venerdì 28 maggio 2021

 
O VARIUM FORTUNE 
 
Titolo originale: O varium Fortune 
Gruppo: Corvus Corax 
Autori: Corvus Corax, Ingeborg Schöpf & Klaus Lothar Peters 
Album: Cantus Buranus II 
Anno: 2008 
Data di rilascio: 1 agosto 2008
Genere: Musica neomedievale, Folk Rock 
Paese: Germania
Lingua: Latino medievale
Etichetta: Pica Records, Irond 
Formato: CD, Digibook
Orchestra: Deutsches Filmorchester Babelsberg
Formazione Corvus Corax: 
   Ardor von Venushügel 
   Castus Rabensang 
   Harmann der Drescher
   Hatz 
   Meister Selbfried  
   Patrick der Kalauer
   Teufel 
   Wim 
Cantante (Soprano): Ingeborg Schöpf 
Etimologia del nome del gruppo: dal nome scientifico del corvo imperiale (Corvus corax Linnaeus, 1758) 
Video: Live in München 2009 
Rimasterizzazione: 2016 
Link: 
 
Testo in latino medievale:
 
O VARIUM FORTUNE 
 
O varium fortune lubricum
Dans dubium tribunal iudicum,
Non modicum paras huic premium,
Quem colere tua vult gratia.

Et petere rote sublimia,
Dans dubia tamen prepostere
De stercore pauperem erigens,
de rhetore consulem eligens.

Et petere rote sublimia,
Dans dubia tamen prepostere
De stercore pauperem erigens,
de rhetore consulem eligens.

O varium fortune lubricum
Dans dubium tribunal iudicum,
Non modicum paras huic premium,
Quem colere tua vult gratia.

Et petere rote sublimia,
Dans dubia tamen prepostere
De stercore pauperem erigens,
de rhetore consulem eligens.

Edificat Fortuna diruit;
Nunc abdicat quos prius coluit. 
Edificat Fortuna diruit;
Nunc abdicat quos prius coluit. 
 
Et petere rote sublimia
Dans dubia tamen prepostere
De stercore pauperem erigens
De rhetore consulem eligens.

Et petere rote sublimia
Dans dubia tamen prepostere
De stercore pauperem erigens
De rhetore consulem eligens.
 
Il testo è un piccolo estratto di un componimento ben più esteso, che fa parte dei Carmina Burana. Questi testi poetici sono opere dei Goliardi o Clerici vagantes. Risalgono al XI e al XII secolo e sono riportate nel Codex Latinus Monacensis 4660, detto anche Codex Buranus - da cui il nome della raccolta - in quanto reperito nel 1803 nella Bura di San Benedetto (Benediktbeuren) in Alta Baviera. In tutto sono 228, scritti nella maggior parte dei casi in latino, anche se alcuni sono in medio alto tedesco e uno in provenzale. Riflettono un movimento internazionale, che andava dalla Linguadoca alla Germania, all'Inghilterra e alla Scozia. Stava sorgendo l'Università, che è un'istituzione più antica dell'Impero Azteco, per quanto la cosa possa essere sorprendente. Questi Clerici vagantes vagavano da un ateneo all'altro, per tutta l'Europa, per poter seguire le lezioni che consideravano più utili. In questo erano favoriti dall'uso pervasivo del latino, vera e propria lingua franca dell'epoca. Avevano gli ordini minori, quindi godevano di alcuni privilegi ecclesiastici, pur non essendo vincolati ai voti imposti dall'ordinazione sacerdotale: conducevano esistenze sregolate tracannando ettolitri di vino e copulando selvaggiamente. Furono loro a reintrodurre il vino nella poesia dopo secoli di silenzio. Immensa era la loro avversione alla Curia pontificia, colpita dagli strali della satira per la sua simonia e per la sua corruzione. Di questi argomenti si dovrà parlare con maggior dettaglio in altra sede.

Ecco il testo completo della poesia da cui hanno attinto i Corvus Corax:  
 
O VARIUM (CB 14)

1.
O varium | Fortune lubricum,
dans dubium | tribunal iudicum,
non modicum | paras huic premium,
quem colere | tua vult gratia
et petere | rote sublimia,
dans dubia | tamen, prepostere
de stercore | pauperem erigens,
de rhetore | consulem eligens.

2.
Edificat | Fortuna, diruit;
nunc abdicat, | quos prius coluit;
quos noluit, | iterum vendicat
hec opera | sibi contraria,
dans munera | nimis labilia;
mobilia | sunt Sortis federa,
que debiles | ditans nobilitat
et nobiles | premens debilitat.

3.
Quid Dario | regnasse profuit?
Pompeïo | quid Roma tribuit?
Succubuit? | uterque gladio.
eligere | media tutius
quam petere | rote sublimius
et gravius | a summo ruere:
fit gravior | lapsus a prosperis
et durior | ab ipsis asperis.

4.
Subsidio | Fortune labilis
cur prelio | Troia tunc nobilis,
nunc flebilis | ruit incendio?
quis sanguinis | Romani gratiam,
quis nominis | Greci facundiam,
quis gloriam | fregit Carthaginis?
Sors lubrica, | que dedit, abstulit;
hec unica | que fovit, perculit.

5.
Nil gratius | Fortune gratia,
nil dulcius | est inter dulcia
quam gloria, | si staret longius.
sed labitur | ut olus marcidum
et sequitur | agrum nunc floridum,
quem aridum | cras cernes. Igitur
improprium | non edo canticum:
o varium | Fortune lubricum. 

Traduzione libera in italiano:

1. 
O Fortuna, volubile e scivolosa
che giudice incostante tu sei.
Largisci premi smisurati
a chi hai deciso di prediligere con la tua grazia
e di porre sulla sommità della tua ruota.
Ma i tuoi doni sono incerti e senza preavviso:
alzi il povero dallo sterco
ed eleggi l'orator a console.

2. 
La Fortuna costruisce, la Fortuna distrugge:
in un attimo abbandona colui che finora coccolava
per favorire un altro che poc'anzi respingeva.
Com'è contraddittoria quest'opera,
come sono fugaci i doni della Fortuna.
Incerti sono i patti della sorte
che umilia i nobili opprimendoli
e nobilita gli umili arricchendoli.

3. 
Che cosa è servito a Dario essere re?
Come Roma ha ripagato Pompeo?
Tutti e due sono stati vinti dalla spada.
È più sicuro scegliere la via di mezzo
che salire in alto sulla ruota
e poi cadere rovinosamente in basso.
Chi oggi Fortuna esalta
domani sarà ridotto in miseria.

4. 
Per quale capriccio della Fortuna
Troia un tempo gloriosa in battaglia
e ora degna di pianto, è annientata da un incendio?
Chi ha distrutto la grandezza dei Romani,
estinto l'eloquenza dei Greci,
infranto la gloria dei cartaginesi?
È la Sorte incostante che sottrae ciò che elargiva,
solo essa abbatte ciò che prima favoriva.

5. 
Niente è più grato della grazia della Fortuna
niente è più dolce tra le cose dolci
della gloria, se resta più a lungo. 
Ma decade come verdura marcia 
e segue il campo ora in fiore, 
che domani ti accorgi essere arido. 
Allora non mangio una brutta canzone: 
O Fortuna, volubile e scivolosa. 

[traduzione: Modo Antiquo 1999 (1 - 4); sottoscritto (5)] 
 

Memorie: 
Vidi i Corvus Corax con i miei occhi di carne nel lontano 1991, nell'augusta e metallica città di Berlino. Ne rimasi subito conquistato. Ero in una rievocazione medievale simile a una fiera, molto ben ricostruita. Anche il suduciume era autentico. C'erano molte persone che sembravano uscite dal XI secolo. A una specie di tenda era affisso un invitante cartello. Mostrava il disegno di una donna nuda messa a pecora che esibiva il deretano, con una scritta in medio tedesco ben traducibile: "Date un'inseminata a questa femmina". Sì, avrei voluto farlo. Poi ho saputo da un passante che in realtà c'era soltanto una massaggiatrice e che era un'audace trovata pubblicitaria. Dopo aver fatto qualche giro e aver trangugiato un litro di birra scura, mi sentivo a casa. Mi ero dimenticato di tutto, vivevo nella convinzione di essermi svegliato da un brutto sogno e di essere finalmente me stesso. Fu a questo punto che mi imbattei nei Corvus Corax. Suonavano le cornamuse su un palco di legno. La loro musica mi penetrava fin nelle ossa. Fui stupito dalle loro figure. Avevano la faccia tinta come antichi Britanni. Fu uno di quegli incontri che non si possono dimenticare, perché cambiano la vita.    

Recensione:
Esaltante! Sia la musica che il video dello spettacolo tenuto a Monaco di Baviera nel 2009 sono capolavori assoluti! Ogni nota entra nel sangue e nelle ossa e scuote le fondamenta stesse della mia anima. Ho ascoltato il brano per ore, cadendo in uno stato simile all'estasi. La cantante bionda vestita come la Dea Fortuna è la soprano austriaca Ingeborg Schöpf. È di una bellezza divina. Ancora oggi, ogni volta che guardo il video non riesco a staccare gli occhi da lei. La gioia che mi dà contemplarla è come quella che provo a inebriarmi con l'idromele. Se la incontrassi di persona, mi innamorerei alla follia e cadrei folgorato senza potermi più rialzare. Mi viene da piangere e mi sembra di essere un lombrico, una specie di uomo-verme, condannato a non poter neppure sfiorare tanto splendore. Ci sono donne così, che mi fanno questo effetto. Sarebbe stato bellissimo se fosse stata cantata l'intera poesia, anziché soltanto il suo inizio. Forse gli autori temevano che un'eccessiva lunghezza del canto non avrebbe giovato. Peccato.    

Il problema della musicazione dei testi 
 
Sappiamo che 47 componimenti del Codex Buranus sono corredati di una trascrizione musicale tramite neumi in campo aperto (notazione adiastematica), la cui interpretazione può considerarsi un'impresa disperata. La ricostruzione delle musiche originali è a quanto pare un cammino in salita che non ha un traguardo univoco, anche se sono stati fatti diversi tentativi. Il compositore tedesco Carl Orff (Monaco di Baviera, 1895 - Monaco di Baviera, 1982) è famoso per aver musicato i Carmina Burana, anche se la sua opera non ha nulla a che vedere con le melodie originali, essendo stata composta di sana pianta (O varium non figura tra l'altro nell'elenco delle 24 poesie musicate). La stridente diversità dei risultati delle musicazioni del componimento che stiamo trattando è evidente da alcuni video reperibili nel Web. Invito tutti ad ascoltarli per comprendere ciò che intendo dire. 
 



La musicazione di un testo implica il tentativo di comporre qualcosa che appartiene al mondo contemporaneo al musicatore, non a quello contemporaneo all'autore delle parole. Si dà così origine a un insieme armonico di suoni che non poteva esistere all'epoca in cui visse il poeta. Il punto è che la sensibilità di un secolo viene ad essere innestata in un secolo diverso, con una sensibilità che potrebbe addirittura essere incompatibile. Non è un problema di poco conto. Si canta la Fortuna che abbandona ciò di cui aveva favorito la diffusione. Non dobbiamo però dimenticarci la forza spaventosa che tutto domina: l'Oblio. Ogni cosa finisce in una discarica, dove subisce disgregazione e si disfa nel Nulla. Mi pongo quindi una domanda. Ha senso la mia stessa opera? Ha senso che io mi curi di cose che sono state lasciate alla deriva? Ha senso che cerchi con ogni mezzo di ricostruirle, di restaurarle nella forma originale? No. Non ne ha nessuno. Dopo anni e anni di sforzi inani, sono costretto a questa conclusione, che nulla di sensato esiste nell'Universo. Siamo come topi in un labirinto variabile che non permette di dedurre una regola in grado di spiegarne il funzionamento. Questa mutabilità estrema ci condanna al logorio e alla morte vana.    

Glossario latino: 
 
abdicat "abbandona"  
consulem "il console" (accusativo di consul)
dans "che dà" 
dubium "dubbio" 
   dubia "dubbi" (neutro plurale)
de rhetore "dall'oratore"  
de stercore "dallo sterco" 
diruit "distrugge", "demolice", "manda in rovina"
edificat "costruisce" 
     (latino classico aedificat)
eligens "che elegge" 
erigens "che fa alzare"  
Fortuna "Fortuna, Sorte"
Fortune "della Fortuna, della Sorte" (genitivo) 
     (latino classico Fortunae
huic "a questo", "a costui" (dativo)
lubricum "scivoloso" (aggettivo neutro) 
non modicum "non scarso" (aggettivo neutro) 
nunc "ora, adesso" 
O varium Fortune lubricum "O Fortuna volubile e scivolosa", 
    alla lettera "O cosa volubile scivolosa della Fortuna"
paras "prepari" 
petere "chiedere, ricercare"
pauperem "il povero" (accusativo di pauper
premium "premio, ricompensa" 
     (latino classico praemium)
prepostere "confusamente, senza ordine" (avverbio)
      (latino classico praepostere
rote "alla ruota" (dativo) 
      (latino classico rotae)
quos prius coluit "coloro che prima trattava con riguardo": 
    quos "coloro" (accusativo plurale) 
    prius "prima" 
    coluit "trattava con riguardo" 
sublimia "le cose sublimi" (neutro plurale collettivo 
    dell'aggettivo sublimis
tamen "nondimeno, ciononostante" (avverbio) 
tribunal iudicum "tribunale dei giudici": 
   iudicum "dei giudici" (genitivo plurale di iudex "giudice") 

Si nota che dans dubium tribunal iudicum significa letteralmente "tribunale dei giudici che dà il dubbio".

Note sulla pronuncia e sull'ortografia: 
 
Si nota che in luogo del dittongo grafico ae si trova la vocale semplice e, così abbiamo Fortune, rote, edificat, premium, prepostere. Questa è una caratteristica tipica del latino medievale. 

Una peculiarità della musicazione è la posizione dell'accento, che cambia a seconda delle necessità del ritmo. Ecco un elenco di parole in cui l'accento cambia posizione: 
 
variúm anziché várium 
lubrícum anziché lúbricum 
dubiúm anziché dúbium 
tribunál anziché tribúnal  
modicúm anziché módicum 
coleré anziché cólere 
parás anziché páras
peteré anziché pétere 
roté anziché róte 
dubiá anziché dúbia 
tamén anziché támen
prepostére anziché praepóstere 
stercoré anziché stércore 
paupérem anziché páuperem 
erígens anziché érigens 
consúlem anziché cónsulem 
elígens anziché éligens
 
Forme con accentazione normale: 

Fortúne 
iúdicum 
húic 
prémium 
grátia 
sublímia 
túa
 
Anche nella poesia dell'antica Roma l'accento poteva subire simili variazioni. C'è però una differenza sostanziale. Nell'antica metrica a determinare la posizione dell'accento - che poteva contrastare con quella della lingua parlata - era la sequenza di sillabe brevi e sillabe lunghe secondo schemi precisi, come ad esempio quello dell'esametro. Qui invece è importante soltanto il ritmo musicale, dato che non vi è alcuna consapevolezza della quantità delle sillabe nel loro alternarsi.  

La pronuncia adottata è quella ecclesiastica ed accademica tipica della Germania, in cui g davanti a vocali anteriori ha il suono velare e non si palatalizza: 
 
erigens /e'rigens/ (anziché /'erigens/)
eligens /e'ligens/ (anziché /'eligens/)  
 
Come nella pronuncia ecclesiastica italica, t seguito da i e da vocale ha il suono affricato: 
 
gratia /'gratsia/ 
 
Non si ha l'approssimante /j/, bensì la vocale piena /i/
 
varium /vari-'um/ (anziché /'varium/)
dubium /dubi-'um/ (anziché /'dubium/)
dubia /dubi-'a/ (anziché /'dubia/)

Persino in iudicum all'inizio della parola si nota una sequenza iatale: 
 
iudicum /i-'udikum/
 
La pronuncia di qu è /kv/
 
quem /kvem/  
 
Si noti che questa pronuncia è comunque diversa da quella usata dai Clerici vagantes, che era la pronuncia carolingia elaborata dal dottissimo Alcuino per placare i timori superstiziosi del Re Carlo. 
 
Conclusioni 
 
Stupisce osservare che c'era molta più integrazione linguistica in Europa nel XI secolo che attualmente. Ai nostri giorni uno studente di Milano che volesse recarsi a frequentare lezioni all'Università di Parigi o di Strasburgo farebbe una grande fatica, dovrebbe parlare un inglese informe, alterato da pronunce scolastiche semiortografiche e corrotte. All'epoca invece esisteva una vasta comunità di giovani latinofoni che potevano andare ovunque, capire e farsi capire senza difficoltà con una lingua maneggevole dalla pronuncia facile. L'inglese usato nell'attuale Europa è distorto, turpe, dominato da una deformità abominevole: ogni parlante pronuncia i suoni incerti di quella lingua in modo tanto confuso da non poter essere quasi inteso da un suo conterraneo. Ci sono tante lingue pseudoinglesi quanti sono gli studenti! Pensiamo un po' a cosa doveva essere il mondo dei Goliardi (ben diversi dai tristissimi bulli che ne hanno usurpato il nome): tramite loro si tramandava in qualche modo il ricordo, seppur alterato, di Roma antica, il vagheggiamento di una gloria che strideva con la miseria del presente; con i loro attacchi contro l'alto clero ebbe vita un materiale che sarebbe riverberato per secoli, facendo infine diroccare l'edificio tirannico del Papato.  

mercoledì 26 maggio 2021

QUALIS ARTIFEX PEREO!

Mentre era in procinto di suicidarsi, il Divo Nerone, che come me nacque il 15 Dicembre, pronunciò una frase famosa tramandata da Svetonio. Queste sono le sue parole: "Qualis artifex pereo!" La traduzione più comune e tradizionale è "Quale artista muore con me!" o "Che artista muore con me!" Tutto sembra chiaro, tuttavia analizzando bene la questione si scopre che le cose non stanno esattamente così. Innanzitutto notiamo che il punto esclamativo è un'aggiunta degli editori, che hanno la tradizione di adattare i testi alle necessità moderne.  
 
Ecco il brano di Svetonio in cui è descritto il suicidio di Nerone (De vita Caesarum, VI, XLIX): 
 
 
Tunc uno quoque hinc inde instante ut quam primum se impendentibus contumeliis eriperet, scrobem coram fieri imperavit dimensus ad corporis sui modulum, componique simul, si qua invenirentur, frustra marmoris et aquam simul ac ligna conferri curando mox cadaveri, flens ad singula atque identidem dictitans: 'Qualis artifex pereo!'. Inter moras perlatos a cursore Phaonti codicillos praeripuit legitque se hostem a senatu iudicatum et quaeri, ut puniatur more maiorum, interrogavitque quale id genus esset poenae; et cum comperisset nudi hominis cervicem inseri furcae, corpus virgis ad necem caedi, conterritus duos pugiones, quod secum extulerat, arripuit temptataque utriusque acie rursus condidit, causatus nondum adesse fatalem horam. Ac modo Sporum hortabatur, ut lamentari ac plangere inciperet, modo orabat, ut se aliquis ad mortem capessendam exemplo iuvaret; interdum segnitiem suam his verbis increpabat: 'Vivo deformiter, turpiter - οὐ πρέπει Νερωνι, οὐ πρέπει· νήφειν δεῖ ἐν τοῖς τοιούτοις· ἄγε ἔγειρε σεαυτόν--'. Iamque equites appropinquabant, quibus praeceptum erat, ut vivum eum adtraherent. Quod ut sensit, trepidanter effatus: 'Ἵππων μ᾽ ὠκυπόδων ἀμφὶ κτύπος οὔατα βάλλει·' ferrum iugulo adegit iuvante Epaphrodito a libellis. Semianimisque adhuc irrumpenti centurioni et paenula ad vulnus adposita in auxilium se venisse simulanti non aliud respondit quam 'Sero' et 'Haec est fides'. Atque in ea voce defecit, extantibus rigentibusque oculis usque ad horrorem formidinemque visentium. Nihil prius aut magis a comitibus exegerat quam ne potestas cuiquam capitis sui fieret, sed ut quoquo modo totus cremaretur. Permisit hoc Icelus, Galbae libertus, non multo ante vinculis exsolutus, in quae primo tumultu coniectus fuerat.       
 
Traduzione:  

Poi, dal momento che ognuno dei suoi compagni, a turno, lo invitava a sottrarsi senza indugio agli oltraggi che lo attendevano, ordinò di scavare davanti a lui una fossa della misura del suo corpo, di disporvi attorno qualche pezzo di marmo, se lo si trovava, e di portare un po' d'acqua e un po' di legna per rendere in seguito gli ultimi onori al suo cadavere. A ognuno di questi preparativi piangeva e ripeteva continuamente: "Quale artista muore con me!" Mentre si attardava in questo modo, un corriere portò un biglietto a Faone: Nerone, strappandoglielo di mano, lesse che il Sento lo aveva dichiarato nemico pubblico e che lo faceva cercare per punirlo secondo l'uso antico; chiese allora quale fosse questo tipo di supplizio e quando seppe che il condannato veniva spogliato, che si infilava la sua testa in una forca e che lo si bastonava fino alla morte, inorridito, afferrò i due pugnali che aveva portato con sé, ne saggiò le punte, poi li rimise nel loro fodero, protestando che l'ora segnata dal destino non era ancora venuta. Intanto ora invitava Sporo a cominciare i lamenti e i pianti, ora supplicava che qualcuno lo incoraggiasse a darsi la morte con il suo esempio; qualche volta rimproverava la propria neghittosità con queste parole: "La mia vita è ignobile, disonorante. -Non è degna di Nerone, non è proprio degna. -Bisogna aver coraggio in questi frangenti. -Su, svegliati." Ormai si stavano avvicinando i cavalieri ai quali era stato raccomandato di ricondurlo vivo. Quando li sentì, esclamò tremando: "Il galoppo dei cavalli dai piedi rapidi ferisce i miei orecchi." Poi si affondò la spada nella gola con l'aiuto di Epafrodito, suo segretario. Respirava ancora quando un centurione arrivò precipitosamente e, fingendo di essere venuto in suo aiuto, applicò il suo mantello alla ferita; Nerone gli disse soltanto: "È troppo tardi" e aggiunse: "Questa sì è fedeltà." Con queste parole spirò e i suoi occhi, sporgendo dalla testa, assunsero una tale fissità che ispirarono orrore e spavento in coloro che li vedevano. La prima e principale richiesta che aveva preteso dai suoi compagni era che nessuno potesse disporre della sua testa, ma che fosse bruciato intero a qualunque costo. Il permesso fu accordato da Icelo, liberto di Galba, da poco uscito dalla prigione in cui era stato gettato all'inizio della rivolta.
 
Si deducono alcune cose interessanti: 
1) Nerone non conosceva alcuni importanti dettagli dei costumi antichi del Senato; 
2) Nerone aveva una grande familiarità col greco, al punto di usare questa lingua per comporre brevi frasi poetiche mentre la Morte si avvicinava a grandi passi;
3) Nerone aveva una personalità fortemente bipolare, tanto che passava da momenti di esaltazione e di megalomania a momenti di profonda depressione, spesso all'improvviso e in modo imprevedibile; 
4) Nerone era terrorizzato all'idea di essere destinato a terribili punizioni ultraterrene in quanto matricida e credeva di poter subire ulteriori sofferenze in caso il suo cadavere non fosse stato cremato intero secondo i riti.  
 
Pur sembrando chiarissima nel concetto espresso, la frase "Qualis artifex pereo" è stata soggetta a non pochi problemi interpretativi. Se diamo per buona la traduzione "Quale artista muore con me", dobbiamo notare che la struttura grammaticale della frase è abbastanza insolita. Qualcuno ha tradotto liberamente "Che artista perde il mondo" In ogni caso, i moderni se la cavano in qualche modo soltanto aggiungendo qualcosa a ciò che ha detto l'Imperatore: o c'è un pronome oppure il mondo, tutte cose assenti nella frase in latino. Dopo tanti secoli c'è inquietudine. Noi in italiano diremmo "Quale artista muore", con un verbo alla terza persona singolare, riferito al vocabolo "artista". La mentalità degli antichi Romani era di certo molto diversa dalla nostra: possiamo pensare che la concordanza fosse con il pronome personale a cui si riferiva l'esclamazione. Così avrebbero detto qualcosa che possiamo tradurre come "Quale artista muoio" Ne sono consapevole, in italiano non suona affatto bene. Tuttavia suonerebbe bene se intendessimo "Muoio come un artista" La cosa sarebbe perfettamente razionale e rientrerebbe benissimo nella mentalità neroniana, che era abbastanza teatrale. Dobbiamo però stare attenti. Cosa intendere per artista? Un creatore di nuovi concetti, un demiurgo riformatore del mondo, oppure un attore, un teatrante, un miserabile guitto? Ignoramus. Vediamo inoltre che il problema non è soltanto il termine artifex. Anche un semplice qualis prensenta difficoltà. Ho letto che Vittorio Sermonti, uomo di cui ho la massima stima, discuteva con Cesare Garboli all'epoca degli studi universitari, a proposito di cosa intendere per artifex e dell'accezione da dare a questo pronome qualis. "Quale artista" o "Come un artista" esprimono due concetti diversi, che tuttavia in latino erano indistinguibili, a meno di non usare un mezzo espressivo diverso da qualis. Riporto il link all'articolo di Cesare Garboli, Ma un imperatore muore come un artista o come un attore?, apparso nel lontano 2003 su Repubblica. Ne raccomando vivamente la lettura.   

 
Sermonti, Garboli avevano enunciato l'idea che artifex dovesse essere tradotto con "attore" indipendentemente dal filologo Raffaele Cantarella, che nel 1931 scrisse un contributo sull'argomento, in cui sosteneva la stessa tesi, Le ultime parole di Nerone morente, apparso su Mondo classico, I, pagg. 53-58. In questo suo intervento, specificava che "il τεχνίτης o l'artifex non è l'artista, ma è l'auleta o il vasaio o il fabbro o il barbiere o magari il carnefice". Fu da lui scelta l'interpretazione di "attore" per via delle notorie velleità artistiche di Nerone. Ecco un estratto dell'articolo di Garboli, che a un certo punto era arrivato a intendere "attore" nel modo più negativo possibile: 
 
"I diversi punti di vista si combattono ancora con grande vigore. E chissà che un giorno, tempo e salute permettendo, non proseguano con Sermonti (ma con il Forcellini sottomano), le nostre lontane conversazioni. In una recente, breve telefonica è saltata fuori, ineluttabile, un'altra lettura tanto fantastica e improbabile quanto suggestiva per la sua attualità: "Muoio come un buffone, come un povero guitto"."
 
E ancora: 
 
"Allora le parole di Nerone sembreranno riassumere in un solo enunciato tristemente rivelatore la vanità e insieme la tragica commedia della sua vita, unificando il suo delirio d’imperatore e la sua vocazione d'istrione. Mi piaceva che quelle parole si formassero come un soprassalto riflessivo, uno di quei pensieri che nascono lì per lì, una meditazione sul proprio stato fanciullesca, querula, ma non per questo meno lucida."
 
Una nuova interpretazione 
 
Grazia Sommariva (Università di Tuscia - Viterbo) è l'autrice dello studio "Morire come un artifex". Ancora sulle ultime parole di Nerone presso Svetonio (Nero 49), Amicitiae munus. Miscellanea di studi in memoria di Paola Sgrilli, La Spezia 2006, pagg. 221-239 (2006). In quest'opera si menzionano Sermonti, Garboli e il suo articolo del 2003. Ecco il link allo studio, liberamente consultabile: 


Una nuova interpretazione della frase del Divo Nerone vi è enunciata e sta prendendo piede nel mondo accademico. "Qualis artifex pereo" significherebbe "Muoio come un artigiano", ossia "Muoio come un operaio" (glossa inglese: craftsman, artisan). Né artista, né attore, dunque, ma umile produttore e plasmatore professionale di materia, puro meccanico. Il concetto espresso sarebbe dunque questo: "Sono condannato a morire come un semplice artigiano", ovvero "Sono condannato a morire in condizioni indegne di un imperatore" Sarebbe un triste modo per sottolineare lo squallore di una morte considerata non all'altezza della propria vita. Dal punto di vista semantico e grammaticale, questa traduzione pare ineccepibile. Non presenta alcun elemento interno che ne rimarchi l'incoerenza. Ecco un riassunto degli elementi che ci servono, che possono essere verificati da chiunque sul Dizionario Latino Olivetti:
 
 
artifex, gen. artificis 
scansione metrica: ar-tĭ-fex, ar-tĭ-fĭ-cis
 
1) artefice, artista, artigiano 
2) esperto 
3) creatore, autore 
4) furfante, maestro in intrighi  
 
Può anche essere usato come aggettivo nel senso di "abile, capace, da artista", anche se il Dizionario Latino Olivetti non riporta questa accezione in modo esplicito tra i significati.  

Nello Wiktionary in inglese abbiamo menzione dell'uso aggettivale. Ecco le defnizioni: 
 

Noun

artifex m or f (genitive artificis); third declension

  1. artist, actor
  2. craftsman, master (of a craft)
     Synonyms: opifex, faber
  3. mastermind, schemer
 
Adjective

artifex (genitive artificis); third-declension one-termination adjective

   1. skilled, artistic
   2. expert
   3. artful, cunning
   4. creative

Ecco alcune locuzioni interessanti: 
 
artifex aerārius "bronzista" 
artifex dicendī "maestro nell'arte del dire" 
artifex lignārius "carpentiere" 
artifex lignōrum "carpentiere"
artifex morbī "medico, dottore" 
artifex mōtus "movimento fatto con arte" 
artifex plombārius (plumbārius) "idraulico" 
artifex sceleris "l'autore di un delitto" 
artifex scelestus "orditore di inganni"
artifex scēnicus (scaenicus) "commediante, attore"
artifex signārius "scultore" 
artifex stilus "abile penna", "penna da artista" 
artificēs argentāriī "artigiani che lavorano l'argento" 
artificēs manūs "mani abili"
artificēs lapidum "muratori" 
artificis scelus "orditore di inganni"
claustrārius artifex "fabbro ferraio" 
 
Come si vede, nelle locuzioni artifex mōtus, artifex stilus e artificēs manūs troviamo la parola artifex usata come se fosse un aggettivo. Questo fatto è a mio avviso abbastanza notevole. Purtroppo gli insegnanti di latino nelle scuole raramente scendono in dettagli tanto sottili. 
La Sommariva segnala la contraddizione tra lo stato d'animo prostrato in cui Nerone pronunciò la frase e l'esplicita idea megaolomane secondo cui la morte avrebbe impoverito il mondo privandolo di un artista geniale. Questa contraddizione è sorprendente solo per chi non conosce persone bipolari. Conoscendone diverse, non ravviso alcuna reale incongruenza. La studiosa afferma altresì che l'interpretazione di artifex come "artista geniale" o come "attore" sarebbe in contraddizione con le misere esequie che l'Imperatore stava organizzando per sé. Un artista di genio o un buon attore avrebbero avuto funerali molto più lussuosi. Tuttavia sembra sfuggire un piccolo ma significativo dettaglio. Nerone era un artista geniale braccato, un attore braccato, che i rivoluzionari volevano uccidere in modo atroce. Un uomo braccato e condannato a una morte terribile, per quanto nobile sia il suo rango, non può certo sperare che gli saranno tributati funerali lussuosi. 

L'assillo dell'indeterminazione 
 
In sostanza, cosa ha detto Nerone? Svetonio avrà compreso quello che Nerone intendeva realmente dire o lo ha riportato fraintendendolo? Traduzioni come "Quale artista perde il mondo", "Muoio come un artista" o "Muoio come un attore" esprimono concetti drasticamente contrastanti con quello veicolato dalla traduzione "Muoio come un artigiano". Come faceva un antico romano a capire la differenza tra queste possibilità? È una strada in salita. Dovremmo scandagliare l'intera letteratura antica in latino e verificare con cura ogni singola ricorrenza della parola artifex, per stabilire se il concetto di "artigiano" (anziché di "artista" o di "attore") fosse almeno in certe condizioni oggetto di disprezzo. Per quanto circostanziati siano gli argomeniti della Sommariva, non mi sembra una cosa plausibile. Ho quasi l'impressione che la traduzione "Muoio come un artigiano" sia frutto di un intervento decostruzionista. Se così fosse, costituirebbe un pacchetto memetico di informazioni distorte, concepito e diffuso ad arte nella Noosfera col preciso compito di creare confusione e di affermare l'assoluta inconoscibilità di ogni cosa. Il punto è che non posso in alcun modo dimostrare, allo stato attuale delle mie conoscenze, che si tratti di un pacchetto memetico di questo genere. Potrebbe invece essere una sfida meritoria a posizioni consolidate ma fragili. Anche le ultime parole pronunciate dal Divo morente, "Haec est fides", dovrebbero essere oggetto di discussione. In genere si traduce "Questa sì è fedeltà", eppure la Sommariva intende "È questa la (tua) fedeltà?", forte di quanto riportato appena prima: in auxilium se venisse simulanti. Il militare che soccorse Nerone stava soltanto fingendo di prestargli aiuto. Anche in questo caso si tratta di interpretazioni diametralmente opposte! Persino chi fu testimone oculare della morte di Nerone potrebbe non aver capito cosa il moribondo intendesse davvero dire! Forse dovremmo concludere che non riusciremo mai a penetrare nel densissimo muro dell'Oblio e del rumore di fondo. Ignoramus et ignorabimus

lunedì 24 maggio 2021

ETIMOLOGIA DI TARTINA E SUA ORIGINE GALLICA

La parola tartina deriva dal francese tartine, che è un diminutivo di tarte "torta salata; torta ripiena di crema o di confettura" (antico francese tarte). In altre parole, si tratta di un francesismo assimilato. I romanisti, nella loro ciclopica e supponente ignoranza, hanno pensato di ricondurre la parola francese tarte a una semplice variante di tourte "torta (dolce)", senza tenere in benché minimo conto l'impossibilità di una tale derivazione, già soltanto per motivi fonetici: non se ne riesce a  spiegare il vocalismo. L'idea che tarte sia la stessa identica cosa di tourte è molto diffusa, anche se non ha la benché minima speranza di essere vera. Quando mai in francese si è vista una vocale tonica posteriore come -ou- /u/ diventare -a- /a/? Se si domanda a chi sostiene questa implausibile mutazione quali ne sarebbero mai i motivi, non è in grado di rispondere. In effetti, in letteratura non si trova nulla di sensato su questo argomento. Errano certamente coloro che citano il francese car "perché?" come esito anomalo del latino cūr "perché?" (antico qūr, quūr, quōr), dato che questo car è il semplice e regolare prodotto del latino quārē (scritto anche quā rē) "come, perché", alla lettera "per la qual cosa". 
 
Un elemento di sostrato 

Per dare una spiegazione alla parola tarte è necessario comprendere che la sua derivazione è dal sostrato gallico. Non si tratta di un termine latino, essendo giunto dalla lingua celtica che fu parlata a lungo nelle Gallie, anche in seguito alla conquista ad opera di Roma. 
 
Protoforma celtica: *tartus "secchezza, siccità; sete".
Antico irlandese: tart "secchezza, siccità; sete" 
  Irlandese moderno: tart "secchezza, siccità; sete" 

A partire dai dati storici è ricostruibile anche un aggettivo derivato. 

Protoforma celtica: *tartu-māros "assetato, che fa venir sete"
Antico irlandese: tartṁar "assetato, che fa venir sete"
  Irlandese moderno: tartmhar "assetato, che fa venir sete" 

Nelle lingue discendenti dal britannico questa radice si è estinta: è scomparsa prima della comparsa dei più antichi documenti letterari. Si sono avuti prestiti evidenti dal latino siccus e siccitās, forse per motivi tabuistici. È perfettamente confermata la pronuncia del latino -c- come consonante occlusiva velare /k/ anche davanti a vocali anteriori per l'epoca in cui avvenne il prestito. 

Britannico: *sikkus "secco" < lat. siccus "secco"
   Gallese sych "secco" 
Britannico: *sikkitās "sete" < lat. siccitās "secchezza"
   Gallese syched "sete"

Nella lingua della Gallia Celtica dovette essersi conservata la stessa forma presente in antico irlandese. Possiamo in ogni caso ricostruire la situazione. 
 
Protoforma celtica: *tartus "secchezza, siccità; sete" 
Gallico: *tartus "secchezza, siccità; sete";  
   *tartos "secco, che fa venir sete; salato" 
       femminile: *tartā
       neutro: *tarton
   *tartā "cibo che fa venir sete; torta salata; torta molto dolce"  

Credo che questa mia ricostruzione sia ineccepibile dal punto di vista morfologio e formale. Senza dubbio può spiegare ogni cosa. Credo che sia qualcosa di originale, dato che non se ho trovato traccia alcuna nella letteratura scientifica. Dovrebbe quindi essere citata così: (Moretti, 2021). 
 
La radice protoceltica *tartus "secchezza, siccità; sete" proviene direttamente dal proto-indoeuropeo *tṛstus "secchezza, aridità", derivato dalla radice *ters- / *tors- / *tṛs- "secco, essere secco". Nelle lingue celtiche compare anche in altri derivati notevoli, con diverso vocalismo: 
 
Protoforma celtica: *tīros "terra arida" (< *tēros),
     genitivo *tīresos (< *tēresos)
Antico irlandese: tír "terra; paese, territorio, suolo" 
  Irlandese moderno: tír "terra; paese, territorio" 
  Gaelico di Scozia: tìr "terra; paese, territorio" 
  Manx: çheer "terra; paese, territorio"
Britannico: *tīros "terra" 
  Gallese: tir "terra" 
  Cornico: tir "terra" 
  Bretone: tir "terra"  
 
Protoforma celtica: *tīresmis "secco, arido"
Antico irlandese: tírimm, tirimm "secco" 
  Irlandese moderno: tirim "secco"

Protoforma celtica: *torrus "secco" (< *torsus)
Antico irlandese: tur "secco"
  Irlandese moderno: tur "secco" (detto di cibo)   
 
Protoforma celtica: *terkos "misero" (< *terskos)
Antico irlandese: terc "poco, scarso" 
  Irlandese moderno: tearc "poco, scarso"
Gallico: *terkos "miserabile" 
    Elementi di sostrato: 
    => Italiano: tirchio "miserabile, avaro" (antico terchio)  
    => Bearnese: terc "crudele" 
Celtiberico: *terkos "duro, rigido" 
   Elementi di sostrato:
    => Spagnolo: terco "testardo" 
    => Catalano: enterch "rigido"  
Ci occuperemo meglio di questi resti del sostrato in un successivo intervento.
    
In latino la radice indoeuropea in questione è stata ereditata da alcune importanti parole, subendo il passaggio regolare da -rs- a -rr- davanti a vocale e da -rst- a -st-
 
terra "terra" (< *tersa
terrestris "terrestre" (< *terestris; -rr- è per analogia) 
tesquum, tescum "deserto, terra desolata" (< *terskwom)
torrēre "seccare" 
   presente indicativo: torreo "io secco" (< *torsēio), 
       torrēs "tu secchi", torret "egli secca" 
   perfetto indicativo: torruī "io seccai" 
   participio presente: torrēns "che secca", 
       gen. torrentis 
   participio perfetto: tostus "seccato" (< *torstos)
   supino: tostum "per seccare" (< *torstum) (1) 
torridus "arido, seccato" 
torris "tizzone ardente" 
torrus "tizzone ardente" 
 
(1) Il supino deriva da un accusativo sclerotizzato di un tema in -u- (IV declinazione).
 
La stessa radice indoeuropea è stata ereditata dal protogermanico, essendo ben rappresentata in tutte le lingue discendenti. Ecco le principali protoforme ricostruibili:
  *þersanan "essiccare, rendere secco"
  *þurstiz "secchezza; sete" 
  *þurstuz "secchezza; sete"
  *þurzǣnan / *þurzōnan "essere secco" 
  *þurzijanan "essere secco; essere assetato" 
  *þurznanan "diventare secco; appassire"
  *þurzuz "secco" 
  *þurskaz "merluzzo" (lett. "pesce essiccato")
Queste sono le forme attestate in gotico: 
   afþaursjan /af'θɔrsjan/ "essere assetato" 
   gaþairsan /ga'θεrsan/ "seccarsi, essiccarsi" 
   gaþaursnan "diventare secco; appassire"
   þaursjan "assetare; essere assetato"
   þaursus /'θɔrsus/ "secco" 
Queste sono le forme attestate in norreno: 
   þerra "rendere secco, essiccare" 
   þorna "diventare secco, seccarsi" 
   þorskr "merluzzo" 
   þorsti "sete"  
   þurka "diventare secco, seccarsi"
   þurr "secco" 
   þyrstr "assetato, che ha sete" 

Si potrebbe andare avanti a lungo, ma credo che esuli dagli scopi di questo contributo.

La torta salata e la prostituta 
 
In inglese esiste tart "tipo di pasticcio contenente gelatina o conserva", "tipo di torta ripiena di frutta o crema" (medio inglese tart, tarte), un chiaro prestito dall'antico francese tarte. In Albione questo termine ha subìto uno slittamento semantico notevole, giungendo a significare "prostituta" - significato attestato per la prima volta nel 1887 (fonte: Etymonline.com). Esistono attestazioni di questa parola col senso di "donna attraente" dagli inizi del XIX secolo, anche nella forma jam-tart. Non è difficile passare da "torta appetitosa" a "donna attraente". Credo che Berlusconi capirebbe alla perfezione ciò che dico. La statua di Molly Malone a Dublino è soprannominata "the tart with a cart", ossia "la prostituta con un carretto". Questo perché la famosissima pescivendola dai capelli fulvi esercitava il mestiere più antico del mondo. Dopo aver passato il giorno a vendere pesce, di notte faceva uscire lo sperma ai clienti. 
Si segnala una falsa etimologia dell'inglese tart "prostituta" da una contrazione di sweetheart "tesoro" (termine di apprezzamento). Questa proposta grottesca dovrebbe essere vista con sospetto da tutti: presenta le tipiche caratteristiche di un'etimologia popolare. La parola sweetheart ha l'accento sulla prima sillaba, non sulla seconda: in Inghilterra è /ˈswiːtˌhɑːt/; negli States è /ˈswitˌhɑɹt/, realizzato come [ˈswiɾhɑɹt̠] o addirittura [ˈswiɾɑɹt̠], col tipico rotacismo. È verosimile che l'accento fosse sul primo elemento del composto anche in passato, cosa che rende il mutamento assai implausibile. Se tart fosse un'abbreviazione di sweetheart, permarrebbe con ogni probabilità qualche traccia del suo antico; vediamo invece che in nessun caso tart e sweetheart sono usati come sinonimi. Inoltre sweetheart può essere usato per rivolgersi anche a persone di sesso maschile (nel qual caso può anche significare "innamorato", "spasimante") e persino ad animali di affezione come cani e gatti. Anche lo slittamento semantico sarebbe quindi problematico.    
Non esiste connessione tra tart "prostituta" e l'omofono tart "aspro, acido", che deriva invece dall'antico inglese teart "doloroso, severo" (detto ad esempio di punizione; è dal proto-indoeuropeo *der- "spaccare"). Si tratta ovviamente di una somiglianza fortuita. 
 
Alcune note sull'etimologia di torta      
 
Esiste un singolare problema fonologico che si trascina da epoca antica e che riguarda la parola torta. Si suppone che il latino tardo ed ecclesiastico tōrta "torta, focaccia", la cui vocale lunga è ricostruibile dagli esiti romanzi, sia un derivato del verbo torquēre "torcere": avrebbe forse tratto il suo nome dalla forma originaria della preparazione gastronomica. Molto diffusa è l'idea che sia una semplice ellissi della locuzione torta pānis, tradotta con "pane attorcigliato" - dimenticando che in latino pānis "pane" è di genere maschile. La traduzione è erronea, dato che tōrta pānis può significare soltanto "torta di pane" (con pānis al genitivo), il che è di scarso aiuto. La prima attestazione della parola è nelle Tavolette di Vindolanda (I-II secolo d.C.), in cui compare come turta, cosa che complica non poco le cose. Riporto informazioni sulla coniugazione del verbo torquēre, da cui è derivato l'italiano torcere con cambio di coniugazione, semplificazione della labiovelare e palatalizzazione: 
 
torquēre "torcere" 
    presente indicativo: torqueo "io torco", 
        torquēs "tu torci", torquet "egli torce" 
    perfetto indicativo: torsī "io torsi"
    participio presente: torquēns "che torce", 
        gen. torquentis 
    participio perfetto: tortus "tòrto" (< *torktos
    supino: tortum "per torcere" (< *torktum
    participio futuro: tortūrus "che torcerà"
 
Derivati: 

torculāris "relativo al torchio"
torculum "torchio, frantoio, pressa"
torculus "usato per la torchiatura"
tormentum "fune, corda; tormento, supplizio"
tormina (pl. n.) "coliche, dolori intestinali" 
torminālis "anticolico, che serve a calmare le coliche"
torminōsus "sofferente di coliche" 
torquēs (gen. torquis) "collana, monile" 
torquis (gen. torquis) "collana, monile" 
torsiō (gen. torsiōnis) "spasmo, colica"
tortilis "ritorto, attorcigliato, ricurvo" 
tortiō (gen. tortiōnis) "l'atto di torcere"
tortīvus "ottenuto da torchiatura"  
tortāre "torturare, martirizzare, seviziare" 
   presente indicativo: torto "io torturo", 
        tortās "tu torturi", tortat "egli tortura"  
   participio presente: tortāns "che tortura"  
tortum "corda usata come strumento di tortura"
tortuōsus "tortuoso, sinuoso"
tortūra "tormento, supplizio; l'atto di torcere"
tortus "attorcigliato" 
tortus (gen. tortūs, IV decl.) "voluta; spira di serpente" 
 
In tutti questi casi i gruppi consonantici complessi del latino arcaico si sono semplificati senza provocare allungamento di compenso della vocale -o- precedente. La vocale -o- è sempre breve. Esempi: 
 
torculum "torchio" < *torklom 
tormentum "supplizio" < *torkmentom 
tormina "coliche" < *torkmena 
tortāns "che tortura" < *torktāients 
torto "io torturo" < *torktāio  
tortum "strumento di tortura" < *torktom
tortus "attorcigliato" < *torktos 
tortus "voluta" < *torktus   

Invece in tōrta "torta, focaccia" si è avuta invece la semplificazione del gruppo consonantico con l'allungamento di compenso della vocale -o- precedente: 

tōrta "torta, focaccia" < *torkta 

Perché questa diversità? Le spiegazioni possibili sono due: 

1) Il nome della torta è il prodotto di una tradizione diversa rispetto a tutte le altre forme derivate dal verbo torquēre
2) Il nome della torta non è un derivato del verbo torquēre: si tratta di un'etimologia popolare. 

Sono incline a credere che la spiegazione 2) sia quella giusta, ma ho ancora prove decisive. Si comprende alla luce di questi fatti che la questione non è affatto banale.
 
La situazione problematica la si vede in diverse lingue neolatine. In italiano il sostantivo torta ['torta] (con la vocale tonica chiusa) deriva regolarmente dal latino tōrta /'to:rta/ (con la vocale tonica lunga) e contrasta col participio passato del verbo torcere, che è tòrto ['tɔrto], femminile tòrta ['tɔrta] (con la vocale tonica aperta).  
In altre parole, esiste un'oppposizione fonetica minima:
 
torta /'torta/ (dolciume) - tòrta /'tɔrta/ (che ha subìto torsione)

Anche in francese l'esito regolare del latino tōrta /'to:rta/, che è tourte, riflette l'antico stato di cose. 
 
Richiamo l'attenzione dell'Accademia della Crusca su questi dettagli, anche se so in pratenza che il mio appello non sarà raccolto.