noto per il profilo falliforme e il fetore pestilenziale che emana. Il lezzo che quei funghi spandevano  all’intorno era così forte da coprire ogni altro odore in un raggio di svariate decine di metri.   
La ragnanza andava disfacendosi, mentre il lucore all’orizzonte annunciava l’approssimarsi dell’alba. Tremolavano gli  esili steli delle calpurnie purpuree, e il verdurame si aggrappava, intirizzito di rugiada, alle radici delle isverdie.
Nonostante tutto, si fece giorno.
Garm giaceva mollemente disteso sull’erba, come un escremento di vacca appena deposto.
Accanto a lui sedeva  Kavàla.
  - A cosa stai pensando? - gli chiese.
  - Mi domandavo per quale ragione Firlfrind abbia scelto proprio me. Non ho doti particolari, e non brillo certo per coraggio - rispose Garm dopo una pausa di silenzio.
  - L’ho notato. Sei sempre sul chi vive. Hai uno sguardo da animale braccato.
  - La paura mi segue come un’ombra, sin da quando ero ragazzo.
  - Non dovresti parlare così. Le donne non amano i pavidi.
  - Ma è la verità.
  - E allora? Mica va raccontata per forza, la verità.
  - Tanto prima o poi viene a galla comunque.
  - Ma se eviti di metterla in piazza tutta quanta, forse è meglio, ti pare? Garm, devi imparare a dissimulare le tue emozioni. Lo dico per il tuo bene.
  - Non capisco. In passato mi son sentito rimproverare per il motivo opposto: mi è stato detto che devo esprimerle, le emozioni, non tenere tutto dentro.
  - Tira fuori il buono che c’è in te, e i miei occhi mi dicono che c’è del buono, e tieni nascosto il resto.
Kavàla passò una mano fra i capelli di Garm, rivolgendogli uno sguardo che avrebbe liquefatto un ghiacciaio.
  - Trovi davvero che ci sia del buono in me? - le chiese, rapito.
  - Sì.
  - E vuoi che lo tiri fuori?
  - Oh sì.
Nel preciso istante in cui Garm si accingeva a soddisfare la richiesta di Kavàla, il cielo si fece color pece. Nubi temporalesche, trasportate da un vento impetuoso, riversarono sulla zona torrenti di pioggia. I due giovani cercarono riparo nel folto del bosco, sotto le ampie fronde di una quercia, ma non vi era modo di sfuggire alla pioggia che cadeva a secchiate. Dello sgrinz non vi era traccia, a parte una gran boassa in cui Garm sprofondò sino alle caviglie. Quando la speranza stava ormai per abbandonarli, i due fuggitivi scorsero l’ingresso di una grotta che si apriva nel fianco di un tozzo promontorio. Una raffica di vento aveva rimosso la copertura di rami che ne ostruiva l’ingresso. Vi si infilarono senza esitare un solo istante, e non appena varcata la soglia un senso di meraviglia si impadronì di loro: l’interno della grotta pullulava di farloni, specie di pinnipedi dimoranti nelle regioni boschive dell’emisfero meridionale.
  - Mamma mia non ho mai visto tanti farloni tutti assieme - sussurrò Kavàla.
  - Manco io.
  - E com’è che dormono tutti quanti?
  - E chi lo sa. Che facciamo, restiamo?
  - Guarda, se ne sta svegliando uno!
  - E’ meglio che usciamo.
  - Ma aspetta un attimo almeno!
Il farlone, accortosi dei due estranei, si stiracchiò per benino, e dopo essersi scrollato di dosso la sabbia del pavimento rivolse loro la parola.
  - E voi chi siete?
  - Il mio nome è Kavàla, lui è Garm. Siamo diretti a Elissinia. La tempesta ci ha sorpresi e abbiamo cercato rifugio nella vostra grotta. Vi chiediamo ospitalità finché non avrà smesso di piovere, dopo di che ce ne andremo immediatamente.
  - Prego, accomodatevi pure.
Si sedettero in un cantuccio, facendo attenzione a non disturbare i dormienti. Il fatto che un pinnipede fosse dotato di favella non li aveva turbati: si erano convinti, ormai, che il bosco racchiudesse ogni sorta di magie.
  - Elissinia non è lontana. Io però non ci ho mai messo piede, e mi guarderò bene dal farlo anche in futuro - il farlone sottolineò la frase con un peto. - Gli elissini ci danno la caccia e con la nostra pelle rivestono le poltrone. Toglietemi una curiosità, cosa vi spinge in città?
  - Il mago Firlfrind mi ha affidato questo incarico.
Il farlone spalancò tanto d’occhi e fece una capriola.
  - Firlfrind?
  - Lo conosci?
  - Certo che sì! Firlfrind ci ha guariti da un’affezione fastidiosissima, una forma acuta di prurito inguinale. Siate dunque i benvenuti!
Garm diede di gomito ad Kavàla.
  - Visto?
Il farlone aprì un armadietto e ne trasse fuori una bottiglia e tre bicchieri. Li riempì sino all’orlo di un liquido di colore ambrato, che emanava un intenso profumo di malto.
  - Un brindisi a Firlfrind!
  - Per tutte le fave, ma è una delizia! Cos’è mai questa bevanda?
  - Eh eh, avete appena assaggiato la nostra specialità. E’ una bevanda inebriante, ma ha delle controindicazioni.
  - Quali?
  - Ve lo spiego subito. Un giorno me ne stavo tranquillo a riposare all’ombra di un cespuglio quand’ecco che vedo apparire Euforione.
  - E chi sarebbe mai?
  - Il proprietario del bosco.
  - Non sapevo che il bosco avesse un proprietario - osservò Kavàla.
  - Ce l’ha. Euforione, appunto. Era lì, ci separava solamente il cespuglio. Parlava da solo, lo udii bofonchiare qualcosa a proposito di rogiti notarili, mappali e particelle catastali.
  - Garm, di che va farneticando questo pinnipede? - bisbigliò Kavàla.
  - Dev’essere l’effetto della bevanda.
  - Insomma, statemi a sentire! Euforione torreggiava a un passo da me, e io non sapevo che fare. Fuggire? Restare nascosto?.
  - Allora?
  - Rimasi nascosto. Trascorso un po’ di tempo, Euforione se ne andò.
  - Tutto qui?
  - E vi sembra poco? Non conoscete Euforione! Quell’uomo è capace di tutto.
  - Mi sfugge il nesso fra il racconto e la bevanda.
  - Quel giorno avevo alzato il gomito. Ecco perché mi assopii incautamente all’aperto.
  - Bene, è tutto chiaro, non bisogna abusare di questo liquore.
  - Esatto! Ora, se mi date un attimo di tempo, vado a svegliare un mio amico che conosce la città e potrà darvi qualche dritta.
Il pinnipede dopo una breve ricerca si ripresentò in compagnia di un farlone dall’aria assonnata.
  - Elissinia… Sì, la conosco bene, ci ho vissuto.
  - Ci ha vissuto da prigioniero!
  - E ne sono fuggito per miracolo. Ma per voi due non sarà difficile entrarci. Siete giovani, e la città pullula di studenti della vostra età.
  - Cos’è uno studente?
I farloni si guardarono l’un l’altro, increduli.
  - Davvero non sapete cosa sia uno studente?
Kavàla e Garm allargarono le braccia.
  - Questa poi. Come posso spiegarvelo? Lo studente iscritto all’accademia ha un’età compresa fra i 18 e i 35 anni, ed è riconoscibile dall’andatura dinoccolata e da una certa espressione del viso.
  - Cosa fanno gli studenti?
  - Studiano. Imparano cose scritte sui libri.
  - E i libri, cosa sono i libri?
  - I libri sono fatti di tanti fogli di carta rilegati insieme, su cui sono scritte delle parole. Parole, come quelle che stiamo pronunciando ora. Possibile che non ne abbiate mai visto uno? Eppure vi esprimete con proprietà di linguaggio.
  - A cosa servono i libri?
  - A trasmettere la conoscenza - esclamò il primo farlone, compiaciuto.
  - E non solo - riprese il secondo. - Gli umani, e in special modo gli eruditi, hanno una paura folle della morte, e si inventano ogni sorta di trucchi per metterla a tacere.
I libri, quelli buoni, almeno, sopravvivono ai loro autori. E questa è precisamente la speranza di ogni singolo scrittore: lasciare una traccia che duri oltre la propria morte.
  - E’ questa la ragione per cui scrivono?
  - Una delle ragioni principali.
  - E gli studenti imparano le parole scritte sui libri?
  - Le imparano solo il tempo necessario per poter superare gli esami, dopo di che se le dimenticano.
  - Esami?
  - L’esame funziona così: lo studente si presenta in un giorno stabilito davanti al professore, che lo interroga per accertarsi che lo studente abbia letto dei libri, scritti solitamente dal professore medesimo o da un suo parente stretto, e ne abbia appreso il contenuto.
  - Insomma tutto ruota intorno alle parole scritte su quei fogli di carta.
  - Già.
  - E per entrare in città noi dovremmo diventare studenti?
  - Questo non è un problema. Non tutti gli studenti sono studenti per davvero.
  - Ossia?
  - Non tutti gli studenti studiano: molti di loro non fanno che bighellonare, tirar tardi la sera, passare da un festa all’altra cercando di abbordare le studentesse un po’ brille.
  - Sembra divertente - osservò Kavàla.
  - Lo è certamente di più che lavorare in miniera.
  - E vanno avanti così per sempre? - domandò Garm.
  - No, un bel giorno si laureano.
  - Che vuol dire?
  - Che diventano dottori. Prendete Euforione, il padrone del bosco: lui è dottore in giurisprudenza. Conosce a memoria un paio di libroni mal scritti pieni zeppi di articoli di legge, e si fa pagare profumatamente per spiegarne il contenuto agli altri.
  - Elissinia è proprio uno strano posto - disse Garm. - Firlfrind me l’aveva pur detto.
  - Riuscissimo almeno a trovarla.
  - Siete più vicini di quanto non immaginiate. Quando uscirete di qui, incamminatevi in direzione della grande quercia. Lì troverete un sentiero che conduce in città.
  - Così faremo!
  - Adesso noi ci rimettiamo a dormire. Buon viaggio, siate prudenti!
Kavàla si chinò ad accarezzare i due animaletti.
  - Siete così gentili. Buona fortuna anche a voi!
Garm diede un’occhiata all’esterno. Aveva smesso di piovere.
Appena fuori, accatastarono dei rami abbattuti dal vento dinanzi all’ingresso, così da ripristinare la copertura che lo celava, prima, alla vista. Il temporale aveva fatto sì qualche danno, ma nulla di grave, e il bosco stava già ritornando alla vita di sempre.
  - Guarda!
Kavàla, in piedi al centro del sentiero, indicava qualcosa dinanzi sé, in lontananza.
  - Dove? - chiese Garm.
  - Là, dove la vegetazione si dirada.
  - Un cavallo!
  - Ma quale cavallo:  è un mendicante, non vedi?
  - Eppure nitrisce.
  - Ma non è un cavallo!
Il mendicante, un uomo magro come uno stecco, parlava da solo e ridacchiava. Si avvide della presenza dei due giovani solo quando fu a pochi metri da loro.
  - Salve, chi sono io?
  - Come sarebbe? Se non lo sa lei!
  - Se lo sapessi non ve l’avrei domandato.
  - Garm, assecondalo per carità, è un pazzo.
  - No miei cari, non sono pazzo, almeno non ufficialmente, purtroppo. Se lo fossi, avrei una scusa plausibile e socialmente accettata per le mie piccole eccentricità. Ora però, dovete scusarmi, ma ho altri impegni più urgenti. Vi devo lasciare.
Il mendicante prese a restringersi, e dopo pochi istanti si ridusse alle dimensioni di un bambolotto.
  - Allora, ditemi, chi di voi è Euforione?
I giovani si scambiarono sguardi allibiti.
  - E dagli con Euforione! Nessuno dei due! - esclamò Kavàla.
Il mendicante non pareva del tutto convinto. Rimpicciolì ulteriormente.
  - Dov’è finito?
  - Eccolo, non è più grande di una lumaca!
  - Sta dicendo qualcosa.
  - Non lo vedo più, è scomparso del tutto.
  - Si è dissolto nell’aria.
  - Come la scimmia di tuo nonno.
  - Non possiamo continuare in questo modo, dobbiamo uscire dal bosco al più presto. E’ una gabbia di matti.
  - Per di qua, ragazzi!
Il vocione dello sgrinz, sbucato all’improvviso dal folto,  li fece sobbalzare. Garm per poco non si cagò addosso.
  - Non vi ho abbandonati. Devo tener fede alla mia promessa: ho detto che vi avrei portati ad Elissinia, e lo farò. Salite in groppa, su.
I giovani non si fecero pregare. Il soffice tappeto erboso, zuppo d’acqua piovana, rallentava l’andatura del massiccio quadrupede, appesantito dal carico umano.
Aggrovigliato nella verduranza, emetteva sbuffi di vapore dalle froge, arrancando sotto il duplice gravame.
  - Ti davamo per disperso. Dove ti sei rifugiato mentre tempestava?
  - In un grande albero cavo. E voi, dove vi eravate nascosti?
  - Siamo finiti in una grotta piena di strane creature.
La boscaglia si andò sempre più diradando, sino a scomparire. A un tratto, l’orizzonte si presentò dinanzi a loro come una distesa piatta e spoglia, coperta di risaie.
In quel panorama tristemente uniforme si aggirava come un invasato un personaggio dall’aspetto sinistro. Lo accompagnava un cane, feroce quanto lui. Un cane addestrato ad aggredire “a prescindere”.  L’uomo era il proprietario delle terre coltivate. Il suo nome era Macronio. Tutta la terra, sin dove giungeva lo sguardo, gli apparteneva. Ogni granello di sabbia, ogni singolo filo d’erba, era cosa sua.
Con le sue mani robuste, aveva abbattuto tutte le piante, tutti gli arbusti, tutte le siepi che un tempo non lontano crescevano ai margini dei campi, poiché – così diceva – “la loro ombra impedisce al riso di crescere”. I suoi compaesani avevano plaudito a questa decisione giudicandola saggia.
Quando le piantine di riso emergevano dal suolo, Macronio perdeva ogni freno. Lo si vedeva vagare giorno e notte, urlando, per scacciare gli uccelli dai campi. Disponeva trappole a centinaia per passeri e colombi. Non un solo chicco di riso doveva andare perduto!
L’epoca del raccolto significava per Macronio rinuncia al sonno e al cibo. A bordo di una macchina mostruosa, una trebbiatrice a vapore di dimensioni colossali, lavorava come un forsennato per giorni e notti intere, senza sosta. Faceva tutto da solo, “per risparmiare”.
Giungeva infine il momento tanto atteso: quello in cui il prezioso cereale, dopo trattative sanguinose, si tramutava in denaro.
Ma sino ad allora, per Macronio ogni essere vivente era un nemico.
Lo sgrinz prese la parola:
  - Sarà meglio girare alla larga. Quell’individuo ha un’aria minacciosa, e così pure il suo cane. Potrei sbarazzarmi di entrambi facilmente ma la mia religione me lo vieta.
Il saggio proposito dello sgrinz si rivelò impraticabile: Macronio, avvistato il terzetto, si dirigeva a passo di corsa verso di loro, urlando a squarciagola.
Kavàla osservò con stupore la fisionomia dell’individuo: fronte bassa, occhi infossati, membra tozze, movenze antropoidi. Un essere spaventoso.
Lo sgrinz, che sino a quel momento si era dimostrato la creatura più placida del mondo, parve trasfigurarsi.
  - Scendetemi di groppa - intimò ai due giovani.
I suoi occhi ardevano come braci. Partì alla carica, incarnazione di forza scatenata. Il cane di Macronio – un robusto esemplare di mastino – nel vedersi piombare addosso due tonnellate di furia distruttrice scartò bruscamente e si diede alla fuga spetazzando. Lo sgrinz decise di risparmiarlo, e si volse verso Macronio.
L’uomo seguitava a lanciare grida disarticolate, mulinando un bastone. Lo sgrinz lo investì con una spallata e lo mandò lungo disteso in un fosso.
Macronio piombò a terra come un sacco di patate. Lo sgrinz arrestò la sua carica.
Torreggiando sull’uomo, ruggì come mai, prima di allora, i due giovani l’avevano udito fare.
  - Potrei ridurti in poltiglia. Ma non lo farò, perché così mi ha insegnato Mahāvira, un uomo di cui tu non sei neppure degno di pronunciare il nome. Bada a te, tuttavia: se solo oserai ancora aggredirci, ti punirò come meriti.
Il latifondista fece un cenno d’intesa.
  - Potete risalire - disse lo sgrinz ai due giovani. - Si riparte.
  - Guardate lassù - esclamò Garm.
Kavàla e il quadrupede alzarono gli occhi al cielo e videro quella che pareva una nube avvicinarsi da Nord a grande velocità. Ma non era una nube: si trattava di un gigantesco stormo di uccelli di varie specie che volavano in formazione serrata. Dalla nube si staccò un magnifico esemplare di garzetta dal candido piumaggio che venne a posarsi proprio di fronte al loro.
  - Salve a voi! La notizia della sconfitta di Macronio si è diffusa in un baleno. Siamo qui per lui. Vi chiediamo di consegnarcelo.
  - Che volete farne? - domandò lo sgrinz.
  - Per causa di quell’uomo abbiamo assai sofferto. Molti di noi sono morti per mano sua.
Lo porteremo lontano da qui, in un luogo dove forse potrà rinsavire e ritrovare la propria umanità.
  - Dove, precisamente?
  - Lo condurremo a Sud, nel Grande Deserto.
  - Siete così numerosi da oscurare il sole. Perché non lo avete fermato quando cominciò a nuocervi?
  - Era scritto che solo uno sgrinz avrebbe potuto sconfiggere Macronio e decidere del suo destino.
Lo sgrinz lanciò un’occhiata alla figura umana distesa nel fosso.
  - E’ vostro.
La garzetta chinò il capo in segno di riconoscenza, poi lanciò un grido verso lo stormo che ruotava alto nel cielo.     
Se ne distaccò un gigantesco esemplare di airone cenerino. Planò al suolo, sull’uomo disteso nel fosso. Lo rigirò supino, quindi lo afferrò saldamente per le ascelle, e si levò in volo reggendo quel pesante fardello.

V

Le anime sensibili amano passeggiare in riva ai fiumi. La loro inquietudine trova di che placarsi, sia pure per pochi istanti, nella contemplazione della natura. Garm nella sua breve ma tormentata esistenza aveva guadato fiumi, torrenti, ruscelli, rigagnoli. Pochi uomini al mondo conoscevano come lui le insidie delle correnti, dei gorghi e dei mulinelli che improvvisamente afferrano il bagnante incauto e lo trasportano a decine di miglia di distanza, deponendolo esanime su un ghiaione, alla mercé degli uccelli rapaci. All’apparir del Nìtico, il fiume che bagna Elissinia, Garm fu colto da un viluppo di emozioni confliggenti, gran parte delle quali inesprimibili a parole. Avrebbe voluto balzare su Kavàla e possederla immediatamente, tanto era il suo entusiasmo.
Kavàla, dal canto suo, sfrigolava come una bistecca sulla griglia.
Unico a mantenere un contegno impertubabile, lo sgrinz, onesto quadrupede. Procedeva ad andatura costante, concentrando tutta la sua attenzione sul ritmo dei propri passi e del proprio respiro.
  - Tutte le cose periscono - ripeteva a se stesso, e recitando questo mantra avanzava, saldo e sicuro, verso la meta che si era prefisso.
Giunti a pochi metri dalla riva si accorsero che l’acqua del fiume era perfettamente immobile. Non credendo ai propri occhi, Garm balzò a terra per osservare da vicino lo straordinario fenomeno.  Si inginocchiò sulla sabbia e immerse le mani nel Nitico.
  - L’acqua non scorre. Com’è possibile?
  - Forse un’ostruzione a valle, una diga? - domandò a sua volta Kavàla.
  - Lo escluderei. E’ come se il fiume si fosse fermato di propria iniziativa.
  - Sia come sia, dobbiamo trovare un ponte. La acque al centro sono di certo profonde e se dovessero rimettersi in moto mentre stiamo tentando di guadare, la corrente ci travolgerebbe.
  - Lo sgrinz ha ragione, Garm.
Si rimisero in marcia. Il ruminante sollevava l’arto anteriore sinistro e contemporaneamente l’arto posteriore destro, flettendoli in avanti, quindi li abbassava calcando il terreno a 40 cm circa dalla posizione di partenza, per poi ripetere la stessa sequenza di gesti, questa volta però con l’arto posteriore destro e il posteriore sinistro. Eseguita in modo fluido e costante per un ragionevole lasso di tempo, questa complessa catena di azioni produceva un risultato sorprendente: l’animale mutava di luogo.
  - Cosa distingue un essere vivente da una roccia? L’essere vivente si muove. Dunque, se una cosa si muove, vuol dire che è viva. Ma una pietra che rotola lungo il crinale scosceso di un monte non può dirsi viva, benché sia in movimento. Il moto, in se stesso, non è pertanto un criterio sufficiente.
Così andava ragionando Kavàla, fanciulla incline alla meditazione.
  - Tutto si muove. Il pianeta su cui abitiamo, l’universo stesso che ci contiene: tutto è in perenne movimento - disse, volendo rendere partecipe Garm dei suoi pensieri.
  - E con questo che vorresti dire?
  - Anche se io mi fermassi qui, e restassi immobile a lungo, non per questo il sangue nelle mie vene cesserebbe di circolare. Né la terra, su cui poggiano i miei piedi, smetterebbe di ruotare intorno al sole.
  - Sì, il moto è una proprietà dell’esistente.
  - Direi che ne rappresenta l’attributo principale!
  - Ebbene?
  - Questo stato di cose cozza contro la nostra aspirazione alla permanenza.
  - Tutto ciò è molto triste, lo so.
  - E’ la causa della nostra infelicità.
  - Ammesso e non concesso che noi si meriti di durare per sempre.
Lo sgrinz aveva ascoltato la conversazione fra i due giovani senza intervenire, sino a quel momento, almeno.
  - Il vostro colloquio mi fa ricordare un episodio. Tempo fa incontrai un tale, un professore, che sosteneva a spada tratta la teoria della permanenza dell’essere e della natura puramente illusoria del divenire. Accadde un incidente curioso: stavamo discutendo in riva a un torrente in piena, all’improvviso parte della sponda cedette e il professore fu inghiottito dalle acque, scomparendo in pochi istanti fra i gorghi.
  - Ed ecco dimostrata l’impermanenza del professore! - esclamò Kavàla.
Dopo il temporale, il cielo appariva di un azzurro splendente, punteggiato qua e là da rimasugli di nuvole dal colore lattiginoso. Lentamente, molto lentamente, quasi non volesse disturbare la moltitudine di libellule intente a deporre le uova sugli steli delle piante acquatiche, il fiume riprese a scorrere. Una poiana, appollaiata in cima ad un’acacia, spiccò il volo lanciando un grido acuto.
Garm vide tutto e pensò che una magia potente doveva abitare quei luoghi.
Cullato dal dondolio ritmico della groppa dell’animale e dal suono prodotto dalle acque del fiume contro i tronchi affioranti, il giovane si addormentò.

VI

Quando Laetitia si fu allontanata, il Catafratto aprì il cassetto della scrivania. Era pieno da scoppiare. Mettere ordine in quel groviglio di carte avrebbe richiesto ore di paziente lavoro. Sarmand, prudentemente, lo richiuse. Per alcuni lunghissimi minuti rimase immobile a sbirciare dalla finestra una nuvola solitaria i cui contorni andavano sfilacciandosi nel cielo azzurro pallido. Infine si decise a lasciare l’ufficio. Gli sguardi di almeno una decina di gechi seguivano ogni sua mossa.
  - Vi lascio la porta socchiusa, così potete uscire.
In fondo al corridoio, una coppia di donne delle pulizie era intenta a discutere animatamente. Ammutolirono non appena si accorsero della presenza del Catafratto. La più anziana delle due, una donna magra e nervosa dallo sguardo spiritato, si mise carponi e prese a strofinare freneticamente il pavimento con uno straccio sporchissimo. Sarmand la scavalcò come si scavalca un oggetto inanimato. Svoltato l’angolo, vide una specie di pupazzo vestito a festa emergere da dietro una tenda: il direttore dell’ufficio affari generali.
  - Eccellenza - esclamò il nano in tono mellifluo.
  - Che c’è ancora?
  - Il funerale di Baronzio, domani pomeriggio
  - Non se ne parla nemmeno, non con questo caldo.
  - Ma certo, volevo solo avvisarla che il sosia si è rimesso in salute.
  - Benissimo. A che ora è la cerimonia?
  - Alle tre.
  - Sarò lieto di non presenziarvi. Piuttosto ditemi: la vedova?
  - Baronzio era scapolo.
  - Ci vuole sempre una vedova. Ingaggiatene una posticcia.
  - Ci sarebbe la pseudovedova di Valterius. E’ una delle ultime sopravvissute della da voi disciolta scuola di arte drammatica. Ha solo un difetto: è zoppa.
  - Meglio.
  - E il discorso?
  - Cos’ha che non va il discorso?
  - L’abbiamo già utilizzato sei volte senza cambiare una virgola.
  - E con ciò?
  - Il pubblico potrebbe accorgersene.
  - Non se ne accorgerà nessuno. I partecipanti a questo genere di cerimonie hanno in mente una cosa sola: tornarsene a casa il più presto possibile. Chi vuole che presti attenzione al discorso? E ora non mi faccia perdere altro tempo!
Il nano si prostrò ai piedi del Catafratto e scomparve nel buio.
Venne dunque il giorno delle esequie del professor Baronzio. Uomo dottissimo, di sconfinata erudizione, la cui esistenza era stata costellata da un susseguirsi di inspiegabili disgrazie. In gioventù, la perdita di una mano; a trent’anni quella di un orecchio, quindi di un piede. Infine, più umiliante di tutte, la perdita del membro virile. In nessun caso, la separazione di queste parti anatomiche dal resto del corpo poté essere attribuita a cause traumatiche o a patologie note alla scienza medica. Si erano, semplicemente, distaccate da Baronzio per andare chissà dove. La ragioni di questo strano fenomeno andavano forse ricercate nello stile di vita austero del professore. Per sessant’anni Baronzio non aveva fatto altro che decifrare pergamene antichissime ridotte in condizioni miserande dal trascorrere dei secoli: consumate da muffe tenaci, rosicate da ogni genere di insetti, macerate, sbriciolate. Da quei rimasugli, Baronzio aveva ricavato con sovrumani sforzi di immaginazione informazioni dettagliatissime sugli usi e costumi delle tribù barbariche insediatesi nella valle del Nitico in epoca precedente l’edificazione del Tempio della Nube Purpurea. Il dipartimento di letteratura ahrimanica, feudo personale di Baronzio, aveva conosciuto una progressiva espansione, sino a contare decine di ricercatori e ricercatrici, tanto altezzosi quanto improduttivi.
Finché non sopravvenne l’elezione di Sarmand alla suprema autorità accademica. Su ordine del Catafratto, nel giro di sole otto ore l’edificio fu svuotato di ogni presenza umana. Bidelli, bibliotecari, specializzandi, ricercatori: tutto il personale, docente e non docente, fu caricato a bordo di carri piombati e deportato, si dice, verso un’isola lontanissima, situata nel Mare Settentrionale. Un’isola su cui sorgeva un tempo un monastero, riadattato a prigione.
Baronzio, invece, fu costretto ad assistere quello stesso giorno, in un cortile interno dell’accademia, al rogo delle pergamene alla cui decifrazione aveva dedicato l’intera sua esistenza. Quindi fu trascinato nei sotterranei e rinchiuso in una cella orribilmente tetra, a meditare sulla vanità delle cose terrene. Non sopravvisse che un mese al trauma. Lo trovarono riverso sul pancaccio, gli occhi sbarrati, un’espressione di terrore dipinta sul volto. Appena ricevuta la notizia del decesso, Sarmand diede disposizione affinché sul cancello principale dell’accademia fosse affisso un necrologio così concepito:
“Si è spento alla veneranda età di 85 anni l’illustrissimo professor Timoteo Pamphilo Baronzio, Direttore del Dipartimento di Letteratura Ahrimanica. Figura di altissimo profilo morale e intellettuale, padre e sposo esemplare, lascia nel cuore di chi lo conobbe un vuoto del tutto corrispondente allo spazio che vi occupò da vivo. Il Consiglio Magistrale Superiore e le maestranze tutte, ossequienti, si stringono commossi intorno alla sua bara disadorna.”
Il rito funebre fu celebrato nel cortile delle statue, che doveva il proprio nome alla presenza di grandi sculture itifalliche provenienti dall’Alto Egitto. La temperatura si aggirava sui 36 gradi, con un tasso di umidità dell’80%. Il pubblico all’interno del cortile era schierato secondo un rigido ordine gerarchico. In piedi sotto il sole cocente, ausiliari, portieri e personale tecnico – la massa damnationis – ad arrostirsi le cervella. All’ombra del colonnato, comodamente seduti su una tribuna montata per l’occasione, gli alti gradi della burocrazia accademica e i colleghi del defunto con le proprie amanti, per lo più segretarie d’istituto.
Sarmand trascorse il pomeriggio lanciando palline di pane ai gechi.

VII

Un solo essere vivente rimaneva all’interno dell’Accademia nelle ore notturne: Sarmand.
Il Catafratto non ne usciva mai.
Al calare dell’oscurità,  spettri e fantasmi prendevano silenziosamente possesso delle aule e degli uffici occupati durante il giorno dai vivi. Sarmand aveva il potere di scorgere queste entità, invisibili agli elissini, e di parlare il loro linguaggio.
Quella notte il Catafratto notò un insolito viavai di spettri. I corridoi immersi nel buio pullulavano di spiriti inquieti. Tra essi parve a Sarmand di riconoscere il profilo grifagno del professor Frugulis, deceduto dieci anni prima dopo una lunga vita inoperosa. Frugulis aveva ricoperto per quasi mezzo secolo la cattedra di scienza della divinazione e, parallelamente, l’incarico di Rettore del Collegium Niticensis, una famigerata residenza per studenti dediti a orge e gozzoviglie. La sua morte era avvenuta in circostanze del tutto particolari: mentre si aggirava per un prato con la sua bacchetta da rabdomante, il professore era precipitato in una crepaccio profondissimo, e il suo corpo non era stato mai più ritrovato. Una perdita da cui l’accademia si riebbe con difficoltà, nel volgere di poche ore. Lo spirito del professore, tuttavia, non riusciva a distaccarsi dai luoghi in cui aveva dottamente discettato, per decenni, di tiptologia e coscinomanzia dinanzi ad annoiate platee studentesche.
  - Ebbene, cos’è questa caciara? Che vi prende stanotte?
Al richiamo imperioso di Sarmand, il fantasma si mise sull’attenti.
  - Una riunione straordinaria, in aula magna!
  - Quale riunione?
  - Avevo qui l’ordine del giorno, dove l’ho messo?
Frugulis fece per frugarsi nelle tasche ma si interruppe, non avendo tasche in cui frugare.
  - Allora? -  lo incalzò Sarmand spazientito.
  - E’ una riunione importantissima! Stanno affluendo spiriti da tutte le provincie del regno. Si voterà una mozione!
  - Di che andate farneticando?
  - Vogliamo tornare!
  - Tornare dove?
  - Tornare in vita! Riprendere il posto che ci spetta, le cattedre che ci sono state sottratte.
Sarmand osservò il fantasma con un’espressione disgustata.
  - Non avete dunque imparato nulla? Neppure la morte è riuscita a smorzare le vostre smanie di protagonismo? Mi fate sinceramente pena.
Senza aggiungere altro, Sarmand volse le spalle al professore e si diresse verso la scala che conduceva ai sotterranei dell’accademia. Il Catafratto si muoveva nelle tenebre più fitte con la sicurezza di un pipistrello. Niente e nessuno era in grado di intimorirlo: né i vivi, né i morti, né i demoni. I sotterranei erano il solo luogo dell’imponente edificio in cui si sentisse davvero a suo agio. Vi si recava ogni notte. Laggiù, in quell’antro tenebroso, i fantasmi dei professori non osavano neppure far capolino. Solamente uno spettro vi dimorava: quello di un suicida, rifugiatosi nei sotterranei in cerca di tranquillità. Tra Sarmand e lo spettro si era  instaurato un rapporto improntato al mutuo rispetto: ciascuno badava ai fatti propri senza interferire nelle occupazioni altrui. Il suicida trascorreva il proprio tempo immerso nella lettura di antichi volumi polverosi. L’occupazione del Catafratto consisteva nell’attingere alla riserva di vini pregiati salumi e formaggi custodita in un locale a volta appositamente attrezzato. Sarmand vi aveva fatto collocare una poltrona, un tavolino e uno sgabello per appoggiare i piedi.
Tagliati un paio di cacciatorini e una generosa porzione di gorgonzola, il Catafratto estraeva dalla tasca del soprabito una micca di pane, stappava una bottiglia di vino rosso e si dedicava alla manducazione.
L’eccentricità del personaggio si appalesava in questa consuetudine del pasto notturno in un ambiente che certo non conciliava l’appetito.
I sotterranei ospitavano infatti un ossario, di cui gli elissini ignoravano l’esistenza: migliaia di teschi, tibie e clavicole – i resti mortali del personale docente e non docente avvicendatosi nel corso dei secoli all’interno dell’accademia – giacevano ordinatamente disposti nelle nicchie ricavate lungo le pareti. Servendosi degli scheletri meglio conservati, un artigiano aveva allestito, su incarico di Sarmand, una macabra messa in scena. Su un fondale teatrale raffigurante un paesaggio bucolico si stagliavano le sagome di una dozzina di scheletri abbigliati di tutto punto, ciascuno in una posa sua propria. Da una parte, uno scheletro in abiti da curato, il breviario stretto al petto, rivolgeva un gesto benedicente a due braccianti col cappello in mano, dall’altra una contadina coglieva more da un cespuglio.
I sotterranei esercitavano un fascino irresistibile sui demoni infernali. Accadeva non di rado che alcuni di essi si materializzassero accanto a Sarmand, per ammirare la sua straordinaria collezione di teschi e il suo teatrino della morte. Vi era, fra loro, una magnifica diavolessa di nome Lucretia. Le medaglie appuntate sulla sua cotta di maglia attestavano che si trattava di una guerriera intrepida. La conversazione con Sarmand era per lei fonte di sollievo. Quell’uomo così avulso dalla vita e dalle cure terrene le si rivolgeva sempre in tono garbato e affettuoso, quasi paterno, facendole dimenticare per un poco le proprie tristi incombenze quotidiane, il suo ruolo di tormentatrice di dannati.       
Il Catafratto, dal canto suo, traeva piacere dalla presenza di quell’indomita combattente. Come un vampiro, si nutriva della sovrabbondante vitalità di quella creatura diabolica. Lucretia si mostrava felice come una bambina ogni qual volta Sarmand le faceva dono di un teschio, o di una collana di vertebre.
Ma quella notte, sin dalla prima occhiata, la diavolessa intuì che l’umore di Sarmand era insolitamente cupo. Il Catafratto si accingeva a stappare la seconda bottiglia.
Turbata, Lucretia gli si rivolse così:
  - Voglio raccontarti una cosa. Non l’ho mai detta a nessuno.
Sarmand ripose la bottiglia sulla rastrelliera.
  - Agli inizi, quando presi servizio nella X Legio Infernalis, tutto era più semplice.
Ero motivata. Avevo un dovere da compiere, e lo svolgevo al meglio delle mie possibilità, con entusiasmo. Ora non più. Assolvo i miei compiti, sì, ma senza intima convinzione.
  - Capita a molti - sospirò Sarmand.
  - Ma non credevo sarebbe capitato a me, Lucretia, il flagello delle anime dannate.
Credevo di essere immune da certe debolezze, una macchina da guerra che niente e nessuno avrebbe potuto scalfire.
Sarmand portò il bicchiere alla bocca e lo svuotò a brevi sorsi.
  - Non ho più notizie del Re del Nulla - sospirò. - Temo l’abbiano ucciso.
Lucretia ebbe un fremito.
  - Il Re è vivo! - esclamò.
Sarmand la fissò negli occhi.
  - Dove si trova in questo momento?
  - Prigioniero in un pozzo, a centinaia di metri di profondità nel sottosuolo di Elissinia.
Sarmand posò la bottiglia e il bicchiere sul tavolino.
  - Dobbiamo liberarlo!

Pietro Ferrari, 2010  

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IL PRURITO DEL DRAGO
(Parte Prima)

  - Credo di non essere mai esistito per davvero.
  - Infatti non esisti.
  - Lo sapevo, l’ho sempre sospettato.
  - Ne parli come se fosse un male.
  - Lo è.  La vita è bella. Vorrei solo poterla assaporare per qualche istante.
  - Sciocco: la vita, come le sabbie mobili, non ti lascerà più andare. Stanne fuori, finché puoi.
  - Ma io voglio provare!
  - Lo desideri proprio?
  - Sì!
  - Eccoti accontentato.
 


Introduzione

Ci sono luoghi sulla terra in cui si vorrebbe vivere, metter su casa e famiglia, e poi vendere l’una e l’altra al miglior offerente. E infine c’è, o per meglio dire c’era, la città di Elissinia. Elissinia sorgeva sulle rive di un fiume, e fin qui nulla di strano. Solo che non si trattava di un fiume qualsiasi: per ragioni sconosciute, l’acqua vi scorreva in direzioni diverse, persino nell’arco della stessa giornata, creando qualche imbarazzo ai barcaioli. La vegetazione che cresceva lungo le rive non assomigliava a nessun’altra: un intrico di alberi sghembi, le cui radici affioravano dal suolo come viluppi di serpi, aggrovigliandosi nel sottobosco pullulante di specie fungine dalle dimensioni abnormi. Le spore del zorites caperatus germinavano sul tappeto muschioso dando vita a funghi bitorzoluti, di consistenza gommosa, lunghi talvolta sino a quaranta centimetri e oltre. In città se ne faceva grande uso, e non solo per scopi alimentari. Accanto ai zorites proliferavano miceti più piccoli: fra questi i pleurotus (già panati) e il boletus foetidus, giunto dalle Indie orientali e mai più ripartito.
Smisurata avidità ed avarizia costituivano i tratti peculiari degli abitanti di Elissinia. I bambini venivano educati al culto dell’oro, ma solo pochi di essi, una volta diventati adulti, potevano godere dei privilegi legati al possesso di grandi quantità del prezioso metallo: agli altri non restava che rassegnarsi a svolgere mansioni servili scarsamente retribuite. La frustrazione provata da migliaia di individui sconfitti nelle competizioni gerarchiche, esseri condannati a un destino di subordinazione, creava intorno alla città una cappa di energie negative fitta e opprimente quanto una nube di gas intestinali. Elissinia ospitava un’antica accademia, edificata dall’Arconte Fabius IV sulle rovine del tempio di Ahriman. La città contava una popolazione di centomila abitanti, sui quali regnava Sarmand, il rettore dell’accademia. Sarmand era privo di un arto, sebbene non fosse mai riuscito a stabilire quale: soffriva di una “sindrome dell’arto fantasma” di carattere metafisico. Si aggirava zoppicando vistosamente per i corridoi dell’accademia circondato da uno stuolo di servi zelanti pronti ad eseguire, anzi a prevenire, ogni suo più piccolo desiderio. Disprezzava profondamente quei galoppini, e correva voce che ne avesse soppressi a decine, sacrificandoli alle divinità ctonie durante abominevoli cerimonie notturne. Ciò nonostante, i vuoti nella schiera dei sotto-uscieri venivano puntualmente colmati, anno dopo anno, da altri appartententi ai gradi più infimi della gerarchia, attirati dal miraggio di un avanzamento di carriera. Molti di essi erano stati, in gioventù, allievi dell’accademia. La caratteristica saliente di questa antica, esecrabile istituzione consisteva, a detta dei suoi stessi reggitori, in un processo di selezione negativa, in base al quale ad emergere erano i soggetti con le peggiori attitudini. Ammesso che sia possibile stabilire una graduatoria nella scelleratezza, i peggiori fra i peggiori confluivano puntualmente nella congrega dei compilatori dei codici destinati a regolamentare ogni più piccolo aspetto della vita degli abitanti di Elissinia. Il sintomo più evidente della stortura mentale dei compilatori era rappresentato dalla forma dei loro scritti, concepiti in un gergo di straordinaria bruttezza, intellegibile ai soli addetti ai lavori. Ciò aveva fatto proliferare, in città, un’intera classe di individui – per lo più affiliati secondari alla congrega dei compilatori - la cui professione consisteva nel tradurre i codici e i regolamenti in una lingua comprensibile agli abitanti di Elissinia, dietro lauto compenso. In sostanza, caso raro in natura, una specie parassita – quella dei compilatori – ne aveva generata un’altra: quella dei decifratori di codici. Il malvagio Sarmand regnava su questo tenebroso abisso di  umana abiezione in cui, nel corso dei secoli, mai era era riuscita a penetrare una scintilla di luce. Si sbaglierebbe a giudicare questa una semplice immagine metaforica: l’esistenza di un’accademia sotterranea era un fatto certo, benché noto a pochissimi. Il sottosuolo della città sul fiume celava una rete di gallerie scavate da servitori non umani del consiglio magistrale superiore. Gallerie che si intersecavano creando ambienti più vasti, teatro di riti innominabili.
Tutto ciò che sappiamo di Elissinia lo dobbiamo a uno scritto anonimo custodito presso la Biblioteca Nazionale Centrale della capitale dell’Impero, Veltronia. Della città, infatti, non rimane più traccia, tanto che alcuni studiosi dubitano persino che sia mai esistita. Il libro, un pesante volume rilegato in legno, cesellato a sbalzo con incisioni a bulino, reca il titolo “De natura hominum”. La traduzione del testo, il cui stato di conservazione è tale da scoraggiare anche le tarme, procede con difficoltà ma senza soste. Quella che qui vi proponiamo è la prima versione autorizzata in veltroniano moderno dei capitoli compiutamente tradotti.

DE NATURA HOMINUM

I

Come ogni mattina, i servitori erano intenti a lucidare le teche di vetro che custodivano i cadaveri imbalsamati dei Catafratti, massimi detentori della suprema autorità magistrale. Il corridoio centrale dell’accademia, su cui si affacciavano le aule principali, ospitava venti di queste teche. I volti dei rettori defunti erano orribili a vedersi: vi si leggeva ancora la cupidigia che aveva ispirato ogni singolo gesto della loro esistenza. Dinanzi alle salme dei Catafratti, sfilavano a capo chino gli allievi dell’accademia, prima di recarsi a lezione.  
La porta del rettorato si aprì ed entrò un nano. Era il direttore dell’ufficio affari generali dell’accademia, un individuo temutissimo dai suoi sottoposti, e per questa ragione fatto oggetto della più bieca adulazione. Si narrava che fosse entrato nei ruoli del personale non docente dell’accademia dal grado più basso, quello di vice-portiere addetto allo spolvero delle teche, ed avesse costruito la sua prodigiosa carriera sulla delazione e il ricatto.
  - Eccellenza, il rapporto settimanale.
Sarmand sedeva sulla poltrona accanto alla finestra, tutto preso ad osservare l’andirivieni degli studenti nel cortile sottostante.
  - Posi il fascicolo sulla scrivania e mi faccia un sunto veloce, che non ho tempo da perdere con le scartoffie.
Il nano sapeva benissimo che Sarmand avrebbe letto ogni riga del rapporto, per verificarne la corrispondenza con quanto si accingeva ad esporgli, e si dedicò a riassumerlo con la massima precisione.
  - Sì eccellenza. Il professor Valterius è stato inghiottito da una voragine profondissima apertasi improvvisamente nel manto stradale.
  - Fin qui le buone notizie. E le cattive?
  - A dir il vero oggi non ne sono giunte.
  - Continui.
  - Sì eccellenza, devo segnalarle l’avvenuto decesso del docente emerito di cripto-glottologia, Parvenio, spirato dopo lunga e straziante agonìa. Pensi: il poveretto aveva perso l’uso di entrambi i mignoli delle mani!
  - Ed è morto per così poco?
  - Il resto del corpo era già paralizzato da tempo. Infine, ho raccolto alcune testimonianze che potrebbero inchiodare il professor Euforione. Le ho qui nella borsa.
  - Faccia vedere!
Il nano con uno scatto felino porse a Sarmand un robusto plico.
  - Il pervertito! - disse con maligna soddisfazione il Rettore, scorrendo la documentazione.  - Non l’ho mai potuto sopportare. Ma adesso basta. Quant’è vero Ahriman, stavolta lo ridurrò in polvere. Non intendo solamente distruggerlo, voglio sentirlo squittire come un topo stretto all’angolo.
Il nano non battè ciglio, ma avvertì dentro di sé un brivido di piacere profondissimo.
Sentiva di aver appena contribuito a segnare la sorte di un uomo che lo aveva pubblicamente umiliato in più di un’occasione.
  - Eccellenza.
  - Che altro c’è?!
  - Oggi pomeriggio, in aula magna… la cerimonia per il conferimento della laurea honoris causa  a Calvertius.
  - Calvertius! Quel miserabile saltimbanco! Avete affisso gli annunci?
  - Da un settimana, eccellenza.
  - E gli avvisi sulla Gazzetta dei Sottomessi?
  - Sono in pubblicazione da ieri.
  - Faccia vedere.
La Gazzetta dei Sottomessi era un foglio a stampa, il solo notiziario pubblicato a Elissinia. Ospitava apologie degli accademici e, più in generale, encomi di chiunque ricoprisse una posizione di potere, qualunque essa fosse, anche la più infima. Ovviamente, la lunghezza dei testi apologetici variava in relazione all’importanza del soggetto: i vice-sotto-delegati della commissione incaricata di sovrintendere alla pulizia delle abitazioni dei Presidi di facoltà ricevevano sì e no tre righe di elogi al mese. Solo i Docenti Emeriti potevano contare su un articolo encomiastico di lunghezza superiore alle trenta righe. I collaboratori della Gazzetta davano il peggio di sé in occasione dei funerali dei potenti: lodi sperticate, ritratti celebrativi talmente enfatici da sconfinare nel ridicolo. 
Gli autori di questi testi erano il prodotto migliore del processo di selezione negativa attuato dall’accademia. Alcuni di essi erano solo in parte umani, altri non lo erano affatto. Il direttore era un pupazzo di legno mosso da un ventriloquo (ma questo era un segreto noto solo a Sarmand).
  - E’ previsto che io tenga un discorso?!
  - Sì eccellenza.
  - Non ci penso neanche. Mi sostituirà il sosia.
  - Il sosia è afono, ha preso freddo.
  - Come sarebbe a dire? Come ha fatto a prendere freddo?
  - La cantina in cui lo  teniamo rinchiuso è umida.
  - Trovategli un'altra collocazione!
  - Senz’altro. Ma per il momento è afono.
  - Ho capito, dovrò intervenire di persona. Provveda lei a stilare un discorso per l’occasione.
  - L’ho già preparato.
  - Posi lì e se ne vada.
- Eccellenza.
Il nano si inchinò e così facendo sfiorò il pavimento con la fronte. Uscito dall’ufficio del Grande Catafratto si stropicciò le mani per la soddisfazione.
Non appena il nano se ne fu andato, ampie volute di fumo cominciarono a levarsi da un’anfora posata su un tavolino d’angolo. Il fumo disegnò i contorni di una figura femminile. Sarmand, per nulla sorpreso, stette ad osservare il fenomeno: in breve, dinanzi a lui venne a stagliarsi la sagoma di una giovane donna, avvolta in un mantello. I suoi occhi risplendevano come braci ardenti, e da tutto il suo corpo emanava una specie di bagliore, quasi il riflesso di un incendio. La voce della donna alata aveva un timbro sepolcrale.
  - Perché mi hai evocata, Sarmand?
  - Questa città poggia su quattro pilastri: avidità, paura, invidia e odio. Da questi quattro elementi trae alimento il mio potere. Come potrei dominare su decine di migliaia di uomini e donne, se costoro non fossero dominati dalle peggiori passioni? Sono come cani rabbiosi, sempre pronti a sbranarsi a vicenda. Rispettano solamente la forza. Ricordi il mio predecessore? Era un vero animale, eppure tutti lo riverivano. Ancora oggi viene ricordato come un benefattore, e una piazza di Elissinia porta il suo nome.
  - Non hai ancora risposto alla mia domanda. Perché mi hai evocata?.
  - Avverto un pericolo. Una minaccia sospesa sul potere dell’accademia, che io incarno.
  - La minaccia di cui parli  ci è nota, da giorni ne seguiamo l’evolversi.
  - E non siete intervenuti a sventarla? - domandò timidamente Sarmand.
  - Saremo noi a decidere il quando e il come. Ma ti ho già dedicato sin troppo tempo, affari più urgenti mi attendono.
E così dicendo la creatura si dissolse nell’aria, lasciando dietro di sé un aroma di baccalà. 

II

Garm avanzava guardingo sul sentiero illuminato dalla luce argentea della luna piena. Il bosco alle sue spalle si stagliava maestoso: vera e propria fortezza arborea, capace di infondere timore anche nei cuori più impavidi. Non un alito di vento scuoteva le fronde degli alberi secolari. Il giovane estrasse dalla bisaccia l'amuleto donatogli, molto tempo prima, da Firlfrind, il mago, e se lo passò più volte sotto le ascelle e nel solco inguinale, come gli era stato insegnato. Guardò dinanzi a sé: il sentiero proseguiva in linea retta attraverso la brughiera butterata di acquitrini. Riprese il cammino, non senza aver prima lasciato partire un peto fragoroso che rimbombò nel silenzio della pianura come un tuono. Erano giorni che si nutriva di bacche e la cosa cominciava a fare i suoi effetti. Giunto in prossimità di uno stagno, Garm avvertì una sgradevole sensazione: qualcuno, o qualcosa, dal profondo del bosco lo stava fissando.  “Devo far finta di nulla”, pensò. Ma il suo intestino non seguì questo saggio proposito. Un peto, ancor più violento del primo, crepitò paurosamente rimbombando fra gli alberi. Lo spostamento d’aria fu tale da proiettare Garm ad alcuni metri di distanza.
Immediatamente, dal folto della foresta, sbucarono dei guerrieri con dei curiosi copricapi a forma di turacciolo, lanciando urla belluine. Garm si diede a una fuga precipitosa, non certo per sottrarsi al combattimento, ma per pura e semplice codardia. 
Corse come corre una volpe inseguita da un branco di segugi, distanziando i propri inseguitori che non cessavano di rivolgergli improperi. Sfruttando la propulsione fornita dalle emissioni intestinali guadagnò ulteriore terreno. Raggiunse una specie di argine, in cima al quale si arrestò, finalmente, a riprendere fiato. Si volse a guardare indietro, rallegrandosi nel constatare come i suscettibili abitanti della foresta avessero desistito dal braccarlo. Nella sua mente balenò il ricordo della terra natìa, la valle di Gyelheim, da cui un destino avverso lo aveva strappato, forse per sempre. Gli apparve il volto angelico della bella Fringa dalle lunghe trecce dorate e dai seni grandi come meloni. Fringa che mai lo aveva degnato di uno sguardo. Un pigolìo scosse Garm dai suoi pensieri, facendolo sobbalzare più e più volte. - Pulcini! - esclamò, sentendosi perduto. Mancava ancora molto all’alba e la luce del disco lunare pareva suscitare sinistre entità dal suolo coperto di muschi e radici putrescenti. Dove trovare scampo? La foresta pullulava di indigeni ostili, e la brughiera… la brughiera celava ogni sorta di insidie! Non restava che cercare rifugio nella palude, che si estendeva a perdita d’occhio ai piedi dell’argine. Di nuovo il pigolìo risuonò minaccioso nella notte, questa volta ancor più vicino. Garm non esitò oltre e discese nell’acquitrino, rabbrividendo al contatto con l’acqua tiepida. Vi affondò fin sopra il ginocchio e si inoltrò fra la vegetazione. Avanzò fra le canne, finchè l’eco dei pigolii non si affievolì alle sue spalle. La vegetazione palustre dopo un centinaio di metri prese a diradarsi, ed allora Garm scorse delle luci risplendere dinanzi a sé. Provenivano da un villaggio edificato su un’isola, protetta dal canneto. Garm si avvicinò guardingo a una capanna, da cui proveniva una voce cantilenante, e sbirciò all’interno. La capanna era vuota! Ma allora da dove proveniva la voce misteriosa? Forse dalla capanna accanto. Garm, tremando come una foglia, si avvicinò con circospezione al tugurio, da cui ora giungeva un vero e proprio concerto di voci, frammiste a belati, latrati, muggiti, ruggiti, guaiti, bramiti. Troppo per il povero Garm, che stava già per fuggire quand’ecco che la porta della capanna si aprì.
  - Che fai lì, straniero? Entra.
A rivolgergli questo invito era una giovane donna, straordinariamente bella, che lo osservava dalla soglia. Indossava una corta tunica di lino che lasciava scoperte le cosce tornite. Garm si tolse il lungo cappello a cono, dono del generoso Firlfrind, e salì i gradini della capanna. 
  - Il mio nome è Kavàla - esclamò la donna. - Vivo nella palude e mi annoio terribilmente. Tu chi sei?
  - Il mio nome è Garm. Provengo da Gyelheim, non so se hai presente.
  - Veramente no.
  - E’ una valle ubertosa, resa fertile dalle acque di due grandi fiumi alimentati, secondo la leggenda, dalle mammelle di Gea.
  - Molto interessante. Cosa ti porta in questi tristi paraggi?
  - Non dovrei dirlo ma sto svolgendo un’importante missione da cui dipende il destino del mio popolo.
  - Però! E in cosa consiste questa missione?
  - Non potremmo sederci? Sono stanchissimo.
  - Ma certo, entra, anzi scusami se ti ho trattenuto fuori dall’uscio. L’aria della palude è così insalubre. Ecco, siedi pure per terra, su quello straccio bisunto.
  - Grazie, sei molto gentile.
  - Allora, questa missione?
  - Mi spiace ma non posso entrare in particolari: è una missione segreta. Posso però rivelarti che la mia meta è la città stregata di Elissinia.
Kavàla trasalì, scuotendo la sua bella chioma a caschetto.
  - Elissinia è un luogo pericolosissimo! Hai idea dei rischi a cui ti esporrai? E poi come pensi di cavartela da solo? No, no, è una follia bell’e buona, credimi… Una soluzione però ci sarebbe.
  - Quale?
  - Potresti prendermi con te. In due si ragiona meglio! E poi io so fare un sacco di cose: imito le voci degli animali e so contraffare quelle degli esseri umani, alla perfezione.
Così dicendo, Kavàla si mise a quattro zampe e prese ad abbaiare, dimenando il sedere.
Garm, giovane ingenuo, in tutta la sua breve esistenza non aveva concepito un solo pensiero peccaminoso. Ma, alla vista di quelle natiche perfettamente modellate, fu colto da una specie di vertigine.
  - Aria, ho bisogno d’aria! - esclamò, levandosi in piedi. Prim’ancora che la donna della palude potesse accennare una reazione, il giovane sgaiattolò dalla finestra.
Tutt’intorno a lui gracidavano le rane. Il gracidìo era così intenso che Garm, provato dalle troppe emozioni, svenne.
Si risvegliò a giorno inoltrato. Giaceva nella capanna, disteso su del pagliericcio.
Kavàla sedeva, accanto a lui, su uno sgabello rivestito di pelle di sgrinz, un animale erbivoro simile allo yak, che all’inizio della primavera si disfa della sua pelliccia invernale per indossare una  livrea più adatta alla stagione mite.
Garm si stupì nel constatare come le ascelle di Kavàla fossero perfettamente depilate. La terra da cui proveniva era abitata da donne selvagge, di cui tutto si poteva dire tranne che avessero familiarità con il sapone. Kavàla non emanava alcun afrore ferino, anzi, sapeva di pulito. La sua pelle era liscia come seta, e sul suo viso non si scorgeva traccia di baffi. Persino gli insetti parevano restii ad aggredirla, mentre invece si tuffavano con voracità sull’irsuto Garm, come su un’esca succulenta.
  - Bentornato. Hai dormito a lungo.
  - Non so cosa mi ha preso, mi dispiace.
  - Mentre riposavi ti ho procurato del cibo.
La donna porse a Garm un vassoio con delle ciambelle e una ciotola di latte.
  - Mangia che ne hai bisogno, sei così pallido.
Garm divorò tutto quanto con appetito.
  - Ora dimmi: cosa pensi di fare? mi porterai con te?
Garm annuì.
  - Fantastico! Sono già pronta  a partire.
  - Ci servirà una provvista di cibo.
   - Ho preparato tutto. E qui fuori c’è uno sgrinz sellato. Ci stiamo in due comodamente. Pronti?
  - Andiamo. Ma non devi salutare nessuno, prima? I tuoi parenti?
  - No, il villaggio è disabitato.
  - Cosa? Vivi qui sola?
  - Già, tutta sola.
  - Che fine hanno fatto gli altri?
  - Li hai sentiti poco prima di svenire. Si sono trasformati in rane, un paio di anni fa.
  - E com’è successo?
Un’ombra di tristezza si posò sul volto di Kavàla.
  - Un giorno arrivò al villaggio un viandante e chiese ospitalità al consiglio degli anziani. Lo ricordo come fosse ieri. Era un bell’uomo, alto, ma di altezza variabile.
  - In che senso?
  - Che la sua altezza variava. Si allungava e si accorciava.
  - Ma si allungava tutto o solo in parte?
  - Tutto si allungava. A volte invece si restringeva e diventava piccolo piccolo, un vero nano. E in quei momenti mi faceva paura. I nani sanno essere terribili.
  - E poi?
  - Il viandante mi faceva una corte spietata. Si appostava sui rami degli alberi e mi spargeva petali di fiori sui capelli mentre passavo di sotto. Scriveva poesie e me le faceva trovare al mattino, affisse sulla porta della capanna. Un brutto giorno me lo vidi spuntare davanti lungo lungo ed ebbi la cattiva idea di mettermi a ridere, ma mica volevo prenderlo in giro, ero proprio imbarazzata dalla sua lunghezza. Fatto sta che lui s’infuriò, raccolse le sue cose e mentre si allontanava scagliò una maledizione sul villaggio. Tutti coloro che lo abitavano, tranne me, si trasformarono in rane! Ormai ho rinunciato a sperare che possano ritornare umani. L’unica soluzione è che ritrovi quel disgraziato e lo costringa a disfare il sortilegio.
  - Entrambi andiamo alla ricerca di qualcosa o qualcuno, e non sappiamo se lo troveremo.
  - Ora però basta parlare, partiamo - disse Kavàla, e balzò in groppa allo sgrinz.
L’animale cacciò una scoreggia che investì in pieno viso il povero Garm scompigliandogli i capelli. Il giovane barcollò semintontito.
  - Ti ci dovrai abituare. Queste creature si nutrono di vegetali che, fermentando, producono nei loro ampi stomaci quantità considerevoli di gas.
  - Bacche, scommetto.
  - Precisamente. Sali, dai. No, non dietro di me: davanti. Non mi dirai che non hai mai cavalcato.
  - Certo, cosa credi.
Garm mentiva spudoratemente: la sua pratica non andava oltre il cavallo a dondolo ricevuto in dono da bambino. Ma lo sgrinz, nella sua innata saggezza, venne in aiuto del giovane inesperto: si chinò così che Garm potesse salirgli in groppa, quindi si mise in movimento lungo il sentiero che si allontanava dal villaggio in direzione di un bosco di isverdie. Le isverdie, com’è noto, sono piante sempreverdi. Tranne che in un’occasione: quando si sentono osservate. In tal caso, infatti, le foglie assumono una colorazione rossastra. Per questa ragione la pianta è nota fra i botanici con il nome di isverdia timida.
  - In quel bosco vivono strane creature, caro Garm. E’ per questa ragione che non mi sono mai azzardata a recarmici da sola, specialmente di sera. Ma in tua compagnia, mi sento al sicuro.
  - Che genere di creature?
  - Io di persona non le ho mai viste, ma mio nonno mi raccontava che una volta vide sbucare da dietro un cespuglio una scimmia albina, con un cappello a cilindro calcato in testa. E la scimmia gli rivolse la parola!
Garm rabbrividì. Il bosco celava dunque minacce tanto orrende?
  - E poi, - proseguì Kavàla - la scimmia prese da terra un oggetto di forma quadrangolare, simile a un cristallo, recitò una formula incomprensibile e si dissolse nell’aria, come una bolla di sapone.
Il bosco, a quell’ora del giorno, risuonava dei canti di innumerevoli specie d’uccelli, alcuni dei quali estinti da migliaia di anni. L’eco dei loro cinguettii vibrava ancora fra le fronde delle isverdie! Lo sgrinz, con passo lento ma sicuro, si inoltrò nel folto. L’aria era densa di aromi e profumi, così penetranti da indurre un lieve stordimento. Kavàla si strinse ancor più a Garm, che sentì crescere dentro di sé un sentimento quale mai aveva provato prima. E cominciò ad allungarsi, ma non come il viandante: solo in parte.
Lo sgrinz, giunto nel frattempo a una biforcazione del sentiero, si bloccò in attesa di ordini.
  - E adesso dove si va? - riflettè il giovane. In quel mentre, una farfalla dalle ali azzurre venne a posarsi sulla criniera dello sgrinz, per poi levarsi in volo diretta verso il sentiero di sinistra. E fu proprio in quella direzione che Garm spronò la sua cavalcatura.
  - Garm, come faremo ad entrare a Elissinia?
  - Non me lo sono mai chiesto. Troveremo il modo, e poi sono convinto che Firlfrind verrà in nostro soccorso.
  - Speriamo, ma forse sarebbe il caso di preparare un piano di riserva, casomai il mago non potesse intervenire.
  - Hai ragione, faremo così. Quando saremo in vista delle mura della città, ci fermeremo a riflettere.
  - Potremmo farlo anche adesso.
  - Buona idea, comincia tu.
Kavàla si era accorta da un pezzo dello stato di eccitazione di Garm, e non sapeva che fare. Era attratta dal giovane, ma non voleva concedersi a lui troppo presto, almeno non prima del tramonto. A parte ciò, era sinceramente preoccupata per la sorte che li attendeva in città. Non si era mai allontanata dal suo villaggio di capanne, e, pur conoscendo alcune pratiche magiche elementari, non si sentiva certo in grado di rivaleggiare con i negromanti di Elissinia.
A distoglierla da queste considerazioni giunse un evento tanto improvviso quanto inaspettato: lo sgrinz si mise a parlare.
  - Ho viaggiato per mezzo mondo, valicato montagne, guadato fiumi… e ora comincio ad essere stanco di tutto questo andare. Un tempo ero affascinato dal paesaggio, mi incuriosivano le persone che incontravo. Oggi non più: di voi umani so tutto ciò che c’è da sapere, e, quanto al resto, sinceramente m’è venuto a noia. Tuttavia, siccome voi due mi state simpatici, vi porterò a destinazione. Adesso però, se permettete, vorrei sostare un poco.   
Ripresasi dallo stupore, Kavàla rispose allo sgrinz.
  - Ma certo, anche noi abbiamo bisogno di una pausa.
Garm non fiatò. Altre volte, in passato, aveva assistito ad episodi simili,  ma solo in sogno. Era dunque un sogno anche quello? Carezzò una coscia di Kavàla: quella pelle, liscia e calda, era reale. Anche il pizzicotto - lieve, a dire il vero – che ricevette dalla ragazza, lo era. Dunque non stava sognando. Lo sgrinz aveva parlato, e se così stavano le cose, tutto poteva accadere. 

III

Ventri gonfi come otri, teste pelate, guance cascanti, doppi e tripli menti: la platea di accademici radunati nella Sala delle Conferenze offriva allo sguardo un repertorio di corpi sfatti e deformi. Su quell’accolita di eruditi si stendeva già l’ombra della morte. Sarmand, nel fare ingresso in sala da un passaggio segreto, fu colto da sgomento alla vista dei colleghi, e soprattutto dall’odore di carne andata a male, che gli incensi profusi in gran quantità nel locale non riuscivano a cancellare. Scambiò un’occhiata con l’ultraottuagenario professor Ragades, aggrappato a un seggiolone in prima fila. Il rudere rivolse al Catafratto la parodia di un sorriso e, sollevandosi appena sui braccioli, esalò una peto fragoroso. Ritto in piedi dietro di lui, impassibile, l’assistente Gromius, candidato a succedergli alla cattedra di grafologia dei crittogrammi, saettava occhiate torve sui presenti. Smodata ambizione, superbia, volontà di rivalsa trasudavano da tutti i pori del nerboruto assistente, amatissimo dalle studentesse per il suo carattere tirannico, la sua arroganza e quell’aria da bruto irriducibile a qualsiasi tentativo di civilizzazione. Un vero animale, insomma, villoso per di più, e capace di battute incredibilmente volgari, che mandavano in brodo di giuggiole le sue ammiratrici.
Una coppia di portieri, scorto il Catafratto, corse ad inginocchiarsi ai suoi piedi. Sarmand li ignorò, e si diresse verso un capannello di docenti i cui neri mantelli facevano pensare a uno stormo di corvi radunati intorno a una carcassa da spolpare. La folla si aprì al suo passaggio, fra inchini, salamelecchi e sorrisi untuosi, e lasciò apparire il laureando, Calvertius. Era costui un saltimbanco, esibitosi per anni nelle fiere di paese. Divenuto in seguito giullare presso la corte del Proconsole Fistulòs, entrò nelle grazie del potente personaggio e da questi fu avviato a una brillante carriera teatrale. Decisiva fu, in seguito, la conoscenza dell’Archimandrita, Zoran. Con una repentina quanto inaspettata metamorfosi, Calvertius modificò radicalmente il proprio repertorio, fatto un tempo di battute salaci e irriverenti, e divenne “poeta”. Non perdeva occasione per esibire in pubblico questa sua nuova vena poetica, declamando versi, altrui, tesi a celebrare le meraviglie del creato e la benevolenza della Nube Purpurea. Una politica che gli guadagnò apprezzamento da parte dei potenti e consensi entusiastici da parte delle torme dei sottomessi, sempre grati a chi li conferma nelle proprie illusioni consolatorie.
  - Eccellenza! Quale onore, venga, si lasci abbracciare!
All’apparire di Sarmand, Calvertius esplose in una fragorosa esclamazione di giubilo. Il Catafratto si sottrasse all’abbraccio e raggiunse la poltrona riservata alla suprema autorità accademica, foderata in velluto rosso e dotata di soffici imbottiture atte a lenire i disturbi emorroidali cui Sarmand era cronicamente soggetto. Su un seggiolone poco distante, collocato ad un’altezza leggermente inferiore, l’Archimandrita Zoran, assicurato con cinghie robuste allo schienale, dispensava sorrisi melliflui e gesti benedicenti ai convenuti.
Il suono di un gong mise fine al cicaleccio disperdendo i crocchi degli eruditi, che guadagnarono immediatamente i propri posti. Ad un secondo colpo di gong, una botola situata giusto al centro della sala si spalancò, e ne uscì un vecchietto smilzo, con un altissimo cappello a cono ed un abito che pareva fatto di stracci cuciti alla bell’e meglio. Si trattava di Scrotulus, economo dell’istituto di geomanzia, incaricato di presiedere la cerimonia.
Gli era stato riservato una specie di pulpito ma sarebbe meglio dire una botte, agganciata in modo rudimentale a una colonna. Il vecchio vi fu issato con un argano da una coppia di portieri affetti da lordosi, che impiegarono quasi un’ora a compiere l’operazione, tra continue pause per riprendere le forze. Ed ogni volta, per lunghissimi minuti, l’economo restava appeso per le ascelle come un fagotto, le gambe penzoloni nel vuoto, avvolto nei suoi stracci colorati, un’espressione disperata dipinta sul volto. I portieri, madidi di sudore, gemevano per la fatica, ansimando come mantici, tra sinistri scricchiolii d’ossa e rumorose flatulenze, attirandosi i lazzi degli Ululanti seduti nelle ultime file (quella degli Ululanti era una conventicola di allievi dell’accademia accuratamente selezionati e addestrati in appositi serragli). Il pubblico assisteva compiaciuto all’umiliazione pubblica dell’economo, da tutti disprezzato per i suoi trascorsi di strozzino, e alle tribolazioni dei portieri. Il calvario dei tre meschini finalmente si concluse: l’economo fu adagiato nella botte e qui, dopo un’ulteriore, non breve pausa, Scrotulus attaccò il suo discorso.
  - Nel rivolgermi a questo almo consesso, desidero anzitutto ringraziare vivamente e sentitamente Sua Eccellenza il Rettore, nonché presidente della Società dei Catafratti: il mai sufficientemente lodato professor Nicolaus Sarmand, alla cui suprema autorità ci inchiniamo ammirati e riconoscenti; il reverendissimo Archimandrita Zoran, fonte inestimabile di ammaestramento morale, che ha voluto onorarci della sua presenza; i Diadochi Galvano, Labano e Carcarodonte, qui raffigurati in effigie; i membri del Consiglio Magistrale Superiore; il Proconsole Fistulòs e la sua diletta moglie, Isabella, la cui bellezza illumina come un raggio di luce questa sala prestigiosa.
Sarmand aguzzò la vista. Sedeva accanto al proconsole, in prima fila, una giovane donna molto attraente. Si stupì di non averla scorta prima: evidentemente, il viavai di docenti prima del gong l’aveva nascosta al suo sguardo. Il contrasto fra l’avvenenza di lei e lo sfasciume fisico del proconsole non avrebbe potuto essere maggiore. Fistulòs viaggiava verso i settantadue anni, e in lui restava ormai ben poco di umano. Come tutti i suoi sodali, aveva utilizzato il potere per accumulare illecitamente ricchezze enormi. Rimasto vedovo in seguito al suicidio della prima moglie, Fistulòs aveva messo gli occhi su Isabella, una donna di appena 26 anni. Appartenente a una facoltosa  famiglia di allevatori di lemming ridotta sul lastrico dall’irrefrenabile inclinazione al suicidio dei simpatici animaletti, Isabella aveva accondisceso al matrimonio con il laido proconsole per evitare ai genitori l’umiliazione del declassamento sociale. Era una donna d’animo fondamentalmente buono, una di quelle nature che, per ragioni insondabili, ritengono che la loro vita debba essere una continua espiazione.
L’attenzione del Catafratto tornò allo svolgimento della cerimonia. Scrotulus stava giusto pronunciando le ultime battute del suo discorso introduttivo, quando dal fondo della sala si levò un grido. Ampie volute di fumo sospinte da un’improvvisa corrente d’aria raggiunsero le prima file. L’uditorio esplose in un grido di terrore:
- Al fuoco!
Il professor Ragadès si cagò immediatamente nei pantaloni. Sarmand, unico fra tutti i presenti a non cedere al panico, osservava e taceva. Ad ardere erano le tende di un finestrone situato accanto all’entrata principale. Gli accademici si diedero a una fuga precipitosa, dirigendosi come una mandria al galoppo verso l’uscita collocata alle spalle del tavolo della presidenza.
Nella massa dei nerovestiti spiccava un individuo la cui deformità fisica superava ogni immaginazione: si trattava del redattore capo della Gazzetta dei Sottomessi, Demetrio Sileno. Era costui un essere del tutto privo di arti, che si trascinava utilizzando degli pseudopodi. Sarmand aveva pensato talvolta di esiliarlo, ma quell’abominio, così zelante nel proprio ruolo di servile scribacchino, gli tornava tutto sommato utile lì dove stava.
  - Guardali come scappano… come pulci da un cane morto.
Sarmand, fermo al proprio posto, osservava la scena con il distacco di un entomologo. Il principio di incendio fu domato da un squadra di ausiliari richiamati dai sotterranei della Biblioteca Centrale dove prestavano la loro opera di cacciatori di tarme.
All’interno del locale, ausiliari a parte, era rimasto il solo Sarmand, meditabondo.
  - Bene, cerimonia annullata - sospirò il Catafratto. Il pensiero di chi avesse appiccato l’incendio non lo sfiorava neppure. Avvertiva piuttosto un’acuta insoddisfazione per la rapidità con cui gli ausiliari avevano domato il fuoco.
Si decise ad abbandonare l’aula. Il corridoio che conduceva al rettorato era una specie di budello privo di finestre. In origine, le sue dimensioni erano più ampie, ma Sarmand aveva ordinato che fossero ridotte così da indurre angoscia nei visitatori. L’ufficio del Catafratto era, al contrario, molto spazioso. Vi regnava il disordine più assoluto, tanto che lo si sarebbe scambiato per il magazzino di un robivecchi. Refrattario alle sirene del piacere, Sarmand coltivava una sola passione: il Caos. Nessuno più di lui era capace di generare disordine, di inficiare il corretto funzionamento degli apparati amministrativi.
Sarmand aprì la porta con la consueta circospezione, sbirciò all’interno ed ebbe un tuffo al cuore. Sulla poltrona accanto alla finestra sedeva Laetitia, la più bella studentessa dell’accademia. Il Catafratto la convocava spesso nel suo ufficio per ammirarla come si ammira un’opera d’arte. Non si stancava di guardarla, sebbene la cosa fosse per lui estremamente faticosa: a causa di un difetto congenito, Sarmand non riusciva  fissare gli oggetti per più di un minuto, dopo di che la vista gli si appannava. Di qui il suo caratteristico sguardo  incessantemente mobile, l’impossibilità di concentrare l’attenzione su qualsiasi cosa che risiedesse al di fuori della sua mente.
  - Dimmi cosa vuoi che faccia per te - domandò il Catafratto a Laetitia. - Vuoi che dia fuoco all’emeroteca? Lo farò immediatamente. A che servono le emeroteche? Andrebbero distrutte, non fosse altro  per il nome che portano. 
  - Che bel sole c’è fuori.
Sarmand trasalì: la luce feriva i suoi occhi abituati alla penombra delle aule secolari, dei corridoi angusti, dei sottoscala dell’accademia. Luoghi insalubri, ricettacoli di polvere, sporcizia, nidi di ragni e individui affetti da malformazioni non sempre evidenti.
  - C’è troppa luce in questa stanza… dovrei far murare la finestra.
  - Tanto varrebbe seppellirsi vivi. L’accademia somiglia già sin troppo a una tomba.
  - L’accademia è una tomba. Ma tu non puoi capire.
La morte del vicedirettore della facoltà di numerologia, annunciata da giorni, si stava compiendo proprio in quell’istante, nelle catacombe dell’accademia. Per volontà di Sarmand l’anziano erudito, ormai agli stremi, era stato deposto in una delle cripte più tenebrose di tutto l’edificio, un sotterraneo dove persino i pipistrelli esitavano ad avventurarsi. I singhiozzi del povero vecchio, le sue inutili suppliche agli dèi, frammiste a ululati di terrore, risuonarono a lungo nell’oscurità, sino a trasformarsi in flebili lamenti, via via più fiochi. Com’erano lontani i giorni del potere, della gloria accademica! Niente più platee adoranti, ma lugubre silenzio e oscurità fittissima. Il vegliardo sollevò debolmente la mano destra - con cui tante volte aveva pizzicato il sedere alle donne di servizio – quasi  a cercare un appiglio cui aggrapparsi per sfuggire alla salda presa della morte. Ma le sue dita non incontrarono altro che il vuoto, ed emesso un ultimo rantolo, l’uomo spirò.
Nello stesso istante, come se un genio malefico gli avesse sussurrato la notizia in un orecchio, Sarmand sorrise soddisfatto.   
  - C’è un geco sulla parete - disse Laetitia.
  - Ho notato. E’ lì da stamattina.
  - E un altro, proprio qui, sul davanzale.
  - Ce ne sono parecchi, sì.
  - Da dove arrivano?
  - Dall’istituto di zoologia, immagino.
  - E non ti danno fastidio?
  - Perché mai dovrebbero? Sono creature pacifiche e silenziose.
  - Ma la stanza ne è piena.
  - Momentaneamente.
  - Perché, poi se ne vanno?
  - Sì, in genere prima che faccia buio. Ora sarà il caso che tu torni a studiare. Ho impegni urgenti di lavoro.
  - Come vuoi.
La camera da letto di Sarmand era stata ricavata, su suo espresso ordine, all’interno della Biblioteca Centrale, previa rimozione delle raccolte anastatiche della rivista di filologia “Mimesis”, fondata secoli prima dal professor Demophilo Cauto (la cui salma, imbalsamata, ammuffiva nello scantinato della Facoltà di Lettere). Sarmand aveva disposto lo sgombero del locale che ospitava le riviste, il loro trasporto nel locale caldaie e la loro immediata distruzione. Fra il crepitare delle fiamme erano così scomparse per sempre decine di migliaia di pagine fitte di note, indici, apparati bibliografici, frutto della fatica di generazioni di eruditi. Un gesto di cui Sarmand andava fierissimo.
Dunque, la camera da letto affacciava direttamente sulla Biblioteca. Da un oblò ricavato nella porta, il Catafratto poteva spiare il lavoro delle catalogatrici intente a compulsare tomi su tomi per produrre etichette recanti indicazioni vergate secondo le severissime regole del Catalogo Sistematico di Veltronia.
Sarmand, ogni notte, si divertiva a scambiare di posto le etichette applicate sui dorsi dei volumi durante il giorno, vanificando così l’operato delle catalogatrici e rendendo di fatto impossibile il reperimento dei libri da parte del personale addetto al servizio consultazioni e prestiti. Il danno arrecato alla veneranda istituzione in oltre vent’anni di sistematici sabotaggi era gigantesco. Un terzo del patrimonio librario della Biblioteca risultava ormai indisponibile.

Pietro Ferrari, 2010

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