martedì 25 settembre 2018

LA LINGUA OLONETS DI HELLICONIA

Sono sempre stato affascinato dal Ciclo di Helliconia, del grande Brian W. Aldiss (RIP), fin dal primo istante in cui gettai gli occhi sulla copertina del primo volume della saga. Ero ancora uno squallido nerd liceale, quando acquistai La primavera di Helliconia e sprofondai in poltrona immergendomi nella densa lettura, che aveva su di me il potere di annullare i confini stessi dello spaziotempo e di teletrasportarmi sul mirabile pianeta di un sistema stellare doppio, plasmato dalla fantasia dello scrittore britannico. Quella stessa estate mi immersi nel secondo volume, L'estate di Helliconia, quindi l'anno successivo nel terzo, L'inverno di Helliconia, che però mi parve abbastanza sconclusionato e non all'altezza dei primi due. Dal momento che la linguistica e la filologia sono le mie più grandi passioni, la situazione linguistica del magnifico globo terracqueo helliconiano ha destato all'istante il mio profondo interesse. Ogni tanto, nel corso degli anni, prendevo i volumi di Aldiss e me li rileggevo tutti di un fiato, uno dopo l'altro, rimuginando molto e approfondendo i miei studi. Come ben sanno gli estimatori del Ciclo di Helliconia, il pianeta orbita in un sistema di due stelle e possiede tre masse continentali: il continente centrale, storicamente più importante è Campannlat, a settentrione troviamo il glaciale Sibornal e a meridione, isolato e bistrattato, Hespagorat. La lingua più diffusa nei continenti di Campannlat e di Hespagorat è chiamata Olonets, mentre a Sibornal è parlato il Sibish, caratterizzato da parole molto lunghe e da una grammatica assai complessa. Non sussistono somiglianze evidenti tra le lingue Olonets e Sibish. Si noterà che il nome Olonets è identico a quello di una lingua di ceppo uralico parlata in Carelia (Finlandia e Russia). Ci tengo a precisare che questa omonimia non deve ingenerare confusione: si tratta di due idiomi privi di relazione. Non è dato sapere, al momento, se lo scrittore inglese abbia tratto ispirazione dal nome della lingua uralica, dandone una diversa etimologia, o se si tratti di una mera coincidenza.

Filologia helliconiana su Facebook!

Il 16 ottobre 2013 ho pubblicato su Facebook alcuni post sulla lingua Olonets di Helliconia, dando vita a un interessante thread, che riporto in questa sede, aggiungendovi alcune note: 

Marco Moretti: Per rilassarmi mi dedico a un hobby decisamente ozioso: la ricostruzione della lingua Olonets di Helliconia a partire dalle testimonianze sparse nei libri di Brian Aldiss e seguendo una logica rigorosa. Le sue parole sono composte: tutto sta ad identificare il senso dei componenti. Così Mordriat è la terra dei Driat, e c'è anche Morstrual: si deduce che "mor" significa "terra", "paese". Se Akhanaba è Akha di Naab, segue che il genitivo singolare dei nomi propri esce in -a. Ho già un piccolo vocabolario. Essendo "rathel" il kumis e "beethel" l'idromele, conoscendo la tipica struttura delle parole Olonets, deduciamo che "el" è il vino, "rath" è il latte e "beeth" è il miele. Kacol è un fiume che scorre nella terra dei Kaci: ecco dedotto che "ol" è il fiume.

Giusy Rombi:  E Mordor...* 

*In realtà nel tolkieniano Mordor a significare "terra" è l'elemento "-dor".

Marco Moretti: In effetti Aldiss ha preso ispirazione da molte fonti disparate. Così ecco Oldorando, che somiglia a Eldorado; il Pontefice della Chiesa di Akhanaba è definito C'Sarr, senza dubbio ispirato da Zar. Ha persino definito "baranboim" dei giganteschi strumenti musicali, verosimilmente dei piatti di bronzo, ispirandosi al direttore di orchestra Daniel Barenboim. Possiamo dedurre che la prima parte di "baranboim" sia "baran" e significhi "tuono".

Giusy Rombi: Con un cognome così, si può pensare solo a qualcosa di grande :-)

Marco Moretti: Di certo fa il suo effetto, ha un che di onomatopeico.

Giovanni De Matteo: Sul resto posso concordare con la tua dotta ricostruzione, ma sull'ultima mi permetto di dissentire: Kacol potrebbe essere la forma primitiva e Kaci l'appellativo derivato da essa, sul modello dei rapporti tra regioni e popolazioni nel latino. 

Marco Moretti: Lo credo estremamente improbabile, dato che l'Olonets è una lingua chiaramente agglutinante, in cui le parole si formano aggiungendo suffissi o prefissi alle radici, o tramite composizione di più radici. Esiste un suffisso -i con funzione aggettivale che designa nazionalità, così Uskuti indica le genti di Sibornal. Allo stesso modo Kaci è formato dal nome della regione Kace, ben documentato e non analizzabile. La capitale di Kace è Akace, con un prefisso a-. Inoltre in latino esistono due tipi di formazione. La prima permette di ottenere nomi di popoli tramite suffissi a partire da nomi di luogo, come Romani da Roma, Albani da Alba, etc. La seconda dà origine a nomi di nazioni e di terre a partire da nomi di popolo non analizzabili, come Gallia da Galli, Aquitania da Aquitani, Celtica da Celti, etc. In entrambi i casi non si sottrae, ma si aggiunge in modi diversi. Il latino era comunque una lingua flessiva molto diversa come logica dall'Olonets.

Marco Moretti: Un rampicante che cresce vicino alle acque è detto "olvyl": anche se non ho ancora identificato il secondo membro del composto, il primo è "ol", ossia "fiume". Esiste poi un secondo "ol", derivato da "olle", che significa "dieci", come nel nome della lingua, che l'autore ci dice derivare da "olle" e da "onets", ossia "Dieci Tribù".

Marco Moretti: Pannoval è un toponimo composto da "panno", che significa "tenebra", e da "val", che significa "grande". E' infatti il nome di una città sotterranea. Ora, sapendo che "slanje" significa "idiota" e che un funzionario del Re JandolAnganol si chiama Slanjival, personaggio grottesco che l'autore presenta per destare ilarità, si trova conferma del fatto che "val" significa "grande"**. Il continente glaciale di Hespagorat annovera Hespateh tra le sue terre: "hespa" significa "ghiaccio". Aldiss glossa "poop" come "ponte", con diverse varianti volgari come "pup", "pu", ma anche "poo-", etc. Così ci sono due città costiere del distretto di Throssa che si chiamano Popevin e Pegovin, da cui si estrae "vin", che significa "costa". Popevin è dunque la Costa del Ponte. Vi sono regioni che hanno nomi anteriori alla diffusione dell'Olonets, derivati quindi da sostrati poi scomparsi. Lo si capisce dal singolare aspetto fonetico. Così Ponpt sembra Olonets come "pizza" sembra inglese: in epoche tarde il nome è stato assimilato in Ponipot per esser reso pronunciabile.

**La semantica è assai chiara: slanje "idiota" ha il significato centrale di "membro virile". Così Slanjival, il Grande Idiota, è letteralmente il Cazzone. 

Marco Moretti: Posso anche provare che le teorie evoluzionistiche di Aldiss sono posticce e che la versione che lui stesso ricostruisce della storia di Helliconia è fallace. Se l'Olonets si fosse originato nel continente di Hespagorat, come mai le genti di quel luogo avrebbero antroponimi chiaramente non Olonets e di una sonorità che ricorda quella dello spagnolo? Semplice: basta trascrivere tutti gli antroponimi di Campannlat e di Hespagorat contenuti nei libri di tale autore e classificarli per struttura fonotattica, per trovare così conferma di non poche anomalie.*** 

***In realtà le cose non sono sempre così tranquille: sembra che ogni persona su Helliconia porti un nome unico e irripetibile. 

Un intensissimo senso dell'ironia

Un brano molto importante de L'estate di Helliconia, che è stato per me il punto di partenza su cui fondare la filologia helliconiana, è il seguente:

– Senti, Sartori – aveva detto la donna, dandogli una piccola pacca su una spalla, – sono convinta che avremmo potuto dimostrare che i due continenti un tempo erano uniti, semplicemente studiando le vecchie mappe conservate in sala nautica. C’è Purporian sulla costa di Radado, ed un porto chiamato Popevin su quella di Throssa. «Poop» significa ponte in olonets puro, e «pup» o «pu» significa la stessa cosa in olonets locale. Il passato è racchiuso nel linguaggio, se si sa dove guardare.

E ancora:

Ci avvicineremo presto a Keevasien, una città costiera. Come sai, «ass» o anche «as» in olonets puro significa mare… l’equivalente di «ash» in pontpiano.

Ebbene, soltanto a distanza di anni mi sono accorto della salacità delle glosse. Ponte è "poop", mare è "ass". In inglese queste parole significano rispettivamente "merda" e "culo"

Glossario Olonets

Raccogliamo qui le voci da me studiate nel corso degli anni, che possono essere glossate in modo certo o comunque altamente probabile, proponendoci di riuscire in futuro ad ottenere un dizionario più esteso. Il principio di base che ho seguito è quello della natura composta e analizzabile della maggior parte delle parole con più di una sillaba. Mi sono astenuto dal riportare casi reputati ancora molto incerti. Credo che questa sia in assoluto la prima raccolta di parole della lingua Olonets in tutto il Web.

afram "un'erba usata per tingere di rosso" 
Akha
"Divinità Ctonia" 
albic
"un rampicante con cappucci rossi e
     arancioni" 

arang "capra"
asien "luogo marino"
asokin "cane cornuto"
ass "mare"
assat "lucertola; freccia"
assatassi "pesce lucertola"
assi "pesce di mare"
at "alto"
bag "immenso, gigantesco"
bar "rumore"
baral "crepitante, rumoroso"
baran "tuono"
baranboim "voce di tuono" (strumento musicale)
Bardol "Chiassoso" (n. pers. m.)
Batalix "il Sole Fioco" (una nana rossa)
beeth "miele"
beethel "idromele"
biyelk "grande bufalo necrogeno"
boim "voce, suono"
brassim "arbusto produttore di tuberi"
brassimip "tubero amaro"
breg "bue"
brooth "spina, tribolo"
casp "oro"
caspiarn "foglie d'oro"
char "petali"
charfrul "tonaca"
childrim "sogni a occhi aperti"; "una creatura
     aerea del Grande Inverno" 
creaght "giovane maschio di phagor"
C'Sarr "Pontefice"
denniss "sicomoro"
eddre "cuore, spirito"
ej "frutto"
el "bevanda inebriante"
dundar "torre"(1)
fessup "ombre dell'Ade"
fillock "giovane femmina di phagor"
flam "icore, sangue giallo"
flambreg "bovino dal sangue giallo"
flugg "trillo"
fluggel "sfera del trillo" (strumento musicale)
fral "veste"
Freyr "il Sole Lucente" (una gigante azzurra)
gillot "femmina adulta di phagor"
glee "gobba"
Gleeat "Gobba Alta" (nome di un'isola)
glossy "crisalide"
gor "testa; cima, punta"
gorat "vetta"
gossie "ombre dell'Ade"
grav "roccia, scoglio"
grava "di roccia"
gravabag "roccaforte"
Gravabagalinien "Luogo sul Golfo della Rocca"
greeb "coccodrillo"
gunnadu "antilope necrogena"
gwing-gwing "un frutto a grappoli"
harney "cervello"
hel "globo, sfera"(2)
Helliconia "Globo Terracqueo"(3)
hespa "ghiaccio"
Hespagorat "Vette Ghiacciate"
hoxney "cavallo"
hrattock "idiota; ano"
hurdhu "lingua franca"
idront "edera"
jass "neve"
jassikla "bucaneve"
jeodfray "un rampicante con fiori rossi e arancioni"
jonnik "ardente"
kaidaw "animale simile all'alce"
keedrant "mantello, veste lunga sul davanti"
keev, kee- "davanti"
Keevasien "Luogo Davanti al Mare"
khmir "lussuria"
lin "baia, golfo"
Madi "un popolo di ominidi"
Madura "Deserto dei Madi"
mel "lana"
mor "terra, paese" 
 
myllk "pesce a due braccia" 
myrk
"luce fioca"
Myrkwyr "apparizione della luce fioca"
Naab "Profeta"
Naba "del Profeta"
Nondad "un popolo di ominidi"
ol "fiume"
olle "dieci"
olvyl "tipo di rampicante"
onets "tribù"
os "città"(4)
Osoilima "la Città di Oilim"
pan "re"
pandum
"regno" 

panno
"tenebra"
Pannoval "Grande Tenebra" (nome della Città
     Santa)
pauk "trance"
pecubea "un uccello canoro"
peete "zampogna"
pha "due"
phagor "ancipite" (lett. "che ha due punte")
Phar "Doppio" (n. pers.)
Ponptpandum "Regno di Ponpt"
 

poop "ponte"
preet "pappagallo"
raige "un'erba aromatica dolciastra"
ram "scuro, nero"
raj "tronco"
rajabaral "tronco crepitante"
rath "latte"
rathel "bevanda alcolica di latte di scrofa"
roon "orso"
rumbo "copula, scopata"
rungeb "cresta"
rungebel "sciroppo oppiaceo"
runt "bambino di phagor"
rusty "cenere"
Rustyjonnik "Cenere Ardente" (nome di vulcano)
Sataal "Arciere" (n. pers. m.)
scant "aroma"
scantiom "erba aromatica"
slanje "pene; idiota"
snoktruix "guaritrice"
squaan "piccola spina"
squaanej "frutto spinoso"
stallun "maschio adulto di phagor"
stam "orina"
stammel "lana grezza tinta con l'orina"
stung "bruco"
stungebag "bruco immenso" (un animale del Grande
     Inverno)
tenner "mese"(5) 
tether "annientamento" (stato di dissolvimento dei
     phagor)
timo "strisce bianche e nere"
timoroon "tasso, orso striato"
trittom "sesso orale"
uct "sentiero migratorio"
ura "deserto"
val "grande"
veronika "tabacco"
veronikane "pipa"
vin "costa"
vispard "tipo di arbusto"
vrach "cembalo"
Weyr "Grande Inverno"
with "notte"
Withram "Notte Oscura" (dio della tenebra)
Wutra "Splendore Diurno" (divinità uranica)
 
yad (-iad) "libro"
yarn (-iarn)
"foglia" 

yarrpel "tipo di rampicante"
yelk "bufalo necrogeno" 
yelk-yob
"fellatore di bufali" (insulto)
yob "fellatore, succhiacazzi"
yom (-iom) "erba"
yoodhl "liquore di alghe" (< Sibish yadahl)
zadal "tipo di arbusto" 

(1) La parola è un prestito dall'antica lingua di Ponpt. Gal-Dundar "Mille Torri". L'interpretazione è mia. 
(2) Dalla lingua dei Phagor hrl.
(3) Dalla lingua dei Phagor Hrl-Ichor Yhar.
(4) In Olonets volgare è osh.
(5) Dalla lingua dei Phagor T'Sehn-Hrr, glossato "Decimo", ossia "decima parte dell'anno".

Per quanto riguarda i nomi degli animali, come arang "capra", la glossa è ovviamente una semplificazione concettuale, indicando l'animale helliconiano più simile per aspetto a quello terrestre, pur potendo sussistere significative differenze biologiche. Così il simil-equino detto hoxney è glossato come "cavallo", anche se la sua riproduzione comporta una fase invernale di ibernazione allo stato di crisalide, che non si riscontra nei nostri mammiferi. Si noteranno alcune interessantissime consonanze col semitico:

casp "oro" - ebraico keseph "argento"
     < protosemitico *KASPU "argento" 
Naab "Profeta" - ebraico nabhi "profeta", arabo Al Nabi "Il Profeta"
     < protosemitico *NABI:'U "profeta" 

Sarebbe interessante capire il motivo di queste assonanze, se siano dovute al caso o a una possibile conoscenza di qualche lingua semitica da parte dell'autore. In altri casi sembra invece che le parole Olonets siano state coniate a partire a partire dall'inglese o da altre lingue europee. Ad esempio scantiom "erba aromatica" è stato forse ispirato dall'inglese scent "odore", mentre lo strumento musicale denominato fluggel è forse stato ispirato dal tedesco Flügel "pianoforte a coda", anche se descrive qualcosa di completamente dissimile. Il fluggel è infatti uno strumento che sta nel palmo di una mano.

Tre falsi vocaboli Olonets

A distanza di anni mi sono reso conto che alcune parole, riportate come Olonets nella versione italiana de L'estate di Helliconia, hanno in realtà un'altra e più banale origine. Si tratta dei seguenti vocaboli: tabor, un tipo di strumento musicale; alcanna, un tipo di erba; coz, evidentemente un termine di rispetto usato tra nobili. Innanzitutto tabor è una parola... inglese! Significa "tamburo" e ha anche la stessa etimologia. Non si usa più molto, essendo stata rimpiazzata da drum, eppure esiste. Non riconosciuto, questo tabor è rimasto non tradotto nella versione in italiano. La parola alcanna in inglese significa henné ed è di origine araba. Anzi, è proprio una variante di henné con l'articolo arabo al. Nella versione spagnola del romanzo è correttamente tradotta con "henna". La parola coz non è altro che una forma colloquiale dell'inglese cousin "cugino". Ancora una volta, mentre nella traduzione in italiano la parola resta immutata e viene evidenziata in corsivo, come se fosse Olonets, nella traduzione in spagnolo compare correttamente come "primo", ossia "cugino". Evidentemente il traduttore in spagnolo si è dimostrato più competente del traduttore in italiano! 

Un falso toponimo Olonets

Vediamo che nel Ciclo di Helliconia è conosciuta come Veldt un'area di grandi pascoli. In realtà esiste in inglese la parola veldt, solitamente scritta veld e traducibile con "pascolo aperto o prateria". In genere è usata per descrivere il paesaggio del Sudafrica e di alcune nazioni limitrofe. Infatti si tratta di un prestito dall'olandese veld, veldt "campo", la cui origine è proprio la stessa dell'inglese field. A quanto pare Brian Aldiss non aveva piena fiducia nelle sue capacità di glottopoiesi e introduceva in modo insidioso nella sua opera vocaboli peculiari quanto appartenenti a lingue terrestri, beandosi del fatto che non sempre ne è agevole il riconoscimento.

Nuove parole composte 

Con i vocaboli sopra riportati è possibile coniare numerosi composti, non attestati nell'opera di Aldiss, che obbediscono però a una logica rigorosa:

assos "città di mare"
asval
"oceano" (lett. "grande mare")
beethip "miele amaro"
Borlienos "le città di Borlien"
Borlienpan "Re di Borlien"
Borlienpandum "Regno di Borlien"
caspel "globo d'oro, sfera d'oro"
caspiad "libro d'oro"
eddrival "magnanimo" (lett. "dall'anima grande")
eddrivaldum "magnanimità" 

elip "aceto" (lett. "vino aspro")
elram "vino rosso" (lett. "vino nero")
gorram "testa nera"
gorval "grande testa"
keemor "davanti al paese"
keevass "davanti al mare"
keevol "davanti al fiume"
keevonets "davanti alla tribù"
keevos "davanti alla città"
khmirval "grande lussuria"
Morden "la terra dei Den"
Mortal "la terra dei Tal"
Oldorandpan "Re di Oldorando"
Oldorandpandum "Regno di Oldorando" 
olram
"fiume scuro"
olval "grande fiume"
osval "grande città"
Pannovaliad "il Libro di Pannoval"
Pannovalos "le città di Pannoval"
Pannovalpandum "Regno di Pannoval"
phardum "dualità"
Ponptos "le città di Ponpt"
popeval "grande ponte"
rathip "latte acido"
slanjidum "stoltezza"
valdum "grandezza"
yobix "fellatrice"

Sarebbe stato bellissimo discutere di questi argomenti con Brian Aldiss. Purtroppo non è più possibile farlo, dato che si è spento nel 2017 e che non sono disposto a ricorrere a pratiche necromantiche per evocare la sua ombra.

giovedì 20 settembre 2018

IL PRURITO DEL DRAGO
(Parte Terza)
 

Vai alla Parte Seconda
Vai alla Parte Prima

VIII 

La città dava il peggio di sé nelle ore notturne, quando le mura degli edifici rilasciavano il calore assorbito durante il giorno. Ondate di aria rovente trasformavano le strette  strade del centro in altrettante fornaci. Rinchiusi nelle proprie abitazioni, gli elissini boccheggiavano disperati. Attendevano il sopraggiungere dell’alba e di un poco di un refrigerio.
Di tanto in tanto un grido d’agonia squarciava il silenzio: la città aveva perso un abitante, stroncato dall’afa. Unici a rimanere attivi in quelle notti da incubo, gli addetti alle pompe funebri. Raccolti in crocchi intorno alle fontanelle nei giardini pubblici, vegliavano con uno stock di bare sempre a portata di mano, attenti a cogliere anche il più flebile rantolo che preannunciasse un decesso. Quando ciò accadeva, scattavano come branchi di lupi. Talvolta squadre di agenzie rivali si incrociavano nell’androne di un palazzo: ne scaturivano risse violentissime. La squadra che aveva la meglio irrompeva poi, trafelata, nella casa del morto. Neutralizzata la vedova con del cloroformio, i necrofori provvedevano al lavaggio, stiratura, vestizione e imballaggio del cadavere. Queste operazioni si svolgevano a una velocità stupefacente, frutto di un intenso addestramento. Il momento più critico era quello dell’uscita dal palazzo, e non tanto per  la difficoltà di calare una bara giù per scale anguste e pericolanti, ma per il rischio di vedersi scippare il morto da una squadra rivale appostata all’esterno. Fu durante una di queste notti che Kavàla e Garm fecero ingresso in città. Lo sgrinz, fedele alla parola data, li aveva condotti sino all’imboccatura del ponte.
  - Ho mantenuto il mio impegno. Non procederò oltre. Ci salutiamo qui, e per sempre. Confido di non ritornare più su questa terra in alcuna forma. Vi auguro di riuscire in ciò che vi prefiggete. Addio amici miei!
Kavàla carezzò il testone dell’onesto animale e altrettanto fece Garm. Erano entrambi emozionati.  Rimasero a guardare lo sgrinz che si allontava, sino a perdersi nel buio.
  - Non lo rivedremo mai più - singhiozzò Kavàla.
  - Ma non lo dimenticheremo.
Si misero in cammino, per sfuggire agli sciami di zanzare. Traversato di gran carriera il ponte in pietra che sovrastava il Nitico, si affacciarono su un ampio viale ai cui lati si ergevano costruzioni massicce.
  - Siamo ad Elissinia, finalmente.
Data l’ora, non si vedeva in giro anima viva.
  - Saranno morti tutti?
  - Non dire sciocchezze Garm, staranno dormendo.
Il viale sfociava in una piazza dominata da un imponente gruppo scultoreo: raffigurava un uomo in ginocchio, in abiti da domestico, intento a lucidare gli stivali di un uomo riccamente abbigliato e dal portamento altero.   
  - E adesso dove andiamo?
  - Chiediamo a quel cane randagio.
Un cane di mezza taglia, magro e dal pelo arruffato, si stava dirigendo verso di loro con andatura ciondolante. Aveva l’aria di essere avvezzo alla vita errabonda. Nei suoi occhi bigi la bontà d’animo traspariva, come spesso capita di osservare nei cani, sotto a un denso velo di tristezza.
  - Avete qualcosa da mangiare?
  - Dagli una galletta, Garm.
  - Siete nuovi di qui, vero? - chiese il cane sgranocchiando di gusto il cibo ricevuto.
  - Sì, e non abbiamo dove riposare.
  - A quest’ora è tutto chiuso. Ci sarebbe un posto fresco e riparato: se volete vi ci accompagno.
  - Sei senza padrone?
  - Ce l’avevo. E’ morto due anni fa.
  - Era molto anziano?
  - Non tanto, ma era malato. Ho vissuto con lui per sette anni.
  - Non è poco.
  - Specialmente per un cane. Ora, alla mia non più giovane età, mi ritrovo a spasso.
  - Non ci siamo ancora presentati: io sono Kavàla, lui è Garm. E tu, hai un nome?
  - Il mio padrone mi chiamava Anacleto.
Stavano così parlottando quando improvvisamente da un balcone si sporse un uomo in mutande, il quale li apostrofò aspramente.
  - La volete smettere di far rumore? Qui c’è gente che dorme!
  - Ci scusi, non volevamo disturbarla - replicò Kavàla.
  - E allora levatevi di torno!
  - Le pare questo il modo di rivolgersi a una donna?
L’uomo in mutande avvampò  di rabbia.
  - Adesso scendo e vi sistemo io! Vi concio per le feste!
Dì lì a poco si udì un gran trambusto, quindi una serie di pesanti tonfi seguiti da un urlo di dolore. I lamenti che giungevano da dietro il portone del palazzo non lasciavano adito a dubbi: l’uomo era caduto per le scale.
  - Sentite - suggerì Anacleto - togliamoci di qui, è meglio.
Mentre si allontanavano, una squadra di addetti alle pompe funebri sopraggiungeva di gran carriera reggendo una bara rozzamente intagliata. Due di essi forzarono il portone e ne uscirono reggendo il corpo esanime dell’uomo in mutande. Lo deposero nella cassa che i colleghi avevano poggiato sul marciapiede. In un battibaleno il coperchio fu inchiodato alla bara e la squadra ripartì a tutta velocità.
  - E’ bell’e morto? - domandò Kavàla, incredula.
  - Immagino di sì. A volte però, se non sono proprio morti del tutto, gli danno un aiutino.
  - E cioè?
  - Un colpetto alla base del cranio, giusto per accelerare la dipartita.
  - Certo che era proprio un bruto.
  - Se solo avesse immaginato quel che l’aspettava!
  - Mai lasciarsi trasportare dalla collera.
  - Mi ha sempre intrigato il tema delle passioni. Di un temperamento focoso si dice che è passionale.
   - E’ una questione di misura. Un individuo irascibile è un individuo spiacevole.
  - Anche un soggetto apatico non è propriamente il massimo.
  - Io sono stato spesso accusato di avere un atteggiamento apatico nei confronti della vita.
  - In effetti, Garm, un po’ lo sei davvero. Non ti curi di nulla: da quanto tempo non cambi l’abito che indossi? Sembri uno spazzacamino.
  - Ma io sono uno spazzacamino. Era quello, il mio mestiere. O meglio, lo è stato finché mi è capitato un incidente.
  - Racconta.
  - Una volta sono rimasto incastrato in una canna fumaria. E’ stato terribile.
  - Povero!
  - Da allora non ho più lavorato.
  - Hai cambiato mestiere?
  - No, ho smesso di lavorare del tutto. Mi sono dato alla meditazione.
  - E come mangiavi?
  - Grazie alla generosità del mio maestro Firlfrind.
  - E non hai fatto altro che meditare, da allora?
  - Sì, ma ti garantisco che è spossante.
  - Di grazia, qual era l’oggetto delle tue riflessioni?
  - La natura transeunte dei fenomeni, la mutevolezza delle forme.
  - Potevi almeno mutare i vestiti.
  - Lasciate che vi racconti una cosa - disse il cane. - Il mio padrone non ha mai lavorato in vita sua. Mai. Non l’ho mai visto chinarsi a strappare le erbacce in cortile. Era un tipo malinconico, usciva pochissimo di casa. Parlava sempre da solo.
  - Di che viveva?
  - Dell’eredità ricevuta da uno zio. E’ morto dopo aver speso gli ultimi spiccioli rimastigli.
  - Che storia!
  - Non mi sento di biasimarlo. Mi ha sempre dato da mangiare. Era un individuo inadatto alla vita, tutto qui.
Cammina cammina i tre amici giunsero nei pressi di una costruzione in pietra.
  - Seguitemi - disse Anacleto  - ma fate attenzione ai gradini: sono molti ripidi.
Discesero quattro rampe di scale e si ritrovarono nelle catacombe di Elissinia.
  - Sono state scavate nel tufo, secoli fa.
  - Da chi?
  - Dai primi seguaci della Nube Purpurea.
  - E perché si sono segregati qui sotto?
  - Per non essere uccisi.
  - E questi teschi a chi appartengono?
  - A quei primi seguaci.
  - Sono morti lo stesso, quindi.
  - Che ragionamento! Morire, prima o poi, si muore tutti, ma c’è modo e modo.
  - Così hanno preferito vivere come talpe?
  - Esatto.
  - Chiamala vita.
  - Ragazzi, le cose non sono mai così semplici come voi credete… C’è gente che passa l’intera esistenza in uno scantinato e poi muore, senza aver mai veramente vissuto. La vita come voi la intendete non è alla portata di tutti.
  - Io in queste catacombe non ci voglio stare. Non ci rimango un minuto di più! - esclamò Kavàla battendo i piedi per il nervoso.
  - Non ti preoccupare, dove vi porto io gli spazi non sono così angusti, fidati.
  - Dai Kavàla, coraggio, andiamo!
Garm si mostrava insolitamente deciso, cosa che sorprese non poco la ragazza, abituata a vederlo sempre titubante, in preda all’ansia e agli spasmi intestinali.
Anacleto si muoveva spedito.
  - Conosco palmo a palmo questi cunicoli! Ecco, vedete quella luce laggiù?
Al termine della galleria brillava una luce azzurra, la cui intensità andava aumentando man mano che il terzetto procedeva in quella direzione.
Kavàla strattonò Garm per un braccio.
  - Non pensi di dovermi una spiegazione? All’improvviso ti vedo deporre le tue titubanze e partire a spron battuto appresso a un cane in queste orride catacombe. Dove mi stai conducendo? E tu, Anacleto, credi forse che io sia così sciocca da credere che il nostro incontro con te sia stato casuale?
Garm interruppe la propria corsa.
  - Hai ragione. E’ il momento che io metta le carte in tavola. La missione di cui ti ho parlato consiste nel restituire la libertà al mio Re, rinchiuso nel sottosuolo di Elissinia. E’ alla sua prigione che siamo diretti.
Anacleto prese a sua volta la parola.
  - Non ti reputo sciocca, anzi. Il mio compito è quello di condurvi sino a colui che Garm dovrà liberare. Un compito che mi è stato assegnato da Firlfrind, come avrai già indovinato.
  - E chi sarebbe questo Re?
  - E’ il sovrano da cui pure tu dipendi, anche se non lo sai: il Re del Nulla.
Kavàla si zittì.  
  - Non possiamo indugiare oltre! - disse Anacleto. - Seguitemi, presto.
Si rimisero in cammino. Le pareti di roccia del cunicolo presentavano striature argentee la cui brillantezza, esaltata dalla rifrazione dei raggi luminosi provenienti dall’uscita, colorava l’ambiente di riflessi cangianti. 
Un soffio d’aria maleodorante li investì nel momento stesso in cui varcarono la soglia.
Dinanzi a loro si apriva una grotta smisurata, pullulante di anziani, uomini e donne.
Kavàla e Garm trasalirono.
  - Ecco dov’erano finiti i vecchi!
  - Credevo che fossero tutti morti.
  - Ma no - intervenne Anacleto. - Li hanno solo nascosti quaggiù.
  - Guarda quelli: sembrano statue di sale.
  - Sono i catatonici: trascorrono intere giornate immobili, paralizzati dalla disperazione.
  - Terribile!
  - Sono consapevoli di non avere più alcun futuro.
  - E quelle donne scarmigliate che vanno avanti e indietro gesticolando? Perché gridano così?
  - Sono affette da demenza. In fondo però stanno meglio di quegli altri: perse come sono nel loro delirio non si rendono conto di nulla.
  - Chi li ha messi quaggiù?
  - I loro figli. Non che mi senta di biasimarli. Vivere con un genitore ridotto in quello stato non è facile, anzi. Il fatto è che la ruota gira. Siete tutti destinati a invecchiare e un domani toccherà a voi finire in queste grotte.
  - Quaggiù io vedo solo afflizione e miseria.
  - Perché sei una donna sensibile. Ma ti domando: la vita va giudicata dal suo epilogo o dal suo cominciamento?
  - Spiegati meglio.
  - Dinanzi a te sta una moltitudine di anzianissimi: individui giunti al termine della propria esistenza. Logico che, vista da qui, ovvero dal suo triste approdo, la vita appaia uno strazio. Ma se li avessi visti quand’erano ancora bambini vivaci, intenti al gioco? Il tutto ti apparirebbe sotto una luce diversa.
  - Non c’è il minimo dubbio. Fatto sta che il tempo non procede a ritroso. Dunque, è sulla base del presente che io emetto un giudizio. Né potrei fare altrimenti.
  - Kavàla ha ragione, Anacleto.
  - D’accordo. Ma l’oscurità di quaggiù non vi induca a dimenticare che, in superficie, il sole sorge ancora.
  - E meno male. Per intanto, qui, c’è una puzza tremenda di pipì.
  - Questi poveretti se la fanno tutta addosso.
  - Che tristezza. E’ questo dunque ciò che ci aspetta?
  - Sì, se non avrete la fortuna di morire al momento giusto.
   - E quale sarebbe, di grazia, il momento giusto?
  - Quando si è ancora se stessi. Ma è un privilegio riservato a pochi.
  - Quanti sono i vecchi concentrati quaggiù?
  - Migliaia. Ci sono almeno una decina di grotte grandi come questa, piene zeppe di anziani. 
  - E quel bassorilievo là? – chiese Garm indicando con la mano un simbolo scolpito nella parete opposta della grotta. - Cosa raffigura?
  - E’ un simbolo antichissimo.
  - Sembra una ruota.
  - Infatti. Sta proprio a significare il susseguirsi ciclico delle nascite e delle morti, e i suoi bracci rappresentano le varie forme che la vita può assumere: esseri umani, animali, piante, demoni. Una ruota che è in perenne movimento.
  - E cosa la fa muovere?
  - Il desiderio di vivere che è in ciascuno di noi.
Mentre Garm e Anacleto così discorrevano, Kavàla seguitava a osservare i vecchi.
  - Non possiamo far niente per loro? - domandò sconsolata. - Se solo qualcuno rivolgesse loro una parola buona…
  - In questa grotta sono novecento. Ti garantisco che dopo una settimana a contatto con loro fuggiresti a gambe levate.
  - Intanto - disse Garm - io suggerirei di proseguire e porre la giusta distanza fra noi e questo luogo di dolore.
  - Ottima idea - replicò Anacleto e si diresse di buona lena verso una galleria prospiciente. La galleria era ampia abbastanza da consentire il passaggio di un carro, ma ingombra di oggetti ammassati alla rinfusa: valigie, scarpe, abiti, lenzuola.
  - Di chi è tutta questa roba?
  - Dei vecchietti. E’ il loro corredo, per così dire. I figli lo confezionano con cura, senza sapere che poi finirà sparso in questo modo dal personale ausiliario.
Farsi largo in quel baillame richiese non poca fatica. La galleria era lunga un centinaio di metri: impiegarono più di mezz’ora per percorrerla.
Superato l’ultimo sbarramento di valigie, si ritrovarono in una grotta grande quanto la prima, ma del tutto deserta, il cui pavimento privo di asperità era ricoperto da uno strato uniforme di sabbia finissima. Al centro della grotta videro quello che pareva l’orlo di un pozzo, il cui diametro non era inferiore ai venti metri. Vi si avvicinarono con circospezione e fecero per sbirciare oltre il bordo,. Quand’ecco che, dall’abisso, si levarono grida stridule.  Spaventati, si affrettarono a rifugiarsi nuovamente nella galleria. Creature alate, dai tratti vagamente antropomorfi, emersero dal pozzo e si librarono sotto la volta della grotta, per poi rituffarsi nel tenebroso abisso.
  - E adesso che facciamo? - domandò Kavàla.
  - Dovete scendere nel pozzo - rispose Anacleto. - E’ lì che lo tengono prigioniero.
  - Firlfrind mi parlò di questo luogo. Il solo modo per arrivare alla cella del Re è quello di convincere i pipistrelloni ad aiutarci.
  - Dimmi come.
Garm aprì la bisaccia e ne tirò fuori una manciata di pistacchi.
  - Ne vanno ghiotti. Con questi ci faremo offrire un passaggio.
  - Ma capiscono almeno la nostra lingua?
  - Firlfrind questo non me l’ha detto.
  - Lo scopriremo subito.
Senza indugi, la bella Kavàla tolse la bisaccia a Garm, uscì allo scoperto e lanciò un grido del tutto identico a quelli emessi dalle creature alate. Dall’abisso le rispose un coro di acuti stridii, e poco dopo apparvero due di quegli esseri volanti, che si posarono proprio dinanzi a lei.
  - Guardate cos’ho per voi - disse Kavàla tendendo loro una manciata di pistacchi. Gli occhi lattiginosi delle strane creature si spalancarono per la sorpresa. Sui loro volti diafani, dai lineamenti semiumani, apparve una specie di sorriso. Kavàla lasciò cadere un po’ di pistacchi fra i loro artigli protesi.
  - Se mi aiuterete, ve ne darò un bel sacchetto. Dovrete trasportare in fondo al pozzo me e il mio amico, e poi riportarci qui, insieme a un’altra persona. Mi avete compreso? Siamo d’accordo?
Le due creature annuirono entusiaste, sgranocchiando i pistacchi.
  - Potete uscire. Ci aiuteranno.
Garm, seguito dal cane, raggiunse Kavàla.
  - E tu, Anacleto?
  - Io vi aspetto qui. La mia parte l’ho fatta. Vi ho guidati fin quasi alla meta. Ora tocca a voi.
I due giovani montarono in groppa ai pipistrelloni. Quando si furono ben sistemati, i due esseri alati si alzarono in volo. Compiuti alcuni giri concentrici intorno all’imboccatura del pozzo, calarono repentinamente nell’abisso.
Kavàla lanciò un grido. Se l’oscurità ammette gradazioni, quella racchiusa fra le pareti del pozzo era senz’altro del genere peggiore: talmente fitta da risultare impenetrabile. Parve, ai due giovani, di sprofondare in una cisterna di nerissimo inchiostro. Seguendo una traiettoria a spirale, gli esseri alati scesero in fondo all’abisso. Qui giunti, deposero i propri passeggeri.
  - Dove sei Garm? Non ti vedo!
  - Sono qui Kavàla! E ora ci abbandonano in queste tenebre?
Si udì un cigolio: una pesante porta si stava aprendo, sospinta dalle creature alate. Una lama di luce fendette l’oscurità, dapprima debolmente, poi con sempre maggior forza, man mano che l’apertura si ampliava. Una volta spalancata del tutto la porta, si rivelò agli sguardi dei due giovani un corridoio dalle pareti rivestite di lastre di marmo.
  - Questo passaggio non può che condurre alla cella del Re.
Garm prese per mano Kavàla e si inoltrò con lei nel corridoio, scavato nella roccia seguendo un tracciato irregolare, zigzagante. Percorsi alcune decine di metri, udirono dei suoni provenire da dietro l’ennesima svolta. Voci umane. Restando ben nascosti, tesero le orecchie per cogliere il contenuto della conversazione che si stava svolgendo a pochi passi da loro.        
  - Ti ho mai detto di mio zio? - disse una voce maschile.
  - Sentiamo.
  - Era un uomo di un’avarizia e un’avidità incredibili. Pensa che una volta lo vidi derubare un vecchio mendicante zoppo. Il poveretto lanciò un grido, fece per inseguire il briccone, ma inciampò in una sporgenza del terreno e precipitò dal ponte.
  - Ah. La scena si svolgeva su un ponte?
  - Un ponte altissimo. Ricordo che il fiume era in piena. Un massa d’acqua imponente, che precipitava ruggendo verso valle. Non so come, il povero vecchio riuscì a tornare a galla e si aggrappò a un tronco d’albero trascinato dalla corrente. In quel momento, un gabbiano calò su di lui e lo beccò più volte in testa.
  - Pure!
  - Sono storie tristi, che stringono il cuore.
  - E tu non facesti niente per salvarlo?
  - Gli gettai una cima. Ma mi ero dimenticato di assicurarla a un sostegno e fu inghiottita dalle acque.
  - Un intervento risolutore.
  - Lo zio, nel frattempo, si era dileguato nei vicoli della città vecchia.
  - Ed è ancora vivo, quel fior di galantuomo?
  - No: morì poche settimane dopo il fattaccio. Il suo decesso avvenne in circostanze misteriose.
  - Sarebbe a dire?
  - Il suo cadavere era, come posso spiegarti, arrotolato come un panno. Strizzato.
  - E chi lo strizzò?
  - Non lo si seppe mai. Il corpo fu ritrovato in una camera chiusa a chiave dall’interno.
  - Si sarà strizzato da solo.
  - Impossibile. Non diresti così, se tu l’avessi visto.
  - E i suoi denari? Ne avrà avuti parecchi, immagino. Te ne ha lasciati un po’?
 - Qui viene il bello: la cassaforte era vuota, e così pure il bauletto nascosto sotto l’impiantito del pavimento. Gli avevano portato via tutto quanto.
  - Perbacco. Ecco perché ti sei ridotto a montar la guardia in fondo a un pozzo.
  - A proposito, vengono o no a darci il cambio?
  - Ho rinunciato a sperarci.
  - Doveva accadere dieci anni fa!
  - Tant’è.
  - Sarà cambiato, il mondo di lassù?
  - Mi sa proprio di sì.
  - Pensa che bello, rivedere la luce del giorno, i prati in fiore, le donne che sculettano! Te la ricordi almeno la parola d’ordine?
  - Ishtar.
  - Mi domando quanto dovremo attendere prima di sentirla pronunciare.        
Garm e Kavàla si scambiarono uno sguardo d’intesa, presero un bel respiro e svoltarono l’angolo. Due uomini sulla cinquantina, seduti ciascuno dietro a una scrivania, ai lati di una porta in legno massiccio, li fissarono allibiti.
  - Siamo venuti a darvi il cambio - disse Garm.
Il più corpulento dei due aprì bocca come per parlare ma non proferì parola, restandosene con un’espressione stupefatta. Il più magro invece replicò prontamente. 
  - Parola d’ordine?
  - Ishtar! - esclamarono all’unisono i due giovani.
L’uomo balzò in piedi rovesciando la sedia, e si mise a danzare in preda all’euforia.
  - E’ finita! E’ finita!
L’omaccione, dal canto suo, cominciava a riaversi dalla sorpresa.
  - Finita… Siamo liberi.
Kavàla non aveva mai visto in vita sua uomini più trasandati di quelli, a parte Garm. Indossavano abiti rattoppati, logori e bisunti.
  - Prima di tutto, il passaggio di consegne! - dichiarò l’omaccione, prendendo il controllo della situazione. - Allora: qui, in questa scatola di latta che un tempo conteneva biscotti, c’è la chiave della cella. I cassetti delle scrivanie contengono, nell’ordine: moduli dell’amministrazione carceraria, carta carbone, timbri, tampone per timbri, boccette di inchiostro.
  - I viveri, i viveri! - suggerì l’altro.
  - La dispensa è qui dietro. In questo armadio incastonato nella roccia. Visto quante belle scatolette? In quella nicchia laggiù potete fare i vostri bisogni. Si dorme per terra, sul paglione. Vi ho detto tutto. E ora firmatemi questo modulo, per la presa di consegna della chiave.
Garm e Kavàla firmarono diligentemente.     
  - Vent’anni, capite? Vent’anni rinchiusi qui sotto! Senza interruzione! - urlò il carceriere magro senza interrompere la sua danza. - Dovevano essere dieci, li hanno raddoppiati senza una spiegazione, quei maledetti! Ma ora è finita! Si torna nel mondo dei vivi!
  - Non dovete portare nulla con voi? - chiese Garm.
  - Non possediamo altro che questi stracci che ci vedete addosso.
  - E un sacchetto di pistacchi per i pipistrelli.
Prima di accomiatarsi, i due sorveglianti strinsero la mano ai due giovani.
  - E’ stato un vero piacere! - disse lo smunto, e si allontanò in tutta fretta seguito dal suo corpulento compare.     
Kavàla si strinse a Garm.
  - Dietro quella porta…
  - Sì, Kavàla: il Re del Nulla.

IX

Il potere è sempre oggetto di contesa. Neppure i despoti più crudeli sono al riparo dalle congiure. Elissinia, città torpida tanto nell’esercizio della virtù quanto in quello del vizio, ospitava le sue camarille, concentrate all’interno di circoli dai nomi altisonanti. Si trattava di conventicole di notabili - dediti all’accumulazione di ricchezze ed incarichi di rilievo - con la passione dell’intrigo, facenti capo a questa o quella sezione della Confraternita del Triangolo, al vertice della quale, nella città sul Nitico, si trovavano i Diadochi: Labano, Galvano e Carcarodonte.
Tutta la città era al corrente delle loro malversazioni, eppure, tutta la città strisciava ai loro piedi. Nella miseria morale dei potenti consiste, del resto, la consolazione della massa anonima dei subordinati.
L’autorità di Sarmand si arrestava sul limitare delle lussuose dimore dei Diadochi. Non potendo esiliarli come avrebbe desiderato, il Catafratto dovette accontentarsi di farli confinare in casa, proibendo loro ogni partecipazione alla vita civica. Insieme al titolo di Diadochi, Labano Galvano e Carcarodonte conservarono però il diritto di apparire, in effigie, nel corso delle cerimonie pubbliche di maggior prestigio. Sin da subito, inoltre, trovarono il modo di aggirare il divieto imposto dal Catafratto: servendosi di passaggi sotterranei, riuscivano a superare agevolmente, del tutto inosservati, i confini delle proprie tenute. Ma la notizia degli incontri clandestini fra i Diadochi e i soci della Confraternita del Triangolo non tardò a giungere all’orecchio di Sarmand, che disponeva di numerosi informatori. Con suo sommo disappunto, il Catafratto dovette arrendersi all’impossibilità di impedire le escursioni notturne dei Diadochi. Per scoraggiarle, fece intensificare i controlli nei pressi delle sedi della Confraternita. Nessuno poteva entrarvi od uscirne senza essere identificato e perquisito. Queste misure vessatorie non fecero che accrescere l’odio dei Triangolari nei confronti del Catafratto. La vendetta della Confraternita non si fece attendere. Forti delle prerogative di cui il Catafratto non aveva potuto spogliarli, i Diadochi chiesero ed ottennero dal proconsole Fistulòs l’emissione di un ordine di arresto nei confronti del solo amico di cui Sarmand disponesse in tutto l’orbe terracqueo: un personaggio noto con il nome di “Re del Nulla”. Era, costui, un uomo di età indefinibile, né brutto né bello, né magro né grasso, né glabro né irsuto, né alto né basso. Nessuno avrebbe saputo descriverne l’aspetto, fornirne un ritratto fosse pure approssimativo. Nemmeno Sarmand. Non apparteneva forse, il Re del Nulla, a quella strana specie di creature che si muovono nelle intercapedini fra il mondo reale e quello dei sogni? Sarmand si imbatté per la prima volta in lui durante la lettura di uno scritto anonimo intitolato “Redigere ad nihilum”, di cui la biblioteca centrale accademica possedeva un esemplare rarissimo. Il Regno del Nulla, di cui sino ad allora aveva ignorato persino l’esistenza, gli si rivelò in tutta la sua incontaminata bellezza: cieli azzurri, boschi rigogliosi, stagni di acqua cristallina, prati sfavillanti di fiori dalle tinte vivaci e, all’estremo orizzonte, il mare. Un mare calmo e profondo, la cui superficie una tiepida brezza leggera dolcemente increspava. Quello del Nulla era il regno dell’atemporalità e della permanenza delle forme: corruzione e mutamento ne erano banditi. Niente vi accadeva, niente vi poteva accadere, poiché l’evento, qualsiasi evento, implica un inizio, uno svolgimento e una fine. Custode e garante della conservazione di questo assetto immutabile, il Re. Sovente, il Catafratto si recava in visita in sogno presso il sovrano. Insieme facevano lunghe passeggiate attraverso quei paesaggi incantati. Il Re, di tanto in tanto, si staccava da terra e fluttuava nell’aria, librandosi a parecchi metri dal suolo, insieme alle rondini in volo. Poi ridiscendeva al suolo e riprendeva a camminare accanto al Catafratto, come se niente fosse. Capitava talvolta che incontrassero un abitante del Regno. Si trattava di persone, uomini e donne, assai singolari: li si poteva osservare sdraiati all’ombra dei salici, intenti a dormire o a fantasticare, immersi nei propri pensieri.            
L’arresto del Re fu per Sarmand un brutto colpo, aggravato dal mistero circa il luogo della detenzione del sovrano. Ciò non fece che inasprire la misantropia del Catafratto, la sua insofferenza verso il notabilato di Elissinia, il suo disgusto nei confronti del mondo.  L’interno della cella reale misurava tre metri per quattro. Vi trovavano spazio un divano, un libreria e uno scrittoio. Il Re, disteso sul divano, dormiva un sonno profondo e sognava, sognava.
Una carrozza trainata da una pariglia di cavalli bianchi si fermò all’ingresso di un palazzo nobiliare. Il conducente, un uomo dalla corporatura massiccia, il viso incorniciato da due imponenti mustacchi, fece segno al proprio assistente di scendere a terra. Questi obbedì, non senza fatica, poiché aveva gambe di diversa lunghezza. Il conducente commentò:  - In casi come questi si è soliti dire che uno ha una gamba più corta dell’altra. Ma non sarebbe altrettanto corretto affermare che ha una gamba più lunga dell’altra?
  - Si parte dal presupposto che una delle due sia proporzionata al resto del corpo. Ed è la gamba giusta. L’altra, quella sproporzionata, è la più corta - replicò l’assistente.
  - Un attimo: e se quella sproporzionata fosse tale in virtù di un’eccessiva lunghezza? In questo caso sarebbe corretto dire: ha una gamba più lunga dell’altra.
  - No, perché quella giusta, quella proporzionata, sarebbe comunque la più corta.
  - Vedi che ti contraddici: se il metro di misura è la gamba proporzionata, e questa fosse più corta di quella difforme, si dovrebbe dire…
  - Allora, mi fate scendere o no da questa benedetta carrozza? - ruggì il granduca sporgendo il viso paonazzo dal finestrino della vettura. L’assistente si precipitò ad aprire, caracollando, e sistemò la scaletta.
  - Non so cosa mi trattenga dal licenziarvi entrambi! Possibile che stiate sempre a sproloquiare?
  - Perdoni eccellenza, è lui che cavilla, utilizzando argomenti capziosi.
  - E tu lascialo cavillare! Su, piuttosto, prendi i bagagli!
Il granduca scese a terra e agitando il bastone da passeggio si rivolse al conducente:
  - Hai guidato in modo barbaro. Sembra che tu faccia apposta a prendere tutte le buche!
  - Eccellenza, mi deve scusare, ma la strada è un groviera.
  - Buono solo a trovare scuse! Vai, vai che è meglio!
La carrozza si allontanò verso le scuderie. Dal palazzo, nel frattempo, era uscito il maggiordomo: un uomo gobbissimo, il cui cranio pelato riluceva sotto i raggi del sole come una mela cotogna. 
  - Sua eccellenza ha fatto buon viaggio?
  - Pessimo. Desidero riposare nelle mie stanze per le prossime tre ore. Nessuno osi disturbarmi.
  - Eccellenza…
  - Che c’è adesso?
  - Una visita.
  - Da parte di chi?
  - Un messo di Sua Maestà.
Al granduca, per lo sorpresa, cadde il monocolo.
  - E me lo dite così? E’ da molto che aspetta?
  - Non più di mezz’ora. L’ho fatto accomodare nella sala delle armature.
  - Neppure il tempo di sciacquarmi il viso… Beh, annunciatemi, lo vedrò immediatamente!
  - Certo eccellenza.
Il gobbo – che era pure un po’ claudicante – si diresse verso la sala delle armature, mentre il granduca si arricciava nervosamente i baffi, interrogandosi sulle ragioni di quella visita inattesa. Annunciato dal maggiordomo, il granduca fece ingresso nel salone.
Il messo sedeva accanto a una finestra.
  - Eccellenza, stavo ammirando il vostro splendido parco - disse alzandosi in piedi in atteggiamento deferente.
  - Non tenetemi sulle spine. Cosa vi ha condotto qui? - tagliò corto il granduca.
  - Il Re…
  - Ebbene?
  - E’ stato rapito!
Il granduca riperse il monocolo.
  - Rapito? Il Re? Ma è una follia! Chi ha osato?
  - Gli elissini.
  - E chi sarebbero questi briganti?  
  - Gli abitanti di una città chiamata Elissinia.
  - Ma non esiste una città con quel nome!
  - Esiste, ma non in questo mondo.
  - Capisco - disse il Granduca scuotendo il capo.  - Il Re sta di nuovo sognando.
  - Guarda Garm, si sta svegliando!
Il Re si rizzò a sedere, mezzo intontito, si stropicciò gli occhi, e stette per qualche istante a osservare i due giovani in piedi dinanzi al divano. “Un altro sogno”, mormorò, e fece per distendersi di nuovo.
  - Maestà, non è un sogno, siamo veri!
  - Sì, buonanotte.
Kavàla si avvicinò al re e gli diede un pizzicotto sulla guancia.
  - Convinto adesso?
Il re si accarezzò la guancia, poi cinse i fianchi di Kavàla.
  - Ohibò, dunque non sto sognando…
  - Ecco, maestà, se ora vuol essere così gentile da togliermi le mani dal sedere, le presento l’uomo incaricato di liberarla.
  - Certo, certo. Capirà, mi occorrevano prove inoppugnabili. Ma questo simpatico giovane odora di selvatico come un alce maschio nella stagione degli amori!
  - Il mio nome è Garm, vengo da Gyelheim su incarico di Firlfrind.
  - Il buon vecchio mago! E lei, cara  fanciulla, come si chiama?           
  - Kavàla.
  - Un nome assai suggestivo, le si attaglia perfettamente. Dunque, a che devo il piacere della vostra visita?
Kavàla guardò Garm, sconcertata, quindi torno a rivolgersi al re.
  - Maestà, come le ho detto poco fa siamo qui per liberarla.
Il re poggiò un gomito sul bracciolo del divano e stropicciandosi il mento, mormorò:
  - La libertà è una chimera.
  - Maestà - disse Garm serio serio  - Non c’è tempo per i filosofemi, dobbiamo andarcene, e alla svelta.
  - Capisco. Apprezzo molto ciò che state facendo, credetemi. Sono pronto.
Il Re si alzò dal divano, rassettandosi gli abiti impolverati, e si dispose a seguire la coppia dei suoi liberatori.
  - Vent’anni di prigionia non son pochi - disse gettando un’ultima occhiata alla cella.
  - Sua Maestà non ha bagaglio? - domandò Kavàla.
  - Solo gli abiti che indosso.
  - Andiamo allora.
Garm con piglio determinato fece strada verso l’uscita.   
A metà circa del corridoio, un rumore di passi proveniente dalla direzione opposta li bloccò.
  - Chi potrà mai essere? I carcerieri hanno cambiato idea?
  - Ne dubito - replicò Kavàla, preoccupata.
Da dietro l’angolo sbucarono due figure, una maschile e l’altra femminile, che si immobilizzarono alla vista del terzetto.
  - Maestà! - esclamò l’uomo. Si trattava del Catafratto, con Lucretia al proprio fianco. La diavolessa, estratta la spada dal fodero, fece per affrontare i due giovani.
  - Calma, calma! - si interpose il re. - I ragazzi sono giunti da molto lontano apposta per liberarmi. Nessuno si azzardi a far loro del male.
Lucretia ripose l’arma.
  - Sarmand, quanto tempo! Cosa ti porta quaggiù? - disse il re rivolto all’amico di un tempo.
  - Sono stato tanto in pena per voi! Solamente ieri sono venuto a sapere dov’eravate tenuto prigioniero, e mi sono precipitato subito in vostro soccorso!
Il re, commosso, abbracciò prima Sarmand e poi Lucretia, quest’ultima con particolare trasporto.
  - Lasciate che vi presenti - disse il re. - Costui, cari ragazzi, è il grande Catafratto in persona, l’uomo più odiato di tutta Elissinia.
  - Troppo gentile, Maestà - si schermì Sarmand con un inchino.
  - Loro si chiamano Garm e Kavàla. E lei…
  - Lucretia, X Legio Infernalis - esclamò la diavolessa scattando sull’attenti.
  - Non sapevo che un demone potesse essere così grazioso. Bella soda, non c’è che dire.
  - Al re piace toccare con mano - bisbigliò Kavàla all’orecchio di Garm.
  - Ho notato - replicò questi, senza riuscire a nascondere un certo disappunto. Non aveva gradito le  palpazioni che il sovrano aveva riservato alla sua compagna di viaggio, e ancor meno la condiscendenza di lei, condiscendenza dovuta - peraltro - a mero compatimento. Ma la mente di Garm non era in grado di cogliere certe sfumature: difettava di quell’elasticità che solo l’uso protratto del mondo è in grado di conferire. 
  - Maestà, dovremo rinviare i convenevoli ad un altro momento: urge che ci si allontani di qui al più presto! - esclamò Sarmand.
La combriccola guadagnò l’uscita, lasciando spalancata la porta d’accesso così da rischiarare almeno un poco il fondo del pozzo.
  - Garm, i pistacchi!
  - Non servono pistacchi né altra frutta secca - disse Lucretia. Con tono imperioso, pronunciò un ordine in una lingua sconosciuta ed ecco che subito calarono dall’alto tre esseri alati.  Lucretia dispiegò le ali, e cinse il Catafratto per la vita.
  - Ciascuno di voi si stringa a uno di loro - disse, e si levò in volo.
Aggrappati alle strane creature, i tre si ritrovarono fuori dal pozzo in pochi minuti. Lucretia e Sarmand li stavano aspettando in prossimità dell’imbocco di una galleria. Anacleto li accolse scodinzolando.
  - E’ andato tutto bene, vedo.
  - Anacleto caro, visto che ce l’abbiamo fatta?
  - Non ne ho mai dubitato, Kavàla!
Il re del nulla diede una carezza al cane e domandò ai suoi liberatori:
  - E adesso?
  - Dobbiamo uscire di qui – rispose Garm.
Sarmand si avvicinò al sovrano.
  - Vogliate seguirmi, Maestà.
  - Quella non è la direzione da cui siamo venuti noi! – osservò Garm.
  - Siete passati dalle catacombe, vero? Conosco un percorso più sicuro che conduce direttamente ai sotterranei dell’accademia, dove io sono signore e padrone.
  - Verrò dove vorrete – puntualizzò il Re. – Purché vi mettiate d’accordo sulla direzione da prendere.
  - Se mi consentite, avrei un suggerimento – intervenne Anacleto. – Elissinia non è il luogo più adatto dove condurre il Re.
  - Se è per quello, nemmeno la provincia offre particolari garanzie! – obiettò stizzito il Catafratto. – Il Re ha nemici ovunque!
  - Tranne che nel proprio regno.
  - Il cane ha ragione, Sarmand. Non avrebbe senso trasferire il Re da queste grotte al mortorio dove trascorri le notti. Dobbiamo restituirlo alla luce del sole, all’aria pura, agli spazi aperti del suo regno.
Il Catafratto rifletté per qualche istante sull’osservazione di Lucretia.
  - Sia come voi dite – sospirò. – Sempre che ne siate capaci.
  - Lasciate fare a me. Mica per niente milito nella X Legio Infernalis!
  - Dunque, Maestà – disse Sarmand in tono accorato – ci separiamo un’altra volta?
  - Solo temporaneamente, mio caro.
Il sovrano prese sottobraccio l’amico e si allontanò con lui di qualche passo dal resto del gruppo.
  - Quando sarò tornato nel mio regno, potremo incontrarci ancora, per conversare come eravamo soliti fare in passato.
  - Incontrarci…e come?
  - In sogno, Sarmand, in sogno!
Il Catafratto annuì, e sul suo viso spigoloso apparve un timido, timidissimo sorriso.
  - Ed ora, amici, a noi! – disse il Re rivolto ai suoi liberatori. –Vi ringrazio tutti di cuore. Ci attende un lungo viaggio. Ma per fortuna – soggiunse indicando la bella diavolessa - abbiamo una guida d’eccezione.
Lucretia sguainò la spada e, pronunciando formule misteriose, la puntò verso l’alto. Subito la lama si accese di una luce abbagliante: se ne irradiarono raggi multicolori che avvolsero uno ad uno i presenti. Un vento impetuoso, proveniente da distanze inconcepibili, prese a soffiare nella grotta, sollevando turbini di sabbia. Quando la sabbia si posò, non vi era più alcuna traccia di Lucretia né dei suoi compagni. 

Epilogo 

I giardini del palazzo reale, affollati di persone festanti per il ritorno del sovrano, sfavillavano nel meriggio di una moltitudine di colori. Il clima era dolce, l’aria profumava di viole. Il re sedeva all’ombra di un gazebo, circondato dall’affetto dei sudditi. Fra essi i parenti di Kavàla, cui il buon mago Firlfrind, spezzando il sortilegio del viandante, aveva restituito forma umana.
  - Maestà, ci dica, cos’è questo mondo di cui tanto si parla? – gli fu chiesto.                   
  - E la vita, Maestà, cos’è mai la vita, di cui si favoleggia? – domandò una fanciulla che indossava un vezzoso cappellino.
  - Uno alla volta, miei cari, uno alla volta – rispose il Re del Nulla e si accinse a rispondere, non senza aver prima gettato un’occhiata benevola a una coppia di giovani intenti a passeggiare a braccetto nel parco, seguiti a breve distanza da un cane di mezza taglia.
Garm e Kavàla si gustavano il tepore di quella giornata radiosa.
  - Che meraviglia eh, Garm? – disse la ragazza in tono languido.
Il giovane, lindo e ben vestito, rimase per alcuni istanti in silenzio, sorridendole semplicemente.
  - Kavàla – disse infine – c’è una cosa che desidero mostrarti da tempo.
E scomparì con lei dietro a una siepe.

Pietro Ferrari, 2010 

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IL PRURITO DEL DRAGO
(Parte Seconda)
 

Vai alla Parte Prima

IV

Garm si risvegliò con un grido. Kavàla, che gli riposava accanto, si voltò a guardarlo.
  - Che ti prende?
  - Ho avuto un incubo. Un gatto mi inseguiva.
  - Non mi sembra un sogno tanto sconvolgente.
  - Il gatto era grosso come un vitello.
  - E ti metti a gridare per una sciocchezza simile?
  - Fai presto tu a dire così: sono in un bagno di sudore.
  - Lasciami dormire, và, e vedi di non scoreggiare troppo.
Kavàla si girò su un fianco, volgendo la schiena a Garm che, sudato fradicio, esalava vapori quanto un letamaio a dicembre. Per sua fortuna, nelle immediate vicinanze sorgeva un’intera colonia di phallus impudicus – miceto noto per il profilo falliforme e il fetore pestilenziale che emana. Il lezzo che quei funghi spandevano  all’intorno era così forte da coprire ogni altro odore in un raggio di svariate decine di metri.   
La ragnanza andava disfacendosi, mentre il lucore all’orizzonte annunciava l’approssimarsi dell’alba. Tremolavano gli  esili steli delle calpurnie purpuree, e il verdurame si aggrappava, intirizzito di rugiada, alle radici delle isverdie.
Nonostante tutto, si fece giorno.
Garm giaceva mollemente disteso sull’erba, come un escremento di vacca appena deposto.
Accanto a lui sedeva  Kavàla.
  - A cosa stai pensando? - gli chiese.
  - Mi domandavo per quale ragione Firlfrind abbia scelto proprio me. Non ho doti particolari, e non brillo certo per coraggio - rispose Garm dopo una pausa di silenzio.
  - L’ho notato. Sei sempre sul chi vive. Hai uno sguardo da animale braccato.
  - La paura mi segue come un’ombra, sin da quando ero ragazzo.
  - Non dovresti parlare così. Le donne non amano i pavidi.
  - Ma è la verità.
  - E allora? Mica va raccontata per forza, la verità.
  - Tanto prima o poi viene a galla comunque.
  - Ma se eviti di metterla in piazza tutta quanta, forse è meglio, ti pare? Garm, devi imparare a dissimulare le tue emozioni. Lo dico per il tuo bene.
  - Non capisco. In passato mi son sentito rimproverare per il motivo opposto: mi è stato detto che devo esprimerle, le emozioni, non tenere tutto dentro.
  - Tira fuori il buono che c’è in te, e i miei occhi mi dicono che c’è del buono, e tieni nascosto il resto.
Kavàla passò una mano fra i capelli di Garm, rivolgendogli uno sguardo che avrebbe liquefatto un ghiacciaio.
  - Trovi davvero che ci sia del buono in me? - le chiese, rapito.
  - Sì.
  - E vuoi che lo tiri fuori?
  - Oh sì.
Nel preciso istante in cui Garm si accingeva a soddisfare la richiesta di Kavàla, il cielo si fece color pece. Nubi temporalesche, trasportate da un vento impetuoso, riversarono sulla zona torrenti di pioggia. I due giovani cercarono riparo nel folto del bosco, sotto le ampie fronde di una quercia, ma non vi era modo di sfuggire alla pioggia che cadeva a secchiate. Dello sgrinz non vi era traccia, a parte una gran boassa in cui Garm sprofondò sino alle caviglie. Quando la speranza stava ormai per abbandonarli, i due fuggitivi scorsero l’ingresso di una grotta che si apriva nel fianco di un tozzo promontorio. Una raffica di vento aveva rimosso la copertura di rami che ne ostruiva l’ingresso. Vi si infilarono senza esitare un solo istante, e non appena varcata la soglia un senso di meraviglia si impadronì di loro: l’interno della grotta pullulava di farloni, specie di pinnipedi dimoranti nelle regioni boschive dell’emisfero meridionale.
  - Mamma mia non ho mai visto tanti farloni tutti assieme - sussurrò Kavàla.
  - Manco io.
  - E com’è che dormono tutti quanti?
  - E chi lo sa. Che facciamo, restiamo?
  - Guarda, se ne sta svegliando uno!
  - E’ meglio che usciamo.
  - Ma aspetta un attimo almeno!
Il farlone, accortosi dei due estranei, si stiracchiò per benino, e dopo essersi scrollato di dosso la sabbia del pavimento rivolse loro la parola.
  - E voi chi siete?
  - Il mio nome è Kavàla, lui è Garm. Siamo diretti a Elissinia. La tempesta ci ha sorpresi e abbiamo cercato rifugio nella vostra grotta. Vi chiediamo ospitalità finché non avrà smesso di piovere, dopo di che ce ne andremo immediatamente.
  - Prego, accomodatevi pure.
Si sedettero in un cantuccio, facendo attenzione a non disturbare i dormienti. Il fatto che un pinnipede fosse dotato di favella non li aveva turbati: si erano convinti, ormai, che il bosco racchiudesse ogni sorta di magie.
  - Elissinia non è lontana. Io però non ci ho mai messo piede, e mi guarderò bene dal farlo anche in futuro - il farlone sottolineò la frase con un peto. - Gli elissini ci danno la caccia e con la nostra pelle rivestono le poltrone. Toglietemi una curiosità, cosa vi spinge in città?
  - Il mago Firlfrind mi ha affidato questo incarico.
Il farlone spalancò tanto d’occhi e fece una capriola.
  - Firlfrind?
  - Lo conosci?
  - Certo che sì! Firlfrind ci ha guariti da un’affezione fastidiosissima, una forma acuta di prurito inguinale. Siate dunque i benvenuti!
Garm diede di gomito ad Kavàla.
  - Visto?
Il farlone aprì un armadietto e ne trasse fuori una bottiglia e tre bicchieri. Li riempì sino all’orlo di un liquido di colore ambrato, che emanava un intenso profumo di malto.
  - Un brindisi a Firlfrind!
  - Per tutte le fave, ma è una delizia! Cos’è mai questa bevanda?
  - Eh eh, avete appena assaggiato la nostra specialità. E’ una bevanda inebriante, ma ha delle controindicazioni.
  - Quali?
  - Ve lo spiego subito. Un giorno me ne stavo tranquillo a riposare all’ombra di un cespuglio quand’ecco che vedo apparire Euforione.
  - E chi sarebbe mai?
  - Il proprietario del bosco.
  - Non sapevo che il bosco avesse un proprietario - osservò Kavàla.
  - Ce l’ha. Euforione, appunto. Era lì, ci separava solamente il cespuglio. Parlava da solo, lo udii bofonchiare qualcosa a proposito di rogiti notarili, mappali e particelle catastali.
  - Garm, di che va farneticando questo pinnipede? - bisbigliò Kavàla.
  - Dev’essere l’effetto della bevanda.
  - Insomma, statemi a sentire! Euforione torreggiava a un passo da me, e io non sapevo che fare. Fuggire? Restare nascosto?.
  - Allora?
  - Rimasi nascosto. Trascorso un po’ di tempo, Euforione se ne andò.
  - Tutto qui?
  - E vi sembra poco? Non conoscete Euforione! Quell’uomo è capace di tutto.
  - Mi sfugge il nesso fra il racconto e la bevanda.
  - Quel giorno avevo alzato il gomito. Ecco perché mi assopii incautamente all’aperto.
  - Bene, è tutto chiaro, non bisogna abusare di questo liquore.
  - Esatto! Ora, se mi date un attimo di tempo, vado a svegliare un mio amico che conosce la città e potrà darvi qualche dritta.
Il pinnipede dopo una breve ricerca si ripresentò in compagnia di un farlone dall’aria assonnata.
  - Elissinia… Sì, la conosco bene, ci ho vissuto.
  - Ci ha vissuto da prigioniero!
  - E ne sono fuggito per miracolo. Ma per voi due non sarà difficile entrarci. Siete giovani, e la città pullula di studenti della vostra età.
  - Cos’è uno studente?
I farloni si guardarono l’un l’altro, increduli.
  - Davvero non sapete cosa sia uno studente?
Kavàla e Garm allargarono le braccia.
  - Questa poi. Come posso spiegarvelo? Lo studente iscritto all’accademia ha un’età compresa fra i 18 e i 35 anni, ed è riconoscibile dall’andatura dinoccolata e da una certa espressione del viso.
  - Cosa fanno gli studenti?
  - Studiano. Imparano cose scritte sui libri.
  - E i libri, cosa sono i libri?
  - I libri sono fatti di tanti fogli di carta rilegati insieme, su cui sono scritte delle parole. Parole, come quelle che stiamo pronunciando ora. Possibile che non ne abbiate mai visto uno? Eppure vi esprimete con proprietà di linguaggio.
  - A cosa servono i libri?
  - A trasmettere la conoscenza - esclamò il primo farlone, compiaciuto.
  - E non solo - riprese il secondo. - Gli umani, e in special modo gli eruditi, hanno una paura folle della morte, e si inventano ogni sorta di trucchi per metterla a tacere.
I libri, quelli buoni, almeno, sopravvivono ai loro autori. E questa è precisamente la speranza di ogni singolo scrittore: lasciare una traccia che duri oltre la propria morte.
  - E’ questa la ragione per cui scrivono?
  - Una delle ragioni principali.
  - E gli studenti imparano le parole scritte sui libri?
  - Le imparano solo il tempo necessario per poter superare gli esami, dopo di che se le dimenticano.
  - Esami?
  - L’esame funziona così: lo studente si presenta in un giorno stabilito davanti al professore, che lo interroga per accertarsi che lo studente abbia letto dei libri, scritti solitamente dal professore medesimo o da un suo parente stretto, e ne abbia appreso il contenuto.
  - Insomma tutto ruota intorno alle parole scritte su quei fogli di carta.
  - Già.
  - E per entrare in città noi dovremmo diventare studenti?
  - Questo non è un problema. Non tutti gli studenti sono studenti per davvero.
  - Ossia?
  - Non tutti gli studenti studiano: molti di loro non fanno che bighellonare, tirar tardi la sera, passare da un festa all’altra cercando di abbordare le studentesse un po’ brille.
  - Sembra divertente - osservò Kavàla.
  - Lo è certamente di più che lavorare in miniera.
  - E vanno avanti così per sempre? - domandò Garm.
  - No, un bel giorno si laureano.
  - Che vuol dire?
  - Che diventano dottori. Prendete Euforione, il padrone del bosco: lui è dottore in giurisprudenza. Conosce a memoria un paio di libroni mal scritti pieni zeppi di articoli di legge, e si fa pagare profumatamente per spiegarne il contenuto agli altri.
  - Elissinia è proprio uno strano posto - disse Garm. - Firlfrind me l’aveva pur detto.
  - Riuscissimo almeno a trovarla.
  - Siete più vicini di quanto non immaginiate. Quando uscirete di qui, incamminatevi in direzione della grande quercia. Lì troverete un sentiero che conduce in città.
  - Così faremo!
  - Adesso noi ci rimettiamo a dormire. Buon viaggio, siate prudenti!
Kavàla si chinò ad accarezzare i due animaletti.
  - Siete così gentili. Buona fortuna anche a voi!
Garm diede un’occhiata all’esterno. Aveva smesso di piovere.
Appena fuori, accatastarono dei rami abbattuti dal vento dinanzi all’ingresso, così da ripristinare la copertura che lo celava, prima, alla vista. Il temporale aveva fatto sì qualche danno, ma nulla di grave, e il bosco stava già ritornando alla vita di sempre.
  - Guarda!
Kavàla, in piedi al centro del sentiero, indicava qualcosa dinanzi sé, in lontananza.
  - Dove? - chiese Garm.
  - Là, dove la vegetazione si dirada.
  - Un cavallo!
  - Ma quale cavallo:  è un mendicante, non vedi?
  - Eppure nitrisce.
  - Ma non è un cavallo!
Il mendicante, un uomo magro come uno stecco, parlava da solo e ridacchiava. Si avvide della presenza dei due giovani solo quando fu a pochi metri da loro.
  - Salve, chi sono io?
  - Come sarebbe? Se non lo sa lei!
  - Se lo sapessi non ve l’avrei domandato.
  - Garm, assecondalo per carità, è un pazzo.
  - No miei cari, non sono pazzo, almeno non ufficialmente, purtroppo. Se lo fossi, avrei una scusa plausibile e socialmente accettata per le mie piccole eccentricità. Ora però, dovete scusarmi, ma ho altri impegni più urgenti. Vi devo lasciare.
Il mendicante prese a restringersi, e dopo pochi istanti si ridusse alle dimensioni di un bambolotto.
  - Allora, ditemi, chi di voi è Euforione?
I giovani si scambiarono sguardi allibiti.
  - E dagli con Euforione! Nessuno dei due! - esclamò Kavàla.
Il mendicante non pareva del tutto convinto. Rimpicciolì ulteriormente.
  - Dov’è finito?
  - Eccolo, non è più grande di una lumaca!
  - Sta dicendo qualcosa.
  - Non lo vedo più, è scomparso del tutto.
  - Si è dissolto nell’aria.
  - Come la scimmia di tuo nonno.
  - Non possiamo continuare in questo modo, dobbiamo uscire dal bosco al più presto. E’ una gabbia di matti.
  - Per di qua, ragazzi!
Il vocione dello sgrinz, sbucato all’improvviso dal folto,  li fece sobbalzare. Garm per poco non si cagò addosso.
  - Non vi ho abbandonati. Devo tener fede alla mia promessa: ho detto che vi avrei portati ad Elissinia, e lo farò. Salite in groppa, su.
I giovani non si fecero pregare. Il soffice tappeto erboso, zuppo d’acqua piovana, rallentava l’andatura del massiccio quadrupede, appesantito dal carico umano.
Aggrovigliato nella verduranza, emetteva sbuffi di vapore dalle froge, arrancando sotto il duplice gravame.
  - Ti davamo per disperso. Dove ti sei rifugiato mentre tempestava?
  - In un grande albero cavo. E voi, dove vi eravate nascosti?
  - Siamo finiti in una grotta piena di strane creature.
La boscaglia si andò sempre più diradando, sino a scomparire. A un tratto, l’orizzonte si presentò dinanzi a loro come una distesa piatta e spoglia, coperta di risaie.
In quel panorama tristemente uniforme si aggirava come un invasato un personaggio dall’aspetto sinistro. Lo accompagnava un cane, feroce quanto lui. Un cane addestrato ad aggredire “a prescindere”.  L’uomo era il proprietario delle terre coltivate. Il suo nome era Macronio. Tutta la terra, sin dove giungeva lo sguardo, gli apparteneva. Ogni granello di sabbia, ogni singolo filo d’erba, era cosa sua.
Con le sue mani robuste, aveva abbattuto tutte le piante, tutti gli arbusti, tutte le siepi che un tempo non lontano crescevano ai margini dei campi, poiché – così diceva – “la loro ombra impedisce al riso di crescere”. I suoi compaesani avevano plaudito a questa decisione giudicandola saggia.
Quando le piantine di riso emergevano dal suolo, Macronio perdeva ogni freno. Lo si vedeva vagare giorno e notte, urlando, per scacciare gli uccelli dai campi. Disponeva trappole a centinaia per passeri e colombi. Non un solo chicco di riso doveva andare perduto!
L’epoca del raccolto significava per Macronio rinuncia al sonno e al cibo. A bordo di una macchina mostruosa, una trebbiatrice a vapore di dimensioni colossali, lavorava come un forsennato per giorni e notti intere, senza sosta. Faceva tutto da solo, “per risparmiare”.
Giungeva infine il momento tanto atteso: quello in cui il prezioso cereale, dopo trattative sanguinose, si tramutava in denaro.
Ma sino ad allora, per Macronio ogni essere vivente era un nemico.
Lo sgrinz prese la parola:
  - Sarà meglio girare alla larga. Quell’individuo ha un’aria minacciosa, e così pure il suo cane. Potrei sbarazzarmi di entrambi facilmente ma la mia religione me lo vieta.
Il saggio proposito dello sgrinz si rivelò impraticabile: Macronio, avvistato il terzetto, si dirigeva a passo di corsa verso di loro, urlando a squarciagola.
Kavàla osservò con stupore la fisionomia dell’individuo: fronte bassa, occhi infossati, membra tozze, movenze antropoidi. Un essere spaventoso.
Lo sgrinz, che sino a quel momento si era dimostrato la creatura più placida del mondo, parve trasfigurarsi.
  - Scendetemi di groppa - intimò ai due giovani.
I suoi occhi ardevano come braci. Partì alla carica, incarnazione di forza scatenata. Il cane di Macronio – un robusto esemplare di mastino – nel vedersi piombare addosso due tonnellate di furia distruttrice scartò bruscamente e si diede alla fuga spetazzando. Lo sgrinz decise di risparmiarlo, e si volse verso Macronio.
L’uomo seguitava a lanciare grida disarticolate, mulinando un bastone. Lo sgrinz lo investì con una spallata e lo mandò lungo disteso in un fosso.
Macronio piombò a terra come un sacco di patate. Lo sgrinz arrestò la sua carica.
Torreggiando sull’uomo, ruggì come mai, prima di allora, i due giovani l’avevano udito fare.
  - Potrei ridurti in poltiglia. Ma non lo farò, perché così mi ha insegnato Mahāvira, un uomo di cui tu non sei neppure degno di pronunciare il nome. Bada a te, tuttavia: se solo oserai ancora aggredirci, ti punirò come meriti.
Il latifondista fece un cenno d’intesa.
  - Potete risalire - disse lo sgrinz ai due giovani. - Si riparte.
  - Guardate lassù - esclamò Garm.
Kavàla e il quadrupede alzarono gli occhi al cielo e videro quella che pareva una nube avvicinarsi da Nord a grande velocità. Ma non era una nube: si trattava di un gigantesco stormo di uccelli di varie specie che volavano in formazione serrata. Dalla nube si staccò un magnifico esemplare di garzetta dal candido piumaggio che venne a posarsi proprio di fronte al loro.
  - Salve a voi! La notizia della sconfitta di Macronio si è diffusa in un baleno. Siamo qui per lui. Vi chiediamo di consegnarcelo.
  - Che volete farne? - domandò lo sgrinz.
  - Per causa di quell’uomo abbiamo assai sofferto. Molti di noi sono morti per mano sua.
Lo porteremo lontano da qui, in un luogo dove forse potrà rinsavire e ritrovare la propria umanità.
  - Dove, precisamente?
  - Lo condurremo a Sud, nel Grande Deserto.
  - Siete così numerosi da oscurare il sole. Perché non lo avete fermato quando cominciò a nuocervi?
  - Era scritto che solo uno sgrinz avrebbe potuto sconfiggere Macronio e decidere del suo destino.
Lo sgrinz lanciò un’occhiata alla figura umana distesa nel fosso.
  - E’ vostro.
La garzetta chinò il capo in segno di riconoscenza, poi lanciò un grido verso lo stormo che ruotava alto nel cielo.     
Se ne distaccò un gigantesco esemplare di airone cenerino. Planò al suolo, sull’uomo disteso nel fosso. Lo rigirò supino, quindi lo afferrò saldamente per le ascelle, e si levò in volo reggendo quel pesante fardello.

V

Le anime sensibili amano passeggiare in riva ai fiumi. La loro inquietudine trova di che placarsi, sia pure per pochi istanti, nella contemplazione della natura. Garm nella sua breve ma tormentata esistenza aveva guadato fiumi, torrenti, ruscelli, rigagnoli. Pochi uomini al mondo conoscevano come lui le insidie delle correnti, dei gorghi e dei mulinelli che improvvisamente afferrano il bagnante incauto e lo trasportano a decine di miglia di distanza, deponendolo esanime su un ghiaione, alla mercé degli uccelli rapaci. All’apparir del Nìtico, il fiume che bagna Elissinia, Garm fu colto da un viluppo di emozioni confliggenti, gran parte delle quali inesprimibili a parole. Avrebbe voluto balzare su Kavàla e possederla immediatamente, tanto era il suo entusiasmo.
Kavàla, dal canto suo, sfrigolava come una bistecca sulla griglia.
Unico a mantenere un contegno impertubabile, lo sgrinz, onesto quadrupede. Procedeva ad andatura costante, concentrando tutta la sua attenzione sul ritmo dei propri passi e del proprio respiro.
  - Tutte le cose periscono - ripeteva a se stesso, e recitando questo mantra avanzava, saldo e sicuro, verso la meta che si era prefisso.
Giunti a pochi metri dalla riva si accorsero che l’acqua del fiume era perfettamente immobile. Non credendo ai propri occhi, Garm balzò a terra per osservare da vicino lo straordinario fenomeno.  Si inginocchiò sulla sabbia e immerse le mani nel Nitico.
  - L’acqua non scorre. Com’è possibile?
  - Forse un’ostruzione a valle, una diga? - domandò a sua volta Kavàla.
  - Lo escluderei. E’ come se il fiume si fosse fermato di propria iniziativa.
  - Sia come sia, dobbiamo trovare un ponte. La acque al centro sono di certo profonde e se dovessero rimettersi in moto mentre stiamo tentando di guadare, la corrente ci travolgerebbe.
  - Lo sgrinz ha ragione, Garm.
Si rimisero in marcia. Il ruminante sollevava l’arto anteriore sinistro e contemporaneamente l’arto posteriore destro, flettendoli in avanti, quindi li abbassava calcando il terreno a 40 cm circa dalla posizione di partenza, per poi ripetere la stessa sequenza di gesti, questa volta però con l’arto posteriore destro e il posteriore sinistro. Eseguita in modo fluido e costante per un ragionevole lasso di tempo, questa complessa catena di azioni produceva un risultato sorprendente: l’animale mutava di luogo.
  - Cosa distingue un essere vivente da una roccia? L’essere vivente si muove. Dunque, se una cosa si muove, vuol dire che è viva. Ma una pietra che rotola lungo il crinale scosceso di un monte non può dirsi viva, benché sia in movimento. Il moto, in se stesso, non è pertanto un criterio sufficiente.
Così andava ragionando Kavàla, fanciulla incline alla meditazione.
  - Tutto si muove. Il pianeta su cui abitiamo, l’universo stesso che ci contiene: tutto è in perenne movimento - disse, volendo rendere partecipe Garm dei suoi pensieri.
  - E con questo che vorresti dire?
  - Anche se io mi fermassi qui, e restassi immobile a lungo, non per questo il sangue nelle mie vene cesserebbe di circolare. Né la terra, su cui poggiano i miei piedi, smetterebbe di ruotare intorno al sole.
  - Sì, il moto è una proprietà dell’esistente.
  - Direi che ne rappresenta l’attributo principale!
  - Ebbene?
  - Questo stato di cose cozza contro la nostra aspirazione alla permanenza.
  - Tutto ciò è molto triste, lo so.
  - E’ la causa della nostra infelicità.
  - Ammesso e non concesso che noi si meriti di durare per sempre.
Lo sgrinz aveva ascoltato la conversazione fra i due giovani senza intervenire, sino a quel momento, almeno.
  - Il vostro colloquio mi fa ricordare un episodio. Tempo fa incontrai un tale, un professore, che sosteneva a spada tratta la teoria della permanenza dell’essere e della natura puramente illusoria del divenire. Accadde un incidente curioso: stavamo discutendo in riva a un torrente in piena, all’improvviso parte della sponda cedette e il professore fu inghiottito dalle acque, scomparendo in pochi istanti fra i gorghi.
  - Ed ecco dimostrata l’impermanenza del professore! - esclamò Kavàla.
Dopo il temporale, il cielo appariva di un azzurro splendente, punteggiato qua e là da rimasugli di nuvole dal colore lattiginoso. Lentamente, molto lentamente, quasi non volesse disturbare la moltitudine di libellule intente a deporre le uova sugli steli delle piante acquatiche, il fiume riprese a scorrere. Una poiana, appollaiata in cima ad un’acacia, spiccò il volo lanciando un grido acuto.
Garm vide tutto e pensò che una magia potente doveva abitare quei luoghi.
Cullato dal dondolio ritmico della groppa dell’animale e dal suono prodotto dalle acque del fiume contro i tronchi affioranti, il giovane si addormentò.

VI

Quando Laetitia si fu allontanata, il Catafratto aprì il cassetto della scrivania. Era pieno da scoppiare. Mettere ordine in quel groviglio di carte avrebbe richiesto ore di paziente lavoro. Sarmand, prudentemente, lo richiuse. Per alcuni lunghissimi minuti rimase immobile a sbirciare dalla finestra una nuvola solitaria i cui contorni andavano sfilacciandosi nel cielo azzurro pallido. Infine si decise a lasciare l’ufficio. Gli sguardi di almeno una decina di gechi seguivano ogni sua mossa.
  - Vi lascio la porta socchiusa, così potete uscire.
In fondo al corridoio, una coppia di donne delle pulizie era intenta a discutere animatamente. Ammutolirono non appena si accorsero della presenza del Catafratto. La più anziana delle due, una donna magra e nervosa dallo sguardo spiritato, si mise carponi e prese a strofinare freneticamente il pavimento con uno straccio sporchissimo. Sarmand la scavalcò come si scavalca un oggetto inanimato. Svoltato l’angolo, vide una specie di pupazzo vestito a festa emergere da dietro una tenda: il direttore dell’ufficio affari generali.
  - Eccellenza - esclamò il nano in tono mellifluo.
  - Che c’è ancora?
  - Il funerale di Baronzio, domani pomeriggio
  - Non se ne parla nemmeno, non con questo caldo.
  - Ma certo, volevo solo avvisarla che il sosia si è rimesso in salute.
  - Benissimo. A che ora è la cerimonia?
  - Alle tre.
  - Sarò lieto di non presenziarvi. Piuttosto ditemi: la vedova?
  - Baronzio era scapolo.
  - Ci vuole sempre una vedova. Ingaggiatene una posticcia.
  - Ci sarebbe la pseudovedova di Valterius. E’ una delle ultime sopravvissute della da voi disciolta scuola di arte drammatica. Ha solo un difetto: è zoppa.
  - Meglio.
  - E il discorso?
  - Cos’ha che non va il discorso?
  - L’abbiamo già utilizzato sei volte senza cambiare una virgola.
  - E con ciò?
  - Il pubblico potrebbe accorgersene.
  - Non se ne accorgerà nessuno. I partecipanti a questo genere di cerimonie hanno in mente una cosa sola: tornarsene a casa il più presto possibile. Chi vuole che presti attenzione al discorso? E ora non mi faccia perdere altro tempo!
Il nano si prostrò ai piedi del Catafratto e scomparve nel buio.
Venne dunque il giorno delle esequie del professor Baronzio. Uomo dottissimo, di sconfinata erudizione, la cui esistenza era stata costellata da un susseguirsi di inspiegabili disgrazie. In gioventù, la perdita di una mano; a trent’anni quella di un orecchio, quindi di un piede. Infine, più umiliante di tutte, la perdita del membro virile. In nessun caso, la separazione di queste parti anatomiche dal resto del corpo poté essere attribuita a cause traumatiche o a patologie note alla scienza medica. Si erano, semplicemente, distaccate da Baronzio per andare chissà dove. La ragioni di questo strano fenomeno andavano forse ricercate nello stile di vita austero del professore. Per sessant’anni Baronzio non aveva fatto altro che decifrare pergamene antichissime ridotte in condizioni miserande dal trascorrere dei secoli: consumate da muffe tenaci, rosicate da ogni genere di insetti, macerate, sbriciolate. Da quei rimasugli, Baronzio aveva ricavato con sovrumani sforzi di immaginazione informazioni dettagliatissime sugli usi e costumi delle tribù barbariche insediatesi nella valle del Nitico in epoca precedente l’edificazione del Tempio della Nube Purpurea. Il dipartimento di letteratura ahrimanica, feudo personale di Baronzio, aveva conosciuto una progressiva espansione, sino a contare decine di ricercatori e ricercatrici, tanto altezzosi quanto improduttivi.
Finché non sopravvenne l’elezione di Sarmand alla suprema autorità accademica. Su ordine del Catafratto, nel giro di sole otto ore l’edificio fu svuotato di ogni presenza umana. Bidelli, bibliotecari, specializzandi, ricercatori: tutto il personale, docente e non docente, fu caricato a bordo di carri piombati e deportato, si dice, verso un’isola lontanissima, situata nel Mare Settentrionale. Un’isola su cui sorgeva un tempo un monastero, riadattato a prigione.
Baronzio, invece, fu costretto ad assistere quello stesso giorno, in un cortile interno dell’accademia, al rogo delle pergamene alla cui decifrazione aveva dedicato l’intera sua esistenza. Quindi fu trascinato nei sotterranei e rinchiuso in una cella orribilmente tetra, a meditare sulla vanità delle cose terrene. Non sopravvisse che un mese al trauma. Lo trovarono riverso sul pancaccio, gli occhi sbarrati, un’espressione di terrore dipinta sul volto. Appena ricevuta la notizia del decesso, Sarmand diede disposizione affinché sul cancello principale dell’accademia fosse affisso un necrologio così concepito:
“Si è spento alla veneranda età di 85 anni l’illustrissimo professor Timoteo Pamphilo Baronzio, Direttore del Dipartimento di Letteratura Ahrimanica. Figura di altissimo profilo morale e intellettuale, padre e sposo esemplare, lascia nel cuore di chi lo conobbe un vuoto del tutto corrispondente allo spazio che vi occupò da vivo. Il Consiglio Magistrale Superiore e le maestranze tutte, ossequienti, si stringono commossi intorno alla sua bara disadorna.”
Il rito funebre fu celebrato nel cortile delle statue, che doveva il proprio nome alla presenza di grandi sculture itifalliche provenienti dall’Alto Egitto. La temperatura si aggirava sui 36 gradi, con un tasso di umidità dell’80%. Il pubblico all’interno del cortile era schierato secondo un rigido ordine gerarchico. In piedi sotto il sole cocente, ausiliari, portieri e personale tecnico – la massa damnationis – ad arrostirsi le cervella. All’ombra del colonnato, comodamente seduti su una tribuna montata per l’occasione, gli alti gradi della burocrazia accademica e i colleghi del defunto con le proprie amanti, per lo più segretarie d’istituto.
Sarmand trascorse il pomeriggio lanciando palline di pane ai gechi.

VII

Un solo essere vivente rimaneva all’interno dell’Accademia nelle ore notturne: Sarmand.
Il Catafratto non ne usciva mai.
Al calare dell’oscurità,  spettri e fantasmi prendevano silenziosamente possesso delle aule e degli uffici occupati durante il giorno dai vivi. Sarmand aveva il potere di scorgere queste entità, invisibili agli elissini, e di parlare il loro linguaggio.
Quella notte il Catafratto notò un insolito viavai di spettri. I corridoi immersi nel buio pullulavano di spiriti inquieti. Tra essi parve a Sarmand di riconoscere il profilo grifagno del professor Frugulis, deceduto dieci anni prima dopo una lunga vita inoperosa. Frugulis aveva ricoperto per quasi mezzo secolo la cattedra di scienza della divinazione e, parallelamente, l’incarico di Rettore del Collegium Niticensis, una famigerata residenza per studenti dediti a orge e gozzoviglie. La sua morte era avvenuta in circostanze del tutto particolari: mentre si aggirava per un prato con la sua bacchetta da rabdomante, il professore era precipitato in una crepaccio profondissimo, e il suo corpo non era stato mai più ritrovato. Una perdita da cui l’accademia si riebbe con difficoltà, nel volgere di poche ore. Lo spirito del professore, tuttavia, non riusciva a distaccarsi dai luoghi in cui aveva dottamente discettato, per decenni, di tiptologia e coscinomanzia dinanzi ad annoiate platee studentesche.
  - Ebbene, cos’è questa caciara? Che vi prende stanotte?
Al richiamo imperioso di Sarmand, il fantasma si mise sull’attenti.
  - Una riunione straordinaria, in aula magna!
  - Quale riunione?
  - Avevo qui l’ordine del giorno, dove l’ho messo?
Frugulis fece per frugarsi nelle tasche ma si interruppe, non avendo tasche in cui frugare.
  - Allora? -  lo incalzò Sarmand spazientito.
  - E’ una riunione importantissima! Stanno affluendo spiriti da tutte le provincie del regno. Si voterà una mozione!
  - Di che andate farneticando?
  - Vogliamo tornare!
  - Tornare dove?
  - Tornare in vita! Riprendere il posto che ci spetta, le cattedre che ci sono state sottratte.
Sarmand osservò il fantasma con un’espressione disgustata.
  - Non avete dunque imparato nulla? Neppure la morte è riuscita a smorzare le vostre smanie di protagonismo? Mi fate sinceramente pena.
Senza aggiungere altro, Sarmand volse le spalle al professore e si diresse verso la scala che conduceva ai sotterranei dell’accademia. Il Catafratto si muoveva nelle tenebre più fitte con la sicurezza di un pipistrello. Niente e nessuno era in grado di intimorirlo: né i vivi, né i morti, né i demoni. I sotterranei erano il solo luogo dell’imponente edificio in cui si sentisse davvero a suo agio. Vi si recava ogni notte. Laggiù, in quell’antro tenebroso, i fantasmi dei professori non osavano neppure far capolino. Solamente uno spettro vi dimorava: quello di un suicida, rifugiatosi nei sotterranei in cerca di tranquillità. Tra Sarmand e lo spettro si era  instaurato un rapporto improntato al mutuo rispetto: ciascuno badava ai fatti propri senza interferire nelle occupazioni altrui. Il suicida trascorreva il proprio tempo immerso nella lettura di antichi volumi polverosi. L’occupazione del Catafratto consisteva nell’attingere alla riserva di vini pregiati salumi e formaggi custodita in un locale a volta appositamente attrezzato. Sarmand vi aveva fatto collocare una poltrona, un tavolino e uno sgabello per appoggiare i piedi.
Tagliati un paio di cacciatorini e una generosa porzione di gorgonzola, il Catafratto estraeva dalla tasca del soprabito una micca di pane, stappava una bottiglia di vino rosso e si dedicava alla manducazione.
L’eccentricità del personaggio si appalesava in questa consuetudine del pasto notturno in un ambiente che certo non conciliava l’appetito.
I sotterranei ospitavano infatti un ossario, di cui gli elissini ignoravano l’esistenza: migliaia di teschi, tibie e clavicole – i resti mortali del personale docente e non docente avvicendatosi nel corso dei secoli all’interno dell’accademia – giacevano ordinatamente disposti nelle nicchie ricavate lungo le pareti. Servendosi degli scheletri meglio conservati, un artigiano aveva allestito, su incarico di Sarmand, una macabra messa in scena. Su un fondale teatrale raffigurante un paesaggio bucolico si stagliavano le sagome di una dozzina di scheletri abbigliati di tutto punto, ciascuno in una posa sua propria. Da una parte, uno scheletro in abiti da curato, il breviario stretto al petto, rivolgeva un gesto benedicente a due braccianti col cappello in mano, dall’altra una contadina coglieva more da un cespuglio.
I sotterranei esercitavano un fascino irresistibile sui demoni infernali. Accadeva non di rado che alcuni di essi si materializzassero accanto a Sarmand, per ammirare la sua straordinaria collezione di teschi e il suo teatrino della morte. Vi era, fra loro, una magnifica diavolessa di nome Lucretia. Le medaglie appuntate sulla sua cotta di maglia attestavano che si trattava di una guerriera intrepida. La conversazione con Sarmand era per lei fonte di sollievo. Quell’uomo così avulso dalla vita e dalle cure terrene le si rivolgeva sempre in tono garbato e affettuoso, quasi paterno, facendole dimenticare per un poco le proprie tristi incombenze quotidiane, il suo ruolo di tormentatrice di dannati.       
Il Catafratto, dal canto suo, traeva piacere dalla presenza di quell’indomita combattente. Come un vampiro, si nutriva della sovrabbondante vitalità di quella creatura diabolica. Lucretia si mostrava felice come una bambina ogni qual volta Sarmand le faceva dono di un teschio, o di una collana di vertebre.
Ma quella notte, sin dalla prima occhiata, la diavolessa intuì che l’umore di Sarmand era insolitamente cupo. Il Catafratto si accingeva a stappare la seconda bottiglia.
Turbata, Lucretia gli si rivolse così:
  - Voglio raccontarti una cosa. Non l’ho mai detta a nessuno.
Sarmand ripose la bottiglia sulla rastrelliera.
  - Agli inizi, quando presi servizio nella X Legio Infernalis, tutto era più semplice.
Ero motivata. Avevo un dovere da compiere, e lo svolgevo al meglio delle mie possibilità, con entusiasmo. Ora non più. Assolvo i miei compiti, sì, ma senza intima convinzione.
  - Capita a molti - sospirò Sarmand.
  - Ma non credevo sarebbe capitato a me, Lucretia, il flagello delle anime dannate.
Credevo di essere immune da certe debolezze, una macchina da guerra che niente e nessuno avrebbe potuto scalfire.
Sarmand portò il bicchiere alla bocca e lo svuotò a brevi sorsi.
  - Non ho più notizie del Re del Nulla - sospirò. - Temo l’abbiano ucciso.
Lucretia ebbe un fremito.
  - Il Re è vivo! - esclamò.
Sarmand la fissò negli occhi.
  - Dove si trova in questo momento?
  - Prigioniero in un pozzo, a centinaia di metri di profondità nel sottosuolo di Elissinia.
Sarmand posò la bottiglia e il bicchiere sul tavolino.
  - Dobbiamo liberarlo!

Pietro Ferrari, 2010  

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