QUESTIONE DI CENTIMETRI
Attore: Luca Fagioli
Direttore: Paolo Migone
Autore dei testi: Paolo Migone
Anno: 1993
Genere: Tragicomico
Genere: Tragicomico
Forma narrativa: Monologo
Durata: 58 min
Durata: 58 min
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Luca Fagioli interpreta se stesso: il personaggio si chiama "Fagioli Luca", altezza 133 centimetri. Nel suo desolante monologo, il protagonista descrive la visuale grottesca con cui percepisce un mondo a lui sostanzialmente estraneo. Le stesse leggi fisiche agiscono sul suo minuscolo corpo in modo inquietante e diverso da quanto fanno su tutti gli altri: è come se a lui non fosse permesso interagire con gli oggetti, così ogni cosa viene presentata in virtù della sua irraggiungibilità. Gli sono impraticabili le azioni più banali, come guardare una persona negli occhi o prendere qualcosa da uno scaffale. Un mondo fatto di spigoli, sportelli troppo alti e ostacoli. Una realtà tutta pervasa da una paranoia quasi dickiana.
L'Attore:
Nato a Pisa, è laureato in giurisprudenza.
Video di Luca Fagioli:
Il sablé (1986)
Il primo fidanzato (1987)
Biancaneve (1989)
Il gioco dell'oca (1990)
Ricordi difficili (1991)
Insieme contro il crimine (1992)
Il gioco dell'oca (1990)
Ricordi difficili (1991)
Insieme contro il crimine (1992)
Filmografia di Luca Fagioli:
Ivo il tardivo, di Alessandro Benvenuti (1955)
Il cielo e la luna, di Massimo Fagioli (1998)
Il pesce innamorato, di Leonardo Pieraccioni (1999)
Il cielo e la luna, di Massimo Fagioli (1998)
Il pesce innamorato, di Leonardo Pieraccioni (1999)
La grande prugna, di Claudio Malaponti (1999)
Il guerriero Camillo, di Claudio Bigagli (1999)
Nonhosonno, di Dario Argento (2000) Recensione:
Teatro Litta di Milano, Marzo 1993. Ero presente. Era l'epoca della cattività cardanese, il periodo di confino in quel tristissimo anfratto fecale a cui le genti native danno il nome di Cardano al Campo. Dovetti accompagnare una scolaresca a vedere alcuni spettacoli teatrali. Uno di questi, tenutosi nello stesso oscuro borgo lombardo, mostrava alcuni vecchi che venivano scherniti, bastonati e smaltiti come immondizia, in sacchi neri e bidoni della spazzatura. Non riesco a ricordare null'altro della trama, solo queste sequenze allucinatorie, che sembravano frutto dell'ingestione di una frittura di psilocybe. Forse era un rudimentale adattamento di Quarto: uccidi il padre e la madre, di Gary K. Wolf, ma non ne sono sicuro. Vi fu però anche un'eccezione in quell'anno umiliante e disperato. Mi fu permessa una gradita escursione, a mio avviso molto utile. Fu proprio quando andai a Milano al Teatro Litta con la scolaresca, su iniziativa del professor G., che riteneva molto utile ed educativo lo spettacolo di Luca Fagioli. Furono quelli gli unici momenti che potrei definire, se non proprio "felici", almeno "non afflittivi", in un periodo della mia vita che dovrebbe essere cancellato dal Libro dell'Esistenza.
Un tempo si diceva "Italiani, popolo di navigatori, santi e poeti". Poi qualcuno ha coniato il detto "Italiani, popolo di impastatori", per via della loro avidità di lievito durante il lockdown (avidità istigata dall'osceno tam tam mediatico dei giornalisti). Potremmo però aggiungere, oltre a "Italiani, popolo di delatori", anche "Italiani, popolo di bulli, persecutori di deboli e di inermi". A volte mi domando perché Sodoma e Gomorra non siano sopravvissute, mentre uno scandalo come questo vivaio di bulli continui a marcire impunemente sotto la luce tossica del sole. Già me ne accorsi quando ero un moccioso, il giorno stesso in cui sono stato portato all'asilo. Da allora mi sono imbattuto in un numero enorme di persone moleste come tafani, che si sentono vive soltanto se hanno qualcuno da deridere e da tormentare, traendo piacere dall'altrui sofferenza.
Luca Fagioli porta in scena il proprio dramma esistenziale. Deve portare il peso di un vissuto molto problematico, caratterizzato da continui episodi di bullismo in età giovanile, per via della sua corporatura minuta. Tecnicamente parlando, è affetto da nanismo tiroideo. La bizzarra conformazione delle membra e l'aspetto ben singolare attirano in modo ineluttabile lo scherno e l'irrisione da parte delle persone definite "normali". Gli epiteti, come ad esempio "tappo", non si sprecano. Ognuna di questi insulti è una stilettata nel cuore.
Il professor G. faceva notare alla scolaresca che Luca Fagioli ha avuto una vita piena di soddisfazioni umane e professionali e che ha avuto la fortuna di trovare una compagna splendida. La morale del professore, che era un convinto fautore del politically correct (anche se all'epoca non si usava questa locuzione), voleva insegnare il rispetto per la "diversità" a una classe particolarmente indisciplinata, dove non mancavano simpatie naziste. Tali simpatie non derivavano certo dalla lettura del Mein Kampf o dalla comprensione delle dottrine hitleriane: erano reazioni viscerali da parte di giovani rozzi e privi di qualsiasi senso critico, che in questo modo si ribellavano a un indottrinamento scolastico particolarmente oppressivo. Si può dire che il professor G. abbia creato un allevamento di naziskin, senza averne la minima consapevolezza. L'accaduto mi induce alcune amare riflessioni. A Luca Fagioli è andata bene: si è affermato come attore e ha trovato la sua metà. Ma per una persona a cui è andata bene, quante ce ne sono che hanno fallito? Quante persone sole sono state schiantate da questa Italia in cui chi ha problemi è considerato uno zimbello da annientare? Innumerevoli, e non c'è rimedio. Non ci sarà rimedio alcuno, se non il giorno in cui questo paese farà la fine di Atlantide.
Mi è rimasta particolarmente impressa la lamentazione dell'autore, chiuso nella sua solitudine densa come il piombo. Un'oscurità in cui non si trova un varco, in cui non filtra nemmeno il riverbero di una remota sorgente luminosa. Trovo che sia pura poesia, lirismo assoluto, così la propongo in questa sede:
"Mi trovo a ripercorrere il perimetro della mia cameretta
la testa affollata dai pensieri, paure, progetti.
Ho murato la finestra
ma alcuni raggi del sole,
filtrati dalle fessure dei mattoni,
disegnano sul mio viso strani arabeschi.
Mi lascio cadere sulla sedia,
e annoto sul diario:
Intanto passano i giorni,
si sommano in settimane,
si aggrovigliano in mesi,
si ingarbugliano in stagioni,
si ammatassano in anni
natali, pasque, ferragosti
natali, pasque, ferragosti
anni,
natali, pasque, ferragosti
La sveglia mi guarda,
girami!
Fa tic e poi fa tac.
Le ragnatele cambiano ogni anno,
le vedi lì e le ritrovi là.
E nel silenzio più assoluto,
sentire il rumore della barba che cresce.
Deriso da un destino beffardo,
buttato lì come una vecchia cima,
schernito dal tempo inesorabile,
potenza in un nulla fatto di niente,
scheggia di un universo di diversi universi,
truciolo di falegnameria!
briciolino di pane!
(alcune parole borbottate, indistinte, che si perdono nel rumore di fondo)
la testa affollata dai pensieri, paure, progetti.
Ho murato la finestra
ma alcuni raggi del sole,
filtrati dalle fessure dei mattoni,
disegnano sul mio viso strani arabeschi.
Mi lascio cadere sulla sedia,
e annoto sul diario:
Intanto passano i giorni,
si sommano in settimane,
si aggrovigliano in mesi,
si ingarbugliano in stagioni,
si ammatassano in anni
natali, pasque, ferragosti
natali, pasque, ferragosti
anni,
natali, pasque, ferragosti
La sveglia mi guarda,
girami!
Fa tic e poi fa tac.
Le ragnatele cambiano ogni anno,
le vedi lì e le ritrovi là.
E nel silenzio più assoluto,
sentire il rumore della barba che cresce.
Deriso da un destino beffardo,
buttato lì come una vecchia cima,
schernito dal tempo inesorabile,
potenza in un nulla fatto di niente,
scheggia di un universo di diversi universi,
truciolo di falegnameria!
briciolino di pane!
(alcune parole borbottate, indistinte, che si perdono nel rumore di fondo)
Quest'opera è etichettata dai media come "commedia", ma a mio avviso non lo è affatto. Si potrebbe andar più vicini al vero ritenendola tragicomica. Unisce in sé spunti ironici e sarcastici con una sostanza assolutamente tragica. Su questo non ci sono dubbi: prevale in ogni suo istante un senso di sofferenza assoluta, che non conosce requie. Non ho mai avuto alcuna esilarazione durante lo spettacolo, proprio perché le sofferenze del protagonista sembravano a me simili a quelle che ho dovuto subire nel corso della mia vita - nonostante la mia statura fisica non possa essere definita esigua.
Il rustico giannesco in Lucchesia!
Fagioli Luca apprende che il suo amico Gianni, l'architetto, ha invitato amici ed amiche per un weekend nel suo rustico in Lucchesia. Così prende coraggio, gli telefona e gli dice che lo raggiungerà. Inizia la narrazione di qualcosa che sembra a metà strada tra una serie di contrattempi e le dodici fatiche di Ercole. I toni sono volutamente iperbolici. Ogni minima cosa è descritta dall'attore in un modo così surreale da provocare una sensazione di fortissimo straniamento, come se egli fosse un microscopico uomo di Lilliput giunto all'improvviso a Brobdingnag, ove regnano i giganti! Il fine settimana abortisce miseramente: Luca, come un pigmeo nel Labirinto di Cnosso, sbaglia l'ingresso e si ritrova nella cuccia del cane, poi finisce riesce a entrare nell'atrio ma finisce nel camino (il soffitto è alto come quello del Valhalla), quindi rinuncia all'impresa e passa la notte in un campo, trovandosi sommerso da nugoli di grilli zampettanti e da masse di crisalidi. Viene avvicinato da un dobermann libidinoso che cerca di avere un rapporto con una sua gamba e di tenerlo come schiavo sessuale. Al culmine del grottesco, Luca mima una copula, ancheggiando in modo frenetico. Riuscito a sottrarsi all'animale, per quindici giorni si addentra nella campagna toscana, che è descritta come se fosse Mordor! Dopo uno sfinimento estremo, il culmine si ha quando, giunto fino a Marina di Grosseto, si trova davanti la figura immane di Gianni. La sua gioia è incontenibile. "Gianni!!!", esclama. Mi sembra di vedere Gianni, di averlo davanti agli occhi, con quei manoni grandi simili a pale, con quel faccione smisurato perennemente sorridente. Proprio lui: Gianni, l'eterno coprofago! O forse è tutto frutto di un'allucinazione? Fatto sta che Gianni non sembra riconoscere l'amico farfugliante, che alla fine si allontana, annientato. "Ciao Gianni!", gli dice. Poi, dopo qualche passo: "Gianni, ma vaffanculo!"
Un epilogo annichilente
Fagioli Luca giunge infine al Capolinea. Certo, quello è il luogo dove prima o poi giungono tutti - anche se i bulli e i gorilla non lo sanno, credendosi immortali. Credo che sia un geroglifico della Morte dell'Essere. Ci viene descritto come uno squallido bar di periferia milanese, con luci al neon che deprimono lo Spirito. Chi è costretto a vegetare sotto quei raggi mortiferi, è come se avvizzisse e si riducesse a una mosca agonizzante sul bordo di un cesso. Ecco, il nostro amato protagonista si trova proprio lì, cercando di ordinare un caffè al banco. Non ci riesce. Aggiunge invano lo zucchero ad alcune tazzine che non sa essere vuote, poi lo ingurgita in preda al disgusto. Tenta anche di ordinare un tramezzino, senza che i risultati siano migliori. Il banco è sopra la sua testa, riesce a malapena a raggiungerlo, come se fosse uno Hobbit tra gli Orchi. Poi ha un'idea geniale. Si allontana e raggiunge il telefono pubblico presente nella sala. Compone il numero del locale e la cameriera che sta al banco risponde. Così può ordinare un tramezzino. "Cristina, dammi un tramezzino!", le urla, dopo essere riuscito ad attirare la sua attenzione. Siamo all'Annichilimento Assoluto. Quello è il luogo in cui l'Essere muore in Eterno!
Insopportabilità del pubblico
Quello che ho detestato in modo viscerale sono state le insulse risate di molti spettatori. Cosa diamine c'era mai da ridere? Mi sarei aspettato un profondo silenzio, carico di rispetto e di introspezione. Invece nulla. Alcune risate giungevano proprio nei momenti più penosi, più tragici. Questo mi ha dato una conferma in più della natura bullesca della maggior parte dei frequentatori di teatri. Moltissimi sono coloro che non vanno a teatro per imparare qualcosa, bensì per mero conformismo, per ostentare la loro pretesa superiorità e la loro condizione sociale, per trovare qualcuno da schernire, da tirare per il culo. Certo, l'attore è stato applaudito quando la rappresentazione si è conclusa, ma in un certo senso era un atto dovuto. Non dimentichiamoci che questa gente applaude anche ai funerali, così posso soltanto considerare vuote e ipocrite le loro manifestazioni di entusiasmo. Per molto tempo ho odiato il teatro proprio perché vi si respira un'aria di snobbismo molesto, e la sensazione è analoga al fastidio provocato agli equini dalle punture delle mosche cavalline. Mi affiora un bizzarro ricordo d'infanzia: mio zio S. era convinto che in realtà nessuno ridesse a teatro e che le risate fossero invece il prodotto di un'apposita macchinetta. "Schiacciano un bottone e si sentono le risate", diceva sempre, "ma sono finte". Di certo mio zio S. era più felice di me.