sabato 8 novembre 2014

PRECISAZIONI E DUBBI SULL'ETIMOLOGIA DI MONZA

Questo ha scritto l'amico Watt sul suo blog Etymos, purtroppo scomparso assieme a Splinder:

Monza - La tradizione vuole che sia stata fondata da Teodolinda, la quale, avuta a Pavia la visione di una colomba che le comandò di fabbricare una chiesa nel luogo che essa le avrebbe indicato, in tre successivi luoghi, fra cui Milano e Sesto, si vide apparire la colomba che la indusse a proseguire, dicendole tre volte "etiam!" 'ancora!'. Giunta nel luogo ove poi sorse Monza, la colomba disse "modo", cioè 'ora sì'. La leggenda, illustrata nei dipinti della cappella di Teodolinda a Monza, offre anche un'interpretazione del toponimo che, tra le forme storiche, presenta anche la variante "Modoctia"*. Non è questa l'unica congettura proposta in passato dagli eruditi. Si può ricordare anche un accostamento a monte, al latino modica (curtis), e in particolare al toponimo tedesco Magonza, l'antica Maguntia; di ritorno da questo luogo, i legionari romani, al seguito di Druso, avrebbero fondato Monza sul sito di Modicia (una delle forme medievali di Monza), centro che sarebbe appartenuto ai Galli. Il nome della città è documentato dall'anno 768, poi 892 ecc. come Modicia, Moedicia, Moeditia, Moicia. Verosimilmente, la forma base dev'essere Modicia, con l'accento sulla prima sillaba, poi *Mo(d)cia, con successiva epentesi di n, mentre Modoetia, Modoecia sono rifacimenti eruditi. Quanto a Modicia, si tratta, molto probabilmente, di un personale latino Modicia. D'accordo per la vera etimologia; ma quanto è più bella, la leggenda! Tornerò presto, insieme al porco semilanuto!

* Verosimilmente un refuso per Modoetia.

Partendo da un mio stringato intervento dell'epoca, faccio qualche precisazione sull'origine di Monza. Le varianti Modicia, Moedicia, Moeditia, Modoetia sono tali da suggerire che l'etimo della parola non sia da un nome personale latino. Questo escamotage così caro agli studiosi di toponomastica va di certo ridimensionato. Anche la posizione dell'accento sulla prima sillaba confuta l'origine latina.

Ci è nota un'iscrizione frammentaria di epoca romana che fornisce una prova dell'antichità del toponimo, attestando che gli abitanti di Modicia erano chiamati Modiciates. Il testo è HERCVLI MODICIATES IOVENII, chiaramente una dedica ad Ercole da parte di membri della gioventù di Monza, scritta in un latino grossolano (notare Iovenii per Iuvenes). La formazione in -ates è tipica di molti nomi etnici celtici e preceltici: il suffisso si trova documentato in etnonimi dei Liguri (Genuates, Deciates, Ilvates), dei popoli alpini (Focunates, Nantuates, Catenates, Rucinates), di popoli italici (Arpinates, Capenates) e degli Etruschi (Felsinates, etc.). Modiciates elimina chiaramente l'ipotesi della Modica Curtis, così come l'accostamento a Maguntia. Chi ha prodotto tali proposte etimologice ignorava evidentemente non soltanto le testimonianze dell'epigrafia, ma anche l'opera dello storico longobardo Paolo Diacono, che cita espressamente Monza come Modicia

A proposito della leggenda di Teodolinda relativa alla fondazione di Monza, qualcuno ha tentato una manipolazione simile per Venezia, interpretata assurdamente come "veni etiam"! Racconti di questo genere sono risibili e sconcertanti, ma non bisogna stupirsi più di tanto, vista l'epoca in cui sono stati prodotti. La totale mancanza di nozioni linguistiche elementari e di metodo era la norma persino tra gli eruditi, che in non pochi casi piegavano l'evidenza all'ideologia. Sorvoliamo sul fatto la colomba avrebbe dovuto parlare in longobardo a Teodolinda - progenie di nobilissimi Letingi e di Bavari - e che non è detto che la sovrana avesse una qualche nozione della lingua latina. Se la storiella fosse vera, il nome sarebbe stato composto come un improbabile *Etiammodo, riportando la narrazione che prima la colomba avrebbe detto "etiam" per incitare la Regina dei Longobardi, e solo alla fine "modo" (un po' come un gioco infantile del tipo "acqua", "fuochino" e "fuoco"). Mi è capitato di leggere un'altra favola meritevole di irrisione e di scherno in un libro di racconti scritti in dialetto brianzolo: la fondazione di Monza era sempre attribuita a Teodolinda, ma non si faceva menzione della colomba. Nell'atto della consacrazione, il vescovo avrebbe detto "modo", e la Regina avrebbe risposto "etiam"

A questo punto non resta che cercare di capire da quale radice il toponimo Modicia e l'etnonimo Modiciates possano essere derivati. Il nome dello stanziamento potrebbe essere derivato da quello di una divinità femminile, a sua volta formato dall'indoeuropeo *med- / *mod- "misurare", che in ultima istanza si ritrova anche nel latino modus. Tuttavia non si può nascondere che gli esiti romanzi fanno piuttosto ricostruire una vocale lunga: la pronuncia originale sarà stata /'mo:dikia/. Anche le varianti col dittongo in prima sillaba (Moedicia, Moeditia) creano non pochi problemi. Pur con tutte le incertezze del caso, si potrebbe pensare al celtico *moudo- "nobile, buono", da cui deriva l'irlandese muadh

giovedì 6 novembre 2014

SEXUS E SECUS NON VENGONO DA SECARE

La più nota etimologia della parola latina sexus "sesso" (gen. sexus, IV decl.) è quella che la riconnette al verbo seco, secas, secavi, sectum, secare "tagliare, dividere", dalla radice indoeuropea *sek-. Questo perché il termine farebbe riferimento al genere, ossia alla differenza tra maschio e femmina. Così è postulato uno slittamento semantico da "taglio", "recisione" a "distinzione" e quindi a "genere, sesso". A mio avviso si tratta di un'etimologia popolare o falsa etimologia. 

Innanzitutto, la forma più antica della parola sexus è secus, che è indeclinabile. Un fatto abbastanza inconsueto. Si nota poi che da secare deriva il supino sectum, non *sexum. Tramite quale processo di derivazione sarebbe stata prodotta una forma con sibilante che non ha altre rispondenze? Appurate queste cose, sexus e secus sembrano prestiti da un'altra lingua, che dobbiamo identificare. Spiegare Omero servendosi di Omero non fa compiere un solo passo avanti in casi come questo.  

Quando una parola latina non ha connessioni attendibili con altre lingue indoeuropee, si può cercare un'origine nella lingua etrusca: i Rasna erano un popolo potente e stanziato in aree finitime a quelle dei Latini, e grande era in epoca antica la loro influenza su Roma. 

In etrusco esiste il gentilizio Secu (1), che potrebbe essere formato a partire dalla fonte del prestito. Questa radice etrusca *secu- potrebbe anche essere l'origine del problematico avverbio latino secussecius, sequius "male, non bene", che tra i suoi significati annovera anche quello di "altrimenti, diversamente, al contrario"

(1) Attestato ad es. in CIE 317 e CIE 318. Genitivo Secu-ś (CIE 319); femm. Secu-i (CIE 320). Sono noti anche derivati come Secu-n-ia (CIE 2916) e Secu-ne (CIE 1479)

In latino esiste una forma secius /se:kius/ con vocale lunga, sempre col senso di "altrimenti, diversamente". Ora, non mi pare plausibile ricondurre una simile alternanza tra vocale breve e lunga a una formazione ereditata. L'alternanza tra /sek(i)us/ e /se:kius/ deve avere la sua origine nella lingua da cui queste parole sono state prese a prestito. Generalmente si crede che la terminazione -ius in questi avverbi fosse in origine un comparativo, ma questo non è affatto provato. 

Altra forma con vocale lunga è setius /se:tius/. Questa variante non può essere semplicemente derivata da secius /se:kius/ quando le occlusive t e c seguite da -i- semiconsonante si sono confuse, perché è usata già da Virgilio. Ci viene in aiuto Plauto, che oltre a setius e a secius usa anche sectius. Evidentemente la forma di partenza è proprio sectius /se:ktius/. Anche questa fluttuazione appartiene alla lingua d'origine del prestito. 

Si è molto discusso sulla presenza in etrusco di una quantità vocalica contrastiva in posizione tonica. Quello che è certo è che vocali lunghe possono derivare da contrazione di dittonghi: una /e:/ lunga e chiusa, virante a /i:/ si è prodotta dal dittongo /ei/, a sua volta da /ai/. Non poche parole etrusche sono passate in latino con una vocale tonica lunga: ho il sospetto che i Romani tendessero a udire una vocale tonica etrusca come lunga e come tale la adattassero in numerose occasioni. Così /sek(w)ius//se:ktius/ sono stati formati dalla stessa radice, mutuata in occasioni diverse. 

Queste sono le forme etrusche ricostruite: 

*secu-
*secu-s-
*secu-ie-
*sec-ie-
*sec-t-ie-
*seχ-t-ie-
*seh-t-ie- 

Il significato originario di etrusco *secu- sarebbe quello di "altro, opposto, distinto", donde sarebbe derivato il gentilizio Secu, e quindi questa radice sarebbe passata in latino dando origine a secus "male; altrimenti" (e varianti), a secus "sesso, genere" e a sexus "sesso, genere". La semantica è abbastanza cristallina: "diverso" > "avverso" > "non buono" 

sabato 1 novembre 2014

UNO SPROPOSITO DI RINO CAMMILLERI SULL'ORIGINE DEI ROM

Rino Cammilleri ha scritto un'enormità: "Ma i bizantini chiamavano se stessi romàioi, cioè "romani", e rum (ancora "romani") gli islamici chiamavano gli occidentali (tracce ne troviamo anche oggi nella "Romania" e negli zingari rom)." 

Questa frase è stata reperita in rete: 


Quando l'ho letta non volevo crederci, tanto marchiano è un simile errore. A quanto pare Cammilleri non è a conoscenza di qualcosa che la Scienza ha appurato dalla fine del XVIII secolo, ossia l'origine indiana dei popoli conosciuti come "Zingari"

Il termine rom /rrom/, che significa "uomo" o "marito" (riferito solo a individui della stirpe), non deriva affatto dal nome della città di Roma come Cammilleri pretende, ma è un'estrema evoluzione dell'antico nome ḍumba che in India indicava un uomo della la classe dei musici. L'origine ultima di questo vocabolo non è conosciuta e sono state fatte diverse ipotesi, che non sembrano soddisfacenti. Secondo alcuni avrebbe un'origine onomatopeica richiamante il suono degli strumenti dei musicanti (sanscrito ḍamara-, ḍamaru- "tamburo"). In ultima analisi questa radice apparterrebbe a un sostrato del ceppo Dravida o di quello Munda, che doveva costituire la favella originaria di quelle genti nella loro patria ancestrale, prima dell'adozione di un idioma chiaramente indoario, dello stesso ceppo del sanscrito. Ancora oggi in India esistono intoccabili chiamati Ḍum, Ḍom o Ḍombari, e in diversi dialetti di popolazioni indoarie itineranti del Medio Oriente anziché rom si dice lom o dom, a riprova dell'etimologia riportata. 

La rotica presente nella radice /rrom-/ è forte in molte varietà della lingua, in altre è invece retroflessa o addirittura uvulare. Le parole con questa consonante hanno un suono retroflesso in sanscrito. Alcuni vorrebbero che questa consonante fosse trascritta sempre con rr e che si scrivesse così rrom anziché rom.  Il sig. Saimir Mile fa notare questo, riportando tra l'altro l'esempio di rani "signora" (la parola si usa tuttora in India col senso di "regina") che contrasta con rrani "ramo" (1). Il fatto che la rotica /r/ corrisponda in sanscrito a /r/ e che rom abbia invece /rr/ confuta quindi l'idea di coloro che cercano di connettere i Rom con il dio indiano Rama


(1) Essendo questo suono estraneo alla lingua italiana in posizione iniziale (e problematico in molte altre lingue), per semplicità non lo trascriverò con la consonante doppia, e ritengo eccessivo pretendere che lo si debba pronunciare tale quando la parola rom è usata in italiano. I prestiti vengono infatti adattati. Inoltre non in tutte le lingue di questo ceppo è pronunciano tale, ed esistono anche varianti che non distinguono le due rotiche.  

Il plurale di rom è romá (roma), il femminile è romní. L'aggettivo derivato è romanó (m.), romaní (f.), da cui deriva anche il nome della lingua, romani čhib. L'avverbio è romanes. La frase "džanes romanes?" significa "parli la lingua romaní?" (alla lettera "parli alla maniera romaní?"). L'aggettivo romaní indica tutte le genti del gruppo, e deve essere distinto dall'etnonimo da noi trascritto Rom (in altri paesi Roma), che indica una ben precisa etnia all'interno di questo raggruppamento. Il concetto è semplice: si chiamano Rom (Roma) quelli che usano la semplice radice in questione come endoetnico, mentre altri gruppi la usano come nome comune avendo però endoetnici diversi: Sinti, Kalé, Manush, Romanichal, Romanisæl. Tutti i gruppi sono consapevoli di parlare dialetti della stessa lingua, che chiamano romani čhib indipendentemente dall'endoetnico. 

Di fronte a queste evidenze, si capisce che la somiglianza fonetica tra l'etnonimo Rom e il toponimo Roma, è soltanto una mera coincidenza. Allo stesso modo non c'è relazione tra la parola rom e la Romania, per quanto nella loro deplorevole ignoranza i giornalisti abbiano ormai abituato l'opinione pubblica a considerare Rom sinonimo di Rumeni. Il fatto che in Romania i Rom siano numerosissimi non significa nulla: non sequitur

UN COMMENTO SULLA VITA DI SAN SENOCH

La breve Vita Sancti Senoch Abbatis di San Gregorio di Tours è una lettura deludente, avarissima di informazioni. Vi si tramanda il solo nome di Senoch e non si parla di nessun suo compagno della stessa etnia, né dei suoi genitori. Insomma, non è una fonte adatta allo studio dell'onomastica dei Taifali stanziati nel Poitou all'epoca dei Merovingi. Sapere qualcosa di più sul contesto d'origine di Senoch sarebbe a mio avviso infinitamente più importante dell'inutile descrizione delle sue quaresime e del rigore dei suoi costumi. Peccato che Gregorio di Tours avesse un punto di vista del tutto diverso da quello di un moderno studioso e che non si interessasse di questioni filologiche. 

L'assenza di una genealogia che aiuti a comprendere meglio il contesto è di certo deplorevole, ma dobbiamo trarne un'amara lezione: le fonti storiche non sono sufficienti ad assicurare un'approfondita conoscenza su molti argomenti. A differenza dei fossili, che mostrano la struttura mineralizzata di organismi da lungo tempo scomparsi, i documenti non ci tramandano le parlate vernacolari, non ci trasmettono un quadro vivo e palpitante della vita dell'epoca in cui sono stati scritti. Trovo necessario rivolgere un particolare biasimo a coloro che cadono nella fallacia logica, arrivando a credere che l'assenza di prove sia la prova dell'assenza. Costoro arrivano a ritenere che il latino ecclesiastico sia la sola lingua degna di considerazione, non pensano che i nomi delle persone debbano avere un'origine e non si pongono nemmeno la domanda più importante: "Come parlava la gente?" 

NON È COMPLOTTISMO, MA DURA REALTÀ

Ragionando sulle mie condizioni di salute, non posso fare a meno di giungere a conclusioni a dir poco inquietanti. Ebbene, secondo le nuove disposizioni, i diabetici non insulino-dipendenti ricevono le forniture di strisce e di aghi soltanto un mese sì e un mese no. Sono anch'io compreso nel novero. Il mio medico ha detto di non sapere il motivo di questo mutato stato di cose. Risulta da uno studio che in Italia sette diabetici su dieci non badano troppo alla dieta e ingeriscono spesso cibi e bevande in grado di arrecare danno alla salute. Sono anch'io affetto da una simile tendenza, e come me moltissimi altri. Alla luce di questi risultati, si capisce allora che le diminuite forniture di strisce hanno uno scopo ben preciso: spingere le persone affette da diabete II a curarsi sempre peggio, facendo loro sviluppare complicanze e infine causandone la morte. Il fine ultimo è questo: eliminare le persone che gravano sui servizi sanitari. Hanno iniziato con le persone affette da diabete II perché non sono tali dalla nascita (il genere la malattia compare verso i 40 anni). Così le ritengono responsabili della loro malattia a causa di "stili di vita non sostenibili". Il colmo dell'ironia è che tutto ciò sta avvenendo in una nazione che definisce il III Reich come "Incarnazione del Male" e che afferma di nutrire una profonda avversione per la parola "razzismo". Essendo il diabete II una malattia causata dai geni, si evince che queste politiche possono essere ritenute razziste in quanto volte allo sradicamento di quella parte della popolazione che ha una determinata caratteristica genetica. 

ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL CONCETTO DI MERITOCRAZIA

Un esempio di vero sistema meritocratico: la società degli Aztechi. Anche il figlio di un servo poteva arrivare a diventare Imperatore. Se il figlio di un Imperatore non si distingueva, scendeva nella scala sociale. Però si tenga conto che essere immolati a Huitzilopochtli per estirpazione del cuore era considerato un privilegio. Il motore di tutto era la convinzione che il moto del sole fosse causato dal sangue dei sacrifici umani. Le responsabilità erano onerose tanto più si saliva nella scala sociale: lo schiavo ubriaco veniva decalvato e messo alla gogna, il nobile ubriaco veniva ucciso usando una garrota dissimulata in una corona di fiori. Nelle scuole, chiamate calmecac e gestite dalla classe sacerdotale, il sistema educativo più diffuso consisteva nel torturare gli studenti negligenti con spine d'agave, schegge di ossidiana e peperoncino. Vorrei proprio sapere se qualche moderno teorico della meritocrazia vorrebbe vivere in una simile società, oppure se in giro per la rete si sentono soltanto chiacchiere. Le genti del mondo sembrano come scimmie: se si dice loro che una cosa si chiama "meritocrazia" la acclamano, se invece si chiama la stessa cosa "darwinismo sociale" si mettono ad inveire. 

domenica 26 ottobre 2014

IL MISTERIOSO POPOLO ANTROPOFAGO DEGLI ATTACOTTI

Lo storico Ammiano Marcellino (IV secolo d.C) ci parla degli Attacotti come di un popolo di grande bellicosità giunto in Britannia dall'Ibernia (l'attuale Irlanda), citandolo assieme agli Scoti, ai Picti e ai Sassoni: 

"Illud tamen sufficiet dici, quod eo tempore Picti in duas gentes divisi, Dicaledones et Vecturiones, itidemque Attacotti, bellicosa hominum natio, et Scotti per diversa vagantes, multa populabantur."
(Res Gestae, XXVII) 

Esiste poi la notevole testimonianza di San Girolamo, sempre del IV secolo, che ci narra di essersi imbattuto in alcuni Attacotti mentre si trovava a Treviri, nella Gallia Belgica. Nel suo trattato Adversus Iovinianum (Contro Gioviniano) egli descrive le abitudini alimentari di diversi popoli e include alcune considerazioni sulle costumanze selvagge degli Attacotti: cannibalismo e promiscuità sessuale.   

"Quid de reliquis loquar nationibus? Cum ipse adolescentulus in Gallia viderim Atticotos humanis vesci carnibus, et cum per sylvas porcorum greges et armentorum pecudumque reperiant, pastorum nates et foeminarum papillas abscindere, et has solas ciborum delitias arbitrari. Iidem Scoti quasi Platonis rempublicam sequentes, nullam propriam habent coniugem, sed pro libidine, inquit, more pecudum lasciviunt."
(Adversus Iovinianum, II, 7) 
 

"Perché dovrei parlare di altre nazioni quando io stesso da giovane, durante una visita nelle Gallie, ho visto che gli Atticoti, una tribù della Britannia, mangiano carne umana, e che anche se nelle foreste trovano greggi di porci e mandrie di bestiame bovino piccolo e grande, è loro abitudine tagliar via le natiche dei pastori e i seni delle loro donne, e ritenere queste come le migliori leccornie? Gli stessi Scoti, come seguaci della Repubblica di Platone, non hanno mogli proprie, ma come bestie folleggiano spinti dalla libidine."   

Poco oltre egli descrive un diverso popolo aduso a mangiare vermi grassi con la testa nerastra, e un altro che si nutriva di coccodrilli di terra e ramarri.  

Nella sua lettera LXIX (ad Oceano), lo stesso autore raccomanda un'attitudine responsabile verso il matrimonio, e a un certo punto torna a confrontar Scoti e Attacotti alle genti della Repubblica di Platone, che hanno in comune le mogli e non discriminano la loro prole, privi di qualsiasi parvenza di matrinomio. 

"Audiant Ethnici messes Ecclesiae, de quibus quotidie horrea nostra complentur: audiant catechumeni, qui sunt fidei candidati, ne uxores ducant ante baptisma, ne honesta iungant matrimonia, sed Scotorum et Atticotorum ritu ac de Republica Platonis promiscuas uxores, communes liberos habeant."   

Come spesso accade, esiste l'opinione politically correct di alcuni studiosi che tendono a negare la realtà di testimonianze non in linea con il pensiero moderno. A questo scopo essi fanno notare che gli scrittori dell'antichità spesso nelle loro opere attribuivano abitudini esotiche a popolazioni lontane. Così dicono ad esempio: "Strabone scrive in un passo che alcuni Sarmati e Siti erano cannibali, mentre altri non mangiavano alcun tipo di carne". Cercano quindi di convincere che questi non siano resoconti di una realtà di fatto, ma invenzioni. Tutto questo lo fanno per motivi ideologici: se si dovesse ammettere che esistevano popolazioni di antropofagi, sarebbero costretti a giungere a conclusioni negative sulla natura umana. Essendo questi farisei fautori del buonismo e avendo una visione politica delle cose, pensano che la realtà debba piegarsi all'ideologia. Sfortunatamente per i dementi del socio-culturale, sono state trovate prove archeologiche inoppugnabili che testimoniano la diffusione del cannibalismo nell'antica Britannia. Di questo si dovrà parlare in un'altra occasione. 

Cosa possiamo dire in concreto su questo popolo? Il nome degli Attacotti presenta diverse varianti, come Atecocti, Aticotti, Attecotti, Attcoetti, Attacoti, Atticotti, Atecutti e persino Arecotti. L'etimologia non è trasparente, al punto che si è pensato trattarsi di un popolo non indoeuropeo e pre-celtico della Caledonia. L'unica parola celtica che potrebbe avere a che fare con questo nome è *kotto- "vecchio", documentata in antroponimi celtici continentali come Cottus e sopravvissuta nel gallese coth "vecchio". Anche il nome del famoso re alpino Cozio (Cotius), trascrizione di un originale *Kotios, potrebbe risalire a questa radice. La parte iniziale dell'etnonimo Attacotti potrebbe corrispondere al prefisso celtico *ate-, che ha valore iterativo (traduce lat. re-) o intensivo, meno probabilmente alla radice *atta-, *attio- "padre adottivo"Ate-cotti verrebbe quindi da un teonimo significante "Molto Vecchio". Tuttavia la grande varietà di forme fa pensare piuttosto a una falsa etimologia, al tentativo di celtizzare qualcosa di incomprensibile. Resta poi il fatto che la radice celtica *kotto- non ha alcuna connessione attendibile in altre lingue indoeuropee.  

Probabilmente già nel XVII secolo, e di certo nei secoli XVIII e XIX, alcuni autori irlandesi, come ad esempio Charles O'Conor e John O'Donovan, hanno proposto che gli Attacotti fossero una popolazione originaria dell'Irlanda. Questa tesi si fondava sull'assonanza tra la forma latina Attacotti e il termine antico irlandese aithechthúatha, che designa alcuni gruppi di popolazione irlandese ed è tradotto come "tribù vassalle" o "genti tributarie". Nel contesto delle ben attestate scorrerie irlandesi lungo la costa occidentale della Britannia nel periodo del tardo Impero Romano, è stato suggerito che uno o più di questi gruppi tribali corrisponda ai razziatori descritti da Ammiano nel IV secolo. Alla tesi fu data risonanza quando lo storico Charles O'Conor la sostenne nel tardo XVIII secolo (1783). Tuttavia, tutto ciò rimase controverso tra gli studiosi fino al tardo XIX secolo. 

Più tardi gli studiosi hanno respinto questi argomenti criticando la possibile connessione tra l'etnonimo Attacotti e il vocabolo antico irlandese aithechthúatha sulla base dell'etimologia. I precedenti studiosi avevano fondato le loro ipotesi sull'antico irlandese conosciuto dai manoscritti medievali anziché sul proto-ibernico usato nel IV secolo quando gli Attacotti fecero la loro comparsa in Britannia. 

La conoscenza e la comprensione della storia dell'antico irlandese sono state rivoluzionate verso la fine del XIX secolo,  in gran parte grazie agli studi di Rudolf Thurneysen (1857–1940), che è considerato il padre della moderna disciplina della filologia celtica. Egli è arrivato alla conclusione che Attacottiaithechthúatha sono forme non correlate, dato che la protoforma irlandese di aithechthúatha sarebbe *atewia:ko-touta:s, che tra l'altro è un plurale di genere femminile. Questa è troppo lontana dall'aspetto dell'etnonimo Attacotti citato da Ammiano. Anche se recenti ricerche hanno mostrato che le popolazioni irlandesi coinvolte nelle scorrerie ai danni di insediamenti romani della Britannia possono davvero essere classificate tra le genti chiamate nei manoscritti medievali aithechthúatha, il problema di identificazione rimane. Alcune versioni di San Girolamo hanno "Scotos" al posto di "Atticotos" in Adversus Iovinianum, II, 7, tuttavia da questo fatto non si può trarre alcuna conclusione: la semplice assonanza tra aithechthúathaAttacotti è ingannevole e non dimostra nulla. Del resto anche gli Scoti (Scotti), sulla cui provenienza irlandese non sussistono dubbi, hanno un etnonimo che non può essere spiegato nell'ambito della tradizione gaelica. 

mercoledì 22 ottobre 2014

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: DIVUS E DEUS

Alcuni si ostinano a credere che Romolo e Remo tra le altre cose avessero la consonante /v/ nel loro latino arcaico. Costoro sono come quei registi di filmacci da quattro soldi che ritraevano i Romani del V secolo d.C. con un gonnellino da Orazio Coclite: il loro peccato è l'anacronismo. 

La -u- tra due vocali, scritta con la consonante distinta -v- dai moderni, in epoca classica doveva avere il suono /w/, che si è poi trasformato in bilabiale /β/ e quindi in /v/. Se per assurdo fosse esistito il suono /v/ ab aeterno, non si potrebbe spiegare come mai oltre all'originale divus esistesse la forma abbreviata deus. La forma arcaica della parola era deiuos /deiwos/ (attestata nella cosiddetta iscrizione di Duenos come accusativo pl. /deiwo:s/), e da questa regolarmente si è sviluppata la forma divus /di:wus/: il dittongo /ei/ antico si è evoluto in /i:/. Tuttavia oltre alla forma /di:wus/, che pure si è conservata grazie al linguaggio dotto, ha avuto origine la forma contratta /deus/. Vediamo poi che il nominativo plurale dei /dei:/ si è ulteriormente evoluto in dii /dii:/ e infine contratto in di /di:/. Altre forme analoghe si trovano nella flessione di questa parola: dativo e ablativo plurale diis /dii:s/, contratto in dis /di:s/. A maggior ragione simili contrazioni non sarebbero mai state possibili se il suono consonantico intermedio non fosse stato molto fievole.  

Dalla stessa base deriva l'aggettivo divinus /di:'wi:nus/, attestato anche nella forma contratta dinus /di:nus/. In funzione di aggettivo, oltre a divus si trova anche dius /di:us/, f. dia /di:a/, la cui vocale tonica non ha subito correptio. Appartiene alla stessa radice il teonimo Diana, che sta per il più antico Diviana. La semantica potrebbe essere stata influenzata dalla parola etrusca tiv "luna", usata anche come teonimo. Tutti questi sviluppi sono difficili da immaginarsi se il suono fosse stato quello dell'italiano. 

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: SICILIA E SICULUS

Un'alternanza simile a quella vista in facilis - facul, facultas, ricorre anche nel toponimo Sicilia rispetto all'etnonimo Siculus, pl. Siculi. In questo caso possiamo però dire qualcosa di più, visto che nella lingua greca questi nomi ricorrono rispettivamente come Σικελία (Sikelia) e Σικελός (Sikelos), pl. Σικελοί (Sikeloi). A parte la posizione dell'accento, le forme riportate in greco possono ben essere state identiche alle protoforme da cui le parole latine in questione derivano:  

Sikelos > Siculus
Sikeloi > Siculi

L'origine della radice *sik- è sconosciuta e non indoeuropea. Si trova non soltanto nel nome dei Siculi, ma anche in quello dei Sicani, l'originaria popolazione della Sicilia. Questo pone gravi problemi che ancora oggi non sono risolti. I Siculi parlavano una lingua indoeuropea affine al latino, documentata in modo frammentario non soltanto da alcune glosse, ma anche da poche iscrizioni. Già Varrone aveva notato questa somiglianza con il latino. Era risaputo che i Siculi erano migrati dalla penisola e si pensava che avessero tratto il nome da un loro re, mentre i Sicani erano ritenuti i precedenti abitatori dell'isola. La loro origine è sconosciuta, e già nell'antichità regnava la confusione. Dionigi di Alicarnasso attribuiva ai Sicani una provenienza iberica sulla labile base di un idronimo ispanico. A quanto pare non era affatto diffusa l'idea che Siculi e Sicani fossero in qualche modo imparentati, in altre parole la somiglianza dei loro nomi era creduta frutto di una mera coincidenza.

Le soluzioni possibili sono diverse:

1) Sicani e Siculi erano in origine lo stesso popolo, poi i Siculi hanno adottato una lingua indoeuropea italica; 

2) Sicani e Siculi erano popoli diversi, ma la loro denominazione traeva origine da una stessa fonte (come gli Italioti e gli Italici);

3) Sicani e Siculi erano popoli diversi e l'assonanza dei loro nomi era una pura e semplice coincidenza. 

Purtroppo non c'è modo di fare chiarezza. In ogni caso, l'antichità della radice *sik- è indubitabile. Questo prova che in latino la palatalizzazione nel toponimo Sicilia è secondaria e tarda, dato che la sua forma d'origine aveva una consonante velare (dura). Ancora una volta i fautori della pronuncia palatale ecclesiastica ab aeterno non sono capaci di spiegare i dati di fatto. 

martedì 21 ottobre 2014

PROVE INTERNE DELLA PRONUNCIA RESTITUTA DEL LATINO: FACILIS E FACUL

I fautori della pronuncia ecclesiastica ab aeterno pronunciano la parola facilis con un suono palatale, e credono che questa consonante non sia mai mutata per quanto indietro nei secoli si possa risalire. Tuttavia vediamo che non soltanto dall'aggettivo facilis si forma facultas, con suono ovviamente velare, ma che esisteva anche l'avverbio facul

Questo dimostra che il suono della -c- di facilis era velare. Le forme più antiche avevano la -u-, perché la -l finale di parola o seguito da altra consonante aveva un suono particolare, simile alla /l/ dura della lingua russa: per questo motivo la -i- atona si è oscurata e mutata in -u-. Questo suono è descritto dai grammatici ancora in epoca tarda. Prisciano di Cesarea (V. sec.) ci tramanda questo: 

"L triplicem, ut Plinio videtur, sonum habet: exilem quando geminatur secundo loco posita, ut il-le, Metel-lus; plenum, quando finit nomina vel syllabas et quando aliquam habet ante se in eadem sullaba consonantem, ut sol, silva, flavus, clarus; medium in aliis, ut lectus, lectum".
(Institutiones grammaticae, lib. I, 38) 

Consenzio (V sec.) scrive: 

"Romana lingua emendationem habet in hoc quoque distinctione. nam alicubi pinguius, alicubi exilius debet proferri. pinguius, cum uel b sequitur ut in balbo, uel c ut in pulchro, uel f ut in adelfis, uel g ut in alga, uel m ut in pulmone, uel p ut in Calpe. exilius autem proferenda est, ubicumque ab ea uerbum incipit, ut in lepore, lana, lupo, uel ubi in eodem uerbo et prior syllaba in hac finitur et sequens ab ea incipit, ut ille et Allia. haec sunt exempla de his tribus litteris, quas quasi praecipuas praeceptores notauerunt."
(Ars de barbarismis et metaplasmis)

Servio Mario Onorato (IV sec.) condanna altresì l'uso del suono tenue di -l- al posto di quello duro, chiamando questo vizio labdacismo:  

"Labdacismi fiunt, si aut unum <l> tenuius dicis, ut Lucius, aut geminum pinguius, ut Metellus." (Commentarius in artem Donati, De barbarismo)

Le vocali anteriori in facilis e forme flesse (facilem, facili, faciles, facilium, etc.) hanno fatto sì che la -l- non fosse dura, e che la vocale -i- fosse conservata. A questo si deve l'alternanza, che può spiegarsi soltanto ammettendo la correttezza della pronuncia restituta. Se fosse esistito un suono palatale fin dall'inizio, forme come facul e facultas non sarebbero mai esistite, e questo confuta le tesi dei nostri avversari.